Cassazione. Sentenze&Ordinanze di interesse pubblico. "La diffamazione sui social..." - Notiziario delle isole Eolie # Eolie News

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La prescrizione del reato di diffamazione a mezzo blog decorre dall'inserimento in rete della frase offensiva

di Pietro Alessio Palumbo

E' proprio in quel preciso momento che le frasi o le immagini dannose diventano fruibili da parte dei terzi fruitori della rete

Secondo la disciplina penalistica chiunque comunicando con più persone offende l'altrui reputazione è punito con la reclusione o con la multa. Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato la pena della reclusione e quella della multa sono raddoppiate.

Se poi l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità ovvero in atto pubblico la reclusione può arrivare a tre anni. Con la recente sentenza n.1370 del 16 gennaio la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha statuito che la prescrizione del reato decorre dall'inserimento in rete della frase offensiva.

di Dario Ferrara

Risarcita la prof licenziata perché trans

Danno patrimoniale alla docente: illegittimo in quanto discriminatorio il recesso della scuola paritaria dal contratto di collaborazione, dovuto solo alla condizione personale della lavoratrice

Risarcita la professoressa licenziata dalla scuola paritaria soltanto perché transessuale. Scatta il danno patrimoniale in favore della docente perché è illegittimo, in quanto discriminatorio, il recesso ad nutum del datore dal contratto di collaborazione che legava le parti: risulta provato per testimoni, infatti, che la risoluzione anticipata adottata dalla società è dovuta non a un’inadempienza dell’insegnante ma proprio alla condizione personale della lavoratrice. È quanto emerge dalla sentenza 9037/22, pubblicata il 27 dicembre scorso dalla prima sezione lavoro del tribunale di Roma.

Abuso del diritto
Accolta la domanda della prof: ottiene il risarcimento richiesto nella misura di quasi 11 mila euro, commisurato al periodo del contratto in cui non le è stato consentito di lavorare - e dunque non le è stata corrisposta la retribuzione - compreso fra il 14 ottobre e la scadenza naturale dell’8 giugno. Il fatto che le parti abbiano fissato il termine del contratto, collegando la durata della prestazione a quella dell’anno scolastico, non esclude il recesso ad nutum: diritto che anzi è previsto in modo esplicito in favore della società, salvo preavviso di quindici giorni, richiamando la disciplina ex articolo 2237 Cc. La specifica natura professionale del rapporto, fondata sulla reciproca fiducia e sull’intuitu personae, consente d’altronde il recesso unilaterale. Ma bisogna accertare se la risoluzione anticipata integra un abuso del diritto invece che essere dettata da scelte prettamente professionali. E la verifica deve essere ancora più stringente: è anomalo il recesso intervenuto a soli venti giorni dall’assunzione.

Conversazione e trascrizione
La società che gestisce l’istituto non riesce a dimostrare l’effettiva inadempienza della docente, cui si imputa di non utilizzare le slide nelle lezioni come previsto in favore degli alunni che hanno disturbi dell’apprendimento. È proprio uno dei testimoni portati dal datore ad ammettere che bisogna approvare i piani personalizzati per ciascuno studente, ma che ciò avviene soltanto a novembre. A rivelare l’intento discriminatorio, invece, è un altro teste: il docente sostiene un colloquio con il legale rappresentante dell’istituto che gli riferisce «di aver dovuto mandare via l’insegnante di lettere perché»; una conferma che, peraltro, avviene «malvolentieri», soltanto perché c’è la trascrizione di una telefonata intervenuta fra l’interessato e la professoressa. Escluso il danno non patrimoniale perché è stata la stessa docente a dare risonanza all’accaduto, imputandolo alla propria condizione di transessuale.

 

di Debora Alberici

Da uno a tre anni di reclusione alla madre che impedisce al padre di vedere i figli

È sottrazione di minore trattenere il bimbo senza dare la possibilità all’ex di esercitare le diverse manifestazioni della responsabilità genitoriale. Non è necessario scappare con il piccolo

Rischia da uno a tre anni di reclusione, spesso senza la condizionale, chi trattiene presso di sé il figlio impendendo all’altro genitore di vederlo per un periodo prolungato, bastano due settimane.

In questi casi si configura non soltanto la violazione al provvedimento del giudice ma anche il più grave reato di sottrazione di minori.

È quanto emerge da un esame della giurisprudenza della Corte di cassazione.

L’illecito è a querela di parte. Spesso è sufficiente un mero rinvio a giudizio a carico del genitore che sottrae, per perdere l’affido del piccolo e anche la potestà genitoriale.

La posizione si aggrava nel caso in cui al bambino non venga fatta frequentare la scuola per evitare le visite dell’ex.

La giurisprudenza di legittimità è ferma nel condannare queste condotte. Sono decine e decine le sentenze che danno torto a molte mamme, nel 99% sono donne ad agire così.

Fra le più rilevanti una sentenza depositata dalla Cassazione nel 2016 (n. 7716), con la quale la sesta sezione penale ha affermato espressamente che «per quanto concerne la giuridica configurabilità della fattispecie di cui all’art. 574 c.p., il reato di sottrazione di minori si consuma anche se l'agente ritiene presso di sé il minore contro la volontà di chi ne abbia la responsabilità genitoriale, tutela, curatela, vigilanza o

custodia, come espressamente prevede l'art. 574 cod. pen., e che, quindi, integra il delitto in questione la condotta del genitore il quale, senza il consenso dell'altro, trattiene il figlio infraquattordicenne presso di sé, quando tale comportamento determina un impedimento per l'esercizio delle diverse manifestazioni della responsabilità genitoriale dell'altro ascendente diretto». Identica motivazione era stata resa dalla Suprema corte già con la sentenza 33452 del 2014.

Nello stesso filone giurisprudenziale si incardina la sentenza 34456 depositata dalla Corte di cassazione nel 2018. In quell’occasione “Piazza Cavour” affermò che «l’ipotesi criminosa prevista dall’articolo 574 Cp può dirsi integrata quando il comportamento dell’agente porti ad una globale sottrazione del minore alla vigilanza dell’altro genitore, sì da impedirgli l’esercizio della funzione educativa ed i poteri inerenti all’affidamento, rendendogli impossibile l’ufficio che gli è stato conferito

dall’ordinamento nell’interesse del minore stesso e della società La condotta del genitore - oltre ad impedire all’altro, per un arco temporale rilevante, l’esercizio delle varie manifestazioni della responsabilità genitoriale, estromettendolo dalle scelte fondamentali riguardanti l’esistenza del figlio - deve peraltro essere tale da determinare un improvviso stravolgimento del normale contesto di vita in cui il minore si trovava inserito».

 

di Debora Alberici

Multa salata a carico di chi tiene il cucciolo in garage. Affinché scatti la sanzione penale non è necessario che il cane sia malnutrito o in cattive condizioni di salute Rischia una ammenda chi tiene il cucciolo in garage. Il cane è parte della famiglia e deve stare in casa.

La linea dura arriva dalla Corte di cassazione (sentenza depositata l’11 gennaio 2023 e leggibile in fondo alla pagina), sempre più attenta alle esigenze dei nostri amici a quattro zampe.

L’uomo aveva messo il cucciolo nel garage di casa sua, fra mobili e altri oggetti. Locale scarsamente illuminato. All’entrata delle forze dell’ordine la ciotola dell’acqua era stata trovata rovesciata. Tutto questo gli costerà mille euro di ammenda e tutte le spese processuali. Inutile il certificato con il quale il veterinario aveva attestato la buona salute dell’animale.

La terza sezione penale ha infatti motivato la sua decisione spiegando che l’ipotesi di reato di cui all’art. 727, secondo comma, cod. pen. non postula la necessaria ricorrenza di situazioni, quali la malnutrizione e il pessimo stato di salute degli animali, indispensabili per poterne qualificare la detenzione come incompatibile con la loro natura, ma al proposito rilevano tutte quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica dell'animale, procurandogli dolore e afflizione.

Su un punto il ricorso della difesa è stato però accolto. Infatti in questi casi la confisca del cane non è obbligatoria ma solo facoltativa. Sarà il giudice a verificare caso per caso la necessità di disporre la misura.

In questa vicenda il magistrato dovrà tener conto che il cagnolino è stato cresciuto dall’imputato per anni, fino al deposito della sentenza.

 

 

Va arretrato il muro di contenimento del terrapieno artificiale che delinea un fondo perché è una costruzione

L'opera rientra nella nozione di edifici e il regolamento comunale è una norma secondaria che non può modificare la disciplina codicistica

Va arretrato il muro di contenimento del terrapieno artificiale che delinea un fondo perché è una costruzione. Lo ha stabilito oggi la seconda sezione civile della Cassazione che, con l'ordinanza, ha ricordato che i regolamenti comunali sono norme secondarie che non possono modificare la nozione codicistica sia pure al limitato fine del calcolo delle distanze legali.

Il proprietario di un immobile aveva chiesto che il confinante arretrasse il muro di contenimento da lui realizzato violando la distanza di cinque metri dal confine prescritta dal Piano Regolatore Generale del Comune e dalle relative norme tecniche di attuazione sul presupposto che l’opera potesse essere considerata veduta ai sensi della suddetta norma.

Il Tribunale aveva respinto la domanda, decisione poi confermata in sede d'appello. Secondo il giudice di merito il muro costituiva una costruzione, svolgendo funzione di contenimento di un terrapieno artificiale in conseguenza di un’alterazione dell’originario piano di campagna, e in quanto tale soggetta al rispetto delle distanze legali. Tuttavia, non si trovava applicazione tale distanza di cinque metri dal confine stabilita dal Prg del Comune se non per i soli edifici.

Il ricorrente, in sede di legittimità, ha lamentato la decisione di merito nel ritenere che l’opera non rientrasse nella nozione di “edificio” e che la cognizione di “costruzione” utilizzata all’art. 873 Cc andava considerata unica.

Il Palazzaccio ha accolto il motivo ricordando che “mentre non può essere considerato come costruzione, ai fini dell'osservanza delle distanze legali, il muro che, nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il fondo, assolve anche alla funzione di sostegno e contenimento del declivio naturale per evitare smottamenti o frane, all'inverso, nel caso di dislivello di origine artificiale, deve essere considerato costruzione in senso tecnico-giuridico, ai fini della normativa sulle distanze legali, il muro di fabbrica che assolve in modo permanente e definitivo anche alla funzione di contenimento del terrapieno creato dall'opera dell’uomo, o che questa abbia pure soltanto accentuato rispetto a quello già esistente per la natura dei luoghi.

Basta, dunque, che l'andamento altimetrico del piano di campagna - originariamente livellato sul confine tra due fondi - sia stato artificialmente modificato per opera dell’uomo a far ritenere che il muro di cinta abbia la funzione di contenere il terrapieno creato "ex novo" con l’apporto di terra e pietrame (senza che abbia rilievo chi, dei proprietari confinanti, abbia in via esclusiva o prevalente realizzato tale intervento), e vada, per l'effetto, equiparato a un muro di fabbrica, come tale assoggettato al rispetto delle distanze legali tra costruzioni”.

Inoltre, “in tema di distanze legali, esiste, ai sensi dell'art. 873 Cc, una nozione unica di costruzione, consistente in qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, indipendentemente dalla tecnica costruttiva adoperata, anche se realizzata mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso a un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa.

I regolamenti comunali, pertanto, essendo norme secondarie, non possono modificare tale nozione codicistica, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, poiché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 Cc ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore”. Pertanto, la causa è stata rinviata alla Corte d'appello.

 

Sorpresi mentre stavano scassinando la cassaforte di un albergo, ma manca la querela del proprietario: così grazie alla riforma Cartabia i ladri restano in libertà

Un italiano e un tunisino fermati dai poliziotti mentre cercavano di aprire la cassaforte di un albergo di Jesolo, dopo essersi già impossessati di un televisore. Il proprietario dell’hotel, un magnate russo, era però assente. Quindi non ha potuto formalizzare la querela, necessaria dopo la riforma del governo Draghi: i ladri restano liberi

 

di Dario Ferrara

Non basta l’esame delle urine positivo alla cannabis a integrare l’aggravante nell’omicidio stradale

Serve il prelievo di sangue: nei liquidi biologici i metaboliti della sostanza restano per giorni. Dato neutro la guida spericolata: necessario il riscontro di elementi sintomatici come le pupille dilatate

Non basta l’esame delle urine positivo alla cannabis e alla cocaina a far scattare l’aggravante nell’omicidio stradale: i metaboliti dello stupefacente, infatti, possono restare per qualche giorno nei liquidi ematici. E dunque serve il prelievo di sangue, che dà certezza sull’attualità dell’assunzione. L’accertamento condotto sui liquidi biologici deve quindi essere riscontrato da dati sintomatici rilevati dalla polizia sul conducente del veicolo al momento del fatto: ad esempio pupille dilatate, occhi lucidi e stato di ansia. Mentre la guida spericolata costituisce un dato del tutto neutro rispetto all’accertamento dello stato di alterazione. È quanto emerge da una sentenza pubblicata il 22 dicembre dalla quarta sezione penale della Cassazione (leggibile in fondo all’articolo).

Nessun elemento
È accolto uno dei motivi di ricorso proposti dall’imputato, condannato a due anni e otto mesi di reclusione (il delitto ex articolo 589 bis assorbe la contravvenzione ex articolo 187, comma primo e primo bis, Cds). Il sostituto procuratore generale, invece, concludeva per l’inammissibilità dell’impugnazione. Trova ingresso la censura secondo cui non risulta acquisito alcun elemento di riscontro, neppure sintomatico, dello stato di alterazione al momento dell’incidente costato la vita al passeggero dell’auto condotta dal prevenuto: il risultato del prelievo sangue, infatti, risulta inutilizzabile a causa di uno scambio di campioni, mentre l’analisi delle urine risulta insufficiente perché il dato della presenza di tracce della droga così come quelle di alcol deve essere attualizzato al momento della condotta. E soltanto l’esame ematico ha sul punto una valenza probatoria vicina alla certezza.

Velocità in conferente
Insomma: per ritenere sussistente lo stato di alterazione sarebbe stato necessario rilevare nel conducente, ad esempio, uno stato di euforia o eccitazione oppure conati di vomito, sudorazione anomala, difetto di attenzione. Ma nessuno degli elementi sintomatici è rilevato dagli agenti al momento né emerge dall’istruttoria dibattimentale. Né il fatto che l’automobilista proceda a una velocità particolarmente elevata è di per sé indice che sia sotto l’effetto di droga. La parola passa al giudice del rinvio.

 

di Debora Alberici

Risarcito il pedone che cade nella buca nonostante sia stato imprudente

Accolto il ricorso della famiglia di una donna morta per le fratture riportate in seguito uno scivolone

L’amministrazione risarcisce il pedone che cade rovinosamente in una buca sul manto stradale, nonostante la sua condotta assolutamente imprudente. Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con una ordinanza leggibile in fondo all’articolo, ha accolto il ricorso dei parenti di una donna morta in seguito alle fratture riportate dopo uno scivolone.
Con un’interessante motivazione gli Ermellini hanno accolto la tesi della difesa precisando che ove sia dedotta la responsabilità del custode per la caduta di un pedone in corrispondenza di una sconnessione o buca stradale, la condotta colposa

della vittima può valere a integrare il caso fortuito richiesto dall’articolo 2051 Cc soltanto se presenti caratteri di imprevedibilità ed eccezionalità tali da interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, così da degradare la condizione della cosa al rango di mera occasione dell’evento di danno; in difetto, tale condotta potrà - eventualmente - assumere rilevanza ai sensi dell’articolo 1227 Cc, ai fini della riduzione o dell’esclusione del risarcimento.

Per la terza sezione civile la Corte d’appello non si è attenuta a questo principio individuando il fortuito nella condotta disattenta della donna, del tutto prescindendo dall’accertamento della non prevedibilità e della non prevenibilità di tale condotta e della sua idoneità a sovrapporsi al modo di essere della cosa, elidendone l’efficienza causale e degradandola a mera occasione dell’evento di danno.

 

Mantenimento al figlio maggiorenne alla prima occupazione

di Annamaria Villafrate 

Non è possibile revocare il mantenimento al figlio di soli 19 anni che ha trovato il suo primo impiego a tempo determinato perché non si tratta di uno stato di occupazione definitiva
Mantenimento per il figlio maggiorenne al primo lavoro
Non si può privare il figlio del contributo al mantenimento dopo il primo lavoro a tempo determinato. La revoca non è possibile in questa condizione di non completa autonomia, possibile solo la riduzione della misura. Questa la decisione del Tribunale di Bologna.

Richiesta revoca mantenimento al figlio
Due genitori nel 2015, con ricorso ex art. 337 c.c., si rivolgono al Tribunale soprattutto per regolamentare i loro rapporti in relazione ai bisogni del figlio, di anni 14.

Il Tribunale dispone il pagamento in favore della madre, per le necessità del giovane, di un assegno mensile a titolo di contributo al mantenimento di Euro 450,00.

Dal 2021 però il padre rileva che il figlio di 19 anni, che risiede con la madre e il marito di lei, ha iniziato a lavorare con contratto a tempo determinato. Sono venuti meno quindi i presupposti per dover corrispondere il contributo per il mantenimento, di cui chiede, in via subordinata, la riduzione.

Un contratto a tempo determinato non rende il figlio autonomo

Il Tribunale adito però rileva che, se anche le retribuzioni mensili del figlio sono adeguate, trattasi della prima occupazione e di un contratto a tempo determinato.

L'esclusione dell'assegno con impossibilità di ripristino sarebbe di pregiudizio al ragazzo, nel caso in cui dovesse trovarsi in futuro in uno stato di inoccupazione.

Concessa quindi la sola riduzione della misura a 150 euro, perché il ragazzo non ha ancora raggiunto la piena autonomia economica che per il giudicante coincide con uno stato di occupazione comunque più stabile o a tempo indeterminato.

 

di Dario Ferrara

Il Comune risarcisce il centauro caduto su un dislivello del manto d’asfalto

Irrilevante che il sinistro avvenga vicino all’ufficio del danneggiato: non segnalata né visibile l’anomalia sulla carreggiata. Concorso di colpa al 20%: scarsa prudenza nonostante il forte vento

Spetta al Comune risarcire il centauro caduto su un dislivello del manto stradale. E ciò benché l’incidente avvenga in una zona che il danneggiato ben conosce, perché vicina al suo luogo di lavoro: l’anomalia sull’asfalto non risulta visibile né segnalata, mentre l’ente locale in quanto custode del bene demaniale non riesce a fornire la prova liberatoria del caso fortuito. Scatta tuttavia un concorso di colpa del 20 per cento a carico dello scooterista: l’amministrazione dimostra che il giorno del sinistro tirava un forte vento, il che avrebbe dovuto indurre il conducente a utilizzare una maggiore prudenza in sella al veicolo. È quanto emerge dalla sentenza 9715/22, pubblicata ieri dalla decima sezione civile del tribunale di Milano.

Testimone decisivo
Accolta la domanda del motociclista: il Comune è condannato a risarcire oltre 19 mila euro, detratti i circa 7.500 che il lavoratore ha già ottenuto dall’Inail per l’infortunio in itinere. L’incidente avviene alle 17,30 di un giorno d’inverno all’uscita dell’ufficio: decisive per la responsabilità ex articolo 2051 Cc dell’amministrazione locale la relazione della polizia municipale e soprattutto la testimonianza della collega che si trova sul suo scooter dietro a quello del danneggiato (il quale riporta fratture alla spalla e alla mano).

Non è vero, come sostiene il Comune, che lo scooterista sia caduto perché intralciato nei movimenti dal “termoscud”, la classica copertura invernale che tiene sulle gambe: la circostanza risulta esclusa dalla teste. Ma certo è che sul sinistro pesa il forte vento del tardo pomeriggio invernale: l’amministrazione deposita documenti meteo che lo dimostrano. Insomma: il motociclista non utilizza la diligenza dovuta, ciò che aumenta la potenzialità lesiva del dislivello sull’asfalto.

Imprevedibile e inevitabile
Manca, tuttavia, la prova liberatoria che può scriminare il Comune: il caso fortuito non riguarda la condotta del responsabile ma il profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa in custodia ma a un elemento esterno che ha i caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità. Quanto al danno patrimoniale, l’amministrazione avrebbe potuto far periziare il mezzo ancora non riparato, mentre si limita a contestazioni generiche.

 

Sono una prova le telefonate con il viva voce registrate su iniziativa della polizia giudiziaria
Cambio di rotta rispetto alla giurisprudenza che le considera inutilizzabili facendole rientrare nel raggio d’azione delle intercettazioni e dunque subordinate all’ok del giudice o del Pm

di Patrizia Maciocchi

Le telefonate fatte in viva voce tra la vittima e il suo estorsore, registrate su iniziativa della polizia giudiziaria, sono utilizzabili come prova atipica in Tribunale. La Corte di cassazione, prende così le distanze dalla parte della giurisprudenza secondo la quale le captazioni non sarebbero utili in tribunale in assenza di un provvedimento motivato del giudice o di sun decreto dispositivo del pubblico ministero.

Diverso il parere della Suprema corte che respinge il ricorso dell’estorsore e dà il via libera all’uso, come prova atipica, in Tribunale della telefonata acquisita in maniera occulta dalla polizia giudiziaria.

Nessuna violazione delle norme sulle intercettazioni
La video-registrazione era stata fatta da un appuntato in una stazione dei carabinieri delle Marche, dove il taglieggiato era stato sollecitato a chiamare l’estorsore. Modalità che, secondo la difesa dell’imputato, entravano in rotta di collisione con le norme sulla segretezza delle comunicazioni e conversazioni, in assenza di autorizzazioni in assenza di un controllo da parte dell’autorità giudiziaria. La Cassazione esclude invece che la registrazione in questione possa essere ricondotta nel concetto di intercettazione di conversazione.

Anche se realizzata con mezzi della Pg, la telefonata video-registrata era stata concordata con uno degli interlocutori, cosa che non avviene nelle intercettazioni. A supporto dei brogliacci con la trascrizione di quanto captato con il viva voce, sono poi possibili in giudizio le testimonianze della vittima dell’estorsione e del carabiniere. L’iniziativa aveva offerto un quadro completo dei fatti, compresa la cifra richiesta dall’imputato.

 

di Vanessa Ranucci

La voltura catastale integra l'accettazione tacita dell'eredità

Irrilevante riportare il contenuto dell'atto perché basta indicare di cosa si tratta

La voltura catastale ha rilievo sia agli effetti civili che a quelli catastali ed è idonea a integrare un'accettazione tacita dell’eredità. Inoltre, non serve riportare il contenuto dell'atto perché basta indicare di cosa si tratta. Lo ha stabilito oggi la terza sezione civile della Cassazione con l'ordinanza 12259/22.

Il ricorrente, in base a una scrittura privata dalla quale risultava creditore, aveva ottenuto un decreto ingiuntivo nei confronti degli eredi legittimi, i quali avevano proposto opposizione contestando sia la loro qualità di eredi, essendo essi semplicemente chiamati all'eredità, sia la validità e l'efficacia della scrittura privata posta a base dell'ingiunzione.

Il giudice d'appello ha ritenuto che la regola sulla mancata contestazione, di cui all’articolo 115 cpc, non si poteva applicare ratione temporis; che comunque spettava all'attore di provare la qualità di eredi dei soggetti convenuti e che, trattandosi di un'eccezione in senso lato, era nella disponibilità del giudice prenderla in considerazione a prescindere dalla sua tardività.

Il ricorrente, in sede di legittimità, ha affermato di avere depositato in appello la loro denuncia di successione con relativa voltura catastale, e di averlo fatto solo in quel grado di giudizio poiché prima non era possibile per fatto imputabile ai convenuti. Inoltre, nella comparsa di costituzione in appello la voltura catastale era stata invocata a dimostrazione dell'accettazione implicita o tacita di eredità e, nella comparsa conclusionale, essi avevano obiettato che quell’atto non era idoneo a dimostrare l'avvenuta accettazione della eredità.

Per Piazza Cavour il motivo è fondato. Il collegio ha ritenuto irrilevante che il ricorrente non avesse riportato il contenuto dell'atto in quanto è sufficiente che egli abbia indicato di cosa si trattasse, cioè della voltura catastale di beni immobili a favore degli eredi, per valutare la rilevanza dell'atto ai fini della decisione: si tratta di un atto che ha un contenuto prestabilito, a effetto legale, e dunque non occorre riportarne il contenuto per decidere della sua rilevanza. Insomma, a differenza della mera denuncia di successione, che ha valore esclusivamente fiscale, la voltura catastale ha invece rilievo sia agli effetti civili che a quelli catastali ed è un atto idoneo a integrare un'accettazione tacita dell’eredità. Pertanto, al giudice del rinvio il nuovo giudizio.

 

Responsabilità del Comune se il quartiere è rumoroso

di Luca Bridi

Dalla Corte d’appello di Torino la condanna per il municipio inadempiente

Malamovida e rumori oltre la soglia di tollerabilità continuano a essere un tema di stretta attualità. Coinvolgendo numerose città italiane e intrecciandosi inevitabilmente con la tutela del diritto al riposo in condominio.

Argomenti che si ritrovano al centro di una recente pronuncia della Corte d’appello di Torino che, nella sentenza 1198/2022 (depositata il 15 novembre), si è espressa in merito a una controversia che vedeva contrapposti i cittadini e l’amministrazione comunale.

 

L'anagrafe comunale è un sistema di interesse pubblico, scatta l'aggravante del reato di accesso abusivo

di Michele Nico

Un pubblico ufficiale, approfittando della propria carica, si è introdotto nella banca dati dell'ente locale per finalità personali

L'accesso abusivo alla banca dati dell'anagrafe del Comune comporta la violazione di un sistema informatico di interesse pubblico e configura l'aggravante a effetto speciale di cui all'articolo 615-ter, comma terzo, del codice penale.

Lo ha affermato la Quinta Sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 40882/2022.

 

di Debora Alberici

I nonni hanno diritto a conservare rapporti con i nipoti anche se sono in lite con i genitori

Respinto il ricorso di una mamma che chiedeva la revoca delle visite fra il figlio e il suocero

I nonni hanno diritto a conservare rapporti significativi con i nipoti anche se sono in conflitto con i genitori dei bambini.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con una ordinanza leggibile in fondo alla pagina, ha respinto il ricorso di una donna che chiedeva la revoca del diritto di visita dell’ascendente.

La prima sezione civile ha bocciato la tesi avanzata dalla difesa della signora ricordando che il diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, previsto dallo art. 317-bis c.c., non ha un carattere incondizionato, essendo il suo esercizio subordinato ad una valutazione del giudice avente di mira l’esclusivo interesse del minore, ovverosia la realizzazione di un progetto educativo e formativo, volto ad assicurare un sano ed equilibrato sviluppo della personalità del minore, nell'ambito del quale possa trovare spazio anche un’attiva partecipazione degli ascendenti, quale espressione del loro coinvolgimento nella sfera relazionale ed affettiva del nipote.

Tale coinvolgimento, costituente il presupposto indispensabile per una fruttuosa cooperazione degli ascendenti all’adempimento degli obblighi educativi e formativi dei genitori è stato condivisibilmente riconosciuto dalla Corte territoriale.

 

La pedana del ristorante che occupa il suolo pubblico non fa scattare il reato di invasione di terreni

di Paola Rossi

Assolto il ristoratore subentrato all'ascendente per la pedana su suolo pubblico di cui non aveva ancora ottenuto la volturaContenuto esclusivo Norme & Tributi Plus

La pedana del ristorante che occupa il suolo pubblico non fa scattare il reato di invasione di terreni o edifici se il manufatto è stato "ereditato" dal nuovo titolare, che è subentrato allo zio nella gestione dell'esercizio commerciale. Semmai il nuovo ristoratore pagherà le eventuali conseguenze amministrative e civili per il periodo in cui non risultava autorizzato, in attesa della voltura a proprio a favore per l'occupazione del suolo pubblico.

La Corte di cassazione ha così annullato - con la sentenza n. 43904/2022 - la condanna a 600 euro di multa che era stata comminata per il biennio in cui l'imputato aveva mantenuto la struttura esterna al ristorante, in pendenza della pratica con cui aveva chiesto il passaggio dell'autorizzazione a proprio nome. Inoltre, va rilevato che il ricorrente ora vittorioso in Cassazione, aveva continuato a pagare la tassa per l'occupazione di suolo pubblico relativa ai 60 metri quadrati occupati dalla pedana.

Ma il punto centrale che fa venir meno l'ipotesi accusatoria per il reato previsto dall'articolo 633 del Codice penale, è quello del possesso: ossia il reato sussiste solo quando l'agente provenendo dall'esterno dell'area dell'immobile che si assume invaso spezza il legittimo legame tra la res e il titolare del diritto su di esso. Ciò che nella specie non è avvenuto, in quanto il bene immobile è stato ricevuto dal ricorrente per volontà del suo precedente titolare. Da cui deriva che il possesso è legittimo.

Infatti, conclude la Cassazione, non sussiste alcuna invasione quando si è possessori o detentori dell'immobile senza aver in alcun modo compresso i diritti del titolare da cui deriva il bene. L'affermazione della Cassazione penale deriva dall'orientamento, già espresso in materia di immobili Iacp, dove la convivenza pregressa con l'assegnatario dell'immobile che per qualsiasi ragione, come la morte, cessa di occuparlo non scatta alcun reato per il convivente che continua a occuparlo magari anche pagando il canone. Ma non è tale ultima eventualità che discrimina la rilevanza penale dell'occupazione a titolo di reato di invasione di edifici o terreni, perché appunto l'illecito penale è insussistente in assenza di condotte di spossessamento. Semmai si attenuano le eventuali conseguenze - ai fini amministrativi e civilistici - dell'occupazione senza titolo autorizzatorio.

 

di Dario Ferrara

Non si può condannare il conducente se il pedone investito sbuca davanti all’auto all’improvviso

Sì al ricorso dell’assicurazione: il giudizio continua in sede civile. La Corte d’appello ribalta l’assoluzione senza fugare ogni ragionevole dubbio: non considera la «causalità della colpa»

Non si può condannare il conducente se il pedone investito sbuca all’improvviso davanti all’auto. O meglio: non si può farlo senza considerare la «causalità della colpa». E dunque scatta lo stop alla sanzione per omicidio colposo se il giudice del merito non considera la velocità che il veicolo avrebbe dovuto tenere per evitare il sinistro oltre a quella a cui realmente marciava la vettura. A maggior ragione quando si tratta di ribaltare un’assoluzione, sia pure a soli effetti civili: la condanna deve scattare «oltre ogni ragionevole dubbio». È quanto emerge da una sentenza pubblicata l’8 novembre dalla quarta sezione penale della Cassazione (leggibile in fondo all’articolo).

Nessun rimprovero
Accolto il ricorso proposto dall’assicurazione come responsabile civile del sinistro. L’imputato è condannato per colpa specifica dopo la perizia esperita in appello: sussiste la violazione dell’articolo 141 Cds in tema di velocità dei veicoli. L’automobilista si trova su una strada che è urbana ma lontana dal centro abitato: procede a circa 50 chilometri l’ora ma il limite di 30 non risulta segnalato. Ma lo stesso perito ammette che un conducente in transito potrebbe ritenere il tratto extraurbano, dunque con limite dei 90 all’ora: la strada attraversa poderi agricoli. Ed è dal suo campo che viene l’anziano agricoltore travolto dall’auto: spunta dopo una curva da un’apertura non segnalata nel muro di contenimento, sovrastato dalle piante, dove non ci sono strisce pedonali. L’uomo voleva andare a prendere la sua macchina parcheggiata di fronte. Il Tribunale ritiene non rimproverabile il superamento del limite non conoscibile dall’automobilista. E la Corte d’appello non si confronta con le argomentazioni del primo giudice quando accoglie il gravame delle parti civili.

Condotta imprevedibile
L’errore sta nel non valutare se il rischio concretizzatosi rientra in quello che la norma cautelare violata mira a evitare. E non considera se sia proprio il pedone a introdurre un rischio eccentrico che può interrompere il nesso causale con il danno. Affinché l’investitore sia assolto è necessario che la condotta del pedone sia ponga come causa dell’evento «eccezionale e atipica, imprevista e imprevedibile». Il giudizio continua in sede civile.

 

di Remo Bresciani

Tutti i tipi di autovelox devono avere il certificato di taratura periodica

All’amministrazione non basta attestare o dimostrare l’esistenza di omologazione delle apparecchiature per ritenere valida la multa

Tutti i tipi di autovelox devono avere il certificato di taratura periodica. All’amministrazione, pertanto, non basta attestare o dimostrare l’esistenza di omologazione delle apparecchiature per ritenere valida la multa.

Lo ha ricordato la Cassazione (il documento è consultabile in fondo all’articolo) che ha accolto il ricorso di un automobilista.

Il giudice di pace aveva annullato il verbale di contestazione di una multa irrogata con l’autovelox in quanto mancava la taratura e l’omologazione dell’apparecchio rilevatore della velocità. Il tribunale ha però riformato la decisione osservando che non spetta all’amministrazione fornire prova in giudizio della taratura ed efficienza delle apparecchiature elettroniche: al contrario, è il trasgressore che deve fornire la prova di difetti di funzionamento. Né il codice della strada e il suo regolamento di attuazione impongono che il verbale di accertamento debba contenere l’attestazione di funzionalità. È anche vero che, per le apparecchiature munite di omologazione, l'efficacia probatoria dell’apparecchiatura opera fino a quando venga accertato, nel caso concreto, il difetto di costruzione, installazione o funzionamento del dispositivo.

La vertenza è così giunta in Cassazione dove il ricorrente ha sostenuto l’amministrazione comunale deve sempre effettuare i controlli per assicurare il corretto funzionamento degli apparecchi della velocità.

La Suprema corte, nell’accogliere il ricorso, ha affermato che dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 113 del 2015 “tutte le apparecchiature di misurazione della velocità (che è elemento valutabile e misurabile) devono essere periodicamente tarate e verificate nel loro corretto funzionamento, che non può essere dimostrato o attestato con altri mezzi quali le certificazioni di omologazione e conformità, risultando peraltro a tal fine sufficiente il certificato di taratura”.

 

Furto al supermercato da 50 euro non punibile: c’è la tenuità del fatto. Secondo la Cassazione i precedenti non sono di ostacolo all’applicazione della norma sulla particolare tenuità. L’abitualità non può essere desunta dallo stato di disoccupazione

di Patrizia Maciocchi

Il giudice non può escludere la non punibilità per la particolare tenuità del fatto, nel caso di un tentato furto al supermercato per merce di un valore pari a 53 euro. Per la Corte di Cassazione, i precedenti di polizia, come il fatto che l’imputata, classe ’89, fosse disoccupata non bastano per negare l’applicazione dell’articolo 131-bis del Codice penale, che scatta quando pur affermata l’esistenza del reato sia considerata la scarsa offensività dell’azione. La Suprema corte accoglie dunque il ricorso della donna contro la condanna per il tentato furto, aggravato dall’esposizione della merce alla fede pubblica. La Corte d’Appello aveva escluso sia la particolare tenuità del fatto, che consente di restare impuniti, sia il beneficio della non menzione della condanna, previsto dall’articolo 175 del Codice penale. La Corte territoriale aveva detto no ad entrambi gli istituti, pur in presenza di una condotta singola e non reiterata, considerando che c’erano elementi per affermare l’abitualità di una condotta che andava considerata comunque grave.

A pesare per la Corte di merito erano stati dei precedenti di polizia e lo stato di disoccupazione. La Suprema corte non è d’accordo. I giudici di legittimità chiariscono che quando ci sono trascorsi con la polizia è necessario valutarne gli esiti, bisogna verificare se le segnalazioni si sono tradotte in una notizia di reato iscritta nei relativi registri o nell’avvio di un procedimento penale. Troppo generica dunque, senza questi approfondimenti la decisione della Corte d’Appello. La Cassazione boccia poi il binomio disoccupato uguale ladro abituale. Per la Suprema corte, infatti, è del tutto incongruo il riferimento allo stato di disoccupazione, utilizzato per supportare una presunzione di abitualità.

Infine non è giustificato neppure il rifiuto delle non menzione della sentenza di condanna. Un beneficio «fondato sul principio dell’”emenda” che tende a favorire il processo di recupero, morale e sociale del condannato». La Corte d’Appello su queste basi dovrà formulare un nuovo giudizio.

 

di Debora Alberici

Licenziato l’autista che causa il tamponamento perché sta su WhatsApp

Respinto il ricorso del dipendente: violazione molto grave rispetto al ruolo

Rischia il licenziamento l’autista che causa il tamponamento perché sta su WhatsApp mentre guida.

Visto il suo ruolo, la violazione è molto grave tanto da ledere il rapporto fiduciario con il datore.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con una sentenza leggibile in fondo alla pagina, ha respinto il ricorso del lavoratore.

Per gli Ermellini, il licenziamento è stato intimato in esito a un procedimento disciplinare nell’ambito del quale al lavoratore erano stati contestati specifici addebiti che la Corte territoriale ha puntualmente esaminato ritenendoli gravi al punto da sorreggere la risoluzione del rapporto per giusta causa.

Infatti, ha spiegato poi il Collegio di legittimità, la Corte territoriale, senza incorrere in alcun vizio di sussunzione della fattispecie concretamente accertata nella nozione di giusta causa di licenziamento, ha esaminato tutti gli aspetti della condotta tenuta dal ricorrente e oggetto della contestazione di addebito ed ha ritenuto, motivatamente, che la condotta accertata avuto riguardo alle mansioni svolte integrasse una negligenza gravissima, lesiva del vincolo fiduciario che deve sorreggere il rapporto di lavoro. Non una mera incuria nello svolgimento della prestazione che il contratto collettivo punisce con una sanzione conservativa ma una giusta causa di licenziamento.

Lipari, sbarca il progetto "Tennis nelle Isole"

Tennis nelle Isole tappa n.2. Sbarca anche a Lipari, dopo la bellissima tappa di Pantelleria dello scorso settembre, il Progetto “Tennis nelle Isole Minori”, fortemente voluto dal Presidente del Comitato Regionale Siciliano Giorgio Giordano che proprio oggi (4 ottobre) compie gli anni.

Uno staff di maestri dell’Istituto Superiore di Formazione FIT, coordinati dal Tecnico Nazionale Carmelo Arasi, hanno fatto provare la disciplina del tennis per quattro intense giornate a piccoli e grandi presso lo storico Snoopy Club presieduto da Martina Villanti.

Obiettivo principale del Progetto è attivare la Scuola Tennis, formare ed informare gli Istruttori del club sulle nuove metodologie di insegnamento e sui Progetti Federali.

Diversi gli incontri fatti per gettare le basi per questa auspicata ripartenza, grazie agli interventi del Consigliere Regionale Fabio Scionti e del delegato Fit di Messina Roberto Branca.

Sono stati coinvolti, oltre ai dirigenti del Tc Snoopy, il vice sindaco con delega allo sport Saverio Merlino che, ha dato ampia disponibilità dell’amministrazione comunale per l’attuazione dei Progetti Federali, in primis quello scolastico “Racchette in Classe “per coinvolgere e far appassionare gratuitamente tutti i bambini della scuola primaria e secondaria.

Alla fine delle quattro intense giornate di lezioni, grande entusiasmo da parte dei bambini, molti dei quali hanno anche provato a giocare. Soddisfatti anche i dirigenti dello Tennis Club Snoopy per l’opportunità ricevuta dalla Fit Sicilia.

Il settore Promozione e Propaganda del Comitato Regionale FIT continuerà a supportare e sostenere questo progetto.

Queste le considerazioni del maestro Fabio Scionti, consigliere regionale Fit.

“Da Pantelleria a Lipari, il progetto “tennis nelle isole minori” si è dimostrato fondamentale per queste due isole dove abbiamo riscontrato tanta voglia di giocare a tennis – dichiara - far sentire la nostra vicinanza, entusiasmare, consigliare, aggiornare e supportare, questi sono stati i nostri obiettivi in questo progetto che non finisce qui ma che con il presidente Giorgio Giordano e tutto il Consiglio rinforzeremo con altre visite programmate. Anche le Amministrazioni Comunali – conclude Scionti - hanno apprezzato la nostra presenza e si sono dichiarate disponibili ad aiutare le società locali”.

di Dario Ferrara

Addio accertamento se il fisco non produce in giudizio la delega al funzionario che l’ha firmato

Anche se risulta demandata solo la sottoscrizione e non la funzione dal dirigente dell’ufficio, il mancato deposito agli atti impedisce al giudice di scrutinare l’esistenza e l’identità dell’interessato

Annullato. Addio all’accertamento a carico del contribuente perché il fisco non deposita in giudizio la delega del dirigente dell’ufficio che autorizza il funzionario di carriera a sottoscrivere l’atto impositivo. E ciò benché si tratti di una delega di firma e non di funzioni. La mancata produzione, infatti, impedisce al giudice di scrutinare l’esistenza del documento oltre che l’identità del sottoscrittore dopo le contestazioni avanzate dalla parte privata. È quanto emerge dall’ordinanza 7441/22, pubblicata l’8 marzo dalla sezione tributaria della Cassazione.

Sindacato precluso
La Suprema corte decide nel merito accogliendo l’originario ricorso proposto dal contribuente contro l’accertamento sintetico sul reddito che quantificava maggiori imposte per oltre 43 mila euro più interessi e sanzioni. Trova ingresso la censura rivolta contro la sottoscrizione degli atti impositivi relativi alle due annualità incriminate. Secondo la parte privata gli accertamenti sarebbero stati firmati in modo illegittimo dal capo area controllo mentre l’unica firma legittima poteva essere quella del direttore titolare dell’Agenzia delle entrate oppure quella di un funzionario di carriera dirigenziale munito di delega ad hoc. E, denuncia il contribuente, un “direttore tributario”, corrispondente all’ex nono livello, non sarebbe di per sé legittimato a spiccare da solo un atto di accertamento. Come che sia, è certo che l’amministrazione finanziaria non ha depositato agli atti la delega anche in grado d’appello nonostante il soccorso istruttorio all’epoca vigente. E la mancata produzione impedisce il sindacato sulla legittimità della sottoscrizione di chi non ha istituzionalmente la rappresentanza esterna dell’ufficio fiscale, una circostanza oggetto di censura ad hoc da parte del contribuente fin dal primo grado di giudizio.

 

Passeggeri indennizzati anche se il ritardo dipende dalla coincidenza di voli gestiti da vettori diversi

Per la compensazione pecuniaria conta che le tratte aeree siano combinate dall’agenzia di viaggi che emesso un solo biglietto fatturando un prezzo totale: irrilevante che le compagnie non abbiano rapporti

In caso di ritardo prolungato, il diritto all’indennizzo dei passeggeri scatta anche per i voli in coincidenza gestiti da compagnie aeree differenti. Ai fini della compensazione pecuniaria per i viaggiatori prevista dalle norme europee, infatti, conta soltanto che le tratte siano state combinate da un’agenzia di viaggi che emette un unico biglietto, fatturando il prezzo totale, anche se non sussiste alcun rapporto giuridico fra i diversi vettori. È quanto emerge dalla sentenza pronunciata nella causa C-436/21 dall’ottava sezione della Corte di giustizia europea, depositata il 6 ottobre.

Uno e trino
Una signora compra dall’agenzia un biglietto aereo elettronico per il tragitto da Stoccarda a Kansas City costituito da tre voli. Il primo, da Stoccarda a Zurigo, è gestito da una compagnia svizzera, mentre gli altri due - Zurigo-Filadelfia e Filadelfia-Kansas City - da un vettore statunitense. Ed è nell’ultima tratta che si verifica il ritardo di oltre quattro ore all’arrivo. A chiedere la compensazione di 600 euro è la società di assistenza legale cessionaria dei diritti derivanti dal ritardo. La Corte federale di giustizia tedesca interroga i giudici Ue sull’interpretazione del regolamento Ce 261/2004 sul punto. E la Corte di Lussemburgo chiarisce che la nozione di «volo in coincidenza» va intesa come riferita a due o più voli che costituiscono un tutt’uno: ciò avviene quando le tratte sono stati oggetto di un’unica prenotazione. Nessuna disposizione fa dipendere la qualificazione come volo in coincidenza dalla sussistenza di uno specifico rapporto giuridico tra i vettori aerei che operano sulle tratte: una condizione supplementare del genere sarebbe contraria all’obiettivo di garantire un elevato livello di protezione per i passeggeri, limitando il diritto all’indennizzo in caso di notevole ritardo.

 

Per l'aggressione del cane responsabile chi se ne occupa al momento del fatto e non chi è iscritto come padrone

di Paola Rossi

L'assenza di guinzaglio e museruola espone alla responsabilità penale per le azioni dannose dell'animale lasciato libero

Chi detiene a propria disposizione un cane risponde delle lesioni che l'animale arreca ad altra persona, a prescindere dal requisito di esserne il proprietario formale.
Inoltre, non può considerarsi evento imprevedibile quello in cui il cane azzanni qualcuno. Per la Cassazione non scatta alcuna causa giustificativa per un evento quale "il cane che morde l'uomo" che è connotato dal carattere della prevedibilità in re ipsa.

La Corte di cassazione con la sentenza n. 37138/2022 ha confermato la condanna di due persone che si occupavano insieme di due cani, i quali nel momento di un diverbio tra i "padroni" e la vicina di casa aggredivano con morsi quest'ultima con una prognosi conseguente di 20 giorni.

Animale lasciato in libertà
Uno dei due imputati intendeva difendersi dall'attribuita responsabilità penale dell'episodio, facendo rilevare la propria distanza dagli animali nel momento del loro attacco, come circostanza che le avrebbe reso impossibile intervenire per scongiurare l'aggressione. E sul punto la risposta della Cassazione è assai chiara: chi detiene un animale in situazioni dove sono presenti terze persone è tenuto ad assicurarlo col guinzaglio o mettergli la museruola. In assenza di tali cautele si risponde per le lesioni che l'animale lasciato libero arreca ad altri.

Cautele doverose
Per altro verso la ricorrente voleva escludere il proprio coinvolgimento nel reato, facendo rilevare che essa risultava proprietaria all'anagrafe canina, ma che in realtà il coimputato era il vero padrone in quanto aveva provveduto all'iscrizione dei cani presso l'autorità italiana di cinofilia. Ma al di là della valenza di tale iscrizione la Cassazione ribadisce, come anticipato, che la responsabilità del comportamento di un cane è riferibile a chi lo conduce con sé o se ne occupa.

Il cane non aggressivo
Infine, va sottolineato che il carattere mansueto del cane o l'unicità del fatto di aver aggredito una persona non scriminano la responsabilità penale di chi detiene il cane e lo lascia libero senza museruola e guinzaglio.
Anche la circostanza della distanza del padrone dall'animale - al momento dell'evento dannoso - non è elemento giustificativo. Anzi dimostra la mancata cautela proprio per averlo lasciato libero.

 

L'aggravante dell'esposizione alla pubblica fede scatta anche per il furto in strada della bicicletta non legata

di Paola Rossi

In tal caso non rileva la consuetudine bensì la necessità di lasciarla parcheggiata per un tempo anche prolungato, ma temporaneo

Il ladro di biciclette, che sottragga davanti a un negozio la bicicletta di chi ci lavora o del titolare, commette un furto aggravato dalla circostanza dell'esposizione alla pubblica fede, anche se il mezzo non era assicurato con la catena o il bloccasterzo. In tal caso però l'esposizione nella pubblica via va considerata agita per necessità e non per consuetudine.

La conferma dell'aggravante
Così la Corte di cassazione ha confermato la condanna dell'imputato che aveva contestato l'applicazione dell'aggravante, in quanto la consuetudine dei ciclisti è quella di legare o bloccare il velocipede all'atto di parcheggiarlo sulla strada pubblica.
Ma con la sentenza n. 35997/2022 i giudici di piazza Cavour hanno confermato il corretto inquadramento dell'aggravante nell'ipotesi - prevista dall'articolo 625, n. 7, del Codice penale - della necessità e non della consuetudine, con cui non è appunto necessario e conferente confrontarsi. Infatti, il difensore dell'imputato in Cassazione sosteneva che si trattasse addirittura di cosa abbandonata, visto il suo posizionamento in strada per tutto il periodo di lavoro giornaliero della proprietaria del mezzo.

La necessità dell'esposizione sulla pubblica via
Si può quindi affermare che per la Cassazione recarsi al lavoro e posizionare in strada il mezzo di trasporto impiegato per raggiungerlo effettuando sullo stesso un controllo saltuario - anche se non assicurato con strumenti di blocco - rappresenta una necessità della vita che spinge il proprietario a esporre sulla pubblica via

Il rilievo della videosorveglianza
Sull'invocata esclusione dell'aggravante se l'azione è videoripresa la Cassazione ribadisce che per essere rilevante deve essere efficace a impedire il reato.
Inoltre, sosteneva la difesa che il giudice - per affermare l'irrilevanza della presenza di una telecamera all'esterno del negozio avesse applicato a contrario un orientamento giurirsprudenziale che sostiene il permanere dell'aggravante anche a fronte di un sistema di videosorveglianza se questo non preveda un utilizzo atto a interrompere l'azione criminosa ripresa.

La pena comminata
Sul punto della lamentata carente motivazione in relazione alla pena comminata di 8 mesi e 240 euro di multa la Cassazione risponde che essa risulta al di sotto della media edittale e non necessitava quindi di alcuna ragionamento rafforzato da parte del giudice.

 

di Debora Alberici

Niente condanna penale a carico del padre che non mantiene i figli se deve pagarsi vitto e alloggio

Con una sentenza rivoluzionaria la Suprema corte esclude la responsabilità a tutti i costi del coniuge separato: il giudice contemperi le esigenze dell’adulto e dei minori

Può essere assolto il padre che non paga il mantenimento ai figli se ha delle spese improcrastinabili e necessarie alla sopravvivenza, quali il vitto e l’alloggio.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con una sentenza leggibile in fondo alla pagina, ha accolto il ricorso di un uomo condannato ex articolo 570 del codice penale, per non aver versato l’assegno ai ragazzi.

La sesta sezione penale ha annullato la reclusione disposta nei confronti del padre dalla Corte d’Appello di Venezia.

Per la prima volta gli Ermellini frenano su quella che finora era sembrata una responsabilità quasi oggettiva del genitore che doveva mantenere i figli a ogni costo.

Ora nelle motivazioni si legge invece che occorre tenere in considerazione i beni giuridici in conflitto, assegnando certamente prevalenza alla tutela della prole e, comunque, del familiare c.d. “debole”, in ragione dei doveri di solidarietà imposti dalla legge civile (artt. 433 ss., cod. civ.), ma individuando il punto di equilibrio tra i medesimi, secondo il canone generale della proporzione e tenendo conto di tutte le peculiarità del caso specifico: importo delle prestazioni imposte, disponibilità reddituali dell’obbligato,

necessità per lo stesso di provvedere a proprie esigenze di vita egualmente indispensabili (vitto, alloggio, spese inevitabili per la propria attività lavorativa), solerzia, da parte sua, nel reperimento di possibili fonti di reddito (eventualmente ulteriori, se necessario, rispetto a quelle di cui già disponga), contesto socio - economico di riferimento e quant’altro sia in condizione d’influire significativamente sulla effettiva possibilità di assolvere al proprio obbligo, se non a prezzo di non poter provvedere a quanto indispensabile per la propria sopravvivenza dignitosa.

Ora la Corte d’appello dovrà rivedere la condanna e fare tutte le valutazioni richieste in sede di legittimità.

 

 

Mortificare l’alunno con espressioni offensive è reato. La Cassazione sulla vicenda riguardante la condotta di una maestra che aveva costretto il bambino a tenere la testa appoggiata sul banco

Il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina non ha natura di reato abituale sicché può essere integrato anche da un unico atto espressivo dell'abuso ovvero da una serie di comportamenti lesivi dell'incolumità fisica e della serenità psichica del minore; che mantenuti per un periodo di tempo apprezzabile e considerati complessivamente realizzano l'evento quale che sia l'intenzione correttiva o disciplinare dell'insegnante. Secondo la Corte di Cassazione (sentenza 29661/2022) la condotta abusante può consistere in qualsiasi comportamento dell'insegnante che umili, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno causandogli pericoli per la salute.

Ciò atteso che in ambito scolastico il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore senza superare i limiti previsti dall'ordinamento ovvero consistere in trattamenti afflittivi.

Nella vicenda la condotta abusante aveva visto la maestra costringere il bambino a tenere la testa appoggiata sul banco. Era stata anche accertata la modalità comunicativa della maestra con i propri alunni connotata da gesti violenti come strattoni, spinte e lo schiacciamento della testa sul banco; oltre che da urla ed espressioni offensive e umilianti. La madre del bambino aveva riferito di disturbi del comportamento quali pianto continuo, incubi notturni e problemi di enuresi.

Ha chiarito la Corte che il reato di abuso dei mezzi di correzione presuppone l'uso non appropriato di metodi in via ordinaria consentiti da cui consegua l'insorgenza di una malattia nel corpo ovvero nella mente del bambino. Va evidenziato che la nozione di malattia della mente il cui rischio implica la rilevanza penale della condotta è più ampia di quella del fatto di lesione personale, estendendosi fino a comprendere ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del minore quali: ansia, insonnia, depressione, disagio psicologico, e disturbi alimentari.

di Dario Ferrara

Se si stacca l’intonaco sono condannati i condomini che non mettono in sicurezza i balconi

Impossibile addebitare la responsabilità all’amministratore laddove in assemblea non si forma la maggioranza: ogni singolo proprietario obbligato a rimuovere il pericolo al di là dell’origine

Condannati. Pagano l’ammenda i singoli condomini dopo il distacco dell’intonaco dai balconi perché non hanno provveduto a metterli in sicurezza. E ciò benché non si sia formata in assemblea la maggioranza necessaria a stanziare i fondi necessari ai lavori, che possono interessare le parti comuni dell’edificio oltre che quelle di proprietà esclusiva: inutile in tal caso tentare di addebitare il reato all’amministratore, che non ha il potere d’intervenire. Né gli interessati l’hanno diffidato a provvedere in via precauzionale, anzi hanno ritardato interventi necessari da tempo. È quanto emerge da una sentenza pubblicata il 24 agosto 2002 dalla prima sezione penale della Cassazione (e leggibile in fondo dell’articolo).

Natura omissiva
Diventa definitiva la sanzione inflitta ai quattro condomini ex articolo 677, comma terzo, Cp. Illecito contravvenzionale, l’omissione di lavori in edifici che minacciano rovina è un reato colposo omissivo proprio. E dunque a integrarlo basta la colpa: non è necessario che l’omissione sia motivata dalla specifica volontà di sottrarsi ai dovuti adempimenti. Non giova alla difesa dedurre che gli imputati hanno sempre partecipato alle assemblee e che i lavori ai frontalini dei balconi si sarebbero potuti eseguire soltanto in ambito condominiale. Né d’altronde rileva che non sia stato accertato da quale balcone è caduto il calcinaccio che ha colpito una persona: il reato di lesioni colpose risulta estinto per remissione di querela.

Obbligo giuridico
Sussiste eccome, invece, l’inerzia dei condomini che erano da tempo consapevoli della minaccia di rovina di cui soffrivano i balconi dei loro appartamenti. Eppure non sono intervenuti: la condotta omissiva assume un grado di negligenza tale da integrare l’elemento della colpa. Il tutto nonostante che in assemblea non si sia formato il numero legale per deliberare: di fronte alla paralisi dell’organo decisionale, ogni singolo proprietario ha l’obbligo giuridico di rimuovere la situazione di pericolo, al di là del fatto che la relativa origine si possa o no attribuire a lui. E nella specie gli imputati si sono ben guardati dal porre in essere interventi autonomi per evitare crolli.

 

di Debora Alberici

L’acquirente può rifiutare la stipula del definitivo se manca il certificato di abitabilità

Accolto il ricorso del compratore assente al rogito della compravendita

Il promissario acquirente può rifiutare di stipulare l’atto definitivo se manca il certificato di abitabilità dell’immobile oggetto del preliminare di compravendita.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con un’ordinanza leggibile in fondo alla pagina, ha accolto il ricorso del compratore di un appartamento in quanto non era stato consegnato dal venditore il certificato di abitabilità.

La seconda sezione civile ha spiegato che in tema di contratto preliminare di compravendita immobiliare, la mancata consegna o il mancato rilascio del certificato di abitabilità (o agibilità), pur non incidendo sul piano della validità del contratto, integra però un inadempimento del venditore per consegna di aliud pro alio, adducibile da parte del compratore in via di eccezione, ai sensi dell’art. 1460 c.c., o come fonte di pretesa risarcitoria per la ridotta commerciabilità del bene, salvo che quest’ultimo non abbia espressamente rinunciato al requisito dell’abitabilità o comunque esonerato il venditore dall’obbligo di ottenere la relativa licenza.

Sicché il rifiuto del promissario acquirente di stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo del certificato di abitabilità o di agibilità, pur se il mancato rilascio dipenda da inerzia del Comune — nei cui confronti, peraltro, è obbligato ad attivarsi il promittente venditore — è giustificato, poiché il predetto certificato è essenziale, avendo l’acquirente interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la funzione economico-sociale nonché a soddisfare i bisogni che inducono all’acquisto, cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene.

Né tantomeno, a questa conclusione può derogarsi in ragione dell’asserita conoscenza, a cura del promissario acquirente, del difetto di tale attestazione.

 

Tra i soggetti passivi del delitto di diffamazione può esservi anche l'ente collettivo, nel caso in cui le espressioni dal contenuto lesivo offendano gli interessi dell'ente, ovvero quelli della categoria di soggetti che quest'ultimo rappresenta.

Così ha stabilito il GIP presso il Tribunale di Viterbo, con ordinanza depositata il 13 giugno 2022.

Ma pensa un po' sti avvocati di m... dove arrivano. Arrivano, in quanto categoria professionale, ad essere riconosciuti vittima di diffamazione grazie all'intervento della Camera Penale di Viterbo, verrebbe da rispondere all'ignoto estensore del commento poco lusinghiero “postato” in calce ad un articolo di giornale apparso sul web.

Il procedimento trae origine dalla denuncia-querela sporta in data 5 luglio 2019 dal Presidente della Camera Penale di Viterbo "Ettore Mangani Camilli".

Nell'atto di querela veniva esposto che, a seguito degli arresti dei presunti responsabili di un grave episodio di violenza sessuale avvenuto nel capo luogo viterbese, in calce ad alcuni articoli pubblicati sui quotidiani on line, un lettore aveva commentato: ma guarda sti avvocati di m..dove arrivano.

 

di Deborah Alberici

Inutilizzabili contro il cliente le dichiarazioni alla Finanza del fornitore che ha emesso le fatture false

Accolto il ricorso dell’imprenditore e annullata con rinvio la condanna

Sono inutilizzabili contro il cliente sospettato di frode fiscale le dichiarazioni rese dal fornitore alla Guardia di Finanza.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con una sentenza leggibile in fondo alla pagina, ha accolto il ricorso di un imprenditore che aveva usato fatture false per abbattere l’imponibile Iva.

Nella decisione viene ricostruito che dagli accertamenti già compiuti risultava l'esistenza di precisi indizi di reità nei confronti del fornitore del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, sicché la stessa avrebbe dovuto essere escussa dalla polizia giudiziaria con le garanzie ex art. 64 cod. proc. pen., richiamato dall'art. 350, comma 1, cod. proc. pen., con conseguente inutilizzabilità ex art. 63, comma 2, cod. proc. pen.

Pertanto, le dichiarazioni rese alla Guardia di Finanza e contenute nel processo verbale di constatazione non possono essere utilizzate nei confronti del ricorrente; la motivazione si fonda, per una parte rilevante, proprio su tali dichiarazioni, come indicato nel ricorso.

Ciò anche perché la ratio dell'art. 512 cod. proc. pen. è quella di recuperare le dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari, superando il principio del contraddittorio, quando sussiste l’oggettiva impossibilità di ripetizione; la norma non ha sana le inutilizzabilità assolute o relative, come quella prevista esplicitamente dall'art. 350, comma 7, cod. proc. pen.

 

 

Il Tribunale di Bolzano – sez. dist. di Merano confermava la propria ordinanza resa in data 18 marzo 2009 nel procedimento possessorio iscritto al N.R.G. 1023/2008, con la quale era stato accertato, in accoglimento della proposta domanda di manutenzione ex art. 1170 c.c. da parte di S.A., che l’installazione della porta – nel muro dell’edificio in p.ed. (OMISSIS) C.C. (OMISSIS) al confine con la p.ed. (OMISSIS) C.C. (OMISSIS) era idonea a turbare il possesso del predetto ricorrente sulla particella di sua pertinenza (adibita a cortile), con conseguente ordine, nei confronti delle parti resistenti T.M. e s.r.l. Maximilian, di manutenzione del possesso del medesimo ricorrente, mediante la rimozione dell’apertura nell’indicato muro ed il ripristino della condizione antecedente dello stesso.

Decidendo sull’appello proposto dai soccombenti convenuti, la Corte di appello di Trento – Sez. dist. di Bolzano, nella resistenza dell’appellato S.A., con sentenza n. 98/2014, depositata il 19 luglio 2014, rigettava integralmente il formulato gravame e condannava gli appellanti al pagamento, in solido, delle spese del giudizio di secondo grado. 

A sostegno dell’adottata decisione, la Corte territoriale, confermando la decisione di primo grado, riteneva che, nella fattispecie, si fosse configurata oggettivamente la dedotta turbativa del possesso dello S., avendo determinato un’apprezzabile limitazione dello stesso, e che ricorreva, in capo all’autore della molestia, anche l’elemento soggettivo dell’animus turbandi.

Diritto RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il sig. T.M. (in proprio e quale legale rappresentante della s.r.l. Maximilian), riferito a due complessi motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimato S.A..

2. In particolare, con la prima doglianza il ricorrente ha dedotto la falsa applicazione (o violazione) dell’art. 1170 c.c. (letto in combinato con gli artt. 1171 e 833 c.c.), per aver la Corte altoatesina affermato l’attualità della turbativa asseritamente patita dal sig. S. nonostante fosse pacifico che nessuna materiale limitazione era stata apposta alle facoltà e poteri de facto goduti ed esercitati e malgrado la molestia fosse stata definita non già potenziale od anche eventuale, ma come solo esclusivamente temuta (in caso, peraltro, di calamità, essendo stata la porta installata sul muro come uscita di emergenza in ipotesi di verificazione di incendio)

Ad avviso, in sostanza, della difesa del ricorrente la sentenza impugnata sarebbe incorsa nella prospettata falsa applicazione di legge poichè, a fronte di una condotta puntuale, integralmente perfezionatasi e definita e che, oltretutto, non aveva prodotto effetti permanenti, aveva concesso (confermando la statuizione di primo grado) all’appellato la tutela di cui all’art. 1170 c.c., ravvisando nel comportamento di esso appellante (nella duplice qualità spesa) una molestia attuale, nonostante lo S., nell’assumersi molestato, avesse sostenuto solo di temere un’eventuale e remota turbativa e malgrado esso ricorrente non avesse mai contestato il possesso della controparte o minacciato di limitare, nella sua ampiezza e consistenza, il godimento del possessore salvo che per pochi minuti in evenienze rarissime ed eccezionali.

3. Con la seconda censura (formulata subordinatamente al mancato accoglimento della prima) il ricorrente ha denunciato il vizio di nullità della sentenza di appello – con violazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, dell’art. 705 c.p.c. – per aver il giudice di seconde cure affermato che l’eccezione (comportante un feci sed iure feci) sollevata da esso appellante (sempre nella duplice qualità dedotta) e basata sulla sussistenza di una situazione soggettiva corrispondente ad un diritto reale (di servitù) poziore rispetto a quello sotteso al godimento così come fatto valere dallo S. si doveva considerare inammissibile nello specifico giudizio possessorio.

4. Il ricorso, in prima battuta, veniva fissato per la trattazione camerale ai sensi del nuovo art. 380-bis.1 c.p.c. ma, all’esito della stessa, con ordinanza interlocutoria n. 5369/2018, il collegio designato riteneva che sussistevano le condizioni per la trattazione in pubblica udienza, in prossimità della quale la difesa dei ricorrenti depositava memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

5. Rileva il collegio che il primo motivo è privo di fondamento giuridico e deve, pertanto, essere rigettato.

Occorre osservare, in via generale, che, ai fini dell’esperimento dell’azione prevista dall’art. 1170 c.c., la lesione normativamente rilevante viene in considerazione come mero atto materiale idoneo a turbare il possesso altrui, sicchè l’esercizio di fatto di una servitù rappresenta uno dei possibili modi pratici con cui la turbativa può essere arrecata (v. Cass. n. 1847/1970).

Quel che assume particolare pregnanza è l’accertamento della sussistenza della circostanza che la molestia non si riduca ad un fenomeno episodico ed ormai esaurito (giacchè, in presenza di questa evenienza, potrebbe venire a difettare la stessa attualità della turbativa che, secondo le prevalenti correnti interpretative, costituisce condizione della manutenibilità) e che (v. Cass. n. 3101/1974) riveli anche un apprezzabile contenuto di disturbo dell’attività altrui (ovvero della ordinaria condizione di godimento del soggetto che si assume turbato nell’esplicazione del suo possesso, che dovrebbe risultare, per effetto della molestia altrui, più gravosa e difficoltosa: cfr., per un esempio, Cass. n. 1042/1968).

Si è, peraltro, precisato che non è inerente alla nozione di molestia l’esistenza di un danno attuale, risultando sufficiente che lo stato di possesso sia posto in dubbio o in pericolo perchè il soggetto passivo della turbativa sia legittimato a richiedere la particolare tutela possessoria prevista dal citato art. 1170 c.c. (v. Cass. n. 1700/1966). La situazione di pericolo legittimante la proposizione dell’azione di manutenzione si identifica con la condizione di permanenza di una qualunque turbativa o molestia ovvero con la proiezione in futuro dei pregiudizievoli effetti di un già verificatosi mutamento del precedente stato di fatto, incidente sulla consistenza o sulle modalità di esercizio del possesso.

Soggettivamente la molestia è caratterizzata dal c.d. animus turbandi, che consiste nella volontarietà del fatto compiuto a nocumento dell’altrui possesso e nella consapevolezza che esso realizza, contro la volontà del possessore, una contrazione, modificazione o limitazione dell’esercizio del potere di fatto di quest’ultimo (cfr. Cass. n. 1764/1964 e Cass. n. 5467/1985).

Di regola, la giurisprudenza di questa Corte ritiene sufficiente, per integrare l’elemento psicologico della molestia possessoria, la coscienza e la volontà di compiere un atto che implichi l’alterazione dell’altrui possesso, contro il divieto espresso o anche solo presunto del possessore, senza che occorra la specifica intenzione di recare ad altri un pregiudizio, e restando ugualmente irrilevante la convinzione dell’agente di esercitare un proprio diritto (v., da ultimo, Cass. n. 107/2016).

Con l’atto materiale attraverso il quale si realizza la molestia deve coesistere il dolo o la colpa, la cui prova incombe su chi propone la domanda di manutenzione, costituendo, comunque, apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito, l’accertamento dell’esistenza di siffatto elemento psicologico.

Di norma, l’elemento soggettivo può ravvisarsi nella stessa volontarietà con cui sono stati posti in essere i fatti materiali in cui si concreta la turbativa; ma ciò non significa in modo assoluto che l’animus turbandi debba sempre presumersi una volta che sia stata dimostrata l’esistenza della condotta materiale attraverso la quale si sia manifestata la lesione possessoria (v. Cass. n. 1305/1963).

In ogni caso, sarà sempre il giudice del merito a dover compiere l’indagine sulle altrui intenzioni in relazione ai fatti materiali per come accertati al fine di stabilire se ricorre o meno l’animus turbandi. Dalla necessità dell’emergenza dell’elemento soggettivo della molestia discende che, allorquando il convenuto non contesta l’altrui possesso, ovvero lo riconosce, non si può discorrere di turbativa; e così anche se il presunto molestante abbia agito con il consenso del possessore.

Ciò chiarito dal punto di vista generale, si osserva che, nella fattispecie dedotta nel giudizio in questione, la Corte territoriale ha ravvisato l’attualità e la permanenza della turbativa nella circostanza che lo S. – per effetto dell’installazione della porta di emergenza da parte del Tirelli nel muro a confine – sarebbe stato comunque limitato nell’esercizio delle sue facoltà di possessore non potendo più depositare contro il muro oggetti ingombranti o tenere piante ornamentali rampicanti, e la stessa esistenza della porta avrebbe determinato in lui uno stato di potenziale preoccupazione per la possibile indebita utilizzazione dell’uscita di sicurezza, indipendentemente dalla sua fruizione in caso emergenziale di incendio nella proprietà del T..

Il giudice di appello ha anche ritenuto di confermare la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’animus turbandi nella condotta del T. alla stregua della stessa manifestazione oggettiva delle modalità materiali attraverso le quali si era venuta a determinare la contrazione delle facoltà di godimento connesse all’esercizio del pregresso possesso da parte dello S.. Infine, esclusa ogni influenza delle esigenze di commercio dedotte dal T., la Corte altoatesina ha ravvisato anche la configurazione dell’apprezzabile limitazione del potere di fatto dello S., sul presupposto che il fatto della sola possibilità di un passaggio anche eventuale già sarebbe stato idoneo a compromettere, in modo sufficientemente significativo, il possesso dell’appellato che, oltretutto, avrebbe dovuto subire il sacrificio (qualificato dalla Corte “non indifferente”) di non poter collocare sul muro comune piante od altri oggetti.

In punto di fatto è rimasto accertato – in modo essenzialmente univoco – che il T. (nella duplice qualità, anche, quindi, di legale rappresentante della s.r.l. Maximilian, esercente attività commerciale nel locale attiguo alla porzione immobiliare di proprietà e nel possesso dello S., divisa dal muro comune) ha praticato un’apertura nel muro divisorio tra le due contigue proprietà delle parti in causa (prospettante, dalla parte dello S., su un suo cortile adibito a giardino costituente pertinenza della sua abitazione pure ivi insistente), adibendola – a scopo preventivo – ad uscita di emergenza per i casi di calamità (in particolare di incendio), senza, perciò, utilizzarla costantemente ovvero in modo regolare.

Secondo la difesa del ricorrente ci si troverebbe in presenza di un caso di turbativa solo temuta e, come tale, difettante del requisito dell’attualità ed, inoltre, priva della connotazione dell’apprezzabilità nell’attentare al possesso dello S..

Ritiene il collegio che, sulla base della riportata ricostruzione fattuale, il ragionamento giuridico della Corte altoatesina che ha condotto al rigetto dell’appello degli attuali ricorrenti è condivisibile.

In primo luogo non appare discutibile che l’installazione della porta sul muro comune, ancorchè finalizzata al perseguimento del predetto scopo, ha comunque comportato una modifica del precedente stato dei luoghi e della pregressa reciproca condizione possessoria delle parti, come tale risultando idonea a determinare uno stato di potenziale pericolo al possesso (pacifico) dell’appellato e a produrre una compressione delle pregresse facoltà in cui si esteriorizzava detto possesso mediante l’utilizzazione piena dello spazio del muro comune nella facciata prospettante verso il cortile dello stesso S..

Nè può ritenersi che la molestia posta in essere dagli attuali ricorrenti sia priva delle caratteristiche della serietà e dell’apprezzabilità dal momento che l’apertura della porta sul muro in questione ha implicato naturaliter l’imposizione di una servitù di passaggio sul fondo confinante alieno e, quindi, la relativa condotta deve ritenersi idonea a concretare una molestia attuale (e non già meramente potenziale o solo temuta) e, in ogni caso, apprezzabile sul piano della tutelabilità con l’azione approntata dall’art. 1170 c.c. (v. Cass. n. 3608/1987).

Del resto la prevalente giurisprudenza di questa Corte ha, ancor più latamente, statuito – come già messo in risalto – che per la configurazione della molestia possessoria non è necessario che l’attentato al possesso si esplichi mediante un’alterazione fisica dello stato di fatto e la produzione di un danno attuale, ma è sufficiente che lo stato di possesso sia posto anche soltanto in dubbio o in pericolo, come nel caso di apertura di un varco (pur se presidiato da cancello) nella recinzione o nel muro a confine con il fondo limitrofo (v. Cass. n. 2255/1991). Ed anzi è stato anche affermato che l’azione di manutenzione è esperibile anche in via preventiva a fronte della minaccia di compromissione del preesistente stato di fatto in ragione di una condotta nella quale siano ravvisabili i presupposti logici e materiali di un possibile successivo ulteriore comportamento direttamente lesivo del possesso altrui (cfr. Cass. n. 5162/1994 e Cass. n. 14868/2000).

Sotto il profilo soggettivo va riconfermato il pacifico principio secondo cui, nell’azione di manutenzione, l’elemento psicologico della molestia possessoria consiste nella volontarietà del fatto, tale da comportare una diminuzione del godimento del bene da parte del possessore e nella consapevolezza della sua idoneità a determinare una modificazione o limitazione dell’esercizio di tale possesso, senza che sia, per converso, richiesta una specifica finalità di molestare il soggetto passivo, essendo sufficiente la coscienza e volontarietà del fatto compiuto a detrimento dell’altrui possesso, che pertanto si presume ove la turbativa sia oggettivamente dimostrata, a nulla rilevando anche l’eventuale convincimento di esercitare un proprio diritto (cfr. Cass. n. 22414/2004 e Cass. n. 107/2016, cit.).

Per tutte le spiegate ragioni il primo motivo è da ritenersi destituito di fondamento giuridico.

6. Anche la seconda censura – da esaminare, nella prospettiva tracciata dai ricorrenti, condizionatamente al rigetto del primo motivo – non coglie nel segno e deve essere disattesa.

E’, infatti, risaputo (v., ex plurimis, Cass. n. 7621/2002; Cass. n. 1795/2007 e, da ultimo, Cass. n. 4198/2016) che il possesso è tutelato da spogli e molestie indipendentemente dal suo eventuale carattere lesivo di diritti altrui, i quali, pertanto, non possono essere utilmente opposti all’attore in reintegrazione o manutenzione, essendo consentito al convenuto farli valere solo dopo l’esaurimento del giudizio possessorio e l’esecuzione del provvedimento che lo ha concluso (salva l’ipotesi di un pregiudizio irreparabile che ne possa derivare ai sensi della sentenza della Corte costituzionale n. 25/1992). L’eccezione “feci, sed iure feci”, pertanto, è ammessa in sede possessoria se investe non già lo “ius possidendi”, ma lo “ius possessionis”, dovendo consistere nella deduzione non di un diritto, ma di un altro possesso, incompatibile con quello vantato dall’attore, in quanto lo esclude o lo comprime o lo limita.

In altri termini, in tema di azioni a difesa del possesso, l’eccezione “feci sed iure feci”, potendo avere rilevanza solo se si contesti lo “ius possessionis” e non lo “ius possidendi”, deve ritenersi ammissibile se il convenuto tenda a dimostrare di avere agito nell’ambito della sua relazione di fatto (esclusiva o comune) con il bene, mentre deve ritenersi inammissibile se il convenuto miri a far accertare il suo diritto sul bene medesimo, poichè è da escludere che, in sede possessoria, la prova del possesso possa essere desunta dal regime, legale o convenzionale, del diritto reale corrispondente, essendo invece necessario (e sufficiente) che venga dimostrato l’esercizio di fatto del vantato possesso indipendentemente dal titolo.

Orbene, alla luce di tali principi, deve ritenersi ulteriormente condivisibile la pronuncia del giudice di appello nella parte in cui ha rilevato l’inammissibilità della suddetta eccezione, siccome dedotta dagli appellanti (nella spiegata qualità) a tutela dell’assunto esercizio di un diritto petitorio legittimante l’imposizione, a carico del fondo del confinante S., di una servitù prediale e, quindi, al di fuori dell’ambito del giudizio propriamente possessorio, non essendo stata fatta valere dai ricorrenti attuali una contrapposta situazione possessoria riconducibile ad una relazione di fatto con il bene (il muro posto a confine tra i due fondi) a tutela della quale aveva, invece, agito in origine l’attore (oggi controricorrente). E’, del resto, rimasta pacificamente esclusa la ricorrenza delle condizioni legittimanti la tutela urgente della condizione petitoria in pendenza del giudizio possessorio come autorizzata dalla citata sentenza del Giudice delle L. n. 25 del 1992, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 705 c.p.c., nella parte in cui subordina la proposizione del giudizio petitorio alla definizione della controversia possessoria ed alla esecuzione della relativa decisione anche quando da tale esecuzione possa derivare al convenuto pregiudizio irreparabile, insussistente nella fattispecie (senza trascurare la circostanza – accertata dal giudice di merito – che gli appellanti non avevano nemmeno dimostrato che l’apertura di un varco verso il giardino-cortile dell’appellato fosse l’unico modo possibile per rendere conforme lo stato dei luoghi alla normativa antincendio).

7. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna dei ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese della presente fase giudiziale di legittimità, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo, dandosi anche atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte degli stessi ricorrenti, sempre con vincolo solidale, del raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario al 15%, iva e cap nella misura e sulle voci come per legge.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte degli stessi ricorrenti, in solido, del raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

 

di Debora Alberici

No accertamento con redditometro se il figlio guadagna e contribuisce alle spese

Accolto il ricorso del contribuente cui era stato notificato l’atto impositivo per la seconda casa e l’auto di lusso

Nullo l’accertamento con redditometro quando i figli guadagnano e contribuiscono alle spese della famiglia.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che ha accolto il ricorso di un contribuente cui era stato notificato l’atto impositivo per la seconda casa e l’auto di lusso.

In particolare l’uomo aveva subito chiesto l’annullamento della pretesa erariale dal momento che il figlio maggiore lavorava e contribuiva ai bisogni della famiglia; il piccolo era disabile e percepiva una indennità di accompagnamento.

Tutte circostanze, queste, irrilevanti per l’ufficio che aveva accertato una maggiore Irpef con metodo sintetico.

Inutile impugnare di fronte a Ctp e Ctr. I giudici di merito hanno infatti confermato l’atto impositivo.

Ora la Cassazione ha ribaltato il verdetto, accogliendo il secondo motivo del ricorso presentato dalla difesa.

Per i Supremi giudici, la commissione regionale a fronte del contenuto della prova contraria concessa al contribuente in caso di accertamento sintetico, la quale deve vertere sulla dimostrazione che il maggior reddito determinato o determinabile è costituito «in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta», attraverso la produzione di «idonea documentazione» attestante «l'entità» e «la durata» del possesso e il riferimento alla complessiva posizione reddituale dell'intero nucleo familiare, costituito dai coniugi conviventi e dai figli, soprattutto minori, atteso che la presunzione del loro concorso alla produzione del reddito trova fondamento, ai fini dell' accertamento suddetto, nel vincolo che li lega, si è limitata a fare generico richiamo, sostanzialmente per relationem, alle verifiche operate dall’ufficio, a suo dire affatto esaminate dai giudici di prime cure, e vaghi accenni ai redditi della moglie e del solo figlio piccolo e alla percentuale di attribuzione della casa di abitazione, senza alcun accenno al possesso di redditi da risparmio e a quelli dell’intero nucleo familiare.

Ora la causa dovrà essere rivalutata dalla Ctr di Milano che dovrà tener conto delle indicazioni fornite in sede di legittimità. E quindi dovrà invalidare o ridurre l’accertamento a seconda di quanto il giovane ha contribuito all’acquisto e il mantenimento di auto e case.

Lipari, i ringraziamenti per l'opera dei tanti volontari VIDEO

di Domenico Palamara

Grazie a tutti i volontari che si sono sempre spesi per il bene della comunità. Intervengo dopo certe affermazioni poco gradevoli su chi vuole cambiare questo paese senza fini politici. Io ci sarò sempre, questo è sicuro.

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I nonni hanno diritto a conservare rapporti con i nipoti anche se sono in lite con i genitori

Respinto il ricorso di una mamma che chiedeva la revoca delle visite fra il figlio e il suocero

I nonni hanno diritto a conservare rapporti significativi con i nipoti anche se sono in conflitto con i genitori dei bambini.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con una ordinanza leggibile in fondo alla pagina, ha respinto il ricorso di una donna che chiedeva la revoca del diritto di visita dell’ascendente.

La prima sezione civile ha bocciato la tesi avanzata dalla difesa della signora ricordando che il diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, previsto dallo art. 317-bis c.c., non ha un carattere incondizionato, essendo il suo esercizio subordinato ad una valutazione del giudice avente di mira l’esclusivo interesse del minore, ovverosia la realizzazione di un progetto educativo e formativo, volto ad assicurare un sano ed equilibrato sviluppo della personalità del minore, nell'ambito del quale possa trovare spazio anche un’attiva partecipazione degli ascendenti, quale espressione del loro coinvolgimento nella sfera relazionale ed affettiva del nipote.

Tale coinvolgimento, costituente il presupposto indispensabile per una fruttuosa cooperazione degli ascendenti all’adempimento degli obblighi educativi e formativi dei genitori è stato condivisibilmente riconosciuto dalla Corte territoriale.

 

"Non serve il permesso di costruire", sulle cabine il Tar dà ragione a "La Torre": condannato il Comune
Costa degli Ulivi, società che gestisce il lido balneare di Mondello, aveva impugnato il provvedimento del Suap, che negava il rinnovo dell'autorizzazione per l'installazione nel periodo estivo delle cosiddette capanne. Ma per i giudici amministrativi si tratta di "opere stagionali" che rientrano "nell'ambito dell’edilizia libera"

Le cabine del Lido "La Torre" - montate dagli stabilimenti balneari durante la stagione estiva rientrano "nell'ambito dell’edilizia libera" e pertanto non necessitano del permesso di costruire.
Lo ha stabilito con una sentenza in forma semplificata la terza sezione del Tar - Guglielmo Passarelli Di Napoli (presidente), Aurora Lento (consigliere estensore) e Bartolo Salone (referendario) - che ha accolto il ricorso della Costa degli Ulivi, società che gestisce il lido "La Torre" di Mondello (assistita dagli avvocati Salvatore e Luigi Raimondi) a ridosso di Capo Gallo, nella causa contro il Comune che aveva negato il rinnovo all'autorizzazione per l'installazione delle cosiddette capanne.

Il contenzioso è iniziato nel 2014, quando il Suap - che fino a quel momento aveva rilasciato il rinnovo dell'autorizzazione annuale per lo stabilimento balneare - ha preteso la concessione edilizia. Costa degli Ulivi ha così impugnato davanti al Tar i provvedimenti che il Comune ha reiterato ogni anno fino al 2022.

Nella sentenza i giudici amministrativi si sono definitivamente pronunciati stabilendo che "le 'capanne' montate dalla ricorrente per i tre mesi della stagione balneare (dal 15 giugno al 15 settembre) e smontate alla scadenza, sono classificabili come 'opere stagionali', cosicché non sussistono i presupposti per chiedere il permesso di costruire", come tra l'altro sancito dal decreto legge 76 del 2020 e dalla legge regionale 23 del 2021. Motivo per cui è stato accoto il ricorso ed è stato annullato il provvedimento del Suap. Il Comune è stato quindi condannato al pagamento delle spese di giudizio, quantificate in 1.500 euro.

Per gli avvocati Salvatore e Luigi Raimondi, "sebbene il giudizio sia stato proposto soltanto dalla Costa degli Ulivi, la sentenza esprime un principio applicabile a tutti gli stabilimenti balneari siciliani".

 

Niente rimborso delle spese legali al dipendente che non ha perseguito l'interesse pubblico

Il nesso tra fatti contestati ed espletamento del servizio va valutato sulla base del cosiddetto rapporto di immedesimazione organica

Nel pubblico impiego la tutela legale dei dipendenti postula una serie imprescindibile di condizioni. Ossia che: il soggetto abbia la qualifica di dipendente pubblico; il giudizio sia promosso nei confronti del - e non dal - dipendente pubblico; ci sia una connessione dei fatti contestati con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali; una sentenza o un provvedimento ne abbia escluso la responsabilità;

 

di Dario Ferrara

Talking per interposta persona

Anche le molestie indirette integrano il reato ex articolo 612 bis Cp: pesano i messaggi indesiderati dell’uomo all’amica del cuore della persona offesa perché il pressing crea comunque ansia alla vittima

Sì allo stalking per interposta persona. Anche le molestie indirette fanno scattare il reato ex articolo 612 bis Cp: integra comunque il delitto di atti persecutori il pressing insostenibile che l’uomo esercita sull’amica del cuore della ragazza che ha messo nel mirino. E ciò perché crea comunque uno stato di ansia o di paura quando la vittima ne viene informata per il rapporto di vicinanza che ha con la destinataria dei messaggi indesiderati. È quanto emerge da una sentenza pubblicata nei giorni scorsi dalla quinta sezione penale della Cassazione.

A volte ritornano
Accolto il ricorso proposto dalla vittima: il giudizio prosegue in sede civile dopo l’annullamento dell’assoluzione pronunciata sul punto dalla Corte d’appello. L’uomo, infatti, è condannato in secondo grado soltanto per gli insistenti messaggi e vocali WhatsApp alla migliore amica della parte civile. Si tratta di un “recidivo”: è stato già condannato a quattro anni di carcere perché puntò la quindicenne oltre dieci anni orsono; la ragazza tentò perfino il suicidio per sottrarsi alle vessazioni. Scontata la pena, il persecutore si fa di nuovo vivo su Facebook: mette like a una foto della ragazza per farle capire che è tornato.

Ma per la Corte d’appello un episodio non basta a far scattare lo stalking, che è un reato necessariamente abituale. Sbaglia tuttavia il giudice di secondo grado a ignorare le pressioni sull’amica del cuore: su WhatsApp l’uomo fa un incessante riferimento all’oggetto del suo (patologico) desiderio, giurando e spergiurando di non essere lui la causa del tentato suicidio; risultato: la vittima sprofonda di nuovo «in un continuo stato d’ansia»; che è uno dei presupposti richiesti dalla norma incriminatrice per la configurabilità del reato insieme all’alterazione delle abitudini di vita. E per i quali possono avere rilievo anche comportamenti indirizzati soltanto in modo indiretto contro la persona offesa. La parola passa dunque al giudice civile.

 

di Debora Alberici

Inutilizzabili contro il cliente le dichiarazioni alla Finanza del fornitore che ha emesso le fatture false

Accolto il ricorso dell’imprenditore e annullata con rinvio la condanna

Sono inutilizzabili contro il cliente sospettato di frode fiscale le dichiarazioni rese dal fornitore alla Guardia di Finanza.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con una sentenza leggibile in fondo alla pagina, ha accolto il ricorso di un imprenditore che aveva usato fatture false per abbattere l’imponibile Iva.

Nella decisione viene ricostruito che dagli accertamenti già compiuti risultava l'esistenza di precisi indizi di reità nei confronti del fornitore del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, sicché la stessa avrebbe dovuto essere escussa dalla polizia giudiziaria con le garanzie ex art. 64 cod. proc. pen., richiamato dall'art. 350, comma 1, cod. proc. pen., con conseguente inutilizzabilità ex art. 63, comma 2, cod. proc. pen.

Pertanto, le dichiarazioni rese alla Guardia di Finanza e contenute nel processo verbale di constatazione non possono essere utilizzate nei confronti del ricorrente; la motivazione si fonda, per una parte rilevante, proprio su tali dichiarazioni, come indicato nel ricorso.

Ciò anche perché la ratio dell'art. 512 cod. proc. pen. è quella di recuperare le dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari, superando il principio del contraddittorio, quando sussiste l’oggettiva impossibilità di ripetizione; la norma non ha sana le inutilizzabilità assolute o relative, come quella prevista esplicitamente dall'art. 350, comma 7, cod. proc. pen.

 

Accesso agli atti, via libera alla copia della denuncia anonima

Il principio di trasparenza deve ritenersi sempre prevalente su quello alla riservatezza

Quando l'istanza di accesso del dipendente riguarda una segnalazione anonima contro di lui è evidente che lo scopo del richiedente è conoscerne il contenuto e non il suo autore; che peraltro è e resta sconosciuto persino all'Amministrazione. Ne deriva che in casi di questo genere ogni presunta esigenza di salvaguardare la riservatezza dell'autore dell'esposto da possibili recriminazioni o ritorsioni non sussiste.

 

di Dario Ferrara

Il conducente evita la multa solo se col cambio di residenza ha comunicato anche la targa dell’auto

Solo quando il privato tiene una condotta incolpevole l’omesso aggiornamento dei registri va a scapito dell’amministrazione, che risponde della mancata collaborazione tra uffici nella gestione dei database

La multa è recapitata al vecchio indirizzo dell’automobilista e la notifica si perfeziona per compiuta giacenza, anche se il trasgressore lamenta di non essere mai venuto a conoscenza del verbale. Attenzione, però: in caso di cambio di residenza il mancato aggiornamento dei registri automobilistici può andare a discapito della pubblica amministrazione soltanto se il privato ha tenuto una condotta incolpevole.

E dunque solo se, quando ha comunicato la variazione al Comune, ha specificato anche il numero di targa dei veicoli di sua proprietà: senza una tale indicazione non si può ritenere responsabile l’amministrazione per la mancata collaborazione fra gli uffici nella gestione delle banche dati. È quanto emerge da un’ordinanza pubblicata l’11 luglio 2022 dalla sesta sezione civile della Cassazione (e qui leggibile in fondo all’articolo).

Lettura abrogante
Dopo una doppia sconfitta in sede di merito trova ingresso uno dei motivi di ricorso proposti dal Comune, che denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 201 Cds e 247 del regolamento di esecuzione Cds. La notifica del verbale, nella specie, è effettuata all’indirizzo del trasgressore che emerge dalla Motorizzazione civile e che coincide con quello che ancora risulta dal Pra, il pubblico registro automobilistico. Il punto è pochi giorni prima che sia spedito l’atto l’interessato comunica al Comune di essersi trasferito in un paese vicino.

Ma sbaglia il Tribunale a ritenere irrilevante accertare se all’atto della richiesta di cambio di residenza l’interessato abbia indicato in modo corretto il numero di targa del veicolo sanzionato per l’infrazione: l’interpretazione del giudice del merito finisce per abrogare parte del primo comma ex articolo 247 del regolamento di esecuzione Cds laddove impone anche di indicare i dati di identificazione dei veicoli per i quali deve avvenire l’annotazione per i registri indicati dall’articolo 201 Cds.

Così facendo, una volta che la notifica non si perfeziona con la consegna al destinatario, sarebbe sempre l’amministrazione a doverne verificare l’attuale residenza anagrafica anche se l’interessato non ha indicato il numero di targa consentendo al Comune di comunicare il cambio ai registri dei veicoli. Parola al giudice del rinvio.

di Debora Alberici

I nonni hanno diritto a conservare rapporti con i nipoti anche se sono in lite con i genitori

Respinto il ricorso di una mamma che chiedeva la revoca delle visite fra il figlio e il suocero

I nonni hanno diritto a conservare rapporti significativi con i nipoti anche se sono in conflitto con i genitori dei bambini.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con una ordinanza leggibile in fondo alla pagina, ha respinto il ricorso di una donna che chiedeva la revoca del diritto di visita dell’ascendente.

La prima sezione civile ha bocciato la tesi avanzata dalla difesa della signora ricordando che il diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, previsto dallo art. 317-bis c.c., non ha un carattere incondizionato, essendo il suo esercizio subordinato ad una valutazione del giudice avente di mira l’esclusivo interesse del minore, ovverosia la realizzazione di un progetto educativo e formativo, volto ad assicurare un sano ed equilibrato sviluppo della personalità del minore, nell'ambito del quale possa trovare spazio anche un’attiva partecipazione degli ascendenti, quale espressione del loro coinvolgimento nella sfera relazionale ed affettiva del nipote.

Tale coinvolgimento, costituente il presupposto indispensabile per una fruttuosa cooperazione degli ascendenti all’adempimento degli obblighi educativi e formativi dei genitori è stato condivisibilmente riconosciuto dalla Corte territoriale.

 

di Dario Ferrara

Anche per posta privata la richiesta di risarcimento all’assicurazione

L’istanza può essere inviata con mezzi equipollenti alla raccomandata con avviso di ricevimento che consentono di provare l’avvenuta ricezione. Smentita l’equiparazione all’atto processuale

Dopo l’incidente stradale la richiesta di risarcimento può essere inviata all’assicurazione per posta privata, a patto che si possa provare l’avvenuta ricezione da parte della destinataria. È esclusa l’equiparazione della mera istanza agli atti processuali, la cui notifica non è sanabile quando risulta eseguita da un servizio non gestito da Poste Italiane spa. È quanto emerge da un’ordinanza pubblicata il 5 luglio 2022 dalla sesta sezione civile della Cassazione (e qui leggibile in fondo all’articolo).

Tutela anticipata
È accolto dopo una doppia sconfitta in sede di merito il ricorso proposto dalla danneggiata nel sinistro: la sua auto è stata ammaccata da un furgone impegnato nella manovra di parcheggio. La signora conviene in giudizio il proprietario del veicolo e ai sensi dell’articolo 149 Cda anche l’assicurazione. Ma la domanda di risarcimento è dichiarata improponibile e improcedibile ex articolo 145 Cda. E ciò sul rilievo che la preventiva richiesta di risarcimento all’assicurazione deve essere effettuata tramite raccomandata con avviso di ricevimento: «una formalità che non ammette equipollenti», secondo i giudici del merito. E nella specie è pacifico che la richiesta sia stata inoltrata con la posta privata. In realtà i mezzi equipollenti sono ammessi nella misura in cui consentano di dimostrare che il destinatario ha davvero ricevuto l’atto. Si tratta, d’altronde, di una mera istanza risarcitoria che assolve la funzione di consentire un’anticipata e satisfattiva tutela del danneggiato già nella fase stragiudiziale.

Atto distinto
L’equiparazione all’atto giudiziario, poi, è esclusa anche dal fatto che la richiesta di risarcimento deve essere effettuata con un atto distinto da quello con cui viene esperita l’azione per il ristoro. La parola passa al giudice del rinvio.

 

di Vanessa Ranucci

Non punibile per particolare tenuità del fatto chi porta un coltello in auto per paura di attraversare una zona malfamata

La condotta di un imputato è stata ritenuta di esigua offensività in quanto non collegabile a eventuali interferenze illecite nella sfera giuridica di terzi

Non risponde del reato di porto ingiustificato di coltello l'automobilista che lo porta in auto per paura di attraversare una zona malfamata: la particolare tenuità del fatto rende l'imputato non punibile. Lo ha stabilito la Cassazione (provvedimento leggibile in fondo all'articolo) che ha ritenuto la condotta di esigua offensività in quanto non collegabile a eventuali interferenze illecite nella sfera giuridica di terzi e per questo ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata.

Il Tribunale aveva ritenuto un quarantasettenne responsabile del reato di porto ingiustificato di un coltello trovato all'interno dell’autovettura di cui era alla guida, e, riconosciuta l'ipotesi di lieve entità, lo aveva condannato alla pena di 800 euro di ammenda.

Il ricorrente, in sede di legittimità, ha dichiarato che il giudice non si era pronunciato sulla sua richiesta di applicare l'esclusione della punibilità di cui all’art. 131 bis Cp, ignorando gli elementi alla base della particolare tenuità del fatto, nonostante avesse riconosciuto le circostanze attenuanti generiche e la circostanza attenuante stabilendo una pena prossima al minimo edittale.

Il Palazzaccio ha ribaltato il giudizio espresso dal giudice territoriale ritenendolo ingiustificato visto che aveva ritenuto sussistente la circostanza attenuante della lieve entità. Al riguardo, infatti, il collegio ha ricordato che “il mancato riconoscimento della circostanza attenuante del caso di lieve entità impedisce che sia esclusa la punibilità per la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis Cp e che, viceversa, l'esclusione della punibilità non impedisce il riconoscimento della circostanza attenuante; ciò in quanto la particolare tenuità del fatto che esclude la punibilità presenta una minore rilevanza offensiva rispetto alla lieve entità che attenua il reato".

Insomma, la sentenza aveva ritenuto la condotta dell'imputato di esigua offensività, riconoscendo la sussistenza delle circostanze attenuanti generiche e della circostanza attenuante del caso di lieve entità di cui all'art. 4, comma terzo, legge 18 aprile 1975, n. 110: per questo, aveva irrogato la sola pena dell’ammenda in misura inferiore al minimo edittale, sottolineando che la condotta non era collegabile a eventuali interferenze illecite nella sfera giuridica di terzi e considerando plausibile l’ipotesi che il porto del coltello fosse legato al timore dell’imputato di viaggiare da solo in macchina in una zona malfamata.

Per questo, gli ermellini hanno annullato senza rinvio la sentenza impugnata perché l'imputato non è punibile per la particolare tenuità del fatto.

 

Non punibile per particolare tenuità del fatto chi porta un coltello in auto per paura di attraversare una zona malfamata

La condotta di un imputato è stata ritenuta di esigua offensività in quanto non collegabile a eventuali interferenze illecite nella sfera giuridica di terzi

Non risponde del reato di porto ingiustificato di coltello l'automobilista che lo porta in auto per paura di attraversare una zona malfamata: la particolare tenuità del fatto rende l'imputato non punibile. Lo ha stabilito la Cassazione (provvedimento leggibile in fondo all'articolo) che ha ritenuto la condotta di esigua offensività in quanto non collegabile a eventuali interferenze illecite nella sfera giuridica di terzi e per questo ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata.

Il Tribunale aveva ritenuto un quarantasettenne responsabile del reato di porto ingiustificato di un coltello trovato all'interno dell’autovettura di cui era alla guida, e, riconosciuta l'ipotesi di lieve entità, lo aveva condannato alla pena di 800 euro di ammenda.

Il ricorrente, in sede di legittimità, ha dichiarato che il giudice non si era pronunciato sulla sua richiesta di applicare l'esclusione della punibilità di cui all’art. 131 bis Cp, ignorando gli elementi alla base della particolare tenuità del fatto, nonostante avesse riconosciuto le circostanze attenuanti generiche e la circostanza attenuante stabilendo una pena prossima al minimo edittale.

Il Palazzaccio ha ribaltato il giudizio espresso dal giudice territoriale ritenendolo ingiustificato visto che aveva ritenuto sussistente la circostanza attenuante della lieve entità. Al riguardo, infatti, il collegio ha ricordato che “il mancato riconoscimento della circostanza attenuante del caso di lieve entità impedisce che sia esclusa la punibilità per la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis Cp e che, viceversa, l'esclusione della punibilità non impedisce il riconoscimento della circostanza attenuante; ciò in quanto la particolare tenuità del fatto che esclude la punibilità presenta una minore rilevanza offensiva rispetto alla lieve entità che attenua il reato".

Insomma, la sentenza aveva ritenuto la condotta dell'imputato di esigua offensività, riconoscendo la sussistenza delle circostanze attenuanti generiche e della circostanza attenuante del caso di lieve entità di cui all'art. 4, comma terzo, legge 18 aprile 1975, n. 110: per questo, aveva irrogato la sola pena dell’ammenda in misura inferiore al minimo edittale, sottolineando che la condotta non era collegabile a eventuali interferenze illecite nella sfera giuridica di terzi e considerando plausibile l’ipotesi che il porto del coltello fosse legato al timore dell’imputato di viaggiare da solo in macchina in una zona malfamata.

Per questo, gli ermellini hanno annullato senza rinvio la sentenza impugnata perché l'imputato non è punibile per la particolare tenuità del fatto.

 

Il Tar Palermo blocca demolizione in centro storico e smentisce l’operato del comune di Agrigento e della Soprintendenza

La sig.ra T.E. è proprietaria di un’unità immobiliare sita in Agrigento, all’interno del perimetro del Piano Particolareggiato del Centro Storico di Agrigento.

Nel 2014, durante l’esecuzione di lavori di ripristino, regolarmente assentiti dal Comune di Agrigento, l’immobile è crollato.

Successivamente, il Comune di Agrigento con permesso di costruire del luglio 2021, ha approvato il progetto di fedele ricostruzione dell’immobile crollato, consentendo, tra l’altro, il miglioramento delle strutture portanti da realizzarsi in cemento armato.

Per la tipologia di intervento, il Comune di Agrigento, alla luce della normativa vigente aveva ritenuto che l’intervento in questione, ai sensi del D.P.R. 31/2017 non rientrasse tra quelli soggetti a preventivo parere da parte della Soprintendenza.

Nel corso dei lavori, tuttavia, a seguito di un esposto, il Comune di Agrigento ha sospeso i lavori ritenendo opportuno di dover acquisire il parere della competente Soprintendenza.

La Soprintendenza di Agrigento, nel mese di gennaio 2022 , sulla richiesta del Comune di Agrigento, ha espresso parere negativo ritenendo che l’intervento proposto, nella parte in cui prevede una modifica delle strutture portanti dell’edificio, sarebbe risultato in contrasto con l’art. 16 delle norme tecniche di attuazione (N.T.A.) del Piano Particolareggiato del Centro storico (P.P.C.S.) del Comune di Agrigento, secondo il quale sarebbe consentita la demolizione e ricostruzione soltanto “con l’uso di tecnologie analoghe al preesistente”.

A seguito del parere della Soprintendenza, il Comune di Agrigento oltre a confermare la sospensione dei lavori, ha disposto la revoca dei titoli edilizi rilasciati in precedenza ed ha intimato l’integrale demolizione delle opere realizzate.

A questo punto, la sig.ra T.E. con il patrocinio degli Avvocati Girolamo Rubino e Vincenzo Airo’ ha proposto ricorso innanzi al TAR Palermo deducendo diversi motivi di censura rispetto all’operato del Comune e della Soprintendenza di Agrigento.

In particolare, gli Avv.ti Rubino e Airo’, oltre a contestare la mancata attivazione del contraddittorio procedimentale e le regole che disciplinano il potere di autotutela in tema di titoli edilizi, hanno censurato nel merito il parere della Soprintendenza di Agrigento rilevando come fosse frutto di una lettura erronea delle disposizioni del P.P. del Centro Storico anche alla luce delle novità legislative introdotte successivamente alla sua adozione.

Secondo i legali, infatti, l’assunto della Soprintendenza di Agrigento secondo il quale l’intervento di fedele ricostruzione dell’edificio con intelaiatura in c.a, risulterebbe in contrasto con l’art. 16 delle NTA del P.P.C.S., appare erroneo poiché tale previsione contempla gli interventi di “ristrutturazione urbanistica”, mentre alla luce delle sopravvenienze normative l’intervento in questione, quale “ristrutturazione edilizia”, deve trovare la sua disciplina nelle previsioni degli artt. 13, 14 e 15 che consentono espressamente la possibilità di sostituire le strutture portanti con miglioramento della statica complessiva dell’edificio “con le tecnologie più appropriate”.

In accoglimento delle tesi degli Avv.ti Rubino e Airo’, il TAR Palermo ha accolto la domanda cautelare volta alla sospensione dei provvedimenti impugnati, ritenendo che: <

Considerato, sotto altro profilo, che ricorre il pericolo di un danno grave ed irreparabile, atteso che è stata disposta la demolizione delle opere realizzate;>>.

Per effetto del pronunciamento del TAR Palermo la sig.ra T.E. non dovrà demolire le opere realizzate nell’attesa della definizione del giudizio nel merito.

 

Quando l’emergenza chiama, anche l’infermiere può intervenire

Non viene integrato l’esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p. in ogni caso in cui l’ausilio “non professionale”, seppur invasivo sul paziente, si palesi necessario e ne incrementi le possibilità di sopravvivenza. L’integrazione della norma penale citata, che preserva le riserve professionali previste dal legislatore, va indagata in concreto e mediante specifica analitica delle circostanze di fatto: non tutti gli esercizi di professionalità riservate da parte di chi non avrebbe titolo sono puniti dalla norma penale.

Così si è espressa la Corte di Cassazione, con sentenza n. 24032, depositata il 22 giugno.
Il fatto. Un cardiologo professionista veniva condannato per aver consentito ad un infermiere – addetto alle vendite di una società che produceva strumenti da utilizzare per l'esecuzione degli interventi nelle sale operatorie e che si trovava nei luoghi dell'operazione – di intervenire sul paziente nel corso di una imprevista emergenza coronarica non altrimenti risolvibile

1. Con sentenza del 26 aprile 2021 la Corte di appello di (omissis) ha confermato la sentenza di primo grado, che dichiarava G.M.M. - cardiologo in servizio presso l'Ospedale di (omissis) - colpevole del reato di cui agli artt. 110,81,348 c.p. e lo condannava alla pena di mesi tre di reclusione, oltre al risarcimento dei danni e al pagamento di una provvisionale in favore della parte civile A.S.L.

 

Biliardino, flipper e ping pong, o si paga la tassa o multa. Una nuova normativa li equipara al videopoker
A farne le spese è già stato un gestore pugliese risultato inadempiente rispetto a quanto disposto dal decreto del direttore dell'Agenzia Dogane e Monopoli

Biliardino, flipper e ping pong, o si paga la tassa o multa. Una nuova normativa li equipara al videopoker

Arriva la multa per il biliardino in spiaggia: gli esercenti con calciobalilla senza “nulla osta di messa in esercizio” rischiano multe fino a 4mila euro.

In base ad una nuova normativa, infatti, ping pong, flipper e biliardino vengono equiparati a dispositivi e giochi come il videopoker, il gioco d’azzardo e le scommesse.

Biliardino e flipper come videopoker e gioco d’azzardo
A farne le spese è già stato un gestore pugliese risultato inadempiente rispetto a quanto disposto dal decreto del direttore dell’Agenzia Dogane e Monopoli del 1° giugno 2021.

Ma anche il Parlamento si muove. Il senatore Maurizio Gasparri ha annunciato una interrogazione per esentare il calciobalilla dalle disposizioni.

Anche i parlamentari della Lega Daniele Belotti e Simona Pergreffi chiedono che il biliardino e il ping pong siano esentati dalla normativa.

Biliardino, ping pong e flipper: o la tassa o la multa
Intanto diversi stabilimenti balneari per non pagare la tassa si stanno affrettando ad eliminare flipper, biliardini e tavoli da ping pong.

“Per non correre rischi – hanno spiegato da uno stabilimento del litorale pisano al quotidiano il Tirreno – noi non l’abbiamo proprio messo il calciobalilla, anche perché pagare una tassa in più per questo è davvero ridicolo. Dispiace molto, era una forma di intrattenimento per famiglie e giovani. Il biliardino è storia, è divertimento”.

 

di Dario Ferrara

Il Governo ha un anno per riformare ordinamento e consigli giudiziari. Con meno toghe fuori ruolo

In vigore la legge 71/2022: da rivedere il concorso in magistratura, l’approvazione delle tabelle organizzative, il numero degli incarichi direttivi, i criteri per diventare consigliere di Cassazione

È in vigore la legge 71/2022 che delega il Governo a riformare l’ordinamento giudiziario, mentre le norme sul Consiglio superiore della magistratura sono immediatamente precettive (cfr. in allegato il testo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 142/22). Palazzo Chigi ha un anno di tempo

per adottare i provvedimenti attuativi, che dunque dovranno essere approvati entro il 20 giugno 2023. Quattro i filoni principali per i decreti legislativi: riduzione e revisione degli incarichi direttivi; restyling dei consigli giudiziari con più voce in capitolo agli avvocati; modifica del concorso per diventare giudice e pubblico ministero; riordino dei criteri e riduzione del numero delle toghe collocate fuori ruolo.

 

Rumore di ristoranti e locali, così lo stop e i danni da movida
Cassazione 06 Giugno 2022

Le immissioni si possono impedire solo se superano la «normale tollerabilità». Ma la soglia sopportabile va stabilita di volta in volta in base a luogo e situazione

I dehors di bar, street food, locali e ristoranti in genere hanno invaso piazze e strade ormai in modo permanente, spinti anche dalla necessità di stare all’aperto per contrastare la diffusione dei contagi. Ma per chi abita sopra o nelle vicinanze dei pubblici ristori resta da risolvere l’annoso problema del rumore strettamente collegato alla loro frequentazione, spesso sino a tarda ora.

 

Comizi politici e diffamazione, seppur "tagliente" la critica è lecita ma deve riguardare le idee politiche

Per la sussistenza dell'esimente dell'esercizio del diritto di critica, anche putativa, è necessario, dunque, che quanto riferito non trasmodi in gratuiti attacchi alla sfera personale

Il diritto di critica si sostanzia nella manifestazione di un giudizio valutativo e presuppone un fatto che è assunto a oggetto o a spunto del discorso critico. Con la recente sentenza 19181/2022 la Corte di cassazione ha chiarito che nelle competizioni politiche e nei “comizi” è lecito criticare, disapprovare e screditare, anche con asprezza, le azioni degli avversari, esercitando così il fondamentale diritto di critica garantito dall'articolo 21 della Costituzione.

 

Covid: licenziato il medico che non ha comunicato l’esito del tampone
Con sentenza del 19 aprile 2022 il Tribunale di Pavia ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un medico di struttura sanitaria, adibito alle “attività tamponi”, che ha omesso di comunicare l’esito di un tampone molecolare Covid-19 di collega di reparto, poi risultato positivo: il contagio è stato scoperto solo in ritardo ad iniziativa del diretto interessato e non del medico cui era stata affidata, fra l’altro, la specifica incombenza di

comunicare immediatamente l’esito del tampone. In tal modo, si afferma nella motivazione, l’incaricato di comunicare i referti ha causato, con la sua negligenza, un serio pericolo per la salute sia del diretto interessato, sia dei pazienti e colleghi di reparto. Il medico poi licenziato s’è difeso affermando che la mancata comunicazione dell’esito del tampone poteva derivare da difetto organizzativo oppure dalla mancata conoscenza di modifica dell’organizzazione: tuttavia

con l’istruttoria è risultato il contrario ed il licenziamento per giusta causa è stato confermato. La lunga e sofferta sentenza del Tribunale di Pavia dà un quadro preciso di quel che è stata la pandemia da Covid-19, nel massimo dell’allarme quando il contagio significava serio rischio di morte ed ogni errore era considerato potenzialmente letale.

 

TARSU/TARI - Riduzione della superficie tassabile solo in caso dell'autosmaltimento fornita dal soggetto occupante

La riduzione della superfice tassabile ai fini TARSU /TARI è possibile solo in caso di autosmaltimento dei rifiuti speciali non assimilabili agli urbani da parte del produttore.

E' quanto ha disposto dalla Corte di Cassazione con la Sentenza N°14487 del 0505/2022 . Anche in caso di assolvimento dell'onere della prova ( in ordine all'autosmaltimento) ex art.2697 cc da parte del soggetto interessato al beneficio, comunque, a suo carico la debenza Tarsu.

 

Cassazione: è corretto che i giudici onorari guadagnino meno dei togati

Giudici togati e onorari sono diversi, quello onorario non deve superare un concorso, non può trattare materie riservate al togato, non svolge l'attività in modo professionale e a tempo indeterminato, il compenso quindi non può essere uguale.
Giudici onorari diversi dai togati: corretto il compenso inferiore

Va rigettato il ricorso del giudice onorario che, ritenendo di svolgere gli stessi compiti e funzioni del magistrato ordinario, chiede lo stesso trattamento economico e normativo. La domanda non può essere accolta perché le due figure sono assai diverse nelle modalità di accesso al ruolo, nell'impegno profuso, nelle difficoltà delle materie di competenza, nel diverso rapporto giuridico esistente con la PA e nell'accesso al ruolo.

Non rileva che il giudice onorario, nello svolgere funzioni giurisdizionali assicuri, al pari del magistrato ordinario, un processo equo e giusto ai cittadini come sancito dalla Cedu. Posizioni differenti non possono essere trattate nello stesso modo. Queste in sintesi le conclusioni della Cassazione n. 13973/2022 .

La vicenda processuale
Un giudice onorario ricorre in Tribunale contro la Presidenza del Consiglio, il Ministero della Giustizia e quello delle Finanze, chiedendo la condanna al pagamento di quanto erogatole in meno rispetto a quanto previsto in favore dei magistrati ordinari.

La domanda viene rigettata in primo e secondo grado. Per la Corte di Appello il rapporto del giudice onorario non è riconducibile a un rapporto di lavoro subordinato, per cui è inapplicabile l'art. 36 della Costituzione, così come l'art. 6 della Convenzione Internazionale sulla salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Occorre poi considerare che i togati possono svolgere anche altre attività (es. avvocato) e quindi percepire entrate ulteriori, condizione di cui non beneficiano i magistrati ordinari. I compensi delle due categorie sono commisurati al ruolo e al fatto che i togati non possono trattare certe cause.

Il giudice onorario ricorre quindi in Cassazione, sollevando tre motivi.

Con il primo denuncia la violazione dell'art 3 e 108 comma 2 Costituzione in relazione alla tabella allegata al DPR 756/1965 e ai compensi variabili per il GOT di cui all'art. 64 del DPR 115/2002.
Con il secondo lamenta la violazione dell'art. 36 e 108 comma 2 della Costituzione in relazione all'art. 64 del DPR n. 115/2002.
Con il terzo infine contesta la violazione dell'art. 6 della Convenzione di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

Per la ricorrente la Corte di appello non ha rispettato il principio di uguaglianza, che impone, in situazioni identiche, lo stesso trattamento. Il rapporto di lavoro del GOT dovrebbe essere considerato come rapporto dipendente infatti, non parasubordinato.

L'impegno lavorativo dei GOT prevede dalle 42 alle 56 ore settimanali di attività che precludono nella pratica lo svolgimento di u'altra attività. Le funzioni inoltre sono identiche, ma il compenso del GOT non consente alcuna indipendenza, né la possibilità di fruire di ferie o riposo settimanale.

L'art. 6 della Convenzione europea non può ritenere legittimi dei compensi meramente simbolici che non tengano conto dell'impegno e delle ore di lavoro, se si vogliono salvaguardare l'indipendenza e l'imparzialità del giudice.

Gli Ermellini rigettano il ricorso ritenendo tutte le doglianze sollevate del tutto infondate.

Prima di tutto non è vero che le funzioni del magistrato ordinario e togato coincidono. L'art. 106 della Costituzione evidenzia infatti che mentre i magistrati togati vengono assunti per concorso quelli onorari vengono nominati anche in modalità elettiva.


La diversità tra le due posizioni è stata sancita anche dalla Consulta, la quale ha affermato di conseguenza che posizioni differenti devono essere disciplinate in modo diverso. I magistrati ordinari svolgono infatti professionalmente la funzione giudicante, condizione che non viene soddisfatta per quanto riguarda i giudici onorari. Questo aspetto si riflette anche sul compenso, anche perché gli onorari possono svolgere attività ulteriori nel settore, come quello di avvocati ad esempio, che consente loro di guadagnare cifre ulteriori rispetto a quanto percepito per l'incarico di giudice onorario.

Non sono quindi assimilabili le posizioni di magistrati onorari e ordinari, come sancito in diverse occasioni soprattutto dalla Consulta, evidenziandone le differenze e quindi l'impossibilità di un pari trattamento.

I giudici togati sono dipendenti pubblici, gli altri sono funzionari onorari, in relazione ai quali difetta il superamento di un concorso, l'inserimento del dipendente nella struttura organizzativa della PA, lo svolgimento del rapporto nel rispetto dello Statuto del Pubblico impiego, la durata a tempo indeterminato, la quantità e qualità dell'attività svolta, visto che il togato può trattare materie che sono precluse all'onorario.

Solo il magistrato togato impegna le proprie energie in modo continuativo, integrale ed esclusivo allo svolgimento della funzione giudicante. L'onorario invece svolge la funzione giudicante in modalità temporanea e parziale, per questo riceve un compenso indennitario.

Non sussistono i presupposti quindi per ritenere paritarie le due posizioni.

La stessa Corte di Strasburgo invocata dalla ricorrente, ha sottolineato che solo il magistrato togato deve superare un concorso, ragione per la quale sono riservate solo a questo le materie più complesse.

Le due figure sono assai diverse, così come i ruoli, l'entità e la modalità di erogazione del trattamento economico.


Diversità che da ultimo si scontrano con la tesi della ricorrente, per la quale il trattamento economico dovrebbe essere il medesimo perché la Cedu all'art. 6, nel prevedere il diritto ad un equo processo, che viene garantito ai cittadini grazie anche all'attività dei giudici onorari.

Il raffronto sul compenso, come già evidenziato, è giustificato dalla differenze tra le due figure. Valutazioni ulteriori sono precluse.

 

di Vanessa Ranucci

Va arretrato il muro di contenimento del terrapieno artificiale che delinea un fondo perché è una costruzione

L'opera rientra nella nozione di edifici e il regolamento comunale è una norma secondaria che non può modificare la disciplina codicistica

Va arretrato il muro di contenimento del terrapieno artificiale che delinea un fondo perché è una costruzione. Lo ha stabilito oggi la seconda sezione civile della Cassazione che, con l'ordinanza 12203/22, ha ricordato che i regolamenti comunali sono norme secondarie che non possono modificare la nozione codicistica sia pure al limitato fine del calcolo delle distanze legali.

Il proprietario di un immobile aveva chiesto che il confinante arretrasse il muro di contenimento da lui realizzato violando la distanza di cinque metri dal confine prescritta dal Piano Regolatore Generale del Comune e dalle relative norme tecniche di attuazione sul presupposto che l’opera potesse essere considerata veduta ai sensi della suddetta norma.

Il Tribunale aveva respinto la domanda, decisione poi confermata in sede d'appello. Secondo il giudice di merito il muro costituiva una costruzione, svolgendo funzione di contenimento di un terrapieno artificiale in conseguenza di un’alterazione dell’originario piano di campagna, e in quanto tale soggetta al rispetto delle distanze legali. Tuttavia, non si trovava applicazione tale distanza di cinque metri dal confine stabilita dal Prg del Comune se non per i soli edifici.

Il ricorrente, in sede di legittimità, ha lamentato la decisione di merito nel ritenere che l’opera non rientrasse nella nozione di “edificio” e che la cognizione di “costruzione” utilizzata all’art. 873 Cc andava considerata unica.

Il Palazzaccio ha accolto il motivo ricordando che “mentre non può essere considerato come costruzione, ai fini dell'osservanza delle distanze legali, il muro che, nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il fondo, assolve anche alla funzione di sostegno e contenimento del declivio naturale per evitare smottamenti o frane, all'inverso, nel caso di dislivello di origine artificiale, deve essere considerato costruzione in senso tecnico-giuridico, ai fini della normativa sulle distanze legali, il muro di fabbrica che assolve in modo permanente e definitivo anche alla funzione di contenimento del terrapieno creato dall'opera dell’uomo, o che questa abbia pure

soltanto accentuato rispetto a quello già esistente per la natura dei luoghi. Basta, dunque, che l'andamento altimetrico del piano di campagna - originariamente livellato sul confine tra due fondi - sia stato artificialmente modificato per opera dell’uomo a far ritenere che il muro di cinta abbia la funzione di contenere il terrapieno creato "ex novo" con l’apporto di terra e pietrame (senza che abbia rilievo chi, dei proprietari confinanti, abbia in via esclusiva o prevalente realizzato tale intervento), e vada, per l'effetto, equiparato a un muro di fabbrica, come tale assoggettato al rispetto delle distanze legali tra costruzioni”.

Inoltre, “in tema di distanze legali, esiste, ai sensi dell'art. 873 Cc, una nozione unica di costruzione, consistente in qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, indipendentemente dalla tecnica costruttiva adoperata, anche se realizzata mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso a un

corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa. I regolamenti comunali, pertanto, essendo norme secondarie, non possono modificare tale nozione codicistica, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, poiché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 Cc ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore”. Pertanto, la causa è stata rinviata alla Corte d'appello.

 

 

La voltura catastale ha rilievo sia agli effetti civili che a quelli catastali ed è idonea a integrare un'accettazione tacita dell’eredità. Inoltre, non serve riportare il contenuto dell'atto perché basta indicare di cosa si tratta. Lo ha stabilito oggi la terza sezione civile della Cassazione con l'ordinanza 12259/22.

Il ricorrente, in base a una scrittura privata dalla quale risultava creditore, aveva ottenuto un decreto ingiuntivo nei confronti degli eredi legittimi, i quali avevano proposto opposizione contestando sia la loro qualità di eredi, essendo essi semplicemente chiamati all'eredità, sia la validità e l'efficacia della scrittura privata posta a base dell'ingiunzione.

Il giudice d'appello ha ritenuto che la regola sulla mancata contestazione, di cui all’articolo 115 cpc, non si poteva applicare ratione temporis; che comunque spettava all'attore di provare la qualità di eredi dei soggetti convenuti e che, trattandosi di un'eccezione in senso lato, era nella disponibilità del giudice prenderla in considerazione a prescindere dalla sua tardività.

Il ricorrente, in sede di legittimità, ha affermato di avere depositato in appello la loro denuncia di successione con relativa voltura catastale, e di averlo fatto solo in quel grado di giudizio poiché prima non era possibile per fatto imputabile ai convenuti. Inoltre, nella comparsa di costituzione in appello la voltura catastale era stata invocata a dimostrazione dell'accettazione implicita o tacita di eredità e, nella comparsa conclusionale, essi avevano obiettato che quell’atto non era idoneo a dimostrare l'avvenuta accettazione della eredità.

Per Piazza Cavour il motivo è fondato. Il collegio ha ritenuto irrilevante che il ricorrente non avesse riportato il contenuto dell'atto in quanto è sufficiente che egli abbia indicato di cosa si trattasse, cioè della voltura catastale di beni immobili a favore degli eredi, per valutare la rilevanza dell'atto ai fini della decisione: si tratta di un atto che ha un contenuto prestabilito, a effetto legale, e dunque non occorre riportarne il contenuto per decidere della sua rilevanza. Insomma, a differenza della mera denuncia di successione, che ha valore esclusivamente fiscale, la voltura catastale ha invece rilievo sia agli effetti civili che a quelli catastali ed è un atto idoneo a integrare un'accettazione tacita dell’eredità. Pertanto, al giudice del rinvio il nuovo giudizio.

 

 



 

 

L’appello contro la sentenza di separazione va trattato con rito camerale e introdotto con ricorso e non con citazione

Respinto il ricorso di un ex marito che ha depositato l'atto oltre il termine

L’appello contro la sentenza di separazione va trattato con rito camerale e introdotto con ricorso e non con atto di citazione. Lo ha stabilito oggi la prima sezione civile della Cassazione con l’ordinanza 11964/22.

Il gravame promosso da un ex marito in un giudizio di separazione era stato dichiarato inammissibile dalla Corte d’appello perché proposto con atto di citazione depositato in cancelleria oltre il prescritto termine breve, benché la sua notificazione fosse avvenuta entro il termine. Per il Giudice di merito, l’appello contro le sentenze di separazione deve essere trattato con il rito camerale, il quale si applica all’intero procedimento, dall’atto introduttivo - ricorso, anziché citazione - alla decisione in camera di consiglio.

Il ricorrente, in sede di legittimità, ha lamentato la decisione di merito ritenendo tempestiva e rituale l'impugnativa di appello alla sentenza di primo grado con l’atto di citazione invece che del ricorso.

Per i Supremi giudici, concordi con il magistrato distrettuale, il ricorso va respinto. “L'appello avverso le sentenze di divorzio rese dal tribunale, - si legge nel documento - ai sensi dell’art. 4, comma 12, della legge n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 8 della legge n. 74 del 1987, - a norma del quale "l'appello è deciso in camera di consiglio" - è soggetto al rito camerale, sia quanto alla fase decisoria sia quanto all'intero procedimento, e quindi anche con riferimento all'atto introduttivo, il quale deve avere la forma del ricorso ed essere depositato in cancelleria nel termine perentorio di cui agli artt. 325 e 327 Cpc, con la conseguenza che l'appello, che sia proposto con citazione, anziché con ricorso, può considerarsi tempestivo, in applicazione del principio di conservazione dagli atti giuridici viziati, solo se il relativo atto risulti depositato nel rispetto di tali termini”.

Pertanto, il ricorso va respinto con condanna delle spese.

 

 

di Dario Ferrara

Danno non patrimoniale e rimborso ai viaggiatori dopo il volo cancellato per l’emergenza Covid

Compensazioni Ue, nuovi biglietti aerei e risarcimento alla famiglia rimasta bloccata in Kenya: il vettore anticipa il blocco del Governo, se avesse adempiuto i turisti sarebbero rimpatriati

Rimborsata e risarcita. Scattano la compensazione Ue per il volo cancellato, il rimborso dei nuovi biglietti acquistati e il danno non patrimoniale per la famiglia italiana rimasta bloccata in Kenya durante l’emergenza Covid. E ciò perché la compagnia aerea anticipa il Governo e annulla il collegamento prima che provvedano le autorità locali, mentre se il vettore avesse adempiuto i turisti sarebbero riusciti a tornare in patria. È quanto emerge dalla sentenza 15/2022, pubblicata dalla sezione civile del giudice di pace di Capri (magistrato onorario Raffaele Griffo).

Odissea africana
Vittoria per la famiglia difesa dagli avvocati Teodorico e Domenico Boniello: ottiene la condanna della compagnia al pagamento dei 5 mila euro richiesti. La coppia campana, con due bambini che hanno cinque anni e diciannove mesi, è costretta rimanere a lungo nel resort ormai deserto in una piccola località costiera a nord di Mombasa: il 16 marzo 2020, mentre in Italia infuria il Sars-Cov-2, il vettore annulla il volo senza spiegazioni né soluzione alternative, mentre soltanto il giorno 22 interviene il Governo keniota a cancellare ogni collegamento da e per il nostro Paese. E dunque i viaggiatori ben potevano rimpatriare risparmiandosi una vera e propria odissea: le conseguenze lamentate integrano il danno non patrimoniale perché non rientrano, scrive il giudice, «nelle normali traversie quotidiane nelle quali un individuo si imbatte nel corso della propria vita sociale».

Massima riparazione
Il vettore resta contumace e, quindi, non dimostra l’effettiva sussistenza di fatti eccezionali non imputabili. La compensazione prevista dall’articolo 7 del regolamento Ce 261/04 è determinata nel massimo di 600 euro a viaggiatore, a fronte di un minimo di 250, perché il volo Mombasa-Napoli costituisce una tratta superiore a 3.500 chilometri: ai 2.400 euro in favore dei quattro turisti vanno aggiunti altri 2.100 per l’acquisto dei biglietti alternativi per il ritorno in Italia e altri 500 a titolo di danno non patrimoniale; la famiglia rimasta bloccata in Africa risulta costretta sostenere spese ulteriori prima di riuscire a rientrare in patria. Alla compagnia non resta che pagare, anche le spese di lite.

 

di Pietro Alessio Palumbo

Portare a scuola il bambino non vaccinato può costare l’arresto dei genitori
La Corte di Cassazione, sottolinea le conseguenze per chi non rispetta un obbligo dettato da ragioni di salute pubblica

L'inosservanza del provvedimento emesso dal dirigente scolastico che stabilisce la sospensione dalla frequenza scolastica dell'alunno privo di vaccinazioni obbligatorie può far scattare l'arresto dei genitori. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la recente sentenza 10241 depositata il 23 marzo scorso. La Suprema Corte ha innanzitutto evidenziato che nel nuovo assetto normativo del nostro Paese basato sulla obbligatorietà delle vaccinazioni, il legislatore ha ritenuto di dover preservare un adeguato spazio per il rapporto con i cittadini basato sull'informazione, sul confronto, e sulla conseguente persuasione.

Deriva che in caso di inosservanza dell'obbligo vaccinale deve essere avviato un procedimento rivolto innanzitutto a fornire ai genitori dell'alunno maggiori approfondimenti sulle vaccinazioni e sulla loro importanza per la salute del figlio. Soltanto al termine di tale procedimento e previa concessione di un adeguato tempo di riflessione sulle conseguenze per la salute del minore possono essere inflitte sanzioni ai genitori. Su queste basi il legislatore ha previsto che la presentazione della documentazione comprovante l'assolvimento dell'obbligo costituisca requisito di accesso ai servizi educativi erogati dalla scuola.

Va poi precisato che il provvedimento di sospensione dalla frequenza scolastica è attività doverosa e funzionale all'esecuzione di quanto stabilito dalla normativa: costituisce strumento necessario e imprescindibile per garantire la sicurezza della frequenza scolastica degli altri bambini, e la prevenzione dal rischio di contagio da malattie infettive spesso molto trasmissibili. Secondo la Suprema Corte di Cassazione nella ricorrenza dei prescritti presupposti di legge e della natura dell'atto di sospensione del dirigente scolastico - quale “ordine” dettato da ragioni di salute pubblica - non vi è ragione di negare l'applicabilità delle conseguenze penali per la violazione del contenuto obbligatorio del provvedimento scolastico.

 

di Remo Bresciani

Non va risarcito chi è investito sulle strisce se il veicolo a passo d’uomo ha già impegnato l’attraversamento

Esclusa la colpa del conducente quando non è possibile prevedere la discesa dal marciapiede o effettuare manovre per evitare il danno

Non ha diritto al risarcimento del danno chi è investito sulle strisce se il veicolo marcia a passo d’uomo e ha già impegnato l’attraversamento pedonale. Il conducente, infatti, non può prevedere la discesa della vittima dal marciapiede ed è impossibilitato a porre in essere qualsiasi manovra per evitare il danno.

Lo ha affermato la terza sezione civile della Cassazione con l’ordinanza 8485/22 del 16 marzo che ha respinto il ricorso degli eredi di un uomo.

Secondo i ricorrenti l’uomo era stato investito sulle strisce pedonali dal convenuto riportando alcune lesioni. La corte d’appello, confermando la decisione del tribunale, ha rigettato la domanda finalizzata a ottenere il risarcimento del danno patito dal loro congiunto.

La vertenza è così giunta in Cassazione dove gli eredi hanno costatato la decisione per avere erroneamente valutato le emergenze processuali. In particolare il collegio di merito avrebbe travisato la prova e sarebbe pervenuto a un’erronea ricostruzione del fatto.

La Suprema corte, nel respingere la domanda, ha rilevato che nel giudizio di merito era stato accertato che l’autocarro condotto dall’investitore aveva già oltrepassato il tratto di strada corrispondente all’attraversamento pedonale a passo d’uomo. Inoltre la sede stradale dove si trovava il passaggio pedonale era stata impegnata dal veicolo quando era libera da pedoni. Né erano visibili segni o danni sul veicolo investitore fatta eccezione per un graffio sul parafango posteriore destro del veicolo non riconducibile al sinistro. Questa ricostruzione del sinistro ha fatto escludere al giudice di merito che potesse riconnettersi al conducente dell'autocarro una condotta colposa ritenuto che, una volta impegnato l’attraversamento pedonale con gran parte

del mezzo, non vi era motivo per cui il conducente potesse prevedere la discesa di un pedone dal marciapiede e quindi porre in essere una manovra per evitare il danno. Ora, ha concluso la Cassazione, i ricorrenti prospettano un’inammissibile rivalutazione delle emergenze processuali e probatorie comportante accertamenti di fatto preclusi alla corte di legittimità, laddove solamente al giudice di merito spetta individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine

valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, non potendo in sede di legittimità riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale. Inevitabile il rigetto del ricorso ma la Cassazione ha comunque stabilito che le ragioni della decisione “costituiscono giusti motivi” per disporre la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

 

Il notaio risarcisce la banca se non rileva l’uso civico sull’area dove è costruito il bene oggetto del mutuo

Quando ci sono indici di allerta legati alla localizzazione dell’immobile il professionista incaricato è tenuto a effettuare indagini approfondite anche sui terreni

Il notaio risarcisce la banca se non rileva l’uso civico sull’area dove è costruito il bene oggetto del mutuo. Infatti, quando ci sono indici di allerta legati alla localizzazione dell’immobile, il professionista incaricato è tenuto a effettuare indagini approfondite anche sui terreni acquisendo il certificato di destinazione urbanistica.

È quanto emerge dalla sentenza 4911/22 del 15 febbraio che ha respinto il ricorso di un notaio. Una banca aveva agito nei suoi confronti per chiedere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’inadempimento del professionista in occasione della stipula di un mutuo. Il notaio, infatti, non aveva accertato che l’immobile ipotecato, in quanto gravato da usi civici non affrancati, non era commerciabile.

Il tribunale ha respinto la domanda ma la corte d’appello ha ribaltato la decisione condannando il notaio a risarcire l’intero importo del mutuo.

La controversia è così giunta in Cassazione dove il ricorrente ha sostenuto che l’acquisizione del certificato di destinazione urbanistica sarebbe obbligatorio solo in caso di atti relativi a terreni ovvero terreni costituenti pertinenze di edifici censiti nel catasto urbano di superficie superiore a 5 mila mq, mentre nella specie si trattava di costituzione di ipoteca su un appartamento e un locale deposito. Né si poteva considerare fatto notorio che molti terreni della zona in cui si trovava l’immobile fossero gravati da usi civici. Infine ha contestato la pronuncia nella parte in cui ha escluso che la prestazione omessa comportasse la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.

La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato che nessuna censura può essere mossa alle conclusioni di merito avendo la corte d’appello affermato che il notaio, conoscendo la zona e operando in quel territorio, avrebbe dovuto svolgere indagini ulteriori rispetto a quelle di natura ipotecaria e catastale sull’eventuale esistenza di usi civici. Infatti in caso di stipula di atti relativi a immobili siti in zone in cui via sia il potenziale rischio di sussistenza di vincoli di qualsiasi natura che incidono sulla loro commerciabilità, il notaio è tenuto a effettuare indagini ulteriori e più approfondite di quelle svolte ordinariamente, onde accertare l’effettiva libertà dei beni oggetto degli atti rogati a suo ministero. Né rileva, ai fini di una riduzione del risarcimento, che il perito della banca non abbia rilevato a sua volta il vincolo dal momento che il soggetto che si rivolge a un notaio per stipulare un determinato atto non può certo essere ritenuto corresponsabile dell’omissione delle indagini che ha commissionato al professionista.

 

Legittimo l'accordo decentrato che riconosce il buono pasto alla polizia municipale in turno a cavallo dell'ora di cena

Una lettura diversa rispetto all'indicazioni fornite a suo tempo dall'Aran

Con la sentenza n. 5679/2022, la Corte di cassazione, sezione Lavoro, ha affermato che non può ritenersi in contrasto con la contrattazione nazionale (articolo 45 e 46 del contratto del 14 settembre 2000 e articolo 13 del contratto del 9 maggio 2006) un accordo decentrato che riconosca il diritto al buono pasto agli agenti di polizia locale che lavorano a cavallo dell'ora cena o nell'immediata contiguità con i normali orari di essa. La sentenza in questione è interessante perché fornisce una lettura chiara della vicenda.

 

DPCM Conte illegittimi: accolto il ricorso del leader del movimento #IoApro
Accolto dal tribunale di Pesaro il ricorso del ristoratore disobbediente leader del movimento #IoApro

Sentenza pubblicata il 17.02.22 da parte del Tribunale di Pesaro che ha accolto il ricorso avverso ordinanza di ingiunzione di pagamento del leader del Movimento #IoApro il quale aveva tenuto aperto i propri ristoranti durante il periodo del lockdown disobbedendo così ai DPCM che ne imponevano la chiusura.

I fatti di causa
In data 15.01.2021 il gestore di un esercizio di ristorazione a Pesaro decideva di aprire al pubblico il proprio locale nonostante i divieti governativi e quindi in violazione del DPCM 03.12.2020.

In seguito all'intervento delle forze dell'ordine veniva multato con apposito verbale di contestazione per violazione di quanto stabilito dal DPCM 03.12.2020 o dalle linee guida operative per la prevenzione, gestione, contrasto e controllo dell'emergenza COVD-19 nell'attività di "Pubblico Esercizio somministrazione alimenti e bevande" in quanto: "alle 23:10, veniva svolta attività di ristorazione al di fuori della fascia oraria consentita, dalle ore 05:00 fino alle ore 18,00, in violazione di quanto disposto dall'art. 1 c. 10, lett. gg) del DPCM 03.12.2020. All'interno dell'esercizio vi erano circa 25 avventori che hanno consumato cibi e bevande nelle precedenti ore, dalle 20:00 alle 23:30 circa". Con applicazione di sanzione di € 400,00 e contestuale chiusura dell'esercizio per 5 giorni.

In data 18.06.2021 gli veniva notificata - da parte della Prefettura di Pesaro - Ordinanza di Ingiunzione nella quale veniva ordinato: di pagare - entro 30 giorni dalla notifica - la somma complessiva di € 803,60 nonché la chiusura per giorni 20 dell'attività.

Avverso la suddetta ordinanza il ristoratore, mediante il proprio avvocato proponeva ricorso avanti al Tribunale di Pesaro ritenendo il DPCM profondamente ingiusto e sostanzialmente illegittimo in quanto non motivato e quindi in contrasto con l'art. 3 L. 241/1990 che impone alla Pubblica Amministrazione il dovere di trasparenza nei propri processi decisionali e di motivazione dei propri provvedimenti.

Con sentenza n. 97/22 (sotto allegata) il Tribunale di Pesaro (Giudice Dott. Mazzini) accoglieva il ricorso dell'Avv. Lorenzo Nannelli disapplicando il DPCM ed annullando l'ordinanza di ingiunzione.

Le motivazioni
Innanzitutto il Tribunale di Pesaro dopo aver svolto un richiamo alla normativa emergenziale di riferimento (D.L. 23 Febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni della legge 5 marzo 2020 n. 13 ed il D.L. 19/2020) tenta di dare una qualificazione giuridica ai DPCM previsti dal D.L. 6/2020 e successive modificazioni, senza nascondere che la natura degli stessi risulta controversa.

Quindi il giudice inizia una lunga disamina concludendo che il DPCM sia che lo si voglia considerare assimilabile alla ordinanza contingibile ed urgente, sia che lo si voglia piuttosto assimilare alla tipologia dell'atto amministrativo necessitato, rientra in ogni caso nella categoria degli atti amministrativi, e come tale riveste carattere di fonte normativa secondaria.

La funzione dei DPCM introdotti dal D.L. 6/2020 è quella di dare concreta attuazione e regolazione alla situazione di epidemia da Covid 19, proprio perché la sua velocità di emanazione consente di rispondere meglio alla velocità di diffusione del virus.

Individuati i principi fondamentali dal decreto convertito, l'esatta definizione tecnica ed attuazione delle norme per la convivenza civile a seconda del rischio epidemiologico individuato, è affidata allo strumento del DPCM, ma nell'esercizio di una specifica discrezionalità amministrativa.

Tuttavia, quest'ultima, per espressa previsione del D.L. 19/2020, deve necessariamente rispondere a criteri di proporzionalità, adeguatezza e ragionevolezza che connotano ogni fonte di diritto amministrativo.

Lo strumento attraverso cui si rendono visibili la logicità e la ragionevolezza della decisione, consiste nell'enunciazione dei presupposti e dei motivi su cui si fonda un atto amministrativo "necessitato" come ritenuto dalla stessa pronuncia della Corte Costituzionale (cfr. sentenza 198/2021): da un lato, individua le circostanze di fatto e di diritto a base del provvedimento (la cd. giustificazione), dall'altro l'esposizione dei motivi in senso stretto, vale a dire del percorso logico-giuridico che ha presieduto e condotto ad una determinata decisione.

Del resto, l'espresso riferimento operato dalla Corte Costituzionale alla sindacabilità dei DPCM da parte del giudice impone di far riferimento unicamente alla logicità della motivazione, giacchè l'opportunità delle scelte riservate all'Amministrazione non consente al giudice di sostituirsi ad essa, ma unicamente di verificare la congruità del percorso logico seguito dalla P.A..

Quanto alla motivazione dell'atto amministrativo occorre che la stessa espliciti i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche in coerenza alle risultanze dell'istruttoria, e ciò anche avuto riguardo all'atto amministrativo necessitato in cui l'Amministrazione si limiti ad un accertamento delle condizioni di fatto che impongono l'adozione dell'atto amministrativo medesimo.

Ammissibile anche una motivazione per relationem, prevedendo che, qualora le ragioni della decisione risultino da altro atto dell'amministrazione, richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima debba essere indicato e reso disponibile anche l'atto cui essa si richiama.

L'omessa esternazione del percorso giustificativo e dell'iter logico seguito dall'amministrazione determina pertanto l'illegittimità del provvedimento, ed il conseguente dovere del giudice civile di disapplicarlo.

La motivazione deve essere esternata chiaramente attraverso espressioni comprensibili, logiche e percepibile all'esterno.

In sintesi, l'attestazione dell'avvenuto rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza non può emergere se non dalla motivazione dell'atto stesso che garantisce la trasparenza dell'azione amministrativa, rendendola controllabile da parte dell'opinione pubblica, affermando la responsabilizzazione degli organi della P.A. (art. 97 Cost.).

Poiché la proporzionalità deve essere misurata in concreto in base al livello di rischio, l'adozione dell'atto amministrativo nello specifico, troverebbe giustificazione nelle indicazioni fornite dal Comitato Tecnico-Scientifico, a cui il D.L. 19/2020 fa espressamente riferimento per l'adozione delle misure sanitarie.

Nell'ipotesi di specie, il DPCM del 03 dicembre 2020 indica tra i presupposti di fatto: "l'evolversi della situazione epidemiologica, il carattere particolarmente diffusivo dell'epidemia e l'incremento di casi sul territorio nazionale; […] le dimensioni sovranazionali del fenomeno epidemico e l'interessamento di più ambiti sul territorio nazionale".

Come da indicazioni del D.L. 19/2020, il DPCM del 3 dicembre 2020 fa espresso riferimento al verbale n. 133 della seduta del 3 dicembre 2020 del Comitato Tecnico Scientifico di cui all'ordinanza del Capo del Dipartimento della protezione civile 3 Febbraio 2020 n. 630 e successive modificazioni e integrazioni.

L'attività comparativa svolta, comportando la compressione di diritti costituzionalmente garantiti, necessitava di un adeguato impianto giustificativo, soprattutto nel momento in cui le decisioni adottate dal DPCM del 3 dicembre 2020 determinavano una modifica delle disposizioni precedentemente adottate, che consentivano senza limitazioni di orario e di luogo lo svolgimento dell'attività di ristorazione, non differenziando ad esempio il ristorante dalle aree di servizio.

In tal caso, la precisa differenziazione, all'interno delle disposizioni richiamate, tra le attività consentite e non consentite, nonché l'identificazione della fascia oraria consentita per lo svolgimento dell'attività di ristorazione, si traduce in una precisa scelta da parte dell'Amministrazione che avrebbe dovuto essere supportata da dati scientifici precisi, nonché da spiegazioni tecniche in relazione al maggior rischio di diffusione del contagio nelle attività e negli orari non consentiti.

Nessuna indicazione è stata fornita sul punto, se non tramite generici riferimenti "all'evolversi della situazione epidemiologica" ed "alla congruità delle misure adottate".

In altri termini, la specificità delle misure adottate non si rivela congrua e logica rispetto alla genericità dei presupposti addotti, privi di specifiche indicazioni di rischio, sia dal punto di vista sanitario che tecnico.

Neppure erano state indicate le ragioni per le quali quelle (precedenti) misure restrittive in vigore che elencavano minuziosamente le cautele da osservarsi nell'esercizio dell'attività di ristorazione, non erano ritenute più idonee a prevenire il contagio, tanto da aver determinato la chiusura delle attività.

Ne consegue l'illegittimità del DPCM, sia che lo si intenda assimilare alla tipologia dell'ordinanza contingibile ed urgente, sia che lo si voglia piuttosto assimilare alla tipologia dell'atto amministrativo necessitato, non risultando esplicitati, neanche tramite l'istituto della motivazione per relationem, i presupposti di fatto, nonché le ragioni tecnico-scientifiche poste a fondamento dell'adozione delle misure prescelte.

In proposito, non può ritenersi utile allo scopo il richiamo al verbale n. 133 della seduta del 3 dicembre 2020 del Comitato Tecnico Scientifico di cui all'ordinanza del Capo del Dipartimento della protezione civile 3 Febbraio 2020 n. 630 e successive modificazioni e integrazioni, in quanto, all'interno del verbale suddetto altro non è dato leggere se non una valutazione di "congruità" in ordine alle misure adottate con il DPCM qui in commento, per contenere il contagio, rapportate all'imminente periodo natalizio e alla fase epidemiologica in essere.

Il tutto senza alcuna specificazione che tenesse conto, ad esempio, dello specifico livello di contagiosità al momento dell'adozione del DPCM, in relazione alle attività fino a quel momento autorizzate e consentite; della probabile curva di contagio prevista per l'imminenza delle festività, sulla base della diffusività del virus e delle restrizioni che si andavano ad introdurre; senza alcuna specificazione delle motivazioni tecnico scientifiche per le quali veniva prevista una regolamentazione differenziata per la medesima attività di ristorazione (ad esempio ristoranti per i quali veniva introdotto il limite orario di esercizio dalla ore 5.00 alle ore 18.00, ed aree di servizio in cui veniva svolto il servizio di somministrazione di alimenti e bevande senza limitazioni di orario, e ancora, le strutture alberghiere nelle quali era ammesso per la propria clientela il medesimo servizio di ristorazione senza previsione di alcun limite di orario -articolo 1 comma 10 lettere gg) e hh) DPCM 3.12.2020).

Si intende dire che ogni valutazione contenuta nel DPCM deve ritenersi sia mancante di riferimenti specifici utili a giustificare (rectius motivare) l'adozione di un siffatto strumento che, avrebbe imposto la previsione di una motivazione specifica, non soddisfatta da un generico riferimento ai Verbali del Comitato tecnico-scientifico (Cts); verbali che il governo stesso, non si dimentichi, aveva classificato come "riservati" o "secretati.

Proprio l'insufficienza e l'incompletezza di motivazione nei termini anzidetti che è dato ravvisare nel DPCM 3.12.2020, determina l'impossibilità di ritenere rispettati i parametri di proporzionalità e adeguatezza previsti dall'art.2 comma 1 D.L.19/2020, e autorizza la disapplicazione da parte del giudice ordinario nell'esercizio del potere derivante dall'art.5 della legge n.2248 del 1865 Allegato E), ed il conseguente annullamento dell'ordinanza ingiunzione opposta.

 

 

 

di Debora Alberici

Anche il minore under 12 va sentito per sapere se vuole stare con mamma o papà

Senza una valida ragione si ritiene violato il contraddittorio. Accolto il ricorso della donna

Nell’ambito del giudizio di affidamento e collocamento anche il minore infra dodicenne dev’essere ascoltato sul genitore con il quale preferisce stare. Nel caso in cui il bambino non venga interpellato senza una valida ragione si ritiene violato il contraddittorio.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con l’ordinanza n. 7262 del 4 marzo 2022, ha accolto il ricorso di una donna le cui figlie erano state affidate all’ex e collocate presso i nonni, dopo che lei le aveva portate a vivere all’estero senza autorizzazione.

Per gli Ermellini è fondato il secondo motivo presentato dalla difesa della signora: infatti, hanno spiegato i Supremi giudici, i minori, nei procedimenti giudiziari che li riguardano, sono parti sostanziali, in quanto portatori di interessi comunque diversi, quando non contrapposti, rispetto ai loro genitori. La tutela del minore in questi giudizi si realizza, pertanto, mediante la previsione di ascolto il cui mancato adempimento integra violazione del principio del contraddittorio e dei diritti del primo quando non sia sorretto da un'espressa motivazione sull’assenza di discernimento, tale da giustificarne l'omissione.

Nell’affermare questo principio la prima sezione civile ha ricordato che in materia di affidamento dei figli minori, il giudice della separazione e del divorzio deve attenersi al criterio fondamentale - posto, per la separazione, nell’art. 155, primo comma, cod. civ. (ora art. 337 bis cod. civ.) e, per il divorzio, dall'art. 6 della legge 1 dicembre 1970, n. 898-, rappresentato dall'esclusivo interesse morale e materiale della prole.

Il rispetto del diritto alla bigenitorialità, sostenuto dall’esclusivo interesse del minore, trova espressione nel regime ordinario di affido condiviso sicché là dove il giudice di merito intenda derogarvi, tanto deve avvenire per un giudizio prognostico volto a privilegiare il genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo i danni derivati dalla disgregazione del nucleo familiare, assicurando il migliore sviluppo della personalità del minore.

 

Doppio reato per chi importa dei ciclomotori, made in China, che richiamano le caratteristiche della Vespa, sui quali c’è uno scudetto tricolore. Con il tentativo di imitazione del mitico scooter viene infatti usurpata la proprietà intellettuale della Piaggio, mentre con l’ingresso nel territorio scatta l’importazione di un bene con segni contraffatti. La Corte di cassazione (sentenza 5847) respinge il ricorso dell’importatore, indagato anche per il reato di ricettazione, contro il sequestro preventivo dei ciclomotori e le accuse che gli venivano mosse.

Il richiamo al made in Italy
Ad avviso della difesa, infatti, i veicoli, importati da una società italiana - circostanza che spiegava il tricolore - non rientravano nell’ambito di protezione del brand Piaggio che sarebbe anche un marchio debole. Affermazioni respinte al mittente dalla Suprema corte. Negli scooter provenienti dalla Cina c’era un riferimento al Made in Italy «e comunque uno scudetto richiamante la produzione nazionale», e tanto bastava ad ingannare i consumatori sull’origine del prodotto. Circostanza valida ancora di più nel caso esaminato che riguardava delle motorette che imitavano il design «di un prodotto certamente nazionale, usurpandone la proprietà intellettuale».

Il simbolo della libertà e del boom economico
La lotta alla contraffazione della Casa di Pontedera in realtà dura da decenni, visto che la due ruote icona dell’Italian Style è lo scooter più imitato al mondo. Un’azione di contrasto che il Gruppo Piaggio porta avanti attraverso il costante monitoraggio delle banche dati di design e marchi registrati a livello internazionale e che ha portato, tra l’altro, ad ottenere la cancellazione di oltre 50 marchi registrati da terzi tra il 2018 e il 2020. Il prossimo 23 aprile la Vespa festeggerà il suo 76° compleanno, tanto è passato dal 23 Aprile 1946 giorno in cui la Piaggio depositò un brevetto che sarebbe diventato famoso in cinque continenti. Un marchio globale che ha fatto della Vespa la protagonista di canzoni, storie e film: dalla “Farobasso” usata da Gregory Peck e Audrey Hepburn in “Vacanze Romane” alla “Special 50” simbolo di una libertà, cantata da Cesare Cremonini, che si poteva comprare con 132 mila lire nel 1969

 

Mattarellum nel voto Csm. Addio porte girevoli e meno fuori ruolo. Gli avvocati valutano i giudici

Dal Cdm sì alla riforma: mix di maggioritario e proporzionale con scorporo per l’elezione dei togati. Incarichi politici solo a chi smette la toga, stop nomine a pacchetto, sì a pari opportunità

Si vota col Mattarellum per il Consiglio superiore della magistratura. È un mix - più maggioritario che proporzionale, con tanto di scorporo - il nuovo sistema elettorale per il Csm previsto dalla riforma approvata dal Consiglio dei ministri. No alle nomine a pacchetto, sì alle pari opportunità. Addio porte girevoli con i palazzi del potere: mai più incarichi politici senza smettere la toga e niente funzioni giurisdizionali dopo aver svolto attività di governo. Giudici e pm non si possono candidare dove prestano servizio. Un decreto delegato ridurrà il numero dei fuori ruolo. E contano anche gli avvocati nel valutare la professionalità dei magistrati. Concorso nell’ordine giudiziario subito dopo la laurea con tre scritti, ridotte le materie orali. Questo il maxiemendamento del Governo al ddl Bonafede cui ha lavorato la commissione ministeriale presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani. Con l’obiettivo di arrivare al via libera in Parlamento entro luglio per il rinnovo del Csm: alla Camera il testo è calendarizzato a fine marzo. Un intervento chiesto più volte dal presidente Mattarella: «ineludibile», commenta la guardasigilli Marta Cartabia, «anche per accompagnare la magistratura in un percorso di recupero della piena fiducia e credibilità».

Persona e network
Si scelgono con un sistema misto i venti togati di palazzo dei Marescialli, mentre dieci sono i laici e tre i membri di diritto (presidente della Repubblica, primo presidente e procuratore generale della Cassazione). I collegi binominali eleggono due membri del Csm ciascuno e c’è una distribuzione proporzionale di cinque seggi a livello nazionale. Dei venti togati due sono magistrati di legittimità, cinque pubblici ministeri e tredici giudici. In Cassazione c’è un collegio unico binominale nazionale col sistema maggioritario: passano i due più votati. Per la magistratura requirente due i collegi territoriali binominali: ciascuno elegge i primi due e il quinto posto va al miglior terzo. Per il settore giudicante otto seggi sono attribuiti con il maggioritario e cinque col proporzionale. Non ci sono liste ma candidature individuali e può scattare il sorteggio per garantire l’equilibrio fra uomini e donne oltre che raggiungere il minimo delle candidature. Per la distribuzione dei seggi proporzionali i candidati nei collegi si possono collegare in network, ma c’è lo scorporo: i gruppi minori che non hanno vinto nel maggioritario sono favoriti nel proporzionale.

Senza ritorno
Basta commistioni con la politica: scatta il divieto di esercitare in contemporanea funzioni giurisdizionali e ricoprire incarichi elettivi e di governo. E ciò a livello nazionale, regionale e locale. Il magistrato che accetta di candidarsi va in aspettativa senza assegni per l’intero svolgimento del mandato: ha diritto alla conservazione del posto e il periodo trascorso in aspettativa è calcolato ai soli fini pensionistici. Impossibile presentarsi alle elezioni nel territorio dove si sono svolte le funzioni nei tre anni precedenti. Alla fine del mandato non possono più tornare a svolgere funzioni giurisdizionali i magistrati che hanno ricoperto cariche elettive o incarichi di governo a qualsiasi livello. E dunque sono collocati fuori ruolo: presso il ministero di appartenenza gli ordinari, presso la presidenza del Consiglio o l’avvocatura dello Stato quelli amministrativi e contabili. Sarà l’organo di autogoverno a decidere come reimpiegare coloro che non sono stati eletti: anche per loro vale il divieto di svolgere funzioni giurisdizionali per tre anni. Idem per capi di gabinetto, segretari generali dei ministeri e capi dipartimento.

 

DELITTI CONTRO LA PERSONA
Libertà sessuale del minore di anni 14: in caso di dubbio, il partner deve astenersi dal compiere atti sessuali
In tema di reati sessuali con minorenni, grava su chi invoca l’errore sull’età della vittima l’onere di dimostrare di avere attivato tutti gli accorgimenti per verificare di non trovarsi al cospetto di una persona minore degli anni quattordici.

Il caso. Tre gli imputati condannati per il reato di atti sessuali con una minorenne, di anni quattordici, che hanno proposto ricorso in cassazione avverso la sentenza di condanna.

L’imputato è stato registrato in hotel? Uno dei ricorrenti ha contestato la mancata assunzione di una prova decisiva, avendo egli richiesto, nel giudizio di appello, di verificare se avesse fatto ingresso nell’albergo teatro del reato commesso, al fine di sondare altresì la veridicità delle dichiarazioni della persona offesa.

1. Con la sentenza del 10 dicembre 2020 la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma di quella del Tribunale di Napoli nord del 30 marzo 2018, ha ridotto la pena inflitta ad Ri.Ar. a 3 anni e 2 mesi di reclusione, ad C.A. e R.M. a 3 anni ed 8 mesi di reclusione, confermando nel resto la sentenza di primo grado.

Gli imputati sono stati condannati per i reati, loro rispettivamente ascritti.

 

di Giulia Provino

Multa valida anche se il verbale non indica che l’autovelox è segnalato

Necessario il cartello che avvisa i conducenti della postazione di controllo: l’omesso riferimento nell’atto di contestazione non rileva laddove risulta che l’utente sappia del rilevamento elettronico

È valido il verbale per eccesso di velocità, rilevato con l’autovelox, anche se nell’atto non viene indicata la presenza del cartello di segnalazione. La carenza dell’informazione non basta, infatti, a rendere nullo l’accertamento laddove la segnaletica risulta comunque esistente. Lo ha affermato la Cassazione che, con l’ordinanza 38487/21, deposita il 6 dicembre, ha respinto il ricorso del conducente multato.
Il ricorso riguarda la mancanza, all’interno del verbale, dell’indicazione della preventiva segnalazione della postazione di controllo di velocità. Secondo gli “ermellini” il motivo è infondato.

Infatti, per la seconda sezione civile, la circostanza che nel verbale di contestazione di una violazione dei limiti di velocità accertata mediante autovelox non sia indicato se la presenza dell’apparecchio fosse stata preventivamente segnalata mediante l’apposito cartello non rende nullo il verbale stesso, sempre che sia stata accertata la presenza della segnaletica o ne sia ammessa l’esistenza. La validità delle sanzioni amministrative irrogate per eccesso di velocità, accertate mediante autovelox, è, dunque, subordinata alla presenza del cartello che segnala la postazione fissa di rilevazione della velocità e nulla rileva la sua indicazione all’interno del verbale.

Pertanto, nel caso in esame, il Tribunale ha legittimamente ritenuto che la mancata specificazione nel verbale di contestazione dell’esistenza dell’apposito cartello di preventiva segnalazione dell’apparecchio rilevatore della velocità non inficia sulla validità del verbale di contestazione, se la sua presenza è stata accertata o ne è stata ammessa l’esistenza sul luogo.

 

di Debora Alberici

Il piedino sotto il tavolo con un amico della coppia non fa scattare l’addebito della separazione

Da regolamentare il diritto di visita durante le vacanze estive al di là dei 15 giorni di permanenza presso il collocatario

Il piedino sotto il tavolo ricevuto dalla moglie durante una cena con amici non fa scattare l’addebito della separazione perché è la donna ha solo subito il gesto. Ma non solo. È sempre da regolamentare il diritto di visita del minore durante le vacanze estive, cioè da giugno a settembre, al di là dei quindici giorni di permanenza presso il genitore non collocatario.

Sono questi, in sintesi, i principi affermati dalla Corte di cassazione che, con l’ordinanza n. 38730 del 6 dicembre 2021, ha accolto solo un motivo di ricorso presentato da un uomo.

Sul primo versante gli Ermellini hanno confermato la motivazione con la quale i giudici di merito hanno escluso l’addebito della separazione sulla donna.

Lei ha ricevuto il gesto e la circostanza è insufficiente ai fini della colpa della fine dell’unione.

Nella specie, ricorda la Cassazione, non vi è stato omesso esame di fatti storici ritenuti decisivi, avendo la Corte d’appello proceduto a una propria valutazione delle risultanze istruttorie sia in ordine alla questione dell’addebito della separazione sia in ordine alla decisione sull’affido e collocamento del minore, valutando espressamente i fatti che il ricorrente assume essere stati omessi.

Per quanto concerne invece il diritto di visita del padre durante le vacanze estive, “Piazza Cavour” ha precisato che poiché l’arco temporale delle «vacanze estive», da identificare in quello di chiusura delle scuole e da intendersi riferito ai mesi di giugno, luglio, agosto, non si esaurisce certo nei quindici giorni di permanenza del minore presso il padre, in tale periodo doveva essere congruamente disciplinato il diritto di visita del padre, non collocatario, del minore, quanto meno nel periodo diverso dai quindici giorni in cui il minore trascorrerà le vacanze con la madre, prevedendosi altresì che, nei giorni in cui non avrà il figlio minore presso di sé, ciascun genitore potrà sentirlo telefonicamente e che i genitori, per i summenzionati periodi in cui avranno con sé il figlio minore, si impegneranno reciprocamente a comunicarsi eventuali spostamenti in località diverse dal domicilio.

 

di Antonella Bua

Bolletta acqua con consumo anomalo? E' obbligo del gestore avvisare l'utente
Secondo la Cassazione, la società che ha in gestione il servizio idrico integrato ha l'obbligo di informare l'utente in merito alla presenza di consumi anomali

L'articolo 1175 del Codice Civile rappresenta la base normativa per attestare l'esistenza di un obbligo di informazione preventiva in capo al gestore. In virtù della norma, infatti, le parti di un contratto devono, nell'esecuzione dello stesso, comportarsi secondo i principi di correttezza e buona fede. Il dispositivo del sopracitato articolo, invero, ha numerose attuazioni all'interno del regolamento locale di gestione del servizio di somministrazione idrica e della carta dei diritti ad esso correlata.

Il principio affermato dalla Cassazione
La Cassazione con l'ordinanza n. n. 24904/21 del 15.09.2021, entra a gamba tesa nella materia dei consumi irregolari dell'acqua e degli obblighi del gestore, a anche se la medesima si riferisce ad un'utenza condominiale, il principio in essa contenuto è applicabile a qualsiasi utente.

In particolare, la Corte suprema espone il principio secondo il quale il semplice invio di una fattura commerciale relativa ai consumi anomali registrati, a distanza di oltre due mesi dalla rilevazione degli stessi e senza alcuna preventiva espressa segnalazione del loro carattere anomalo, non consente di ritenere correttamente adempiuto l'obbligo informativo dell'ente somministrante nei confronti dell'utente finale. In virtù di tale pronuncia, il gestore deve consentire all'utente di avere preventiva contezza dell'anomalia nel consumo, in modo da potersi attivare al fine di evitare l'ulteriore aggravio del danno provocato dall'eventuale perdita occulta.

La Corte stabilisce, altresì, che la mancata diligenza dell'utente, che non ha verificato il regolare funzionamento dell'impianto e del contatore e non ha fatto la cosiddetta "autolettura", non esclude, di per sé, la sussistenza dell'inadempimento in capo all'azienda erogatrice del servizio dell'obbligo di segnalazione dei consumi anomali.
Conseguenze per la mancata comunicazione
Secondo la Suprema Corte, la società che ha in gestione il servizio idrico integrato deve preventivamente informare l'utente della presenza di consumi anomali, al fine di evitare l'ulteriore aggravio della propria posizione. Il venir meno dell'obbligo di informazione implica in capo al gestore il dovere di risarcire il danno in favore del proprio utente.

 

Niente reddito di cittadinanza allo scommettitore che nasconde il conto gioco
Il carattere aleatorio delle vincite non giustifica la mancata menzione del conto online dedicato alle scommesse e dei movimenti di denaro

Lo scommettitore che non “denuncia” i movimenti di denaro sul cosiddetto conto gioco, acceso presso una società online, rischia la condanna al carcere. L’articolo 7 del Dl 4/2019, prevede, infatti, una pena detentiva da due a sei anni per chi mente sull’autocertificazione in merito ai requisiti per accedere al beneficio.

La Corte di cassazione (sentenza 29706) conferma così la confisca di oltre 10 mila euro del ricorrente indagato per aver “nascosto” nel prestampato sul reddito Isee, l’esistenza di un conto ad hoc che aveva presso una società di scommesse on line. Inutile per lo scommettitore affermare la sua buona fede. Nel modulo si faceva riferimento solo al reddito derivante dal patrimonio mobiliare o immobiliare, ma non c’era alcun riferimento al cosiddetto conto gioco. La difesa fa presente anche l’impossibilità, per qualunque società di scommesse, di quantificare una giacenza media annua, considerate tutte le incognite delle vincite al gioco.

 

di Debora Alberici

Il fisco inchioda il contribuente grazie alle dichiarazioni di terzi nelle indagini preliminari

Respinto il ricorso del contribuente che non aveva versato le imposte su una plusvalenza generata dall’alienazione di un immobile

Accertamento a carico del contribuente basato sulle dichiarazioni rese da terzi nell’ambito delle indagini preliminari.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 20970 del 22 luglio 2021, ha respinto il ricorso di un contribuente accusato di non aver versato le imposte su una plusvalenza generata dall’alienazione di un immobile.

Con un lungo ricorso la difesa dell’uomo ha lamentato che il giudice d'appello non ha rilevato l'illegittimità degli atti impositivi per violazione del diritto di difesa del contribuente. In particolare, ad avviso del legale, le dichiarazioni rese nell'ambito delle indagini preliminari non possono costituire prova in ambito tributario.

La tesi non è stata accolta con favore dalla Cassazione secondo la quale, nel processo tributario il divieto di prova testimoniale posto dall'art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992 non osta alla produzione sia da parte dell'Amministrazione finanziaria che, in ragione dei principi del giusto processo ex art. 111 Cost., del contribuente, di dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale che assumono valenza indiziaria sul piano probatorio.

Le dichiarazioni extra processuali rese da soggetti terzi rispetto alle parti in causa costituiscono prove atipiche, le quali, oltre che soggette alla generale valutazione di attendibilità intrinseca e di compatibilità logica tra le stesse, hanno in ogni caso il valore probatorio proprio degli elementi indiziari; sicché, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione.

 

di Vanessa Ranucci

Lo Stato risarcisce chi ha contratto l’epatite C anche se all’epoca della trasfusione non si conosceva il virus

Il Ministero della salute aveva comunque l'obbligo di controllare che il sangue donato e utilizzato fosse esente da virus

Lo Stato deve risarcire per l’epatite C anche se all’epoca della trasfusione non si conosceva il virus: questo perché, comunque, la Pubblica amministrazione non ha controllato che il sangue donato e utilizzato fosse esente da virus. Lo ha stabilito oggi la sesta sezione civile della Cassazione con l'ordinanza 21145/21.

La corte territoriale aveva respinto la domanda, da parte di un paziente, di risarcimento dei danni subiti in conseguenza della contrazione del virus Hcv dopo una trasfusione negli anni sessanta. Per il giudice, anche se il Ministero avesse adottato le opportune precauzioni e i dovuti controlli, l'evento del contagio si sarebbe comunque potuto verificare.

Il ricorrente ha proposto ricorso in Cassazione affermando che non spettava al danneggiato dimostrare la prevedibilità del danno all'epoca della trasfusione, sulla base delle conoscenze della comunità scientifica internazionale, ma gravava sul Ministero l'onere di dimostrare di avere adottato tutti gli strumenti di prevenzione noti a quel tempo.

Per la Suprema corte il ricorso è fondato perché il Ministero della salute è tenuto a esercitare un'attività di controllo e di vigilanza in ordine anche alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell'uso degli emoderivati. E risponde ex art. 2043 Cc, per omessa vigilanza, dei danni conseguenti a epatite e a infezione da HIV contratte da soggetti emotrasfusi.

Al riguardo, il Collegio ha citato la sentenza delle sezioni Unite del 2008 in cui si è sottolineato che si tratta di un rischio “antico quanto la necessità delle trasfusioni”: dunque, il Ministero della salute era tenuto, anche prima degli anni settanta, a controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero l'alterazione delle transaminasi.

Pertanto, al giudice del rinvio il nuovo giudizio che dovrà basarsi sul principio di diritto secondo cui “in caso di patologie conseguenti a infezione da virus HBV, HIV e HCV, contratte a seguito di emotrasfusioni o di somministrazione di emoderivati, la responsabilità del Ministero della salute va valutata anche per le trasfusioni eseguite in epoca anteriore alla conoscenza scientifica di tali virus e all'apprestamento dei relativi test identificativi (risalenti agli anni 1978, 1985, 1988).

Questo perché già dalla fine degli anni '60 era noto il rischio di trasmissione di epatite virale ed era possibile la rilevazione (indiretta) dei virus mediante gli indicatori della funzionalità epatica. Perciò, grava sul Ministero della salute, in adempimento degli obblighi specifici di vigilanza e controllo posti da una pluralità di fonti normative speciali risalenti già all'anno 1958, l'obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni e gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazione della transaminasi”.

 

di Emiliana Sabia

La banca non deve provare il credito azionato se il debitore ne contesta tardi la titolarità

No al ricorso dei ricorrenti che vanno oltre il termine di maturazione delle preclusioni assertive o di merito

L'istituto bancario non deve dimostrare il credito azionato se il debitore ne contesta tardi la titolarità. Lo ha sancito la Cassazione che, con l'ordinanza n. 18806/21, pubblicata oggi dalla terza sezione civile, respinge il ricorso di alcuni ricorrenti che si opponevano al pignoramento immobiliare eseguito su istanza di una finanziaria.

Tra gli altri aspetti, gli opponenti ritenevano inefficace il contratto di mutuo posto a base dell'esecuzione per la sottoscrizione di una transazione novativa e prescritto il diritto di credito; la Corte territoriale rigettava l'appello perché l'eccezione relativa alla legittimazione ad agire era stata presentata tardivamente dagli opponenti che contestavano la decisione in quanto il creditore procedente aveva l'onere di dimostrare la titolarità del diritto azionato.

La Corte suprema conferma il verdetto di secondo grado perché il giudice ha correttamente ritenuta provata la titolarità contestata oltre il termine di maturazione delle «preclusioni assertive o di merito». Si legge nelle motivazioni della terza sezione civile che «in materia di verifica della titolarità del diritto di credito azionato in via esecutiva, la proposizione di un'opposizione ad esecuzione da parte del debitore e la condotta processuale di mancata contestazione di quella titolarità da questi tenuta fino al momento di maturazione delle preclusioni assertive o di merito esclude la necessità per il creditore di provare la relativa circostanza». Da tali considerazioni, segue il rigetto della domanda.

 

di Dario Ferrara

Addio mascherine all’aperto da lunedì 28 giugno

Niente obbligo nelle zone bianche ma bisogna aver con sé i dispositivi di protezione delle vie respiratorie e indossarli in assembramenti, mezzi di trasporto pubblico e ambienti sanitari. Discoteche a luglio

Da lunedì 28 giugno non sarà più obbligatorio indossare negli spazi aperti la mascherina contro il contagio da Covid-19 nelle regioni in zona bianca. Lo prevede l’ordinanza firmata dal ministro della Salute Roberto Speranza (qui disponibile come documento correlato).

Disposizioni e protocolli
Resta in vigore, comunque, il dpcm che impone di avere sempre con sé i dispositivi di protezione delle vie respiratorie. Che vanno comunque indossati in ambienti chiusi, almeno per altri tre mesi, a quanto pare. Di certo c’è che anche oggi la mascherina va portata in caso di assembramenti o code, in fiere e mercati e in ogni altra circostanza in cui non è possibile mantenere le distanze interpersonali. Obbligatorio l’utilizzo a bordo sui mezzi del trasporto pubblico e negli ambienti sanitari, senza dimenticare il rispetto delle disposizioni e dei protocolli stabiliti per l’esercizio in sicurezza delle attività economiche, produttive e ricreative. L’uso è fortemente raccomandato ai soggetti fragili e immunodepressi e a quelli che stanno loro accanto.

Ritorno alla normalità
Veniamo ai locali pubblici: arrivano segnali incoraggianti dal sottosegretario alla Salute Andrea Costa: «Entro i primi dieci giorni di luglio - spiega - le discoteche potranno aprire e penso che il criterio del green pass possa essere applicato anche a loro». Ancora: «Questa settimana indicheremo una data in cui potranno tornare a fare le loro attività». A settembre, intanto, tutti gli studenti torneranno in classe e dovranno portare ancora la mascherina: non tutti gli allievi, infatti, risulteranno vaccinati per la ripresa delle lezioni. Al momento, comunque, lo scenario epidemiologico mostra un’incidenza nel Paese sotto i cinquanta casi per centomila abitanti: dalla prossima settimana tutta l’Italia sarà in zona bianca.

L’Inail deve indennizzare anche la caduta in ufficio

L’occasione di lavoro che fa scattare la prestazione comprende tutte le situazioni in cui è insito un rischio di danno, compreso quello improprio quando il lavoratore cammina nella sede di servizio Anche una banale caduta in ufficio deve essere indennizzata dall’Inail.

L’occasione di lavoro che fa scattare la prestazione previdenziale in favore dell’assicurato sussiste in tutte le situazioni nelle quali è insito un rischio di danno per il lavoratore, compreso quello improprio, e dunque non connesso allo svolgimento delle mansioni. E dunque si configura anche nell’incidente occorso al prestatore d’opera che sta camminando nel luogo di lavoro. È quanto emerge dall’ordinanza 17336/21, pubblicata il 17 giugno dalla sesta sezione civile della Cassazione.

Nesso incontestato È accolto il ricorso della dipendente pubblica: sbaglia la Corte d’appello a riformare la decisione del tribunale che dopo l’infortunio in ufficio le aveva riconosciuto l’indennizzo in conto capitale per un danno biologico pari al 7 per cento.

A metà mattinata la signora si alza dalla sua postazione per prendere i fascicoli dal tavolo dove li ha messi l’addetto per posarli sulla scrivania e apporre il visto di chiusura. Ma, forse per il peso, cade rovinosamente a terra riportando una distorsione.

Per i giudici di secondo grado non emergono elementi probatori che consentono di accertare con certezza la dinamica dell’accaduto e la riconducibilità alla nozione di infortunio sul lavoro. Trova ora ingresso la censura che denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto come l’articolo 2 del testo unico 1124/65: il collegamento fra il sinistro e l’attività di servizio non risulta contestato dal momento che l’evento pregiudizievole si verifica durante il turno di servizio.

E anzi il nesso emerge dalle stesse conclusioni del Ctu. Attività strumentali L’occasione di lavoro, in effetti, comprende anche le condizioni ambientali oltre socio-economiche in cui si svolge l’attività del prestatore: non conta, dunque, se il danno al lavoratore provenga dall’apparato produttivo oppure dipenda da terzi ovvero da fatti o situazioni proprie dell’infortunato;

l’unico limite è il rischio elettivo, che nella specie non può essere ravvisato. Va indennizzato dall’Inail, quindi, anche l’infortunio che scaturisce dal rischio improprio, in quanto insito in attività che sono soltanto strumentali allo svolgimento delle mansioni, ma comunque ricollegabili al soddisfacimento delle esigenze lavorative. Parola al giudice del rinvio.

 

Cassazione 29961/20, «assolto» chi legge la lettera destinata all’ex purché non sia un’abitudine
Se il reato è occasionale e non ci sono precedenti specifici, può scattare la non punibilità.

Nello specifico la corrispondenza violata era una raccomandata dell’Agenzia delle entrate

 

Meglio il carcere dei domiciliari con la moglie
Per la Cassazione, non è punibile per il reato di evasione il soggetto che si allontana da casa, va dai Carabinieri e dichiara di preferire il carcere alla moglie

Reato di evasione per chi si allontana dal domicilio
Annullata senza rinvio la sentenza di condanna a due mesi e 20 giorni di reclusione per il ricorrente sottoposto agli arresti domiciliari e accusato di evasione per essersi recato dai Carabinieri e aver chiesto di preferire il carcere alla convivenza litigiosa con la moglie. Questa la decisione assunta dalla Cassazione con la sentenza n. 36518/2020 (sotto allegata) contro quella con cui il giudice dell'impugnazione ha riformato parzialmente la sentenza di primo grado e, ritenendo prevalenti le circostanze attenuanti generiche rispetto alla recidiva, ha ridotto a due mesi e venti giorni la pena della reclusione inflitta al ricorrente, condannato per il reato di evasione.

C'è evasione per chi preferisce il carcere alla moglie?
Il ricorrente però ricorre contro la decisione del giudice d'Appello sollevando due motivi.

Con il primo fa presente di non essersi allontano dalla sua abitazione con la volontà di sottrarsi al controllo delle autorità. Dichiara infatti si essersi presentato volontariamente presso la Caserma dei Carabinieri, distante poche centinaia di metri da casa sua, manifestando la volontà di non voler stare a casa con la moglie, a causa di un litigio.

Con il secondo contesta invece il rigetto della richiesta di applicazione della causa di non punibilità prevista dall'art. 131 bis. c.p perché la decisione impugnata non ha tenuto conto della scarsa intensità del dolo e dell'offesa arrecata con la sua condotta e si è basata solo sul fatto incerto dell'arbitrarietà della propria condotta nel decidere di recarsi presso la Caserma dei Carabinieri.

Per il reato di evasione non rileva la ragione dell'allontanamento

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 3651872020 annulla senza rinvio la decisione impugnata perché il fatto non è punibile a causa della tenuità del fatto ai sensi dell'art. 131 bis c.p.

Per quanto riguarda però il primo motivo del ricorso, gli Ermellini ritengono che sia infondato perché "integra il reato di evasione la condotta di volontario allontanamento dal luogo di restrizione domiciliare e di presentazione presso la stazione dei Carabinieri ancorché per chiedere di essere ricondotto in carcere, in quanto il dolo generico del reato richiede la mera consapevolezza e volontà di allontanarsi dal domicilio."

In riferimento al caso particolare in cui l'imputato si allontani dal domicilio per andare in Caserma e fare presente di voler rientrare in carcere, adducendo l'insostenibilità della convivenza con i propri familiari, la Cassazione, dopo avere illustrato due opposti orientamenti, dichiara di aderire a quello maggioritario secondo il quale "il dolo del reato di evasione per abbandono del luogo degli arresti domiciliari è generico, essendo necessaria e sufficiente - in assenza di autorizzazione - la volontà di allontanamento nella consapevolezza del provvedimento restrittivo a proprio carico, non rivestendo alcuna importanza lo scopo che l'agente si propone con la sua azione."

Fondato invece per la Cassazione il secondo motivo, se solo si considerano le modalità con cui si è svolta l'evasione. Dalla sentenza si evince infatti, senza che siano necessari ulteriori accertamenti, la non abitualità e la minima offensività della condotta di evasione per la breve durata dell'allontanamento e per il fatto che il soggetto ha lasciato l'abitazione in cui era agli arresti al solo scopo di sottoporsi al controllo diretto delle forze di polizia.

 

CONTRAFFAZIONE

Il brand Usa Supreme blocca il «legal fake» e fa chiudere i negozi
Stop alla società anglo-italiana con sentenze in Italia e Spagna
CavestrSupreme contro Supreme. Piccoli colpi di “piccone”. Così, sentenza dopo sentenza, il legal fake inizia a perdere diritto di cittadinanza. La vicenda è quella che da anni contrappone Supreme NYC, il celebre brand Usa di streetwear, a Supreme Italia – fondata a Barletta – e alla “sorella” Supreme Spain, entrambe controllate dall’International Brand Firm (Ibf), società con sede a Londra. L’ultimo atto, a fine gennaio, è stato il riconoscimento, da parte della Cina, del brand statunitense Supreme come originale.

Conseguenza, il China Trademark Office ha ordinato la chiusura di oltre 40 punti vendita “anglo-italiani” in città come Suzhou, Nanjing, Kunming, Hainan, compresi i due più noti di Shanghai.

IL CONTE... LA QUALUNQUE...

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ll gioco delle tre carte non è reato: lo conferma la Cassazione

Per il Palazzaccio, il gioco delle tre carte senza un'organizzazione e svolto in via occasionale, stante la sua aleatorietà e l'assenza di artifizi e raggiri non è reato

La fattispecie: ampliamento autostrada ed espropriazione parziale proprietà

La Cassazione con l'ordinanza respinge il ricorso di un dipendente, licenziato dalla società datrice perché, come emerso dalle indagini compiute dagli investigatori incaricati, durante il periodo di malattia è andato al mare ed è risultato assente alle visite domiciliari.

Condotte che, per loro natura, ledono inevitabilmente il rapporto fiduciario datore- dipendente.

 

Omicidio colposo per l'automobilista anche se il ciclista di notte non usa il giubbetto catarifrangente

La Corte di cassazione (sentenza 3326) respinge il ricorso della donna, che era stata assolta in primo grado con la formula perché il fatto non costituisce reato. ... Per la Suprema corte la motivazione "rafforzata" dei giudici di appello, imposta quando si deve riformare in peggio un verdetto, è convincente.

 

Reato affidare i gatti a chi non è in grado di accudirli

Per la Cassazione, integra reato di abbandono di animali la condotta di chi parte per le vacanze lasciando alle cure dei figli minori tre gatti, di cui uno bisognoso di cure mediche. 

Prime condanne per i «furbetti» del lockdown: 2mila euro di multa per chi ha mentito sull'autocertificazione

Primi decreti penali di condanna per le «bugie» durante i controlli: ragazzi sorpresi a chiacchierare o a fumare che hanno dichiarato (falsamente) di svolgere attività motoria vicino a casa. Se non si fa opposizione casellario giudiziale macchiato

 

Decreto di citazione notificato alla PEC sbagliata: nullo l’intero giudizio e la conseguente sentenza
Si configura un’ipotesi di nullità assoluta per l’omessa citazione coinvolgente tutti gli atti successivi fino alla sentenza di secondo grado quando il decreto di citazione a giudizio sia stato notificato mediante PEC al difensore sbagliato, in quanto omonimo del legale di fiducia.

Nuovo Dpcm: palestre e piscine aperte «ma chi non si adegua entro 7 giorni chiuderà», strade e piazze chiuse dalle 21 solo se deciso dai sindaci

Resta confermato l’orario delle 24 per i ristoranti, mentre i bar dovranno chiudere alle 18, a meno che non facciano servizio al tavolo. I sindaci potranno decidere di chiudere strade e piazza dalle 21. Palestre e piscine aperte ma hanno una settimana per adeguarsi
 
di Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini
 
Nuovo Dpcm: palestre e piscine aperte «ma chi non si adegua entro 7 giorni chiuderà», strade e piazze chiuse dalle 21 solo se deciso dai sindacishadow
I sindaci potranno chiudere strade e piazze dopo le 21 per evitare assembramenti. I ristoranti rimangono aperti fino alle 24, ma ai tavoli non potranno sedersi più di sei persone. I bar dovranno invece chiudere alle 18 a meno che non facciano servizio al tavolo e potranno così proseguire l’attività fino a mezzanotte. Possibilità di ingressi a scuola scaglionati. Palestre e piscine restano aperte ma hanno una settimana di tempo per adeguare i protocolli. Sono gli elementi principali del nuovo Dpcm che il presidente del Consiglio ha illustrato questa sera in televisione e che entrerà in vigore alla mezzanotte.
 
Assembramenti
I sindaci potranno disporre «la chiusura al pubblico, dopo le ore 21.00, di vie o piazze nei centri urbani, dove si possono creare situazioni di assembramento, fatta salva la possibilità di accesso e deflusso agli esercizi commerciali legittimamente aperti e alle abitazioni private».
Bar e ristoranti
«Le attività dei servizi di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie) sono consentite dalle ore 5,00 sino alle ore 24,00 con consumo al tavolo, e con un massimo di sei persone per tavolo, e sino alle ore 18.00 in assenza di consumo al tavolo; resta sempre consentita la ristorazione con consegna a domicilio nel rispetto delle norme igienico-sanitarie sia per l’attività di confezionamento che di trasporto, nonché, fino alle ore 24,00 la ristorazione con asporto, con divieto di consumazione sul posto o nelle adiacenze dopo le ore 21».
 
Le palestre
Palestre e piscine rimangono aperte ma hanno una settimana di tempo per adeguare i protocolli.
Sport da contatto
Calcio, calcetto, basket, pallavolo e altri sport di squadra «da contatto» praticati da bambini e ragazzi non si fermano, ma le società sportive dovranno cambiare le modalità di allenamento: niente partite. L’attività sportiva dilettantistica di base, le scuole e le attività di avviamento allo sport «sono consentite soltanto in forma individuale e non sono consentite gare e competizioni». Sospese gare e attività connesse «agli sport di contatto aventi carattere ludico-amatoriale». Sarà possibile continuare a svolgere attività sportiva o motoria all’aperto, rispettando la distanza di almeno due metri. Va avanti il campionato di calcio. La presenza del pubblico è consentita «con una percentuale massima di riempimento del 15% rispetto alla capienza totale». Non oltre 1.000 spettatori all’aperto e 200 al chiuso. Palestre e piscine restano aperte, nel rispetto delle distanze e senza assembramenti.
 
Smart working
«Incrementeremo con un provvedimento della ministra Dadone lo smart working». L’annuncio del premier conferma che l’obbligo del 75 per cento di lavoro da casa, tanto atteso dai dipendenti pubblici, nel nuovo Dpcm non c’è. Nel testo finale non è specificata la percentuale di lavoratori che devono stare in smart working. Per ridurre i contagi si raccomanda che «le attività professionali siano attuate anche mediante modalità di lavoro agile, ove possano essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza; siano incentivate le ferie e i congedi retribuiti per i dipendenti nonché gli altri strumenti previsti dalla contrattazione collettiva; siano assunti protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di almeno un metro come principale misura di contenimento, con adozione di strumenti di protezione individuale».
 
La scuola
L’attività didattica ed educativa per il primo ciclo di istruzione e per i servizi educativi per l’infanzia continua a svolgersi in presenza. Le istituzioni scolastiche secondarie di secondo grado adottano forme flessibili nell’organizzazione dell’attività didattica, incrementando il ricorso alla didattica digitale integrata, che rimane complementare alla didattica in presenza, modulando ulteriormente la gestione degli orari di ingresso e di uscita degli alunni, anche attraverso l’eventuale utilizzo di turni pomeridiani e disponendo che l’ingresso non avvenga in ogni caso prima delle 9.00.
 
Bus e metro
Secondo il Cts «un’importante criticità è rappresentata dal trasporto pubblico locale che non sembra essersi adeguato alle rinnovate esigenze» e quindi si chiede di «incentivare una diversa mobilità con il coinvolgimento attivo delle istituzioni locali e dei mobility manager». Prima di limitare la capienza di autobus e metro in maniera più pesante dell’80% previsto adesso il governo vuole però vedere gli effetti di uno smart working potenziato e dello scaglionamento degli ingressi della scuola. La decisione finale sarà presa oggi.(corriere.it)



Il caso concerne l'occupazione d'urgenza e la conseguente espropriazione di un terreno privato per ampliamento dell'autostrada e avanzamento della relativa fascia di rispetto; l'indennità provvisoria di esproprio non veniva accettata dall'espropriato e seguiva procedura arbitrale ex art. 21 D.P.R. 327/2001 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) conclusasi con perizia di stima opposta dall'autorità espropriante dinanzi alla Corte d'Appello. Il giudice del gravame, con ordinanza, riduceva la stima, ritenendo che la realizzazione, da parte dell'espropriato, di un intervento edilizio dopo la comunicazione di avvio del procedimento preordinato all'esproprio, non potesse essere valutato a fini indennitari, pertanto che l'indennizzo non potesse tenere conto del plusvalore ottenuto dal terreno espropriato a seguito dell'intervento edilizio in oggetto.

La Corte non riconosceva il pregiudizio per la perdita di volumetria dell'area residua sulla quale risultava impossibile la sopraelevazione del fabbricato a seguito dell'ampliamento dell'autostrada e avanzamento della relativa fascia di rispetto.

Escludeva, altresì, il danno da perdita di luminosità e panoramicità per la costruzione di un muro di contenimento del tratto autostradale in posizione sopraelevata, in quanto non eccedente la normale tollerabilità, oltre al danno per impossibilità di trasferire o locare un magazzino posto sull'area parzialmente occupata e per il costo di realizzazione di un parcheggio provvisorio per la movimentazione mezzi.

Determinava, da ultimo, indennità di esproprio, di occupazione d'urgenza e temporanea.

Mancato riconoscimento pregiudizio porzione residua e conseguente indennizzo

Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per Cassazione l'espropriato affidandolo a nove motivi, sette dei quali dichiarati inammissibili dalla Suprema Corte, ad esclusione del quinto e del sesto, fondati e meritevoli di accoglimento.

Col quinto motivo il ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 37 D.P.R. 327/2001 e 26 e 28 D.P.R. 495/1992, per avere la Corte d'Appello ritenuto non indennizzabile il pregiudizio subìto dall'area residua di terreno per perdita della pregressa volumetria e capacità edificatoria che aveva in forza dell'unione con l'area destinata a fascia di rispetto autostradale, rendendo impossibile la sopraelevazione del fabbricato preesistente. Più in particolare, si denunciava erronea applicazione dei princìpi regolatori della materia, in quanto, nel caso in cui l'esproprio riguardi una sola parte di bene, nel calcolo dell'indennità si deve tenere conto della svalutazione arrecata alla parte residua, che pertanto deve corrispondere alla differenza tra il valore del bene ante e post esproprio.

Il motivo, ritenuto dalla Cassazione fondato e di indubbia portata interpretativa, veniva accolto sulla base di ampie argomentazioni e rilevanti precisazioni.

La Cassazione riconosce l'indennizzo per l'area residua
In primis, la Corte (sentenza n. 10747/2020) non accoglie la tesi avanzata dal ricorrente secondo la quale la fascia di rispetto stradale-autostradale imporrebbe soltanto un obbligo di distanza che eviti la realizzazione di interventi edilizi al suo interno e garantisca sicurezza alla circolazione stradale ma dà seguito ad un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il vincolo posto su tali aree di rispetto integra un divieto assoluto di edificare, costituzionalmente tutelato dall'art. 42 Cost. da cui discende il potere conformativo della P.A., ovvero il potere di connotare in senso limitativo il diritto di proprietà. La distinzione tra vincoli conformativi e vincoli preordinati all'esproprio è la questione sulla quale la Cassazione argomenta e sulla quale la giurisprudenza si è nel tempo largamente pronunciata. Infatti, i vincoli conformativi rappresentano tutte quelle prescrizioni ascrivibili alla potestà edificatoria della P.A. che classifica e distingue il territorio secondo zone e categorie, al fine di assicurarne uno sviluppo coerente e coordinato ed incidono pertanto su una pluralità di beni e di soggetti. Diversamente, i vincoli preordinati all'esproprio rappresentano prescrizioni urbanistiche che incidono su un bene specifico e determinato, apponendo sullo stesso un limite funzionale alla realizzazione di un'opera pubblica, incompatibile con la proprietà privata, che pertanto passa in mano pubblica.

L'orientamento condiviso dalla Cassazione nega, quindi, che il vincolo in oggetto sia preordinato all'esproprio, in quanto previsto espressamente ex lege, pertanto, di esso va tenuto conto nel computo dell'indennità di esproprio in base al combinato disposto degli artt. 32 c. 1 e 37 c. 4 DPR 327/2001 secondo cui, rispettivamente, "L'indennità di espropriazione è determinata...valutando l'incidenza dei vincoli di qualsiasi natura non aventi natura espropriativa …" e "….non sussistono le possibilità legali di edificazione quando l'area è sottoposta ad un vincolo di inedificabilità assoluta in base alla normativa….. ". Operare un distinguo tra esproprio di area vincolata e vincolo di inedificabilità su area non espropriata rappresenta la base giuridica per stabilire se il privato in questione debba o meno essere ristorato, dato il vincolo di inedificabilità apposto sull'area di sua proprietà. Se una parte di giurisprudenza -relativamente recente- ritiene che i vincoli conformativi, in quanto imposti ex lege alla generalità di cittadini proprietari di beni localizzati in una certa posizione rispetto ad un'opera pubblica, non producano deprezzamento del bene, quindi non riconosce alcun indennizzo al proprietario, stante l'assenza di nesso causale -così come ha statuito la sentenza impugnata- la Suprema Corte respinge tale interpretazione, argomentando come segue.

Il vincolo assoluto di inedificabilità, pur concernendo soltanto l'area individuata dalla legge, impone comunque un sacrificio al privato, che deve essere indennizzato, laddove, a causa del medesimo, la porzione residua risulti non sia più utilizzabile come era o poteva potenzialmente essere prima, oltre che deprezzata per essersi ridotta la capacità edificatoria che aveva originariamente in forza dell'unione con l'area vincolata al rispetto stradale. Il collegamento tra le due aree può essere funzionale, economico, strutturale, così come riconosce anche la giurisprudenza di legittimità meno recente, pertanto il vincolo di inedificabilità produce, in questo caso, effetti peggiorativi anche sull'area residua. Inoltre, lo stesso disposto dell'art. 33 D.P.R. 327/2001 va in tal senso, stabilendo che in tema di espropriazione parziale di un bene unitario, il valore della parte espropriata debba determinarsi tenendo conto della relativa diminuzione di valore; ne consegue che l'indennizzo non deve riguardare soltanto l'eventuale area espropriata, ma anche la diminuita possibilità di utilizzazione della porzione residua. Circa il quantum dell'indennizzo, la Cassazione nega ogni automatismo, dovendo parametrarsi sulla limitata capacità edificatoria che residua a seguito della realizzazione/avanzamento della fascia di rispetto stradale.

Segue l'enunciazione di un importante principio di diritto da parte della Corte di Cassazione, che fa chiarezza su una questione giuridica di massima importanza, sia teorica che applicativa. "In tema di espropriazione per pubblica utilità, nel caso in cui, per effetto della realizzazione o dell'ampliamento di una strada pubblica…, il privato debba subire nella sua proprietà la creazione o l'avanzamento della relativa fascia di rispetto, quest'ultima si traduce in un vincolo assoluto di inedificabilità che di per sé non è indennizzabile, ma che, in applicazione estensiva della disciplina in tema di espropriazione parziale, non esclude il diritto del proprietario di essere indennizzato per il deprezzamento dell'area residua mediante il computo delle singole perdite ad essa inerenti, quando risultino alterate le possibilità di utilizzazione della stessa ed anche per la perdita della capacità edificatoria realizzabile sulle più ridotte superfici rimaste".

La decisione, oltre che fare chiarezza su un tema dibattuto, risulta ragionevole ed equilibrata, evitando ingiustificate disparità di trattamento tra chi viene privato materialmente di una porzione di bene immobile e chi subisce un vincolo di inedificabilità assoluto sulla porzione corrispondente alla fascia di rispetto che resta nella proprietà del soggetto privato. A ben vedere, è lo stesso art. 32 Testo Unico a stabilire che i criteri in materia di indennità di esproprio si applichino anche nel caso di espropriazione di diritti diversi da quello di proprietà, operando, così, un'assimilazione tra le diverse ipotesi e un'estensione della disciplina prevista.

Col sesto motivo il ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione dell'art. 33 D.P.R. 327/2001 per aver negato l'indennizzo da perdita di luminosità e panoramicità dovuta alla realizzazione di un muro di sostegno dell'autostrada, a qualche metro dalla facciata del fabbricato. La corte di merito aveva rigettato la domanda sulla base di una presunta normale tollerabilità della denunciata perdita di luminosità e godibilità, criterio che la Cassazione definisce privo di basi normative. Infatti, nel deprezzamento dell'area residua va valutata anche l'esistenza di una significativa perdita di luce e panoramicità, in virtù del già affermato principio della globalità-integralità dell'indennizzo.

 

Risarcimento per errata segnalazione alla centrale rischi

Con l'ordinanza n. 13264/2020 (sotto allegata) la Cassazione nega il risarcimento del danno a una società che, a causa dell'errata segnalazione alla Centrale rischi da parte di una delle sue banche d'appoggio alla centrale rischi, non ha potuto portare a termine i suoi piani di investimento e di ampliamento, perché in realtà la crisi era preesistente. Per comprendere come gli Ermellini sono giunti a questa decisione, ribaltando gli esiti dei giudizi di merito, vediamo come si sono svolti i fatti fin dall'inizio.

Una S.p.a conviene una delle sue banche d'appoggio davanti al Tribunale facendo presente che la stessa nel marzo 2000 ha segnalato erroneamente alla Centrale Rischi della Banca d'Italia una sua posizione debitoria nei confronti di un altro istituto di credito. A causa di detta segnalazione gli istituti di credito con cui la società intratteneva rapporti hanno iniziato a ridurre o chiudere le linee di credito e a chiedere di rientrare, gettando sulla stessa un discredito commerciale tale per cui non ha più potuto portare a termine i suoi investimenti e progetti di ampliamento. La S.p.a chiede quindi i danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dall'errata segnalazione.

La banca convenuta fa presente di aver provveduto alla rettifica dell'errata segnalazione nel maggio 2000. Una segnalazione di soli due mesi non può quindi avere gettato sulla società il discredito lamentato. In ogni caso non c'è alcun nesso di causa tra la segnalazione e i danni richiesti dalla società attrice. Il Tribunale però accoglie la domanda della società e condanna la banca a pagare 1.641.110 euro e accessori

La sentenza viene impugnata in via principale dalla banca soccombente e in via incidentale dalla società, che richiede un risarcimento ancora più elevato. La Corte d'Appello respinge l'impugnazione dell'istituto di credito e accoglie quello della società, riconoscendo il nesso di causa tra la segnalazione alla Centrale rischi, la revoca degli affidamenti della altre banche e la conseguente modifica dei propri progetti manageriali. Il Giudice di seconde cure non procede però ad alcuna quantificazione del danno, ritenendo accurata e condivisibile la stima del Consulente.

Società in crisi prima della segnalazione alla Centrale Rischi

La banca soccombente ricorre in Cassazione, lamentando: con il terzo motivo l'omesso esame di un fatto decisivo ossia che "il mutato atteggiamento del ceto bancario nei confronti della società attrice andava ricondotto a ragioni diverse, rispetto alla erronea segnalazione alla centrale rischi." Le cose infatti per la società hanno cominciato a mettersi male sin dal 1999 a causa di problemi tutti debitamente documentati dagli allegati della CTU e dalla documentazione prodotta dalla consulenza di parte; con il quarto, il quinto e il sesto, invece contesta il riconoscimento del danno non patrimoniale alla società. Nessun risarcimento se la società era già in crisi prima della segnalazione

Con l'ordinanza n. 13264/2020 la cassazione accoglie i motivi illustrati sollevati dalla banca, cassa la sentenza e rinvia la causa alla Corte d'Appello in diversa composizione, disponendo che provveda anche sulle spese del giudizio di legittimità

Fondato per gli Ermellini il terzo motivo del ricorso perché la Corte d'Appello ha deciso la causa come se la società fosse florida, mentre dalla documentazione prodotta è emerso l'esatto contrario. "Il trend operativo degli anni immediatamente precedenti la segnalazione alla centrale rischi erano circostanze che dovevano necessariamente essere prese in considerazione ai fini della valutazione del nesso di causalità, perché erano tali da poterne teoricamente escludere la sussistenza." Gli Ermellini ribadiscono infatti che le condizioni preesistenti in cui versava la società "costituiscono un fatto materiale rilevante e centrale nell'accertamento della danno in esame, che la sentenza d'appello ha effettivamente trascurato di esaminare: sia in sé, sia in relazione alla illegittima segnalazione alla centrale rischi."

Fondati anche i motivi relativi al riconoscimento del danno non patrimoniale, perché la sentenza della Corte d'appello in effetti non ha accertato il pregiudizio lamentato. Questo in contrasto con quanto affermato da precedenti pronunce di legittimità per le quali "il danno non patrimoniale, come qualsiasi altro tipo di danno, non può mai ritenersi in re ipsa, con la conseguenza che la relativa prova (beninteso, anche presuntiva) deve essere dapprima offerta da chi invochi il risarcimento, e quindi valutata dal giudice." Il giudice di seconde cure infatti ha omesso di accertare l'esistenza del danno sia in riferimento alla serenità degli amministratori della società che all'immagine pubblica della stessa.

Non solo, per giurisprudenza conforme, i danni non patrimoniali per essere risarciti devono superare una certa soglia di tollerabilità, che è ancora più elevata per le società commerciali, altrimenti si corre il rischio di dover risarcire meri fastidi o disagi. Ora, nel caso di specie, dalla sentenza impugnata emerge che non è stato compiuto il necessario approfondimento "sulla diffusione della notizia diffamatoria, sulla sua percepibilità da parte della collettività, sulla possibilità per fornitori e clienti di connettere il declino societario a quella notizia, piuttosto che ad altri fattori; sulla eccedenza del danno rispetto alla soglia della normale tollerabilità."

---Sui danni per la caduta all’uscita dal ristorante decide il giudice del foro del consumatore
L’essere stato cliente della struttura e non esserci entrato per altre ragioni comporta la conclusione di un contratto di somministrazione di alimenti 

Sui danni per la caduta all’uscita dal ristorante decide il giudice del foro del consumatore. L’essere stato cliente della struttura e non esserci entrato per altre ragioni comporta infatti la conclusione di un contratto di somministrazione di alimenti.

Lo ha affermato la sesta sezione civile della Cassazione con l’ordinanza 13652/20 del 2 luglio che ha accolto il ricorso di un avventore che uscendo da un ristorante in un luogo di villeggiatura era caduto riportando lesioni. Di qui la richiesta di danno formulata di fronte al tribunale della sua residenza, ritenendo applicabile la disciplina sul foro del consumatore. Il tribunale ha invece dichiarato la propria incompetenza affermando che l’attore avrebbe agito ai sensi dell’articolo 2051 del codice civile chiedendo il risarcimento del danno solo extracontrattuale e non contrattuale, da ciò desumendo l’inapplicabilità del foro speciale del consumatore.

Contro la decisione il danneggiato ha proposto ricorso per regolamento di competenza sostenendo che il luogo di residenza o di domicilio del consumatore è fissato dalla legge, per cui il ricorrente non ha l’onere di indicarlo nell’atto introduttivo. Inoltre ha sostenuto di aver consumato un pasto e, quindi, di essere stato cliente del ristorante, con obbligo quindi di applicare il foro speciale.

La Cassazione ha accolto il ricorso rilevando che il giudice di merito, nella sua scarna motivazione, non è giunto affatto a escludere che non sia stata proposta anche azione contrattuale. Questa, peraltro, sussiste, per quanto evidenziato nel ricorso, ove nell’atto introduttivo il ricorrente rimarca di essere entrato nel ristorante per consumare un pranzo, e non per altre ragioni, onde è innegabile la conclusione di un contratto di ristorazione nel senso di somministrazione di alimenti.

Né, ha proseguito il collegio, è sostenibile che un siffatto contratto non includa anche obbligazioni secondarie, come quella di custodia della struttura ove il pasto viene somministrato: invero è, prima ancora che giuridico, del tutto logico che il ristoratore debba tenere la struttura in modo tale che essa non presenti ai clienti difficoltà, rischi o insidie per entrare o per uscire, come pure far sì che i clienti non si trovino in situazione pericolosa quando sono all'interno di essa. Infatti, ha concluso la Cassazione, la figura del ristoratore non coincide con l'albergatore, tuttavia per adempiere si avvale comunque di un immobile, ed è pertanto obbligato a fare in modo che il cliente possa accedervi e uscirne senza pericolo.

---Cassazione: ok all'investigatore per accertare se la malattia del dipendente è vera

Con l'ordinanza n. 11697/2020 la Cassazione, nel respingere il ricorso di un dipendente licenziato, ribadisce il diritto del datore di lavoro di far seguire il dipendente da un investigatore privato per verificare se la malattia esiste davvero o se, in ogni caso, le sue condizioni non sono effettivamente compatibili con l'ambiente di lavoro. Vediamo come ha avuto inizio la vicenda processuale.

Un lavoratore si oppone al licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società datrice, ma il giudice rigetta il ricorso. Il dipendente prova allora a far valere le proprie ragioni in Corte d'Appello, ma anche questa rigetta il suo reclamo, ritenendo legittimo l'incarico conferito dalla datrice a un investigatore privato, per accertare se il dipendente fosse veramente in malattia.

Il dipendente infatti aveva lamentato un trauma contusivo a causa di una caduta dallo scooter procuratosi mentre si allontanava da un cantiere, certificata dal pronto soccorso, che prescriveva assoluto riposo per qualche giorno, con tanto di trasmissione degli atti all'Inail. Peccato che l'investigatore incaricato lo ha sorpreso pedalare ore e ore e a camminare con il figlio sulle spalle nel centro cittadino.

Illegittimo far seguire il lavoratore in malattia

Il dipendente soccombente in entrambi i gradi di merito decide quindi di ricorrere in Cassazione, sollevando i seguenti motivi di doglianza.

Con il primo motivo contesta la legittimità dei controlli investigativi intrapresi dalla società datrice, considerato che i lavoratori subordinati sono esonerati dalla reperibilità.Con il secondo invece contesta la sproporzione tra sanzione irrogata e condotta e fa valere l'insussistenza dell'obbligo di rientrare in anticipo sul periodo di inabilità certificata dall'Inail.Legittimo mettere l'investigatore per provare che la malattia non esiste

La Cassazione con l'ordinanza n. 11697/2020 respinge il ricorso per le ragioni che si vanno a illustrare.

La Corte rileva come gli artt. 2, 3 e 4 della legge 300/700 riconoscono al datore il diritto di servirsi di investigatori per verificare che il lavoratore adempia alle sue obbligazioni esterne all'ambiente lavorativo, ma rilevanti dal punto di vista disciplinare.

Nel caso di specie non rileva che non fosse esperibile la verifica fiscale. A giustificare il controllo del datore è sufficiente il sospetto che "il mancato svolgimento dell'attività lavorativa sia riconducibile alla perpetrazione di un illecito" o che vi sia il solo sospetto o la mera ipotesi che un illecito sia in corso di esecuzione.

Al datore è riconosciuto il diritto di procedere "al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato d'incapacità lavorativa e, quindi, a giustificarne l'assenza."

In questo caso infatti gli accertamenti del datore non avevano una finalità sanitaria, ma lo scopo di dimostrare che la "malattia" lamentata dal dipendente non era incompatibile con l'attività lavorativa o l'assenza dalla stessa. Di qui la legittimità dell'accertamento effettuato dalla datrice tramite investigatore privato in quanto finalizzato a dimostrare l'inesistenza di una situazione in grado di ridurre la capacità lavorativa del dipendente.

Per quanto riguarda invece la lamentata sproporzione tra la condotta e il licenziamento la Corte ribadisce l'impossibilità di procedere a un riesame dei fatti, per la possibilità di giudicare solo la presenza di una motivazione logica e adeguata. A tal proposito gli Ermellini rilevano come le conclusioni a cui è giunta la Corte sono corroborate dalle dichiarazioni dei testimoni e sono ben motivate nel momento in cui rilevano un comportamento del dipendente non improntato a correttezza e buona fede, stante la perdurante assenza dal lavoro anche in presenza dell'intervenuta guarigione, dimostrata dall'intensa attività ciclistica e dalla altre attività fisiche espletate. Il tutto senza comunicare al datore di lavoro il recupero delle sue abilità.

di Debora Alberici

Non può essere licenziato chi fuma in orario d’ufficio nonostante il divieto
Salvo un dipendente sorpreso all’interno dell’intercapedine con la sigaretta accesa: non era un pericolo per l’incolumità dei colleghi 

Buone notizie per i fumatori incalliti. Non può infatti essere licenziato che viene sorpreso con la sigaretta accesa in orario d’ufficio e in barba al divieto. A meno che non metta a repentaglio l’incolumità e la salute dei colleghi.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza 12841 del 26 giugno 2020, ha respinto il ricorso di una società salvando un dipendente sorpreso all’interno dell’intercapedine con la sigaretta accesa.

Per gli Ermellini bene ha fatto la Corte territoriale - condividendo le conclusioni assunte dal Tribunale circa la vigenza del divieto di fumo (a norma di legge e di specifica disposizione adottata dalla ditta committente) in tutto lo stabilimento presso il quale l’uomo era stato assegnato per lo svolgimento della sua attività lavorativa — a valutare, ai fini di riempire di contenuto la clausola generale dettata dall'art. 2119 cod. civ., la scala valoriale del codice disciplinare contenuto nel contratto collettivo applicato in azienda; avendo rinvenuto due tipizzazioni contrattuali concernenti l’infrazione al divieto di fumo (l’una, ex art .47 ccnl, punita con sanzione conservativa e l'altra, ex art. 48, lett. f) con sanzione espulsiva) ha proceduto alla verifica della sussistenza dei requisiti elaborati dalle parti sociali per l’adozione del provvedimento di licenziamento, pervenendo alla conclusione della impossibilità della sussunzione della condotta adottata nell’art. 48, lett. f) per carenza della situazione di “pericolo per le persone o per gli impianti”.

La Corte distrettuale, valutando sia il profilo soggettivo che quello oggettivo della condotta e in specie la conformazione del luogo ove il lavoratore è stato trovato intento a fumare, ha ritenuto di escludere la ricorrenza dei requisiti costitutivi della fattispecie contrattuale punita con sanzione espulsiva, in particolare rilevando che — alla luce delle circostanze concrete che caratterizzavano la condotta del lavoratore — non poteva ritenersi integrato un pericolo alla salute derivante dalla mera combustione di una sigaretta posto che l'infrazione al divieto di fumo in ambienti chiusi previsto dalla legge (art. 5 1 legge n. 3 del 2003) doveva misurarsi, quanto agli effetti sul rapporto di lavoro, con le due distinte previsioni dlscipllnari elaborate dalle parti sociali (artt. 47 e 48 ccnl).

Infatti, in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza.

---Multe autovelox: le nuove indicazioni della Cassazione
Per la Cassazione, non è coperta da fede privilegiata l'annotazione dei verbalizzanti su omologazione e verifiche periodiche. L'onere della prova grava sulla P.A.

---Moglie incinta e con una bimba piccola: niente domiciliari per il marito
Confermata la custodia cautelare in carcere per l’uomo. Le difficoltà per la donna nella gestione della figlia, difficoltà connesse alla gravidanza e alla futura nascita, non bastano per rendere necessario il rientro in casa del coniuge.

(Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 19053/20; depositata il 23 giugno)

---Grazie alla legge salva-lidi lo stabilimento non smonta le strutture né il Comune può opporsi
Manifestazione di volontà e non istanza la comunicazione del gestore che sfrutta la moratoria in attesa delle nuove regole. Esclusa l’incostituzionalità per lesione di prerogative degli enti locali

Il mare d’inverno sarà un po’ meno triste grazie alla legge salva-lidi. Che dopo la stagione estiva consente ai gestori di non smontare le strutture amovibili fino al 31 dicembre prossimo. La norma è solo una moratoria in attesa del riordino del settore, messo a rumore dalla direttiva Bolkestein dell’Unione europea e alla sentenza della Corte di giustizia Ue secondo cui il privato deve vincere una gara pubblica per poter fruttare economicamente un bene demaniale come la spiaggia. Tuttavia la proroga contenuta nella legge di stabilità 2019 non interferisce con la direttiva servizi né il Comune può opporsi, anche se può sempre effettuare controlli. Deve poi escludersi l’incostituzionalità per lesione delle prerogative di enti locali e soprintendenze: la disposizione consente di mantenere opere già autorizzate. È quanto emerge dalla sentenza 110/20, pubblicata dalla prima sezione della sede di Lecce del Tar Puglia.

Immediata comprensione
Accolto il ricorso della società che gestisce i servizi in spiaggia: annullato il provvedimento del Comune che ordina di togliere entro quindici giorni le strutture amovibili dal terreno demaniale. Da una parte l’amministrazione richiede al gestore del lido una serie di documenti di cui è già in possesso. Dall’altra sbaglia a qualificare come “istanza” la dichiarazione del legale rappresentante che manifesta la volontà di avvalersi dell’opportunità offerta dalla legge 145/18, articolo 1, comma 246. E ciò perché l’istanza presuppone una risposta del Comune, positiva o negativa, all’esito di un procedimento, mentre la disposizione si presenta di «immediata comprensione»: l’amministrazione non può imporre agli stabilimenti balneari di rimuovere le opere amovibili sino a fine 2020.

Incertezza normativa
La disposizione di Stabilità 2019 è una norma speciale perché deroga al procedimento ordinario e in quanto tale deroga a quella generale. Ma in fin dei conti soltanto per due stagioni invernali. Il tutto in attesa di regolamentare un settore dove regna l’incertezza normativa, laddove il riordino potrebbe ad esempio consentire di non rimuovere più alla fine della stagione estiva le strutture amovibili dei lidi che si trovano in pieno centro abitato delle località turistiche. Incostituzionalità esclusa perché non si toccano le nuove opere.
Spese di giudizio compensate per la novità della questione.

di Dario La Marchesina

La responsabilità penale del datore di lavoro da Covid-19
Il rispetto delle nuove normative e protocolli nei luoghi di lavoro. Focus sulla responsabilità penale del datore di lavoro da Covid-19

sicurezza sul lavoro
L'emergenza epidemiologica che ha colpito il paese sta influendo pesantemente anche sul nostro tessuto economico, dove gli imprenditori sono tenuti ad osservare rigide disposizioni per poter riprendere a svolgere le loro attività.

Infatti solo con il rispetto delle nuove normative e protocolli, i datori di lavoro potranno evitare di incorrere in quella sfera sanzionatoria del nostro ordinamento che mette maggiore apprensione: la responsabilità penale.

Responsabilità penale datore di lavoro e adempimenti sicurezza in azienda
Cosa prevede il testo unico per la sicurezza nei luoghi di lavoro
Ente e responsabilità da Covid-19
Datore di lavoro: come tutelarsi
Responsabilità penale datore di lavoro e adempimenti sicurezza in azienda
[Torna su]
E' bene sapere che, qualora dovesse essere riscontrato un caso di Covid-19 in azienda, il datore di lavoro può essere esposto ed eventualmente indagato, a seguito di querela della persona offesa, per la commissione di due reati: le lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) e, nei casi di estrema gravità, l'omicidio colposo (art. 589 c.p.).

I giudici penali avranno il compito di valutare la sussistenza dell'elemento giuridico della colpa nelle condotte di prevenzione adottate dall'imprenditore.

Per il nostro diritto penale, la colpa può essere "generica" se causata da imprudenza, imperizia oppure "specifica" se provocata dall'inosservanza di leggi, regolamenti, ordini.

Per questo motivo è fondamentale che il datore di lavoro adempia i suoi obblighi di tutela e salvaguardia della salute e della sicurezza dei suoi dipendenti, attraverso l'osservanza delle norme del codice civile (art. 2087 c.c.) e in particolare di quelle contenute nel Testo Unico per la Sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/2008).

Cosa prevede il testo unico per la sicurezza nei luoghi di lavoro
Il D.Lgs. 81/2008 stabilisce che il datore di lavoro è garante della sicurezza in azienda e per questo è soggetto ad obblighi esclusivi o eventualmente delegabili:

- Ha l'obbligo esclusivo di designare il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (R.S.P.P.) e di predisporre la valutazione dei rischi elaborando il Documento di Valutazione dei Rischi (D.V.R.).

- Inoltre ha l'obbligo di far osservare, con possibilità di delega ad altri soggetti, le disposizioni previste dagli artt. 18-55 del D.Lgs. 81/2008 (es. nomina del medico competente per la sorveglianza sanitaria, programmazione delle misure di prevenzione, fornire i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale ecc.)

Per quanto riguarda le condotte, tenute prima del 03/02/2020, le norme cautelari che il datore di lavoro dovrà dimostrare di aver osservato sono solo quelle previste dal D.Lgs. 81/2008.

Invece, a partire dal 03/02/2020, con l'emanazione della Circolare n. 3190 del Ministero della Salute, i datori di lavoro sono tenuti ad osservare e attuare le prescrizioni igieniche di base per la prevenzione del contagio.

A queste si aggiungono quelle contenute nel Protocollo sottoscritto dal Governo e da Confindustria in data 14/03/2020, le quali prevedono, laddove possibile, la riduzione dell'attività lavorativa in azienda invitando i lavoratori a ricorrere allo smart working o ad usufruire degli ammortizzatori sociali, e in ogni caso la sanificazione periodica dei locali aziendali e l'adozione di specifici dispositivi di protezione individuale.

Il datore di lavoro, per conformarsi queste ultime disposizioni e protocolli in materia, dovrà provvedere all'aggiornamento del Documento di Valutazione dei Rischi in modo tale da essere coperto da eventuali controversie di natura penale da covid-19.

Ente e responsabilità da Covid-19
La sfera giuridica di una possibile responsabilità penale da covid-19 non si esaurisce con la mancata attuazione e rispetto delle normative in materia di sicurezza sul lavoro da parte del datore di lavoro.

Infatti esiste nel nostro ordinamento anche la responsabilità dell'ente (azienda) per i reati commessi dai soggetti che lo rappresentano (c.d. apicali), disciplinata dal D.Lgs. 231/2001.

Si tratta di una responsabilità penale della persona giuridica che presenta peculiarità di carattere amministrativo che si identificano nella natura interdittiva delle sanzioni.

Secondo il D.Lgs. 231/2001 l'illecito deve essere commesso da un soggetto apicale (rappresentante legale, soggetto con poteri di amministrazione o gestione dell'azienda) in vantaggio o nell'interesse dell'ente (es. l'azienda che, per ottimizzare i profitti e abbattere i costi, non fornisce i dispositivi di protezione individuale e non adotta le misure di prevenzione).

Tra i reati annoverati che danno luogo ad una responsabilità amministrativa dell'ente sono stati compresi anche le lesioni colpose e l'omicidio colposo legati all'inosservanza delle norme in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, e quindi anche il contagio da covid-19.

L'azienda, per evitare di incorrere in gravi sanzioni interdittive, deve adottare un modello organizzativo e gestionale tale da dimostrare in sede di giudizio di:

- Aver adottato e attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

- Aver garantito la vigilanza sul funzionamento e l'osservanza dei modelli da parte di un organismo autonomo dell'ente preposto a tali funzioni.

Datore di lavoro: come tutelarsi
In conclusione il datore di lavoro per tutelarsi da un'eventuale querela da caso di covid-19 in azienda, deve osservare le norme sulle sicurezza nei luoghi di lavoro, predisporre e tenere sempre aggiornato il Documento di Valutazione dei Rischi secondo quanto previsto dal D.Lgs. 81/2008 e adottare un modello organizzativo e gestionale idoneo per evitare una responsabilità dell'ente ai sensi del D.Lgs. 231/2001.

---Il fisco può usare le dichiarazioni del contribuente “interrogato” senza assistenza del professionista
Valore indiziario alle propalazioni acquisite in modo irrituale dall’ufficio nell’invito a comparire: spetta al giudice valutarne adeguatezza e fondatezza nell’ambito del suo libero apprezzamento

Le informazioni acquisite in modo irrituale dal contribuente possono avere valore indiziario, dovendosi escludere la loro assoluta inutilizzabilità. È il giudice, nell’ambito del suo libero apprezzamento, a valutarne adeguatezza e fondatezza avuto riguardo all’accertamento nel suo complesso. Nell’accertamento tributario, infatti, è legittima l’utilizzazione di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche acquisito in modo irrituale, ad eccezione di quelli la cui inutilizzabilità discende da specifica previsione di legge e salvi i casi in cui venga in considerazione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale.

È quanto emerge dalla sentenza 663/4/20 pubblicata dalla Ctr Emilia Romagna (cfr. Cassazione 31779/19).
Devono ritenersi utilizzabili le dichiarazioni acquisite dal legale rappresentante di una snc, in seguito a un invito a comparire personalmente ex articolo 32, comma primo, del dpr 600/73, seppure nel caso di specie esse non siano state valutate idonee a fondare la legittimità, nel merito, dell’avviso di accertamento.
La vicenda riguarda un avviso di accertamento con cui l’ufficio aveva ricostruito induttivamente i ricavi della società contribuente in relazione all’attività di realizzazione di prodotti da forno.
Il contribuente eccepiva la violazione del principio di buona fede stabilito dall’articolo 10 della legge 212/00 in quanto, nonostante l’ufficio lo avesse formalmente invitato a presentarsi personalmente per produrre la documentazione relativa, egli era stato in realtà sottoposto ad un vero e proprio “interrogatorio”, senza l’assistenza di professionista, nel corso del quale aveva fornito informazioni inevitabilmente imprecise, sulle quali cui si era successivamente fondato l’avviso di accertamento.

La Ctp accoglieva tale doglianza con pronuncia poi ribaltata in appello con cui è stato accolta la tesi dell’Agenzia delle entrate. In ogni caso il gravame dell’amministrazione finanziaria viene rigettato in quanto nella propria ricostruzione l’ufficio non aveva tenuto conto di tutti gli elementi informativi offerti, anche in momenti successivi, dal contribuente e che attenevano: alla vendita sfusa di materie prime - uova, farina, zucchero - da scorporarsi rispetto ai quantitativi stimati per la produzione di prodotti da forno; alla percentuale di sfrido della farina, valutata nella misura compresa tra l’1 e il 2 per cento, che risulta indebitamente calcolata nella ricostruzione presuntiva del maggior volume di produzione, in contrasto con la metodologia messa a punto dalla stessa amministrazione.

di Annamaria Villafrate

La Cassazione 'bacchetta' l'avvocato
Inammissibile il ricorso caotico e incoerente. La Cassazione raccomanda la lettura della "Guida per gli avvocati" per imparare a scrivere gli atti

Non ha fatto di certo una bella figura chi ha predisposto il ricorso in Cassazione per lamentarsi degli esiti del giudizio d'Appello, che lo ha dichiarato inammissibile per genericità. La Suprema Corte nell'ordinanza n. 9996/2020 ha lamentato poca chiarezza, incoerenza e prolissità espositiva, in pieno contrasto con quanto raccomandato dalla "Guida per gli Avvocati" approvata dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, e non solo. Nel momento in cui infatti il ricorso verte su atti processuali, come nel caso di specie, in cui parte ricorrente si duole del giudizio espresso su suo atto di appello, è necessario indicarlo specificamente nell'atto con cui si ricorre in Cassazione, a pena d'inammissibilità, come richiesto dall'art. 366, co. 1. n. 6 c.p.c.

di Dario Ferrara

Annullata la multa contestata al minorenne
Nonostante la prassi di molti comandi di polizia, l’under 18 non può essere sanzionato in quanto incapace: accertata l’infrazione il verbale va rivolto ai genitori responsabili per «culpa in educando»

Annullata. Addio all’ordinanza-ingiunzione emessa dal prefetto perché il teenager è stato beccato alla guida della microcar senza le cinture o mentre parla al cellulare. E ciò perché il minorenne viene indicato come trasgressore nel verbale, mentre non può essere assoggettato a sanzione amministrativa in quanto incapace. Non conta la prassi seguita da molti comandi di polizia: è impossibile contestare il verbale all’under 18 indicandolo come trasgressore ma, una volta accertata l’infrazione al codice della strada, il verbale di contestazione va emesso nei confronti dei genitori, i quali rispondono a titolo personale per culpa in vigilando e/o educando. È quanto emerge dalla sentenza 619/19, pubblicata dalla sezione civile del giudice di pace di Terracina (in provincia di Latina; magistrato onorario Pietro Tudino).

Responsabili effettivi
Vittoria per il padre del ragazzo, difeso dall’avvocato Roberto Iacovacci. Lo stop al provvedimento della prefettura scatta perché il minore è privo di legittimazione. Quando la violazione è commessa dall’under 18, deve essere redatto prima il verbale che accerta la violazione e poi quello della contestazione, che va rivolta nei confronti delle persone tenute alla sorveglianza dell’interessato. E dunque anzitutto papà e mamma. I quali non rispondono per responsabilità solidale ma vanno considerati - e chiaramente qualificati nell’atto - come effettivi trasgressori ai sensi dell’articolo 2 della legge 689/81: hanno consentito al minore di violare una norma Cds o almeno non lo hanno impedito. È necessario che la polizia indichi nel verbale il rapporto che lega il ragazzo con i soggetti tenuti alla sorveglianza. E dunque non è sufficiente notificare anche i genitori la copia dell’atto di contestazione fatto al minorenne se non risulta accompagnata da specifici elementi rivolti nei confronti degli ascendenti. La prefettura paga le spese di lite.

--Va assolto perché in buona fede l’imputato che fa affidamento sulla prassi del Comune
Da valutare l’errore scusabile nella contravvenzione: il reato non richiede il dolo, ma colpa non vuole dire responsabilità oggettiva. Contraddittoria la motivazione sull’elemento soggettivo

L’imputato di lottizzazione abusiva non può essere condannato se risulta in buona fede perché ha fatto affidamento sulla prassi del Comune nel rilasciare i permessi. E ciò perché si deve valutare l’errore scusabile, mentre il modus operandi dell’amministrazione locale incide senz’altro sul legittimo affidamento del privato. Ne consegue che non si può ritenere responsabile l’imputato quando la motivazione risulta contraddittoria perché non si esprime sull’elemento soggettivo del reato. È quanto emerge dalla sentenza 15205/20, pubblicata il 15 maggio dalla terza sezione penale della Cassazione.

Orientamento superato
Accolto il ricorso degli imputati, laddove il sostituto procuratore generale chiedeva l’annullamento senza rinvio per prescrizione con conferma della confisca: sarà il giudice del rinvio a stabilire se sussiste o no il reato, che si estinguerà comunque il prossimo 12 dicembre, salvo ulteriori prescrizioni. È vero, risulta superato l’orientamento di giurisprudenza secondo cui la lottizzazione abusiva si configurerebbe come unacontravvenzione esclusivamente dolosa: può infatti essere commessa anche per colpa dal momento che si consuma per la mancanza di autorizzazione o per il contrasto con la legge o gli strumenti urbanistici. E ciò sia nella forma negoziale che materiale. Ma colpa non vuol dire responsabilità oggettiva. È stato ad esempio ritenuto in buona fede l’acquirente dell’immobile busivo perché ha fatto affidamento sulla prassi comunale di rilasciare le concessioni anche senza il piano di lottizzazione (oltre che sul certificato di destinazione urbanistica allegato al rogito).

Accertamento mancante
Agli imputati, nella specie, si contesta di aver costruito in zona agricola anche se non hanno la qualifica di imprenditori del settore a titolo principale e utilizzando lotti di estensione inferiore al minimo colturale. È tuttavia carente la motivazione della condanna rispetto all’elemento soggettivo del reato. La Corte d’appello affronta la questione della prassi seguita dall’ufficio tecnico del Comune soltanto rispetto al dolo dell’abuso d’ufficio, dichiarato prescritto, risolvendo la questione in modo coerente al tipo di pronuncia assolutoria sul punto. Ma non compie l’ulteriore accertamento che sarebbe stato necessario rispetto alla lottizzazione abusiva. Né approfondisce i rapporti fra il geometra del Comune e i privati. Atti rinviati alla Corte territoriale.

---Rischia una condanna per bancarotta chi ha nel suo studio la sede dell’impresa che si è resa poi insolvente. A maggior ragione se ha poteri di gestione economica e tiene anche la contabilità.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 12912 del 24 aprile 2020, ha respinto il ricorso dell’amministratore di fatto di una impresa che aveva concesso finanziamenti a una società collegata ed era poi fallita.

Gli Ermellini puntualizzano che qualunque obbligo riservato dalla legge all’amministratore di diritto può essere esteso anche a quello di fatto.

E che avere la sede della società nel proprio studio associata a poteri di gestione economica dimostra che è in atto un’amministrazione di fatto.

Sul punto la quinta sezione penale precisa che «nella specie i giudici di merito attribuiscono al ricorrente la veste di amministratore di fatto sulla scorta di vari indici sintomatici costituiti da: la sussistenza di varie società, tra cui la fallita, riferibili ai fratelli e da questi gestite in modo promiscuo; rilevanti finanziamenti erogati dall'imputato in favore della società; la condivisione della proprietà delle quote societarie tra i due fratelli; la circostanza che la sede legale della società si trovasse presso lo studio del ricorrente e che sempre lì veniva tenuta e gestita la contabilità».

In virtù di ciò, conclude la Cassazione, sulla scorta di una motivazione immune da vizi logici, i giudici di merito concludono che all’imputato erano riconducibili poteri di rappresentanza esterna della società, nonché la gestione economico-finanziaria e amministrativa della società fallita, in modo continuativo durante l’intero corso della vita societaria.

Nell’affermare questo principio “Piazza Cavour” ne chiarisce un altro per cui il soggetto che assume, in base alla disciplina dettata dall'art. 2639 cod. civ., la qualifica dl amministratore di fatto di una società è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore di diritto, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, è penalmente responsabile per tutti i comportamenti a quest'ultimo addebitabili, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti.

---Il commercialista che sbaglia la dichiarazione dei redditi del cliente, in questo caso omettendo una vendita immobiliare, è tenuto a versare all’amministrazione finanziaria le sanzioni dovute in seguito all’accertamento con adesione.

È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con l’ordinanza n. 8108 del 23 aprile 2020, ha respinto il ricorso di un professionista.

La terza sezione civile, dunque, ha condiviso in pieno le conclusioni cui è giunta la Corte d’Appello di Firenze che, nel 2018, aveva condannato l’uomo pagare il gap, e cioè le sanzioni ridotte, spiccate dall’ufficio dopo l’accordo con i contribuenti.

Sul punto nella breve quanto interessante motivazione si legge che la Corte territoriale, con sentenza redatta accuratamente, anche nella forma grafica ed espressiva, ed esaustivamente e logicamente motivata, ha addebitato al commercialista le esatte conseguenze del suo comportamento, consistente non nell’intera somma che era stata chiesta dal Fisco ai coniugi bensì quella che essi avevano dovuto pagare a seguito di accertamento con adesione, procedendo, quindi, a scomputare da detta ultima somma quella che l’amministrazione finanziaria avrebbe richiesto se la plusvalenza fosse stata correttamente esposta nella dichiarazione dei redditi e se il prezzo di vendita di lite ottocento milioni non fosse stato rettificato, ossia senza applicazione di alcuna sanzione, perché l’imposta non sarebbe stata evasa. Ora il consulente verserà alla coppia ben 43 mila eu

Ingiustificata la richiesta di denaro anche da parte della donna che dovuto interrompere una gravidanza indesiderata dal partner

Può finire in carcere per estorsione chi minaccia di rivelare la relazione extraconiugale alla moglie sotto richiesta di denaro. Ciò anche se ha dovuto interrompere una gravidanza indesiderata dall’amante.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 9750 dell’11 marzo 2020, ha respinto il ricorso di una donna che aveva incassato dall’amante qualche migliaia di euro, minacciandolo di rendere pubblica la loro relazione.

Bene per i Supremi giudici ha fatto la Corte d’Appello a confermare il verdetto della decisione di primo grado, che aveva evidenziato che la tesi difensiva secondo la quale la ricorrente era convinta di avere diritto alle somme richieste (che, secondo la difesa, riteneva le spettassero di diritto) era infondata in quanto non esisteva alcuna pretesa tutelabile; mancava anche il presupposto della richiesta, e cioè il riconoscimento di una somma per non aver portato a termine una gravidanza, presupposto non provato, smentito dalle dichiarazioni dei testi e sul quale nessuna censura vi è in ricorso per sostenere, invece, la sussistenza dello stesso.Cassazione.net

---Condanna annullata per chi detiene animali diversi in un piccolo recinto
Escluso l’abbandono a carico dell’imputato che non ha altri posti dove custodire bovini e vitelli: addio ammenda se non si verifica che i capi di bestiame sono denutriti e non abbeverati abbastanza

Nessuna ammenda è prevista per il reato dell’articolo 727 Cp a chi detiene animali diversi in un piccolo recinto.

Gli “ermellini” hanno annullato con rinvio la sentenza con cui il tribunale condannava un uomo alla pena di mille euro di ammenda per abbandono di animali perché deteneva animali diversi (tra cui bovini e una capra) in un piccolo recinto in condizioni incompatibili con la loro natura e senza un adeguato sistema di abbeveraggio e in uno stato nutrizionale scadente. Osserva il ricorrente che la motivazione del tribunale che disponeva il sequestro amministrativo degli animali era carente, laddove riteneva che gli animali fossero costretti a vivere in un habitat non idoneo, senza spiegare perché tale luogo fosse inadeguato, anche alla luce di quanto affermato da alcuni teste che confermavano che il recinto era abbastanza grande, che c’era un’autoclave collegata al pozzo, e, infine, che lo stato di salute di salute degli animali era buono.

Il collegio di legittimità ritiene fondato il ricorso: il tribunale ha ritenuto provata la penale responsabilità dell’imputato per la contravvenzione a lui contestata «avendo lo stesso ubicato animali di diversa tipologia nella stesso recinto dalla dimensioni modeste e quindi costringendoli a vivere in un habitat non idoneo», senza tuttavia considerare che «il sequestro disponeva la custodia degli animali proprio nel luogo in cui furono trovati, e non emergendo che l’imputato disponesse di altri luoghi dove custodire gli animali stessi». La motivazione non soltanto è «manifestamente illogica, ma anche carente», non avendo accertato «l’eventuale inadeguato sistema di abbeveraggio e l’eventuale stato nutrizionale scadente degli animali, circostanze che pure sono state contestate nel capo di imputazione e che ben possono integrare il reato in questione, purché produttive di gravi sofferenze, ma che il tribunale ha omesso di verificare nel caso concreto». Pertanto il Supremo Collegio ha annullato la sentenza con rinvio per un nuovo esame. Cassazione penale Sez.III n.9371 depositata il 9 febbraio 2020.

Saranno le Sezioni unite civili della Cassazione a stabilire se la sentenza di divorzio su ricorso congiunto delle parti può contenere la clausola che trasferisce l'immobile fra gli ex coniugi, senza che debba intervenire il notaio.Così come per la separazione consensuale. Si fa strada nelle giurisdizioni di merito l'interpretazione per cui il notaio non è insostituibile.

La Cassazione con ordinanza n.32483 del 12 dicembre del 2019 ha statuito che non spetta il risarcimento dei danni per le vittime da tamponamento perchè se non si deposita la radiografia è escluso che il colpo di frusta refertato al pronto soccorso possa essere considerato una lesione micropermanente.

La mera irregolarità urbanistica dell'immoble promesso in vendita non blocca la sentenza costitutiva di trasferimento. L'esecuzione specifica - infatti - è esclusa solo quando il bene oggetto del preliminare è stato costruito in assenza della licenza o concessione edilizia.

Nel caso in esame l'abuso era rappresentato da una tettoia abusiva, a servizio dell'immobile oggetto del preliminare di vendita. Così ha deciso la Cassazione con sentenza n.32225 del 10 dicembre 2019.

---Gli animali non devonoessere esposti ad alcuna sofferenza fisica, altrimenti si rischia una condanna penale.Infatti chi mette in condizioni poco adatte, in questo caso chiusi in gabbie esposte ad intemperie anche se ben nutriti, non viene prosciolto, diversamente da come aveva disposto il giudice del merito, per la particolare tenuità del fatto. Cassazione penale del 9 dicembre 2019 n. 49791.

Assolto l'imputato che non dichiare le perdite nel bilancio della società dai reati previsti per bancarotta semplice e fraudolenta, in quanto i conti dell'esercizio finanziario, non rientrano nei documenti previsti dall'art.216 comma primo l.f. Corte Cassazione seconda sezione penale, sentenza n.37878 del 12 settembre 2019

Il fisco non può sanzionare il contribuente in buona fede.E ciò perchè la sovratassa scatta soltanto quando la parte privata viola la norma tributaria in modo consapevole,a titolo di dolo o colpa;deve invece essere esonorata dal pagamento quando dimostra la propria ignoranza incolpevolecioè che non sapeva di commettere un illecito. Sentenza n.82 della Commissione tributaria del Friuli Venezia Giulia, Sezione seconda. 

La Corte di Cassazione con sentenza 21/09/2017, n. 43160 ha precisato che nel reato di abuso di ufficio il dolo intenzionale va desunto da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti tra agente e soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge. Pertanto, il responsabile di un ufficio tecnico comunale è colpevole del reato di abuso d’ufficio per aver rilasciato titoli abilitativi illegittimi per l'esecuzione di lavori di ristrutturazione non consentiti, anche in assenza di accordi collusivi con il privato interessato ed in compresenza di un interesse pubblico

LA BOLLETTA O LA FATTURA NON PROVA IL SERVIZIO DI EROGAZIONE DELL'ACQUA E SOPRATUTTO LE QUANTITà UTILIZZATE DALL'UTENTE.
Corte di Cassazione ordinanza n.17659 del 2luglio 2019

Gli indumenti degli operatori ecologici rientrano tra i dispositivi di protezione individuale e il relativo lavaggio spetta all'impresa.La rimozione legale,infatti, deve essere riferita a qualsiasi attrezzatura o accessorio che possa costituire una barriera protettiva rispetto al rischio per la salute. Cassazione n.16749,ordinanza del 21 giugno 2019

Cass. Sez. III n. 15228 del 28 marzo 2017 (Ud 31 gen 2017) Presidente: Savani Estensore: Aceto Imputato: Cucino. Urbanistica.Falso e domanda per il rilascio del permesso di costruire

Commettono il delitto di falsità ideologica in certificati (previsto dall'art. 481 cod. pen.), e non quello più grave di falsità ideologica in atto pubblico (previsto dall'art. 483 cod. pen.), il professionista che redige planimetrie finalizzate alla domanda per il rilascio del permesso di costruire non corrispondenti alla realtà, ed il committente che le allega alla domanda stessa, giacché dette planimetrie non sono destinate a provare la verità di quanto rappresentatovi, ma svolgono la funzione di dare alla P.A. - la quale resta pur sempre titolare del potere di procedere ad accertamenti autonomi - un'esatta informazione sullo stato dei luoghi. Se dette planimetrie vengono avallate dai dirigenti, ne rispondono in concorso,

La banca risarcisce l'investitore per la perdita del capitale se non lo rende edotto sulle caratteristiche del titolo negoziato anche se al cliente piace andare giù pesante quando compra in borsa : la proprensione al rischio dell'acquirente non esonera l'intermediario dalla prova di avere adempiuto agli obblighi informativisulle caratteristiche del prodotto perchè solo una conoscenza adeguata può determinare l'accettazione consapevole dell'operazione .Inutile altrimenti per l'istitutofarsi confermare per iscritto l'ordine di acquisto. Ordinanza n. 15708 dell'11 giugno 2019 della prima sezione civile della Cassazione.

La vendita sottocosto di un immobile da parte della società desunta anche dai valori Omi giustifica l'accertamento induttivo. Una volta che il fisco ha contestato l'antieconomicità dell'operazione spetta al contribuente fornire le necessarie spiegazioni, in mancanza delle quali scatta la verifica. Cassazione n-15321 del 6 giugno 2019

Nell'ambito di un procedimento per sottrazione internazionale di minori il bambino sradicato unilateralmente dal contesto sociale ove è cresciuto dev'essere sentito dal giudice nonostante i servizi sociali lo abbiano ascoltato. Ordinanza n. 15254 del 4 giugno 2019 ore 18,55 Corte Suprema di cassazione.

La Suprema corte restituisce la patente al condannato per guida in stato d'ebrezza.E senza passare per il giudizio di rinvio.Questo se il condannato ottiene la sostituzione della pena con i lavori di pubblica utilità. Cass 31 maggio 2019 n.24385.

Il fisco non può negare all'azienda la detrazione dei costi che etichetta semplicemente come "sproporzionati". L'Ufficio è infatti tenuto a dimostrare l'antieconomicità effettiva delle spese.Corte cassazione,sentenza n.14941 del 31 maggio2019.

 Il lavoratore ha diritto ai permessi retribuiti per assistere il familiare malato anche se produce la sola relazione di ricovero in ospedale: se il datore contesta la sussistenza della grave infermità,infatti ,il dipendente ben può dimostrarla con altri certificati medici nel corso del giudizio. Ordinanza 14794 del 30 maggio2019 sezione lavoro della Cassazione-

L'improvviso bisogno fisiologico è un malessere che giustifica la sosta in corsia d'emergenza.

L’improvviso bisogno fisiologico - anche se non dovuto a malfunzionamento organico - giustifica la sosta in corsia d’'emergenza, per il tempo strettamente necessario a superare l'emergenza stessa, poiché non consente di guidare con la dovuta attenzione in quanto esclude quella condizione di benessere fisico indispensabile per una guida corretta che non ponga in pericolo sia lo stesso conducente ed i terzi trasportati sia gli altri utenti della strada. In tal caso, infatti, il bisogno di minzione integra quel “malessere” al ricorrere del quale il Codice della Strada consente la sosta d’emergenza.

È questo, in sintesi, l'orientamento giurisprudenziale che ha fatto evitare il carcere ad un tassista romano che, per un bisogno impellente - a suo dire legato a problemi di prostata e, quindi, ad un’incontinenza cronica - si era fermato nella corsia d’emergenza del Grande Roccordo Anulare venendo coinvolto in un tragico incidente stradale.

Più precisamente la bizzarra, quanto triste vicenda giunta innanzi alla Quarta Sezione della Suprema Corte di Cassazione vede come protagonista un tassista processato per il reato di omicidio colposo perchè, mentre percorreva il Grande Raccordo Anulare in orario mattutino, decideva di fermarsi, arrestando la marcia del suo taxi in corsia d'emergenza: motivo della fermata era un impellente bisogno fisiologico. Finita l’operazione di “liberazione”, mentre stava risalendo sulla sua autovettura, veniva violentemente tamponato da un motociclo il cui conducente, in esito all'urto, purtroppo, decedeva.

Gli eredi di quest’ultimo hanno impugnato in Cassazione la sentenza emessa dalla Corte d'appello di Roma, che confermava la sentenza con la quale il Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Roma aveva assolto il tassista con la formula "perché il fatto non costituisce reato". Nel rigettare i motivi d'appello degli eredi della vittima, la Corte capitolina aveva attenzionato l'età del tassista (nato nel 1936) e il fatto che egli era affetto da problemi prostatici, per ravvisare nella specie la condizione di "malessere" che legittimava l'imputato a fermarsi in corsia d'emergenza.

La Corte di Cassazione con sentenza del 26 marzo 2019 (Presidente: Izzo Fausto Relatore: Pavich Giuseppe Data Udienza: 19.2.2019) ha rigettato il ricorso proposto dagli eredi precisando il concetto di “malessere” che giustifica la sosta ai fini di quanto stabilito dall'art. 176, comma 5, Codice della Strada secondo cui “Sulle carreggiate, sulle rampe e sugli svincoli è vietato sostare o solo fermarsi, fuorché in situazioni d'emergenza dovute a malessere degli occupanti del veicolo o ad inefficienza del veicolo medesimo (…)”.

In particolare, sul presupposto che la sosta d'emergenza è giustificata, a norma dell'art. 176 comma 6 del Codice della Strada, per «il tempo strettamente necessario per superare l'emergenza stessa», la Corte di Cassazione ha richiamato l’indirizzo giurisprudenziale della Corte regolatrice (Sez. 4, Sentenza n. 7679 del 14.01.2010, Del Vesco e altri, n.m.) secondo il quale il concetto di malessere che legittima la sosta nella corsia d‘emergenza prescinde da un eventuale malfunzionamento organico, essendo sufficiente l’improvviso bisogno fisiologico che notoriamente fa venir meno quel benessere fisico che consente una corretta guida.

In tal senso nella sentenza si richiama espressamente il principio in base al quale dev'essere «inquadrato il bisogno fisiologico nel concetto di "malessere" che giustifica la sosta sulla corsia di emergenza ai sensi dell'art. 157 C.d.S., comma 1, lett. d) *. Invero, il termine "malessere" non può esaurirsi nella nozione di infermità incidente sulla capacità intellettiva e volitiva del soggetto come prevista dall'art. 88 c.p. o nell'ipotesi di caso fortuito di cui all'art. 45 c.p., bensì nel lato concetto di disagio e finanche di incoercibile necessità fisica anche transitoria che non consente di proseguire la guida con il dovuto livello di attenzione e quindi in esso deve necessariamente ricomprendersi l'improvviso bisogno fisiologico (dipendente o meno da malfunzionamento organico) che notoriamente esclude quella condizione di benessere fisico indispensabile per una guida corretta che non ponga in pericolo sia lo stesso conducente ed i terzi trasportati sia gli altri utenti della strada».

Aggiunge la Corte che non sussistevano neppure le condizioni nelle quali é prescritto come obbligatorio l'uso delle segnalazioni luminose (c.d. quattro frecce) in base agli artt. 153, 162 e 176 comma 7 Cod. Strada, né quelle nelle quali é prescritto l'uso dei dispositivi retroriflettenti di protezione individuale (c.d. giubbotti catarifrangenti, di cui al comma 4-bis dell'art. 162 Cod. Strada): dalla lettura della sentenza impugnata risulta infatti che il sinistro si verificò in una mattinata di pieno sole, poco dopo le ore 09.00, in un tratto del G.R.A. pressoché rettilineo e quindi con visibilità più che buona.

 Abuso d'ufficio al dipendente comunale che non si astiene in presenza di un interesse proprio. Suprema Corte di Cassazione sentenza del 4 aprile 2019.

Rischia una condanna per evasione fiscale l'imprenditore che non versa le imposte anche se è già intervenuta la sentenza dichiarativa di fallimento. Cassazione 27 maggio 2019 n. 23138

L'imputato non può dolersi con ricorso in cassazione perchè non gli è stata applicata la condizionale se non l ha chiesta nel procedimento d 'appello. Sezioni unite penali della Cassazione, sentenza n.22533 del 22 maggio 2019.

Il cliente ha sempre dirittoad ottenere dal suo istituto di credito i documenti e il rendiconto delle sue operazioni relative agli ultimi dieci anni, anche in corso di causa. GRANDE VITTORIA PER I CONSUMATORI. Corte di Cassazione,ordinanza n.14231 del 24 maggio 2019

E' reintegrato il lavoratore che pure ha scagliatoun oggetto contro il collega.E ciò perchè le due postazioni sonolontane e il dipendente incolpato non aveva davvero intenzione di fargli del male.Scatta dunque la tutela reale ex articolo 18,comma quarto, dello statuto dei lavoratoriche copre anche il fatto sussistente ma privo di carattere di illecità. Sentenza n.14054 del 23 maddio 2019 della Corte Suprema di Cassazione.

Il comune paga all'avvocato l'intero onorario anche se l'impegno di spesa assunto non ha la copertura finanziaria. La nullità di diritto dei contratti degli enti pubblici riguarda, infatti , solo le delibere che implicano un esborso di somme certe e definitive ma non si applica alle controversie giudiziarie. Cassazione prima sezione civile,ordinanza n. 13913 del 22 maggio 2019.

Il Tribunale di Firenze ha ricevuto un doppio premio nell'ambito dell'evento Forum PA 2019. Forum PA è la più importante manifestazione nazionale dedicata alla modernizzazione della Pubblica Amministrazione da 30 anni, è dal 1990 infatti che sostiene e favorisce l’incontro e la collaborazione tra pubblica amministrazione, imprese, mondo della ricerca e società civile, sostenendo tutti i processi di innovazione che impattano sul sistema pubblico, sullo sviluppo del Paese, sulla vita quotidiana di cittadini e imprese. Il Tribunale di Firenze è stato premiato 2 volte all'interno della categoria "Giustizia, trasparenza, partecipazione e partenariati", per il progetto "Giustizia semplice 4.0" e per il progetto "Tribunale di Firenze Web Tv"

Per quattro giorni Napoli è stata la capitale della trasformazione digitale in Italia. Esperti, politici, giovani sviluppatori si sono alternati tra la sala conferenza dell'Apple Developer Academy di San Giovanni a Teduccio e il palco del Teatro San Carlo per raccontare le buone pratiche della PA italiana. A riunirli in una maratona di creatività è stata Agi Agenzia Italia in collaborazione con la Regione Campania e l’Università di Napoli Federico II.  Di particolare rilievo la giornata "Transformers" dedicata ai 16 campioni della trasformazione digitale della Pubblica Amministrazione, presente il Ministro Giulia Bongiorno. L'unico progetto selezionato nel mondo della giustizia è stato quello del Tribunale di Firenze"Giustizia semplice 4.0", presentato durante l'evento dalla Presidente del Tribunale Marilena Rizzo

Il notaio è tenuto al risarcimento dei danni per avere indicato un valore errato del bene nella denunzia di successione anche se il cliente è un esperto. In presenza di un inadempimento specifico ai propri obblighi professionali non è infatti configurabile il concorso colposo del danneggiato. Terza sezione civile Corte di Cassazione, ordinanza 13592 del 21 maggio 2019.

 La colpa della banca che paga un assegno circolare a persona diversa non è oggettiva. Secondo la Cassazione l’Istituto che ha negoziato il titolo può essere ammesso a provare di aver agito con diligenza e che l’inadempimento non gli è imputabile. Ordinanza n. 12984 del 15 Maggio 2019 della Suprema Corte di Cassazione.

L’accertamento induttivo all’impresa in crisi è in conflitto con il principio di eguaglianza. Il fisco si mette contro l’articolo 3 della costituzione se pretende di applicare la reddittività di un impresa in piena efficienza alla società che è ormai alla canna del gas, al punto che il fallimento viene dichiarato nello stesso anno d’imposta. Cassazione ordinanza n.13161 del 16 maggio 2019. Sezione Tributaria.

Stop della revisione massiva dei classamenti degli immobili di proprietà. Dopo la Sentenza della Corte Costituzionale n. 249 del 2017, il provvedimento del fisco dev'essere specifico e puntuale e non può fare riferimento solo al rapporto fra il valore di mercato e quello catastale. Devono essereelencati gli elementi che hanno inciso sulla microzona. Corte di Cassazione orinanza n. 12604 del 10 maggio 2019

 La Corte di Cassazione ha ritenuto essere un atteggiamento immaturo ed infantile quello del prof. che non evidenzia l'intento di appagare gli istinti sessuali con l'alunna minorenne. E stato assolto con tale motivazione dal reato di tentativo di atti sessuali col minore nonostante lo scambio di messaggi amorosi. La Suprema Corte,ha respinto i ricorsi dei genitori di una ragazzina di tredici anni che si costituivano parte civile nel procedimento a carico di un professore assolto dalla Corte d'Appello dal reato previsto e punito dagli articoli 56 e 609 quater del Codice penale.L'imputato aveva inviato all'alunna alcuni messaggi amorosi e l'aveva abbracciata in un'occasione, comportamento interrotto per il tempestivo intervento dei genitori. Cassazione penale del 16 aprile 2019 sentenza n.16484.

L'agenzia delle entrate può iscrivere ipoteca sui beni del fondo patrimoniale per un debito tributario. Secondo il Supremo Collegio spetta al contribuente provare che i tributi inadempiuti fossero da attribuirsi a scopi estranei ai bisogni della famiglia. Corte di Cassazione ordinanza n.7497 del 15 marzo 2019

La volontà del testatore non può essere desunta da una successiva sua lettera dattiloscrittà. Il ricorso a elementi estrinseci al documento, è consentito soltanto per roslvere parole o espressioni dubbiose al fine di ricostruire la volontà del suo autore. Pertanto il giudice attraverso il predetto documento non può giungere al risultato di attribuire alla disposizione testamentaria un contenuto nuovo non espresso nel testamento.
Cassazione sezione civile n.7025 del 12 marzo2019

La Corte Costituzionale con sentenza n.34del 6 marzo 2019 ha dichiarato incostituzionali le norme che escludono l 'equa riparazione della legge Pinto per la causa lumaca se nel giudizio amministrativo è mancata l'istanza di prelievo. E ciò perchè l'istituto, prima della rimodulazione come rimedio preventivo,non costituiva un adempimento necessario ma una mera facoltà del ricorrente; in quanto, un adempimento formale di prenotazione della decisione che non può essere snzionato con l 'improponibilità della domanda di indennizzo.

IMU.La residenza nell'abitazione non sempre dà diritto all'esenzione dell'IMU. La perde la moglie se il marito usufruisce del bonus per un'altra casa. Infatti, secondo gli Ermellini solo uno dei due beni può essere deputato a dimora reale della famiglia.La Corte di Cassazione con ordinanza n.5314 del 22 febbraio 2019, ha accolto il ricorso di un Comune toscano presentato contro una coppia che usufruiva dell'agevolazione, ciascuno nel proprio appartamento. Secondo i giudici di legittimità che hanno cassato la sentenza emessa dai giudici di merito, la casa principale e della famiglia è l'unica ad usufruire del bonus, in quanto la residenza è un parametro che passa in secondo piano.Detta ordinanza in ogni caso è destinata a far discutere-

Annullata la multa e il taglio dei punti dalla patente per eccesso di velocità rilevato dallo scout speed, l'autovelox portatile sulla pattuglia dei vigili che misura l'andatura dei veicoli provenienti in senso contrario, in quanto il Comune non ha dimostrato di avere segnalato la misurazione elettronica sulla strada con visibilità e anticipo adeguati. in questi casi va disapplicato l'art.3 del decreto ministeriale 15 agosto 2007. A tali conseguenze non si sottrae neanche il radar con telecamera installato sull'auto, in quanto rientra fra le postazioni mobili soggetti all'obbligo di segnalazione. Sentenza 119/19,sezione civile tribunale di Paola (Cosenza) giudice dott. Franco Caroleo.

La Corte di Cassazione Sez.III penale con sentenza del 15 febbraio 2019 n 7166,ha statuito che con le nuove disposizioni della legge 242/16 chi coltiva canapa potrà anche non accedere ai finanziamenti europei ma in compenso non commetterà reato se il Thc contenuto nelle piantine, tra lo 0,2 e lo 0,6 ha un effetto drogante. Nel caso, poi di superamento di tale soglia, l'autorità giudiziaria può disporre il sequestro o decidere di distruggere la coltivazione ma, anche in tale ipotesi, non c'è responsabilità penale dell'agricoltore.

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