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Dettagli...

afamularo11di Antonio Famularo

Sig. Sindaco, Caro Dott. Longhitano,

Recentemente sulle pagine del 'Notiziario' ho letto che nel mese di Maggio codesto Comune 'ricorderà' l'attore Massimo Troisi, scomparso vent'anni fa, dopo avere finito di girare " Il Postino ".
A mio parere l'iniziativa è lodevole (come lo è stata, l'estate scorsa, quella del Comune di Santa Marina) perché nelle immagini di quel film, gradevole di per sé, vi sono il fascino e la poesia che Salina riesce a suscitare e a ispirare e che un attento visitatore/osservatore può cogliere e gustare.
E quelle immagini salinesi, con le loro atmosfere, rimarranno per sempre nell'immaginario collettivo
a futura memoria.
Con la presente mi permetto di portare alla Sua attenzione solo un dato (di cui non ho letto nulla al riguardo e che potrebbe essermi sfuggito). Sarebbe alquanto bello, oltreché giusto, per la particolare occasione, 'ricordare' anche Philippe Noiret, un grandissimo Attore e una persona 'perbene', che nel film impersonò il poeta Pablo Neruda (tra le voci più alte della Poesia/Letteratura internazionale del Novecento, insignìto del Premio Nobel), e che col suo talento artistico contribuì notevolmente alla buona riuscita del film, che per la colonna sonora, composta dal Maestro Luis Enriquez Bacalov, fu premiato con un Oscar. A onor del merito anche " Nuovo Cinema Paradiso " era stato premiato con un Oscar e... anche lì il bravo Plilippe aveva impersonato con grande maestria un ruolo indimenticabile, a riprova, ove ve ne fosse bisogno, del suo indiscusso talento.
Del resto è proprio Neruda/Noiret che dà spessore e completezza artistica e umana al Postino/Troisi, 'complici' del connubio Poesia/Amore incentrati sulla figura femminile di Beatriz Gonzales/Cucinotta.
E in fondo la "casa rosada" nell' "isla negra" di Pollara, "davanti al mare" (in cui nella realtà Neruda volle essere seppellito) è la casa del Poeta e non del Postino. E a quella casa ubicata a Pollara il grande Noiret vi legò per sempre la sua immagine, lasciandovi un'impronta indelebile del suo grande talento, della sua anima amabile di Uomo e di sensibile Artista. 'Ricordare pertanto l'Attore 'italo'/francese è una scelta del tutto ovvia, naturale, ma ancor più è un grande atto di rispetto verso Troisi che in ammirato e affettuoso omaggio verso Noiret lo volle accanto a sé, co-protagonista, in quel film che introdusse e incoronò Salina nel firmamento del cinema internazionale. Troisi amava la cultura e ne riconosceva il valore; e questo fu, ed è, il suo prezioso làscito: una riuscita 'operazione culturale'. Con l'occasione si potrebbe quindi dedicare una targa al bravo Noiret, da affiggere nel pàtio della casa a Pollara, o intestandogli il belvedere sottostante 'il Semaforo', "Belvedere
Noiret", magari con una targa che ricordi la Sua silhouette e quella di Troisi, ripresi insieme in quella bellissima immagine che fu impiegata per illustrare la 'locandina' del film. Perché Noiret 'appartiene' - come Troisi, la Cucinotta, il regista Radford, il compositore Bacalov, e il 'cast' nel suo insieme - a tutta la comunità salinese. In tal modo, nella sua seria portata, l'evento organizzato da codesto rispettabile Comune non sarebbe soltanto un'operazione da 'cartolina estiva', ma bensì una saggia e pianificata forma di investimento nella 'Cultura', anche in proiezione futura, riconoscendone l'importanza e il valore nonché la 'ricaduta'' positiva che questa produce, di cui le Eolie tutte, oltre i confini dell'orticello di ciascuno, a mio parere hanno anche di bisogno. Sicuro di un Suo convinto riconoscimento a quanto detto, La ringrazio sentitamente sin d'ora con l'espressione della mia stima. Cordiali saluti.

FUTURO ANTICO - Dietro le righe, dentro le parole.

" Abballàti!, Abballàti!, fìmmini schetti e maritati, e s'un àbballàti bonu nun vi cantu e nun vi sonu! "...
" Sciù, sciù, sciù, quanti fìmmini chi ci su' ! "... "Ci n'è quattru scafazzàti "... " Li facemu cu' i' patati! "...
" Ci n'è quattru àmmaccatèddi "... " Li facemu cu' 'i piseddi! ".......

Questa 'ballata cantata' è un vero classico della musica popolare siciliana ed è tra le più conosciute ed eseguite dai gruppi popolari; col suo ritmo coinvolgente e la sua festosa cantata è quasi un invito a unirsi al divertimento e a partecipare alla sua 'scanzonata' allegria. Questo " Chiovu ", letteralmente " chiodo ", è il nome di un tipo di 'Canzone a Ballo', che prende lo spunto dalla tradizione persiana, molto viva in Sicilia fin dall'Undicesimo secolo; sovrapponendo gli accordi e le figure musicali del canto d'amore orientale, questa celebre ballata siciliana, che sicuramente da esso è derivata, dimostra come la Sicilia, terra di continui passaggi di popoli, sia stata, nel Medioevo, il laboratorio di una formidabile fusione tra gli stili. Spesso, in occasione di feste paesane, nelle ballate popolari "a chiovu", vi era molto spazio per l'improvvisazione: mentre veniva eseguito un ritmo continuo, ripetitivo, incalzante, chiunque poteva intervenire/entrare 'a braccio' inventandosi all'istante delle frasi, che il più delle volte erano messaggi 'in codice (d'onore)' inviati a qualcuno o più dei presenti, che potevano capire l'antìfona ed eventualmente 'rispondere' o, nel prendere atto, agire di conseguenza. Quindi le parti cantate erano un po' come un velato o metaforico "ti mando a dire pubblicamente", a 'botta e risposta', 'Iò t'a cantu e tu t'a senti', e in queste 'allusioni' ci si poteva riferire a tante dinamiche: al comportamento scorretto di qualcuno o alcuni, 'vagnàrisi u' pani' sul conto o l'operato di un altro o di altri, rispondere alla offesa per qualche affronto subìto, come una proposta di fidanzamento rifiutata o una promessa di matrimonio disattesa e non mantenuta, o un caso di "corna". E su questa maniera di interloquire "a chiovu", del tipo "chiovu scàccia chiovu", si innestano ballate come "C'è 'a Luna 'n mezzu o' mari, Mamma mia m'ha' maritari!"... " Fìgghia mia a chu t'ha' dari? "... " Mamma mia penzàci tu! "... " Si ti dugnu..."; oppure " E fìgghia mia pirchì 'un balli? "... "Ma Mamma 'un pòzzu ballari, 'chì mi manca..."... "Chi ti manca? "... " Chì mi manca... u' marìtu pi' putìri cumparìri! "... U' Zu' Nicola ci arrìspunnìu: " U' maritu ci u' fazzu ìu! "... E 'a Mamma, tutta priàta ch'havi so' fìgghia maritata, " Accuntitàta è 'a fìggia mia! "... Un 'battere e ribattere' sempre sullo stesso 'chiodo', un continuo 'mandare a dire', 'far sapere'. E in tal
modo, con la tàcita e ìnsita complicità di una 'ballata cantata' davanti ai diretti interessati e tutti gli astanti, venivano a galla gelosie, rancori, 'malelingue', pettegolezzi, allusioni, i 'mègghi corpa', 'tracchìggi' e 'intrallàzzi', avvertimenti e velate minacce. Una volta un anziano signore di Tortorici mi raccontò un antico anèddoto su queste 'tematiche': durante una festa in un paesino dei Nèbrodi, nel corso di una 'ballata a chiovu' una donna 'mafiusa' (parola usata con una connotazione positiva nella originaria accezione, cioè di bell'aspetto, avvenente nell'adornamento e nel portamento, seria e di polso, ottima moglie e madre, degna di un ammirato e rispettoso 'complimento'... 'mafiosa' appunto) si fece largo fra gli astanti e cominciò a cantare denunciando la slealtà del marito che, trascurandola, "facìa u' ricottàru" con un'altra donna. Nella sua cantata 'a chiovu' parlò di sé e del suo matrimonio come di una rigogliosa "vigna", dicendo apertamente al marito, lì presente, che la sua "vigna" era trascurata, e minacciando decisa che perdurando quello 'stato di cose' avrebbe 'affidato' ad altri la sua "vigna":
" S'un 'a cultivi e 'un 'a curi tu, ci 'a fazzu cultivari e curari a 'n àutru! " Il messaggio era chiaro. Con queste dinamiche le canzoni viaggiavano di bocca in bocca, di paese in paese, e si cominciarono a tramandare in forma scritta preservandone 'i contenuti' a futura memoria, naturalmente arricchendosi, come spesso succede, di nuovi particolari o costituendo la base per ulteriori 'varianti'. C'è pure da dire che spesso le 'tematiche' venivano 'stemperate' dai ritmi musicali e dal clima di divertita spensieratezza, riuscendo a far passare in secondo piano le 'problematiche' relazionali evidenziate nei testi.
Ma in tempi recenti si è fatto pure l'errore di pensare che la musica/canzone popolare sia solo ballo e divertimento, relegando in secondo piano quell'altra parte, non meno importante, del 'sentimento' popolare: la sua anima intimistica, malinconicamente pensosa e meditabonda sui temi della vita, dell'amore, dei sentimenti, dei rapporti interpersonali, della percezione del tempo che passa. Faccio un esempio: " Vitti 'na crozza"è una canzone famosissima, riportata (giustamente!) anche sui libri di scuola; viene sempre eseguita con un ritmo vivace, da 'ballata', e cantata con una connotazione di divertimento, specie nel 'ritornello', con parole di alcun significato - " Leru lallèru, lallèru, lallà! "...- se non la simulazione onomatopeica del suono di uno strumento musicale (come un 'a solo' vocale), come potrebbe essere uno 'scacciapensieri'. Questa è una mistificazione: se da un lato questa 'versione' diverte e coinvolge, il ritmo e la melodia sono dissonanti e lontani dal sentimento del 'protagonista' che traspare dalle frasi del testo. La canzone è una triste e amara riflessione sul senso della vita, di quanto essa si possa amare, apprezzare e desiderare, tanto più quando gli anni migliori, quelli della spensierata giovinezza, "si nni 'ièru', si nni 'ièru' 'un sàcciu a 'unni "... e chiama " 'a Vita ", e " 'a Morti " gli "àrrispùnni! "... Il testo (e anche la musica, se si rallenta il ritmo) è permeato da un sentimento di 'rimpianto', e in fondo, pur nel suo 'congedarsi', è pure una struggente dichiarazione d'amore nei confronti della Vita. Ed è così, in questa 'versione', che la canzone andrebbe eseguita e proposta, come a me è capitato di ascoltare, grazie anche al lodevole lavoro che degli attenti musicisti e cantori (tra i quali il gruppo " Al Qantarah " e il bravissimo e talentuoso Eugenio Favano) portano avanti con dedizione e passione, affinché la musica, il canto, la ballata, gli strumenti musicali impiegati, e le 'lingue locali', tutte espressioni della grande e vissuta Anima siciliana, pur provenienti da un tempo 'antico', possano continuare ad avere un 'futuro' .

( 4 - Fine )

Caro Bartolino, con questa breve nota desidero ringraziarti per come hai disposto egregiamente
i tempi e le modalità della pubblicazione dei due articoli. E' un lavoro ben fatto. complimenti!
Mi piace immaginare che nella processione di stasera il corteo sarà accompagnato anche dai
'suonatori di 'troccula', come me lo ricordo io; forse sarebbe bella anche una loro immagine
ravvicinata, secondo l'antica l'usanza che affonda le radici fin verso l'epoca medioevale.
Con un forte abbraccio.

---IL PROCESSO A GESU' - La sentenza 'politica' di Pilato.

Si sa poco della storia personale di Ponzio Pilato. Il solo periodo della sua vita che abbia qualche importanza storica è quello del suo mandato in Giudea. Quale rappresentante dell'imperatore, il procuratore era la massima autorità della provincia e poteva infliggere la pena di morte. Secondo quanti sostengono che il Sinedrio poteva condannare a morte, per essere valida la condanna emessa dalla corte ebraica doveva essere ratificata dal procuratore. Il mandato di Pilato non fu pacifico. Secondo lo storico ebreo Giuseppe Flavio, i suoi rapporti con i sudditi ebrei erano iniziati e proseguiti male. Scrittori ebrei, come Filone di Alessandria d'Egitto del ! secolo d.C, descrivono Pilato come un uomo inflessibile e ostinato: E' possibile comunque che le misure repressive adottate dal procuratore contro gli ebrei fossero in gran parte dovute alle loro stesse azioni. Ad ogni modo i Vangeli permettono di capire la sua mentalità. Il suo modo di affrontare le cose era tipico delle autorità romane; le sue parole erano brusche e concise. Pur manifestando esteriormente l'atteggiamento scettico del cinico - come quando disse: "Che cos'è la verità?" - mostrò tuttavia timore, probabilmente un timore superstizioso, quando seppe di avere a che fare con uno che affermava di essere figlio di Dio. Anche se non era certo un tipo condiscendente, come uomo politico rivelò mancanza di integrità. Si preoccupò prima di tutto della sua posizione, di quello che i suoi superiori avrebbero detto se avessero avuto notizia di nuove agitazioni nella sua provincia, temendo di apparire troppo indulgente verso persone accusate di sedizione. Pilato riconobbe l'innocenza di Gesù e l'invidia che spingeva gli accusatori. Ma cedette alla folla lasciando che venisse ucciso un innocente piuttosto che rischiare di danneggiare la propria carriera politica. Poiché faceva parte delle "autorità superiori", Pilato esercitava il potere per divina tolleranza. Fu responsabile della decisione presa, responsabilità che l'acqua non poteva lavare via. Il sogno della moglie era evidentemente di origine divina, come lo furono il terremoto, l'insolita oscurità e la lacerazione della cortina che avvennero in quel giorno. Il sogno della moglie avrebbe dovuto far capire a Pilato che non si trattava di un processo qualsiasi, di un accusato comune. Tuttavia, come disse Gesù, chi l'aveva consegnato a Pilato 'aveva commesso un peccato maggiore'. Giuda, che aveva tradito inizialmente Gesù, fu definito "il figlio della distruzione". I farisei che erano colpevoli di complicità nel complotto per mettere a morte Gesù furono dichiarati meritevoli del "giudizio della Geenna". E in modo particolare il sommo sacerdote, quale capo del Sinedrio, era responsabile di fronte a Dio per aver consegnato il Figlio di Dio a questo governante gentile (non ebreo) affinché fosse messo a morte. La colpa di Pilato non fu pari alla loro, nondimeno la sua azione fu estremamente riprovevole. L'avversione di Pilato per i promotori di questo crimine fu evidente dall'insegna che pose sul palo di Gesù, identificandolo quale "Re dei giudei", e anche dal suo secco rifiuto di modificarla.
Ma quali poterono essere le cause politiche che lo spinsero a emettere quel tragico verdetto finale? Nel contrasto tra Pilato e il Sinedrio di Gerusalemme, la massima autorità ebraica, la posta in gioco era la vita di Gesù. Tra l'imposizione di una decisione unilaterale, la liberazione di Gesù con un atto d'imperio che al procuratore era certamente consentito, e la resa ai notabili del Sinedrio che chiedevano la conferma della condanna a morte da essi già pronunciata, Pilato scelse un'altra possibilità e aprì una procedura 'democratica', appellandosi al popolo. Infatti la decisione finale fu presa nel crescendo impressionante del fanatismo popolare: "Crocifiggilo!" Pilato, poiché era un relativista scettico e non sapeva che cosa fosse la verità, la verità assoluta in cui quell'Uomo credeva, agì in modo democratico - con assoluta coerenza - rimettendo la decisione del caso al voto del popolo. Il 'crucifige!' della folla potrebbe assurgere a prova inconfutabile dell'insensatezza della democrazia.
Il vero e il falso, il bene e il male non possono dipendere infatti dal numero e dalle opinioni. Gesù, forte della sua verità, sarebbe il campione dell'anti-democrazia, cioè dell'autocrazia, mentre il personaggio positivo dal punto di vista democratico sarebbe Pilato. La folla, infine, era adulata e, per adularla, la si è innalzata, da plebe che era, fino a Dio, E il 'crucifige!' urlato dalla folla non è stato altro che il momento
culminante del silenzio di Dio (affinché si compia il Suo disegno). L'onnipotenza di Dio era l'onnipotenza della folla: La natura della decisione, poi, era la sua irrevocabilità, la sua definitività, la sua irrimediabilità. Chi prende una decisione da cui un uomo è messo a morte non deve dubitare della sua infallibilità, poiché non ci sarà modo di tornare indietro. Ma l'infallibilità, di nuovo, se può essere il carattere di qualcuno, lo è solo di Dio o di chi lo rappresenti. Chiunque si riconosca il diritto di decidere sulla vita e sulla morte, in qualunque modo, consapevolmente o no, vuol valere come Dio. Pilato e il Sinedrio, rimettendo in ultima e definitiva istanza la vita di Gesù nelle mani della folla, l'hanno adulata, divinizzandola. Per l'appunto: " vox populi, vox dei ". Nulla è tanto insensato quanto la divinizzazione del popolo, una vera forma di idolatria politica. Questa grossolana teologia politica democratica si addice alle concezioni trionfalistiche e acritiche del potere del popolo, che non sono altro che adulazioni interessate. Si può vedere proprio in questo un camuffamento e una prova evidente della strumentalizzazione. Si può affermare in generale che tutti coloro i quali santificano il popolo fanno così per poterlo usare; che tutte le volte in cui si dice: 'il popolo ha parlato - la questione è chiusa', si è in presenza di una concezione strumentale della democrazia. Infatti, non c'è adulazione disinteressata e tanto è più grande la lusinga, tanto maggiore è l'interesse. Chi non si sottrae, diventa cieco e passivo strumento. Se l'adulazione giunge addirittura all'equiparazione a Dio, la conseguenza è di vietare la più alta e umana delle possibilità: il ripensamento, il ritorno sulle proprie decisioni. L'assolutizzazione del potere coincide con la sua espropriazione a vantaggio di altri. Se nel processo a Gesù si vede un caso di democrazia, si dovrebbe aggiungere che era la pessima fra tutte le democrazie. In realtà non si è trattato affatto di un 'caso' della democrazia, ma di un 'caso' dell'autocrazia e dell'oligarchia in cui i protagonisti muovono la folla come un'arma. Nessuno dei soggetti che conducevano il gioco era amico della democrazia, anche se tutti adulavano la folla. Essi volevano farsi sgabello. Vedevano nella democrazia, come tutti i profittatori di essa, solo un biglietto di andata, non di andata e anche di ritorno, sulla strada del loro interesse e del loro potere. Alla fine di questo tentativo di ricostruzione, vorrei dire che l'amico della democrazia - di una democrazia critica - fu Gesù, colui che, silenzioso, fino alla fine invita al dialogo e al ripensamento. Gesù che tace, aspettando 'sino alla fine', è un modello. Per questo la democrazia della possibilità e della ricerca, una democrazia critica, deve mobilitarsi contro chi rifiuta il dialogo, nega la tolleranza, ricerca soltanto il potere, crede di avere sempre ragione. La mitezza - come atteggiamento dello spirito aperto al discorso comune, che aspira non a vincere ma a convincere ed è disposto a farsi convincere - è certamente una virtù cardinale, come lo fu per il Figlio di Dio, il solo che potè essere mite come l'agnello.

( Seconda Parte - Fine )

----PASQUA DI RISURREZIONE ... Dalla stalla alle stelle. IL PROCESSO A GESU' : un caso di 'mala' Giustizia?

In tempi recenti da più parti si parla di 'riformare' la Giustizia; in astratto tutti si dicono d'accordo,
che bisogna 'snellire', smaltire', 'ridurre i tempi'... In realtà non appena ci si muove concretamente per
cambiare lo stato delle cose, tutto si blocca e proprio la Dea che tiene in mano e in equilibrio la sua
inossidabile bilancia di precisione fa di tutto affinché nulla cambi. Sembra quasi di stare davanti a quei cartelli fissati sui pali della 'luce' o sui tralicci dell'alta 'tensione' che 'avvisano' (tipico termine del
mondo giudiziario) "chi tocca i fili muore", con tanto di teschio piratesco a 'garantire' o evidenziare il
pericolo tragicamente reale, in entrambi i casi, elettrico o giudiziario, con un'ampia casistica, a volte
interagendo entrambi (leggi 'sedia elettrica', altro tipo di scranna per antonomàsia). In questi giorni, come nelle periodiche importanti ricorrenze annuali, i media scritti e orali dissertano sulla Pasqua e i suoi riti, con rappresentazioni teatrali e musicali, con proiezioni di films sulla vita di Gesù e documentari storico-geografici ben fatti sui luoghi che lo videro protagonista. Con tutto il rispetto per le altrui convinzioni, pur da cittadino del mondo trovo interessante riflettere sul processo al quale fu sottoposto, e si lasciò sottoporre, come disse profeticamente Isaia..."proprio come una pecora al macello; e come un'agnella che davanti ai suoi tosatori è divenuta muta, neanche apriva la bocca". Fu solo un caso di 'malaGiustizia' o dietro c'era dell'altro? Quali altri fattori svolsero un ruolo importante? Oltre a questioni 'religiose' (per gli Ebrei e per il Sinedrio in particolare), vi erano implicati fattori di natura 'politica', divenendo di fatto un processo 'politico'? Perché mai il Procuratore romano della Giudea Ponzio Pilato, esperto di 'Diritto Romano', fece sì che Gesù venisse condannato a morte? Quali potevano essere (e furono?) le sue ragioni e le valutazioni 'politiche' (dato che quelle 'religiose', da 'pagano', non gli interessavano) che stavano dietro al caso 'spinoso' in questione, del suo verdetto e il conseguente esito finale? Facendo riferimento alla Tohràh' ('Legge') ebraica, proverò a fornire una chiave di lettura agli interrogativi posti con questa trattazione, 'Il Processo a Gesù', e la successiva, 'La sentenza politica di Pilato'. Prima del processo i capi sacerdoti e gli anziani del popolo si erano consultati con l'intento di mettere a morte Gesù. Quindi i giudici erano prevenuti e avevano già deciso il verdetto prima ancora che avesse inizio il processo. Assoldarono Giuda perché tradisse Gesù. Poiché la loro azione era palesemente scorretta non lo arrestarono di giorno nel tempio, ma attesero fino al calar della notte, e poi mandarono
una folla armata di spade e bastoni per arrestarlo in un luogo isolato fuori della città. Gesù fu condotto prima in casa di Anna, l'ex sommo sacerdote, che aveva ancora molta autorità, e il cui genero Caiafa era il sommo sacerdote in carica. Là Gesù venne interrogato e schiaffeggiato, Poi fu condotto legato dal sommo sacerdote Caiafa. I capi sacerdoti e tutto il sinedrio si misero alla ricerca di falsi testimoni. Molti si presentarono a testimoniare contro Gesù, ma non riuscivano a mettersi d'accordo sulla loro testimonianza, tranne due che travisarono le sue parole. Infine il sommo sacerdote chiese a Gesù di dire sotto giuramento se era il Cristo il Figlio di Dio. Quando Gesù rispose affermativamente alludendo alla profezia di Daniele, il sommo sacerdote si strappò le vesti e invitò la corte a dichiararlo colpevole di bestemmia. Il verdetto fu emesso e Gesù fu condannato a morte. Dopo di che gli sputarono in faccia e lo colpirono coi pugni, schernendolo, contrariamente a ciò che stabiliva la Legge. Dopo questo illegale processo notturno il Sinedrio si riunì la mattina presto per confermare la sentenza e per consultarsi. Gesù fu poi condotto, di nuovo legato, al palazzo del governatore, da Pilato, avendo essi detto: "Non ci è lecito uccidere nessuno". Lì Gesù fu accusato di vietare di pagare le tasse a cesare e di essersi dichiarato Cristo re. La bestemmia contro il Dio degli ebrei non sarebbe stata un'accusa molto grave agli occhi dei romani, ma la sedizione sì. Pilato, dopo vani tentativi per indurre Gesù a testimoniare contro se stresso, disse agli ebrei che non trovava in lui nessuna colpa. Saputo però che Gesù era galileo, Pilato fu ben lieto di mandarlo da Erode, sotto la cui giurisdizione si trovava la Galilea. Erode interrogò Gesù sperando di vedergli compiere qualche segno, ma invano. Allora lo schernì, prendendosi gioco di lui, e lo rimandò da Pilato. Pilato cercò di rimettere in libertà Gesù secondo un'usanza dell'epoca, ma gli ebrei non acconsentirono, chiedendo invece la liberazione di un sedizioso assassino. Pilato fece dunque flagellare Gesù, e i soldati ancora una volta lo maltrattarono. Dopo di che Pilato condusse fuori Gesù e cercò di farlo liberare, ma gli ebrei insisterono "Al palo! Al palo!" Alla fine egli diede ordine che Gesù fosse messo al palo. Nel processo contro Cristo gli ebrei commisero fra l'altro le seguenti flagranti violazioni di alcune leggi di Dio: corruzione, cospirazione e perversione del giudizio e della giustizia; falsa testimonianza, nella quale i giudici furono conniventi; proscioglimento di un assassino (Barabba), cosa che attirò su di loro e sul paese la colpa di sangue; tumulto, cioè 'seguire la folla per fini empi'; gridando che Gesù venisse messo al palo violarono la legge che vietava di seguire gli statuti di altre nazioni e che non prescriveva alcuna tortura, anzi prevedeva che il criminale fosse lapidato o messo a morte prima di essere appeso al palo; riconobbero come re non uno della loro nazione, ma un pagano (Cesare), e rigettarono il Re che Dio aveva scelto; infine si resero colpevoli di assassinio. Pertanto il peggiore travisamento della giustizia mai perpetrato furono il processo, un processo burla, e la condanna di Gesù Cristo. Un caso antico di 'mala' Giustizia che dovrebbe indurre tutti a riflettere, in tempi moderni, anche chi 'legìfera', chi la rappresenta e la amministra, chi deve rispettarla, perché in futuro saranno "felici quelli che hanno fame e sete di giustizia, poiché saranno saziati". Buon "Passare Oltre" (ebr. pèsach; gr. pàscha) a tutti verso cose buone, positive, utili, migliori, di seria considerazione, gratificanti e durevoli.

( Prima parte - Continua )

---Futuro Antico

Uno degli aspetti più importanti del 'cantautorato popolare' è la 'scrittura dei testi, più del la composizione
musicale che di per sé è più facilmente schematica, con un canone ripetitivo, spesso prevedibile eantico
riproponibile, a prescindere dalla variabilità dei ritmi e delle tonalità. E a ben pensarci è proprio la lingua dialettale a caratterizzare e a diversificare la musica 'popolare' dalla cosiddetta musica 'leggera', dove in quest'ultima prevale l'uso della lingua Italiana, e comunque in entrambi i generi non vi è nulla di 'impopolare' o di 'pesante', essendo entrambe 'popolari' e 'leggere' nell'accezione dei termini. Apparentemente la 'scrittura' sembra facile perché non richiede conoscenze musicali né competenze strumentali: su un 'testo' qualunque strumentista può idearvi un ritmo, una melodia (una successione di note) e una successione di accordi (gruppi di note suonate contemporaneamente o in singole alternanze), tecnica esecutiva strumentale che già gli antichi liutisti conoscevano e perfezionarono; infatti in molti antichi dipinti venivano raffigurati con il mignolo della mano destra appoggiato sul piano della tavola armonica mentre le altre dita 'arpeggiavano' pizzicando in successione le corde. Ma 'come' scrivere? Se impariamo a parlare la lingua italiana e quella siciliana per 'analogia sonora', è pur interessante notare che mentre per scrivere in italiano abbiamo bisogno di studiare la sintassi e la morfologia (e anche per questo si va a scuola... e l'Italiano è una delle principali materie/discipline scolastiche), per scrivere nell'idioma dialettale non si studia da nessuna parte e ci si limita a 'tradurre' dall'Italiano, attingendo al suo 'codice' di base... E non potrebbe essere diversamente: affinché ciò che si scrive abbia un senso occorrono sempre dei soggetti (coloro che compiono delle azioni), dei verbi (il tipo di azioni) e delle varie espansioni. Nella scrittura dialettale c'è molta formale libertà: si tende a scrivere come si parla imitando/ traducendo in 'grafemi' i 'fonemi' delle parole. Farò qualche esempio per mostrare come in fase di 'traduzione' dalla lingua italiana al dialetto, o viceversa, le cose cambiano e le differenze si fanno evidenti; e quindi fare riferimento alla lingua italiana e alla sua scrittura diventa una tappa obbligata; perché se da eoliano leggo e capisco un testo in dialetto siculo, difficilmente un veneto leggerà e capirà con facilità lo stesso testo; il che non avviene, ovviamente, quando entrambi leggiamo un testo in italiano, una lingua che io definisco 'convenzionale' (una lingua nazionale per comprendersi e relazionarsi fra le varie etnie italiche), in sé stessa 'bella senz'anima'.
Quando diversi anni fa cominciai a sentire l'esigenza di scrivere anche in dialetto feci alcune interessanti 'scoperte' tra le lingue parlate e le lingue scritte, sulle quali non vi avevo mai fatto caso. Per esempio nell'uso dei tempi nei verbi: quando parliamo in italiano e ci riferiamo ad azioni passate, usiamo frequentemente il passato prossimo ( 'Io sono stato...' / 'Io ho avuto...'), raramente il passato remoto ( 'Io fui...' / 'Io ebbi...'), quasi mai il trapassato remoto ( 'Io fui stato...' / 'Io ebbi avuto...'). Vi ho perduto?... No?... Bene, allora vado avanti! Se, quando parlo, mi riferisco ad un passato prossimo (recente), dico 'ieri / la settimana scorsa / un mese fa... sono stato.../ ho fatto...'; ma se mi riferisco a dieci anni fa (un passato remoto, lontano nel tempo), dovrei dire 'Io fui...' / 'Io feci...'; e se mi riferisco a 20-30 anni fa (un trapassato remoto, lontanissimo nel tempo), dovrei dire 'Io fui stato...' / 'Io ebbi avuto...'. Perché nella linea del tempo c'è differenza tra un passato 'prossimo', un passato 'remoto' e un 'trapassato' remoto. E invece parlo e scrivo usando il tempo al passato prossimo. Può darsi che l'uso del passato prossimo sia da collegare al fatto che viviamo come immersi in un costante 'presente' (l'unico tempo che realmente ci appartenga), che il 'passato' sia solo passato e basta, e che il 'futuro' sia percepito come 'lontano' nel suo divenire? Nel dialetto siculo ho notato, invece, che per riferirsi ad azioni passate il tempo che si usa più frequentemente è il passato 'remoto', un po' meno l'imperfetto', ancor meno il passato 'prossimo. Mentre per indicare azioni 'future' usiamo sempre il tempo al 'presente'. Che non vi sia il tempo al futuro 'semplice' o 'anteriore' sarà in qualche modo legato al fatto che nel retaggio delle etnie vi sia una certa componente di ancestrale superstizione in relazione al 'vivere' / 'sentire' in proiezione futura? Per la scrittura di certi termini devo per forza basarmi su quanto stabilisce la lingua italiana, per esempio l'uso della lettera/consonante ' q ': 'questo' lo scrivo 'qistu' e non 'chistu', 'quello' lo scrivo 'qiddu' e non 'chiddu', in quanto in italiano i due termini vengono scritti con l'iniziale ' q ' e non con la ' c '. Se uso il verbo 'dire', nelle frasi (brevi) 'tu dici' / lui dice / noi diciamo / voi dite' preferisco scrivere 'dìci / dìci / dicìmu /dicìti' anziché 'dìsci / dìsci / discìmu / discìti, pur riconoscendo che questi ultimi sono più vicini o simili al suono orale delle parole, mentre i primi sono più rispondenti alla scrittura/traduzione in italiano. Potrei andare avanti e citare tanti altri esempi ma vi risparmio, pure per evitare che qualcuno, sbadatamente, corra il pericolo di appassionarsi all'argomento! Concludo, quindi, con una mia personale convinzione: la lingua dialettale ha una grande forza semantica e riesce a esprimere compiutamente il pathos di chi scrive o parla. Dire che un'arancia è 'spremuta' o 'schiacciata' è una cosa, ma dire che un'arancia è 'scafazzàta' è tutta un'altra cosa: rende meglio il senso 'visivo' del gesto di una mano contratta che spreme o schiaccia quel frutto e lo riduce nelle sue condizioni finali! Ecco perché amo cimentarmi nella scrittura in dialetto: perché riscopro parte della mia vera natura e del mio 'io' più profondo, perché fa parte del mio retaggio, mi fa stare come fra cose che conosco, che mi sono familiari e che in qualche modo o misura mi appartengono, mi fa sentire bene come 'a casa', come un 'tornare' dove tutto ha un senso. E perché c'è musica nelle sonorità delle parole, è una lingua viva, c'è vita in essa. E suggerisco a chiunque di cimentarsi e di deliziarsi con l'uso orale e la scrittura di essa. Una lingua affascinante, scritta o parlata che sia, con un futuro... antico.

( 3 - Continua ).

---Futuro antico.

A proposito di musica e cantautorato 'popolari' non si può tralasciare di parlare degli strumenti musicali impiegati, intendendo qui col termine 'popolari' solo gli strumenti costruiti dagli stessi 'popolani' (per es. contadini) e usati per un certo tempo. La storia degli strumenti musicali procede parallela alla storia della musica e ad essa si accompagna come Sancho Panza a Don Chisciotte. Una è la storia del corpo della musica, della materia con cui essa è fatta; l'altra è la storia dell'anima, dei valori di esperienza umana che vengono consegnati nell'arte dei suoni. Ovviamente, sono una sola e medesima cosa, vista da differenti punti di vista, così come anche - si potrebbe aggiungere - la storia della notazione musicale è storia della musica, e non storia di qualcosa di diverso applicato esteriormente alla musica.
La vocazione umanistica che prevale negli studi musicali italiani fa sì che questa identità non sia sempre ben chiara e ben presente nella storiografia, e che alla storia degli strumenti musicali venga concessa un'attenzione indulgente, come a un fenomeno marginale, appartenente più che altro al campo delle curiosità. Nei paesi d'alte tradizioni musicologiche, come la Germania, il Belgio e, in tempi, recenti, gli Stati Uniti, la storia degli strumenti musicali è attentamente coltivata, e spesso da veri e propri storici della musica, i quali non ritengono con questo di entrare in una specializzazione esterna al filone principale dei loro interessi.
Dell'idealistico disprezzo in cui sono talvolta tenuti, gli strumenti si vendicano nella maniera che è tipica della materia, delle 'cose', degli oggetti concreti e solidi: durando, esistendo e conservandosi, laddove l'etereo canto svanisce senza lasciare tracce. Sembra pacifico che nella musica dell'antica Grecia il canto occupasse una posizione prevalente, e che gli strumenti vi fossero in gran parte subordinati.
Eppure, quando si pensa alla musica dei Greci, la prima cosa che viene in mente è la cetra, è l'aulos:che cosa fosse il canto di Orfeo, capace di rendere mansuete le belve e di persuadere le divinità dell'Ade non lo sappiamo più, ed è ben difficile anche solo immaginarlo; ma quasi tutti abbiamo un'idea della cetra con la quale egli soleva accompagnarsi.
Il Cristianesimo aveva preso posizione fin dall'inizio per la musica vocale, contro la musica strumentale.
Ciò costituì un freno per l'evoluzione degli strumenti musicali, che ritornarono al ruolo di strumenti da segnale. Gli strumenti musicali sopravvissuti dall'epoca greca e romana venivano considerati degni soltanto di donne frivole e di mentecatti. Invece gli strumenti dell'Antico Testamento - l'arpa di David in particolare - erano molto apprezzati, quantunque nessuno li avesse mai visti. In realtà la pratica musicale conosceva molti strumenti, come possiamo constatare da testimonianze artistiche, pitture e sculture, lasciateci dal Medio Evo. Essi erano utilizzati più spesso per accompagnare le danze e i canti popolari, le canzoni di corte, i pezzi vocali a più voci. Sfortunatamente quasi nessuno di questi strumenti è giunto a noi. I più antichi esemplari provenienti da quest'epoca e conservati nei musei risalgono appena al XVI secolo. Così fra le vestigia medioevali e quelle del mondo antico abbiamo una lacuna di dieci o undici
secoli. L'epoca delle grandi migrazioni dei popoli è una delle più oscure nella storia della musica.
I manoscritti illustrati, sola fonte di documentazione di cui disponiamo, datano tutt'al più dal IX secolo, cioè da un'epoca nella quale un'intera fase di evoluzione degli strumenti europei si era già compiuta.
In tutto questo periodo si ebbe l'introduzione degli strumenti di origine orientale. Si può dire infatti che tutti gli strumenti di musica dell'Europa medioevale furono importati dall'Asia. Questa migrazione non avvenne in un determinato periodo di tempo ma si svolse attraverso numerose tappe e per vie diverse,
le più importanti delle quali passarono per Bisanzio e l'Africa settentrionale.
Nell'822 il famoso musicista persiano Zirjab lasciò Bagdad per l'Andalusia e trapiantò così la musica orientale nell'Europa meridionale. Dopo la sconfitta subita in Spagna, gli Arabi stabilitisi in Algeria e in Tunisia conservarono quasi intatta fino ai nostri giorni la loro cultura musicale. Secondo una leggenda, la caduta di Granada, e quindi di tutta la Spagna, sarebbe stata causata dalla morbosa passione dei Mori per la musica, che li avrebbe persino indotti a trascurare l'invasione nemica. Un'antica canzone andalusa, trasmessa da padre in figlio nell'Africa del Nord, elenca tutto ciò che occorre per godere un po' di felicità: il tar, l'ud, il rebab, la coppa, il vino, l'amico e l'assenza di testimoni indiscreti. I primi tre sono strumenti musicali fra i più popolari. Strumenti come questi hanno arricchito nel Medioevo il patrimonio strumentale europeo.
Uno strumento molto antico, importato anch'esso dall'Asia, e tutt'ora presente nella tradizione popolare eoliana è la 'raganella', localmente chiamata dagli isolani "tròccula". Il giovedì e il venerdì della settimana pasquale la Chiesa cattolica, per riunire i fedeli, sostituisce alle campane degli strumenti speciali che danno un suono secco e triste, come la "maniglia" (due maniglie metalliche mobili che battono su una tavola) e le 'raganelle'/'tròcculi', appunto, di varie dimensioni (che producono sonorità/tonalità diverse),
che pure accompagnano per le vie del paese 'a prucissiòni du' Signuri mortu'.
La Sicilia conta fra i suoi strumenti una serie di pifferi di varie dimensioni, spesso decorati con le storie dei paladini, o anneriti dal fuoco dopo essere stati fasciati con un filo di ferro il quale, tolto dopo l'operazione, lascia sulla canna delle sottili decorazioni. Gli strumenti più singolari sono però i 'vasi', il 'tamburello', spesso con la pelle dipinta, i 'cembali', e lo 'scacciapensieri', immancabili nelle manifestazioni popolari di tutti i paesi. I 'vasi' non sono degli strumenti veri e propri, ma delle anfore di terracotta alte una trentina di centimetri. Il suonatore le tiene per i manici, portando la stretta apertura
davanti alla bocca. Soffiando verso l'interno ritmicamente se ne trae un suono cupo che ha la stessa
funzione di basso esercitata, a Napoli, dalla 'caccavella'.
Lo scacciapensieri marranzano (voce tipicamente siciliana) è uno strumento primitivo a forma di ferro di cavallo, con una linguetta fissata al centro, che veniva fabbricato prima in legno e più tardi completamente in metallo. Si suona prendendo fra i denti la parte più stretta e facendo vibrare col dito la linguetta d'acciaio. La posizione della lingua, delle labbra e dei muscoli facciali del suonatore formano una cassa di risonanza naturale che rinforza il suono. Su questo strumento si possono eseguire quindi soltanto melodie formate da suoni naturali. La cavità orale funziona da cassa armonica e muovendo laglottide, come quando si pronunciano le vocali, si riesce ad articolare alcuni suoni.

 ( 2 - Continua )

---CASBA AEOLIA - I Turchi 'nt'a Marinaantonio14

Finis Terrae

Un tempu iò fu 'n erranti Truvaturi,
puru canturi a li corti d'amuri,
si fu' stimatu opuru dirisu
persinu a la sorti fui 'nvisu.

Amai li fìmmini e d'ìddi li grazi',
ci dicantàiu l'amuri e i biddìzzi,
notti segreti 'i carizzi amurusi
all'umbra di pizzi priziusi.

Visti 'u suli calari a punenti,
arrussiari 'u visu d'esotica genti,
nòbili e briganti passari vaddùni
e 'i petra di àridi ciumi.

'Scursi l'Italia, i templi e i tuguri
cari alli Dèi e all'ànimi puri,
l'ori di Spagna e 'i fedi di Francia
cuntesi in punta di lancia.

'Iu giriànnu cumu 'na vùgghia 'spersa
pi' qistu munnu chi vàci alla liversa
e n'hàiu china 'i chiàcchiri 'a panza
e da li prisintusi Dìu mi scanza.

"Chìddu chi fu èsti chìddu chi sarà
e 'un c'èsti nenti di novu sutta 'u suli",
mància e bìvi cu' cori cuntentu
pirchì 'a vita è un rìfulu 'i vientu.

Ora mi fermu a vardàri 'a luci
da' luna china chi 'nt'a notti riluci
e vìu nùvuli d'u ventu suspinti
e i murtali da lu tempu.avvinti.

Attizza ora 'a vampa un brividu 'ntenzu
chi pari ch'assuma da fumu d'incenzu,
ora scuràu e c'è friddu 'i 'nviernu
e forsi è mègghiu 'u càudu di lu 'nfiernu.

( 10 - Fine )

Futuro Antico

'Casba Aeolia', pur nella sua unicità tematica, è parte integrante di un progetto più ampiamente articolato, e in itinere, che si collega, nelle finalità, al precedente 'Alla Corte del Re Lìparo (che insieme formano una sorta di 'Canzoniere' di oltre un centinaio di composizioni), col quale mi prefiggo l'obiettivo di porre le basi per una 'musica' e un 'cantautorato popolare' tipicamente eoliano e, nel contempo, di preservare a 'futura memoria' l'idioma eoliano partendo da un tentativo di costruzione e di definizione/codificazione della sua sintassi.e morfologia.
Fra tanta mischianza di generi e 'contaminazioni' nella musica "che gira intorno", parlare di 'musica' e di 'cantautorato popolare' può far storcere il naso. Ciò è dovuto, in parte, anche alla superficialità di coloro che tale musica popolare asseriscono di proporre, attingendo al patrimonio musicale disponibile, il più delle volte facendolo in maniera fuorviante e priva di contenuti, spesso travisando il 'pathos' degli autori originariri, sia pure anche anonimi, mostrandosi incapaci di suscitare un'intensa emozione e una totale partecipazione sul piano estetico o affettivo.
Che non si possa parlare di musica popolare tipicamente 'eoliana' è ovvio in quanto nessuna ricerca storico-filologica è stata condotta fino a tutt'oggi (e c'è pure da chiedersi a chi mai potrebbe interessare).
Quello che di 'eoliano' si può ascoltare è inserito nel solco della musica e del cantautorato popolare siciliano, con tutte le influenze che questi hanno ricevuto nel tempo, anche attraverso le vicende storico/culturali che hanno attraversato, influenzato e caratterizzato la Sicilia.
Se da un lato le Eolie hanno avuto dei loro cantori e menestrelli, il loro impegno era dettato per lo più dalla loro passione per la musica, usata il più delle volte a scopo ludico e come mezzo di aggregazione sociale e scambio di rapporti interpersonali, come ad esempio feste popolari, sagre paesane, celebrazioni di ricorrenze agrarie nell'alternarsi delle stagioni, scambi commerciali in occasione di fiere. Il fine principale era quello di intrattenere e divertire, e non prettamente quello culturale, cioè trasmettere informazioni e avvenimenti alla maniera degli antichi Aedi, che alla corte di Federico II avevano trovato un ottimo punto di riferimento, di 'arrivo' e di 'ripartenza'. Ciò era pure dovuto al fatto che i 'cantori/autori' popolari erano degli
autodidatta, con una limitata preparazione di cultura scolastica (poco istruiti secondo i cànoni moderni), che limitava non poco l'espressione del loro naturale talento artistico, pur essendo attenti osservatori nel cogliere il sentimento popolare e di essere maestri di vita. Basti pensare che dall'unificazione Ottocentesca fino agli albori del Novecento in Italia vi era un alto tasso di analfabetismo. Per capire ancor meglio bisogna
andare indietro nel tempo di parecchi secoli.
Per oltre un millennio la musica del mondo cristiano è quasi esclusivamente canto. La vita degli strumenti è grama e quasi clandestina: tollerati come un male necessario o inestirpabile. Durante il Medioevo la musica, nella sua accezione più elevata, è principalmente preghiera, e soltanto la voce umana è considerata degna di cantare la lode del Signore. L'uso degli strumenti musicali pare occupazione di rango servile, non diversamente dall'uso della zappa, della vanga, del martello, dell'ascia o della falce: tutti 'strumenti', cioè arnesi del lavoro manuale. Non va però dimenticato che questo disprezzo degli strumenti e della pratica musicale il cristianesimo l'ereditò pari pari dalla civiltà classica. La pratica della musica, e in particolare degli strumenti, non era reputata degna dell'uomo libero; ma compito di schiavi (vi eccellevano i frigi, provenienti dall'Asia minore). Ben inteso a questo disprezzo legale facevano riscontro, di fatto, una vivissima attrazione e un'immensa fortuna: ma era un'attrazione del genere di quella esercitata dai piaceri proibiti.
L'ostracismo gettato dalla chiesa cristiana sui suonatori li sospinse ancor più al margine della società, in un sol branco con giocolieri, saltimbanchi, ciarlatani e buffoni ambulanti. Certamente la Musica era compresa nella classificazione delle scienze e faceva parte del Quadrivio, ossia del gruppo delle discipline superiori, insieme ad aritmetica, geometria e astronomia. Ma di quale musica si trattava? Della teoria musicale, mentre agli esecutori - né ai cantori, né tanto meno agli esecutori strumentali - nessuno si sarebbe sognato di accordare una qualsiasi dignità culturale. L'epoca dei cantori, trovatori e menestrelli, testimonia lo sviluppo della musica strumentale. Al giullare provenzale del XIII secolo venivano imposte le seguenti condizioni:
"Giullare, tu devi conoscere nove strumenti: il fidel, la cornamusa, il flauto, l'arpa, la viella, la giga, il decacordo, il salterio e il corno. Quando avrai imparato bene a suonarli, potrai rispondere ad ogni richiesta. Fai anche risuonare la lira e tintinnare i sonagli". Il secolo XIV fu testimone di un avvenimento la cui importanza per l'estensione della musica strumentale si manifestò solo in seguito. I musicisti erranti, discendenti da quei
comici ai quali Bisanzio rifiutava ogni diritto umano, non furono più aggregati alla famiglia di mangiatori di fuoco e di coltelli e poterono costituire confraternite proprie. Essi dovevano saper interpretare i corali, per annunziare le ore dall'alto delle torri delle chiese e dovevano anche segnalare gli incendi. A questo scopo usavano cornetti a bocchino e tromboni, non avendo il diritto di suonare la tromba, strumento riservato ai cavalieri. E' così che partendo dalla musica utilitaria e dai musicisti di città, ebbe origine una musica la cui influenza è notoria ancor oggi.
Pertanto la musica popolare fu dunque un ottimo mezzo di riscatto sociale (oltreché di sussistenza economica) dalla povertà e dalla emarginazione socio-culturale degli ambienti e dei contesti in cui erano cresciuti, pur fornendo questi l'humus delle tematiche per le loro composizioni.
Parlando di idioma siciliano ci si potrebbe pure chiedere "quale?", dato che la parlata varia tra una provincia e l'altra, e spesso nella stessa provincia, e persino tra paesini geograficamente limitrofi, come ad esempio nei Nèbrodi, come ad esempio tra San Fratello e Sant'Agata Militello, Caprileone e Tortorici, da Stromboli ad Alicudi, la prima sulla rotta da e per Napoli, la seconda da e per Palermo.
A mio pare non basta cantare in 'dialetto', né ricorrere alla facile rima, per asserire di fare musica popolare; ma bisognerebbe, anche, pensare ai contenuti, più precisamente andando ad attingere al ricco patrimonio culturale fatto di leggende, di storia/e, di usanze e di tradizioni locali, non preoccupandosi granché di dovere necessariamente innovare dal punto di vista strettamente musicale, nella costruzione melodica o degli
strumenti utilizzati. A questo riguardo sono degni di nota, per la preziosità che sempre più acquisiranno nel tempo in termini storico-culturali, le composizioni di Benito Merlino e di Bartoluzzo Ruggiero, che davvero hanno lasciato a futura memoria una preziosa eredità della loro talentuosa creatività non soltanto in campo musicale, ma pure nella stesura di testi che entrano di diritto nella letteratura 'poetica' eoliana.
E ben vengano anche tutti coloro che nel solco tracciato da loro sono venuti e via via si sono inseriti a vari livelli espressivi e di continutità, e a quanti ancora vi si aggiungeranno, accogliendo la sfida avvincente di far proprie le parole di Marcel Proust: " Non disprezzate la cattiva musica, nel senso della musica popolare.
Siccome essa si suona e si canta molto più appassionatamente della buona, nel senso della musica classica, a poco a poco essa si è riempita del sogno e delle lacrime degli uomini. per questo vi sia rispettabile. Il suo posto è immenso nella storia sentimentale della società. Il ritornello che un orecchio fine ed educato rifiuterebbe di ascoltare, ha ricevuto il tesoro di migliaia di anime, conserva il segreto di migliaia di vite di cui fu la ispirazione, la consolazione sempre pronta, la grazia e l'idea ".
Senza nulla togliere e rallegrandomi per i meriti altrui, personalmente ho trovato anche gratificante l'essermi cimentato in quella sfida: una 'sfida' senza tempo, in un futuro... antico.

---( 1 - Continua )

CASBA AEOLIA - I Turchi 'nt'a Marinaantonio12

L' Amuri mia

Aviti vistu l'Amuri mia?
L'àti vistu passàri di qa?
Si n' ìu pi' mari diversi anni fa,
ora 'unn' è chu è chi lu sa?

Era beddu di formi e d'aspettu,
nìuri i rizzi di so' capiddi
e russu lu mussu cumu i curaddi
e occhi cumu stiddi di notti.

Ni 'nnammuràmmu ch'era 'nt'a 'S tati
cum' acedda 'i prima vulata,
ni maritàmmu ch'era 'i Fivràru,
curtu 'u misi e lu tempu amaru.

Aviti vistu l'Amuri mia?
L' àti vistu passàri pi' qa?
Si n' ìu pi' mari tanti anni fa,
ora 'unn' è Diu sulu lu sa.

Iéva circànnu l'Amuri mia
dumannànnu notti e 'iornu,
spirìu pi' mari e cusì sia
pirchì mai chiù farà ritornu.

Luna Nova

Puni' 'u Suli arredu lu mari
pi' turnari dumani,
spunta 'a Luna supra lu muntiantonio13
e rischiara la notti;
finisci lu 'iornu cusì
e l'uscuru' ammanta 'u paisi.

Cala 'a brizza e l' ùnna du' mari
sciàcquarìa 'nt'a pràia,
e 'u lustru di' stiddi appari
cumu tanti lampari;
'u Spàziu lu cori spaura
pirchì ora regna 'u 'scuru'.

Sentu un sensu 'i màlincunìa
pi' lu tempu chi passa e va;
si ni va puru 'sta vita mia,
passa e nun si sa 'ùnni va;
e aspettu chi si fàci 'iornu
pirchì 'u Suli ancora surgirà.

---CASBA AEOLIA - I Turchi 'nt'a Marinafamularo

'Iornu e notti

Tuttu 'u 'iornu 'ssittata qa
vicinu a 'na varca a ricamà',
'nt'a la marina ammùcciu lu chiantu
mentri ricamu linzola 'i linu
pirchì un ghiornu ormai vicinu
iò vògghiu dòrmiri a' lu to' ciancu.

E di notti mi pari 'i sèntiri
lu me' nomi chiamari da' mmari,
rapu i barcuna e vìu 'a luna
parlari sula cu' la marina,
e 'u ventu 'i notti c'a rina du' marifamularo1
veni a la porta a bussari e a sgraffiari.

'Nt'a lu sonnu iò mi cunfunnu
tra i me' sogni e 'a rialtà,
rapu 'a porta pinzànnu chi
tu si' davèru turnatu unni mi,
rapu 'a porta e lassu chi
'u ventu sciùscia supa di mì,
rapu 'a porta e lassu chi
veni 'a so' rina a sgraffiàrimi.

Cànticu du' piscaturifamularo2

Pi' lu suli ch'abbrìsci ancora,
ni teni 'n pedi e ni caudìa,
pi' lu 'iornu chi nesci fora,
laudatu sia Signuri mia.

Pi' lu mari chinu di pisci
chi ni duna di campari,
pi' la luna quannu nesci
e piscamu senza lampari.

Pi' lu ventu chi sciùscia forti,
vùscia 'i vili e ni straporta,
pi' li stiddi di la notti
chi ni sìgnanu 'a rotta.

Pi' 'sta terra 'n mezzu o' mari,
chi ni faci arripusàri,
p'u misteri di campari,
qista vita loda a Tìa,
da 'stu munnu tra celu e mari
laudatu sia Signuri mia.

( 8 - Continua )

CASBA AEOLIA - I Turchi 'nt'a Marinaantonio9

'A danza di la Morti

" Vàiu circànnu qa, vàiu furriànnu dà,
sugnu cumu 'na vùgghia 'spersa!
Giru ogni 'iornu pi' tuttu 'u munnu
cu' la fàuci 'nt'a lu pugnu!.

Nìura sugnu e senza ritegnu
'scantu e duluri dugnu!
Sugnu tinta, crudeli e forti,
pirchì ìu sugnu 'a Morti!

Iu sugnu 'a Morti e portu curuna,antonio10
'i tutti vui sugnu patruna!
Sugnu accussì forti e sugnu dura
e 'un mi férmanu i to' mura!

E sutta a la me' fàuci
tu 'a testa ha' chinari!
A l'oscura danza di la Morti
cu' so' passu ti n'ha' ghiri! "

" Viniti e ripusàtivi,
di vinu risturàtivi,
pusati chìssa fàuci
e livàtivi 'a curuna...antonio11
E Vùi du' tempu
'un siti chiù Signura!

Viniti e divirtìtivi,
di vinu ricriàtivi,
pusati chìssa fàuci,
abballàti 'sta canzuna...
E Vùi da' vita
'un siti chiù Patruna! "

( 7 - Continua )

----CASBA AEOLIA - I Turchi 'nt'a Marina

O' Timpuni di' Fìmmini

"Signuri mia, chi viniti a fari?
Qa 'un c'è oru chi putiti arraffari,
sulu pani 'caliatu ch'on si poti scacciariantonio6
e fica sicchi pi' scapuzzari."

"Signura mia 'un vi vògghiu scantàri,antonio7
'un sugnu qa pi' vulìrivi arrubbari,
pi' qista notti mi servi un riparu,
prima ch'agghiòrna vi giuru chi scumparu.

Sunnu tri ghiorna chi vàiu scappannu,
sugnu affamatu e cottu di sonnu,
alli carcagna iò haiu li sgherri
e si m'acchiàppanu mi mèttunu e' ferri,
tutti 'i me' peni mi fannu pagari
e puru 'i peni 'i l'àutri scuntari!"

"Trasìti dintra, ammucciàtivi qa,antonio8
pòvira sugnu ma vinu ci n'è,
si vi spugghiàti curcàtivi dà
'nt'a lu me liettu cunzatu cum'è."

"Signura mia 'un sàcciu chi fari
pi' iò putìrivi arricanciàri,
tempu nu' n'hàiu pi' stari cu' vui
pirchì pi' mia lu tempu fui."

"Fora c'è scuru ancora a qist'ura,
c'è sempri tempu pi' ghiri 'n galera,
stàtivi qa, durmìti cu' mia,
v'a cànciu ìu 'sa malincunia,
tempu ci n'ésti, dumani è luntanu
e cumu veni ni lu pigghiàmu."

( 6 - Continua )

----CASBA AEOLIA - I Turchi 'nt'a Marinaantonio5

Messère

Messère, 'i qa si dòmina 'u mari
e 'i luntanu pò squatriari
forzi nimici arrivari,
'i navi armati di' cursari.

Messère, da qisti mura supra 'u mari
nui nun vidìmu arrivari
mai chu ni veni ad aiutari
e simu stanchi di luttari.

Sunnu tanti anni chi lu ventu spira,
'a sorti 'un si gira e tanti su' l'affanni.
Càncianu i nutàbili, i curtigghiàni e i re,
vànnu a pedi i prìncipi e in groppa i lacchè.

Messère, da qisti mura supra 'u mari
puru si ora all'orizzonti
c'èsti bonazza apparenti
ciò ch'è evidenti po' 'ngannari.

Messère, da 'nt'o Castieddu supra 'u mari
'u ventu ancora veni a sciusciàri
ma 'nt'e bastiuna chi sannu 'i sali
'un c'è chiù nuddu ad aspittari.

Chu varda 'u ventu 'un siminirà
e chu varda 'i nùvuli poi nun mietirà.
Nun èsti chiù tempu 'i stari a' 'spittari
chi di luntanu veni qualcunu a libirari.

( 5 - Continua )

-CASBA AEOLIA - I Turchi 'nt'a Marinadragutdragut1

Drauttu 'u Cursaru

Viniti tutti, Panariddisi
chi abitati sutta 'u Castieddu,
a Santu Petru e 'i Ditedda,
scinniti tutti da lu paisi.
Sapiti tutti ch'a Panarìa
c'era lu covu di Drauttu,
'ddu malanova e purcarìa,
'ddu gran maccaccu e farabuttu.

Ora vi dugnu 'na bona nova
chi succidìu un misi fa,
chi ni purtaru' genti di fora
chi si truvaru' a passari 'i qa.
Cu' lu bontempu o 'u malutempu
'un dura sempri lu stissu tempu,
tirannu 'a corda sempri chiù forti
si spezza puru la bona sorti.

Mortu ammazzatu fu lu Drauttu,
'a Malanova si lu futtù,
mortu sparatu 'nt'o 'n corpu sulu
ci arrivaru' 'i baddi 'nt'o culu.
Sinu di quannu era carusu
si dimustrau un fìgghiu 'i 'iarrusa,
pi' tutti i mari currennu 'ieva,
da' Sirinissima 'i navi assartava.

Era di Giugnu 'u vinticinqu'
e Drauttu facci' 'i princu
cu' li Turchi contru i Maltisi
scommattìa pi' 'ddu paisi.
'Nt'a l'assèdiu era 'mpignatu
ma lu Distinu era appustatu,
'na baddòttula 'u curpìu
e a morti lu firìu.

I Tripulini si lu pigghiàru',
'nt'o so' paisi si lu purtaru'
e a Trìpuli 'u vurricàru'
e 'na muschea ci 'ntistaru'.
E puru i Turchi si ricurdaru'
chi cu' Drauttu lu Cursaru
pi' li mari scummattièru'
e l'Occidenti fìciuru trimari.

Ora priàtivi Panariddisi
'nt'a li cuntrati di sutta 'u Castieddu,
di Santu Petru e di Ditedda,
arricriàtivi 'nt'a lu paisi!
Mortu ammazzatu ésti Drauttu,
nun è chiù tempu di éssiri a luttu,
finìu 'u Tirruri di tutti li mari,
mortu e sepoltu è Drauttu 'u Cursaru!

4° Continua.

- CASBA AEOLIA - ' I Turchi 'nt'a Marina 'turchi

Varvarussa 'u rìnnigàtu

Cu l'avissi mai pinzatu,
suspittatu o immaginatu?
Un briganti, un lestufanti,
un briccuni, un malfatturi,
chi avìa sempri arrubbatu,
vastuniatu, accutiddatu,
lordi avìa li so' mani
di lu sangu di' Cristiani!

Cu' l'avissi mai cridutu
chi 'dda genti mariola,
genti chi tagghiava 'i borsi
e tagghiava puru 'a gola,
cu' la scusa di la fedi
si cridìunu patruna
' scannari 'li 'nfidèli
pi' sarvari 'a Menzaluna.

Dìciunu ch'o Varvarutu
era fìgghiu 'i calabrisi,
'e Castiedda era 'u so' paisi,
pressu lu Capu Rizzutu;
e di 'nicu fu pigghiatu,
da li Turchi arrubbatu,
'nt'a l'Orienti fu purtatu
e malamenti addistratu.

Mala nova a li briganti
e maliditta l'avidità,
'i ricchizzi 'i cu n'éppi tanti
arraffati cu' disonestà!
Cu' arricògghi argentu e oru
'un si sazia 'i 'ddu tisoru
e nun ésti mai cuntentu
pirchì curri arredu o' ventu.

( 3 - Continua )

CASBA AEOLIA - I Turchi 'nt'a Marinabarabarossa

Ariadenu Varvarussa

Iò sugnu di tutti li Saracini
'u chiù feroci, 'u chiù crudeli,
ci l'hàiu a morti cu' li parrìni
e 'un supportu mancu l'infideli.

Vàiu circànnu pi' tuttu lu mari
navi nimìci di dipridàri,
sugnu lu scantu di li citàti
chi supra 'u mari stannu affacciati.

Termu sulu 'u Patraternu
si mi manna all'infernu
pirchì l'ànima hàiu dannata,
scuscinziata e 'nìuricàta.

Finu a quannu stàiu 'n pedi
mi la fàzzu iò la fedi,
'un ci dugnu nudda 'dienza
a la Scenza e la Cridenza.

Sugnu sciarrìnu e omu di 'uerra
e crìu sulu 'nt'a me' scimitarra,
cu' quattru amici e un pugnu 'i latri
'un ricanùsciu mancu a me' patri.

Cu' mia ci sunnu migghiàra di Turchi,
'iamu furriànnu puru i sapurchi,
vàiu girannu cumu vùgghia 'spersa,
sugnu Ariadenu "lu Varvarussa!"

2° continua

- Lipari pigghiàta di' Turchi.

"Vìnniru' 'i luntanu i Saracini
brannènnu 'a scimitarra 'nt'a la manu,casaaeolia1
hànnu 'i mani lesti e l'occhiu finu
e di cori sunnu malantrini.
Sempri navigannu 'nt'o Tirrenu
spìnciunu la navi cu' lu remu,
vula lu sciabeccu cu' lu ventu
e ci vaci innanzi lu sgumentu
di 'na fama chi fàci spaventu."

"Varda quantu Turchi chi spuntaru',
fora 'a praia 'i Vinci arrivaru',
l'àncuri calàru' a lu funnu,
si pò sapìri quantu spàcchiu sunnu?"
"Sunnu cum'a rina di lu mari,
cumu li cunìgghia chi figghiàru,
mìnchia quantu Turchi ch'arrivaru',
accùmparièru' fora da' Marina,
chi n'àbbriscièru' qa qista matina!"

"Sonati forti tutti li campani
e fuitivìnni 'nt'e campagni,
arrìcugghìti 'i fìmmini e i carusi
e ristati zitti e tutti chiusi."
"Omini scinnìti 'nt'a Marina,
stati all'erta, pronti, e stati attenti,
nun pirditi 'i vista i bastimenti
chi sunnu ben'armati finu e' denti,
cusì ni difinnèmu 'a nostra genti."

"Varda quantu Turchi chi spuntàru',
a' punta da' Crapazza arrivàru',
l'àncuri 'ittàru' a lu funnu,
si pò sapìri ma chi càzzu vònnu?"
"Vònnu puru fìmmini e dinari
cumu li cunìgghia pi' figghiàri',
mìnchia quantu Turchi ch'arrivàru',
accùmparièru' fora da' Marina
e n'àbbriscièru' qa qista matina!"

" 'Omini 'nchianàmu a' Cattidrali
a ràffurzàri tutti li bastiùna,
a cuntrastari tutti l'infidèli
e ci facìmu nìuri 'i vriùna!"
" 'Nchianàmu tutti quanti a lu Castieddu
a priparàri l'armi di difesa,
chi la mègghiu difesa èsti l'offesa
e a malu modu 'i rimannàmu a casa!"

"Varda quantu Turchi chi spuntàru',
a' punta 'i San Franciscu arrivàru',
l'àncuri isàru' da lu funnu,
si pò sapìri quantu càzzu sùnnu?"
"Sùnnu cumu 'a rina di lu mari,
cumu li cunìgghia chi figghiàru',
mìnchia quantu Turchi ch'arrivàru',
ch'accùmparièru' qa 'nt'a la Marina,
chi ni scassàru' 'u cazzu stamatina!"

( 1 - Continua )

ODISSEADE. Canto XVIII - Mediterraneo.

Forse è vero che "siamo
come rane gracidanti
attorno ad uno stagno",
accalcati sulle sue sponde,
vocianti e in perenne movimento,
a volte operosi, a volte oziosi,
per edificare, commerciare,
e creare e distruggere imperi.

Sulle sue rotte
il rame di Cipro
arrivava in Egitto,
la porpora fenicia
sino in Spagna,
i vasi greci in Etruria e Magna Grecia,
viaggiando insieme a culture
religioni e idiomi.

Realtà geografica e prodigio
non si escludono a vicenda
nell'antico e misterioso
arazzo arabescato del mondo,
lo stesso di cui sono intessuti i sogni,
ora che v'è pure la tendenza
a considerare morto il passato
e illusorio il portento.

Epilogo - Orizzonti

Al di là del mare
v'è ancora altro mare
o profili di terre lontane.

Al di là dell'orizzonte
vi sono altri orizzonti
che lo sguardo non cattura.

Oltre il mondo conosciuto
v'è la vacuità dello spazio
e le vie sconosciute del tempo.

Oltre il tempo e lo spazio
vi è solo immaginazione
e la memoria persa nell'oblio.

( 10 - Fine )

P.S. - Appuntamento con... " I Turchi 'nt'a Marina ".

LA TESTIMONIANZA.  dI Santina Giambò

La prima volta che incontrai Antonio Famularo fu molti anni fa; era il mio primo anno di insegnamento; lo ritrovai al terzo banco di una 'terza' Magistrale.
Di tutto quel tempo mi rimane un ricordo chiaro, il momento in cui mi fece leggere la  prima poesia. Mi venne in mente una riflessione di Leopardi: "La poesia ci rinfresca e ci accresce la vitalità, essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita."
Il piacere, la felicita, l'ingenuo stupore dinnanzi alle più grandi verità dell'uomo, sentivo che stavano alla base di quel componimento e nello stesso tempo 'prendevano' me al momento della fruizione del testo.
Da allora sono passati tanti anni, di quel tempo è rimasto il mio lavoro, per il resto il mondo è sempre più dominato dalla velocità e dalla superficialità, spesso segnato dall'orrore della violenza, la poesia sembra aver perso la sua capacità di costituire un punto di riferimento ideale e spirituale per l'uomo. Nonostante ciò io ancora leggo le composizioni di Antonio Famularo. In tutto questo tempo si è dedicato con amore e
pazienza a comporre versi pur sapendo che non ne traeva ricchezza e gloria.
Credo non ci possa essere migliore dimostrazione di come la poesia sia un bisogno insopprimibile e di come io sia stata fortunata nel potermi accostare ad essa attraverso un Autore che, a mio avviso, non solo ha la capacità di vedere il mondo ma anche quella di saperlo inventare e cantare con accenti ora pacati, ora vivaci, ora struggenti, per la sommessa malinconia che li pervade, sicuro indizio di indiscusso talento.
Le liriche di ' ODISSEADE ' sono affascinanti già solo per le molteplici sfaccettature, per la capacità di essere piene di valori simbolici ogni volta diversi. Trovo che Antonio Famularo abbini realtà e sogni in un legame che fa pensare alla 'favola' costruita su elementi (le isole, il mare, il tempo, l'amore) che Lui sente come stimolo per dare vigore alla speranza in un fluire di delicata poesia. Nei suoi versi il tempo sospende
la propria morsa fatale, lo spazio si dilata e diviene astratto. Non ci sono più ostacoli e l'anima può vivere riassaporando immagini, suoni, terre, profumi, che non sono più 'consumati' dai sensi ma resi eterni dai versi che trafiggono per gli accenti e per i brividi che sanno provocare e, tuttavia, sembra che 'ogni parola sia quella esatta e ogni immagine sia chiara come cristallo'.
Il mito del 'viaggio' e del tempo non è nuovo; la caratteristica, l'originalità inconfondibile, è l'assenza della meta e non importano il tempo o le tappe che dobbiamo impiegare o fare; importano invece, tantissimo, con chi lo facciamo, le circostanze, i momenti, gli incontri e la ricerca di un porto tranquillo. La poesia di Antonio Famularo ha coscienza di ciò: " Sono stanco di viaggiare/ Verso terre inesplorate,/ senza bussola nel mare,/ seguendo rotte sconosciute"...
Da questo 'viaggiare' si ottiene un risultato, che altrimenti non otterremmo: ritroviamo noi stessi. Troviamo un'assoluta impalpabilità e, insieme ad una forte costruzione fatta dal bisogno di credere, troviamo magia ed energia, simbolismo e grande senso del concreto, e... troviamo Poesia.

ODISSEADE - Canto XVI - Epitaffio.

Si penserà che me ne sia andato per mare,
forse andato oltre le Colonne d'Ercole,
mi crederanno in continua navigazione
e ancor più mosso dalla sete di conoscenza.

Di me si dirà che non sia stato accorto
a lasciarmi avvincere dalla stanchezza e dal sonno
e farmi depredare dell'Otre dei Venti,
smarrendo quindi la rotta del ritorno.

Potrei pure lasciar credere
che io sia uscito indenne
dagli assalti rapaci di Scilla
e dai vortici obliosi di Cariddi.

In realtà non ho avuto navi da governare
né compagni di viaggio da guidare;
nessuna Circe mi ha indicato la rotta
e ho viaggiato a vista o seguendo le Stelle.

Sono stato inviso alla sorte e al fato
accanendosi contro affinché mi arrendessi;
nessuna Minerva mi ha dato chiare indicazioni,
né alcun Mercurio mi ha recato buone nuove.

Ho rinunciato alla bellezza di Nausicaa
e alle immemori lusinghe di Calipso;
ho solo percorso il tempo che ho avuto
e ho ceduto all'oblìo sulla soglia degli ìnferi.

Lasciate dunque che la mia memoria alberghi
nell'Isola amata più d'ogni altro luogo
e che il mio grande cuore dimori
nel cuore dei miei cari Telemaco e Penelope.

Canto XVII - Lamento di Penelope

" Ammainate le vele! Ulisse è morto! "

Anche il tempo è venuto
per consegnarti all'inattività,
quel tempo che rimandavo
e al quale mai avrei pensato.
Fisso la tua immobilità
e non mi pare ancora vero.
Hai finito, mio Caro,
di andare per mare.

La caligine avvolge il tuo cuore
e la tua mente giace nell'oblìo;
solo così il tuo spirito è domo,
dopo avere attraversato il tuo tempo.
Quanti sogni e progetti
dentro quella tua mente,
e quanti mondi lontani
dietro le tue palpebre chiuse!

Non udrò più la tua voce
argomentare e cantare canzoni,
io che non avevo intuito
la tua ricchezza interiore.
Senza di te la mia vita
non avrà più alcun senso
e non potrò rivederti
in alcun luogo del mondo!

La consapevolezza di averti
mi spingeva presuntuosamente
a rimandare il tempo
di concedermi al tuo amore.
Sarai rèfolo di vento?
Onda sciaguattante del mare?
Dove potrò più venirti a cercare
per vederti e sentirti parlare?

Non posso nemmeno pensare
che il silenzio ora regni sovrano
e che il ricordo struggente di te
m'insegua per il tempo che rimane.
Intuisco quanto sarà pesante
gestire la tua ricca eredità
e dare continuità alle cose
anche senza di te.

" Ammainate le vele! Ulisse è morto! "

( 9 - Continua )

Canto XIV - Compagni di viaggio.

Il ricordo dei miei
compagni di viaggio
giace per sempre sepolto
sui fondali del mare.
Chi, come e cosa fossero,
o chi credevano di essere,
io non lo sapevo
e non me lo chiedevo.

Capii le loro attitudini
durante i viaggi per mare:
gli opportunismi odiosi di Caio
e le vigliaccherie sleali di Tizio,
l'avidità impudente di Tazio
e le sfrontatezze di Sempronio;
abili e desti come rapaci marini
nel conseguire i loro loschi fini.

Capire chi, come e cosa fossero
dopo tanti anni ancora non lo so,
e in fondo non m'importa neppure;
oggi, però, sarebbe alquanto facile dire
che cosa loro non siano diventati!
E davvero non pensavo che io
comunque avrei raggiunto le mie mete
quando decisi di andare per mare.

Canto XV - Monologo di Odisseo

Per tanti anni l'isola Eolia
era stata per me un vero punto fermo;
ciò che mi aveva permesso
di attraversare indenne le intemperie
era stato il pensiero di potervi ritornare,
di sentirmi restituito alle mie consuetudini.

Ho rivisto i miei coetanei,
i miei compagni di un tempo:
alcuni, più di altri, erano l'ombra di sé stessi;
quelli ch'erano stati miei punti di riferimento
avevano occhi stanchi e dicevano cose vuote;
altri erano spariti, inghiottiti chi sa dove.

Son passato accanto a loro, attraversando i loro sguardi,
ma non si sono accorti che li scrutavo da vicino;
io parlavo loro come un rammemoratore
e si giravano di scatto come quando s'intuisce
un'invisibile presenza o un turbamento interiore,
e si guardavano attorno e non mi scorgevano.

In quell'Isola presumevano d'essere mossi
dalle loro aspirazioni, ma in realtà si agitavano
come vessilli al vento sfilacciati e sbiaditi;
e non discernevano di essere in un vortice
che avvolge e stravolge nei suoi turbini.
Salutai Argo e ripartii dileguandomi nel mare.

( 8 - Continua )

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