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Dettagli...

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di Gaetano Sardella

Ecco una riflessione della prof.ssa Elvira Casaceli sulla tre giorni di spititualita' che stiamo vivendo dalle Suore Francescane in questi giorni.

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NOTIZIARIOEOLIE.IT

23 MARZO 2013

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9 NOVEMBRE 2011

https://www.youtube.com/watch%3Fv%3DXJlS_cv_9S0&ved=2ahUKEwj49bO14Nv7AhWiXvEDHbAuAfIQtwJ6BAgYEAI

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In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». (...)

Nel deserto della Giudea e sulle rive attorno al lago di Galilea, per Giovanni e per Gesù le parole generative sono le stesse : “convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2). Tre annunci in uno: a) esiste un regno, cieli nuovi e terra nuova, un mondo nuovo che preme per venire alla luce.. b) Un regno incamminato. I due profeti non dicono cos’è il Regno, ma dove è. Lo fanno con una parola calda di speranza “vicino”.

Dio è vicino, è qui. Seconda buona notizia: il Pellegrino eterno ha camminato molto, il suo esodo approda qui, alla radice del vivere, non ai margini della vita, si fa intimo come un pane nella bocca, una parola detta sul cuore portata dal respiro: infatti “vi battezzerà nello Spirito Santo”, vi immergerà dentro il soffio e il mare di Dio, sarete avvolti, intrisi, impregnati della vita stessa di Dio, in ogni vostra fibra. c) Convertitevi, ossia mettetela in cammino la vostra vita, non per una imposizione da fuori ma per una seduzione.

La vita non cambia per decreto-legge, ma per una bellezza almeno intravista: sulla strada che io percorro, il cielo è più vicino e più azzurro, la terra più dolce di frutti, ci sono più sorrisi e occhi con luce. Convertitevi: giratevi verso la luce, perché la luce è già qui. Infatti viene uno che è più grande di me. I due profeti usano lo stesso verbo e sempre al tempo presente: «Dio viene». Non: verrà, un giorno; oppure sta per venire, sarà qui tra poco. E ci sarebbe bastato.

Semplice, diretto, sicuro: viene. Come un seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia, piccolo buco bianco che ingoia il nero della notte. Giorno per giorno, continuamente, Dio viene. Anche se non lo vedi, viene; anche se non ti accorgi di lui, è in cammino su tutte le strade.​

È bello questo mondo immaginato colmo di orme di Dio. Isaia, il sognatore, annuncia che Dio non sta non solo nell’intimo, in un’esperienza soggettiva, ma si è insediato al centro della vita, come un re sul trono, al centro delle relazioni e delle connessioni tra i viventi, rete che raccoglie insieme, in armonia, il lupo e l’agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente, uomo e donna, arabo ed ebreo, musulmano e cristiano, bianco e nero, russo e ucraino, per il fiorire della vita in tutte le sue forme.

Dio viene. Io credo nella buona notizia di Isaia, Giovanni, Gesù. Lo credo non per un facile ottimismo. Il cristiano non è ottimista, ha speranza. L’ottimista tra due ipotesi sceglie quella più positiva o probabile. Io scelgo il Regno per un atto di fede: perché Dio si è impegnato con noi, in questa storia, ha le mani impigliate nel folto di questa vita, con un intreccio così scandaloso con la nostra carne da arrivare fino al legno di una mangiatoia e di una croce.

 

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». (...)

Nel deserto della Giudea e sulle rive attorno al lago di Galilea, per Giovanni e per Gesù le parole generative sono le stesse : “convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2). Tre annunci in uno: a) esiste un regno, cieli nuovi e terra nuova, un mondo nuovo che preme per venire alla luce.. b) Un regno incamminato. I due profeti non dicono cos’è il Regno, ma dove è. Lo fanno con una parola calda di speranza “vicino”. Dio è vicino, è qui. Seconda buona notizia: il Pellegrino eterno ha camminato molto, il suo esodo approda qui, alla radice del vivere, non ai margini della vita, si fa intimo come un pane nella bocca, una parola detta sul cuore portata dal respiro: infatti “vi battezzerà nello Spirito Santo”, vi immergerà dentro il soffio e il mare di Dio, sarete avvolti, intrisi, impregnati della vita stessa di Dio, in ogni vostra fibra. c) Convertitevi, ossia mettetela in cammino la vostra vita, non per una imposizione da fuori ma per una seduzione.

La vita non cambia per decreto-legge, ma per una bellezza almeno intravista: sulla strada che io percorro, il cielo è più vicino e più azzurro, la terra più dolce di frutti, ci sono più sorrisi e occhi con luce. Convertitevi: giratevi verso la luce, perché la luce è già qui. Infatti viene uno che è più grande di me. I due profeti usano lo stesso verbo e sempre al tempo presente: «Dio viene». Non: verrà, un giorno; oppure sta per venire, sarà qui tra poco. E ci sarebbe bastato. Semplice, diretto, sicuro: viene. Come un seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia, piccolo buco bianco che ingoia il nero della notte. Giorno per giorno, continuamente, Dio viene. Anche se non lo vedi, viene; anche se non ti accorgi di lui, è in cammino su tutte le strade.​

È bello questo mondo immaginato colmo di orme di Dio. Isaia, il sognatore, annuncia che Dio non sta non solo nell’intimo, in un’esperienza soggettiva, ma si è insediato al centro della vita, come un re sul trono, al centro delle relazioni e delle connessioni tra i viventi, rete che raccoglie insieme, in armonia, il lupo e l’agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente, uomo e donna, arabo ed ebreo, musulmano e cristiano, bianco e nero, russo e ucraino, per il fiorire della vita in tutte le sue forme.

Dio viene. Io credo nella buona notizia di Isaia, Giovanni, Gesù. Lo credo non per un facile ottimismo. Il cristiano non è ottimista, ha speranza. L’ottimista tra due ipotesi sceglie quella più positiva o probabile. Io scelgo il Regno per un atto di fede: perché Dio si è impegnato con noi, in questa storia, ha le mani impigliate nel folto di questa vita, con un intreccio così scandaloso con la nostra carne da arrivare fino al legno di una mangiatoia e di una croce.

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. [...]».

Come nei giorni che precedettero il diluvio, mangiavano e bevevano e non si accorsero di nulla... i giorni di Noè sono i giorni ininterrotti delle nostre disattenzioni, il grande peccato: «questo soprattutto perdonate: la mia disattenzione» (Mariangela Gualtieri). Al vertice opposto, come suo contrario, sull’altro piatto della bilancia ci soccorre l’attenzione «che è la preghiera spontanea dell’anima» (M. Gualtieri). Avvento: tempo per essere vigili, come madri in attesa, attenti alla vita che danza nei grembi, quelli di Maria e di Elisabetta, le prime profetesse, e nei grembi di «tutti gli atomi di Maria sparsi nel mondo e che hanno nome donna» (Giovanni Vannucci). Avvento è vita che nasce, a sussurrare che questo mondo porta un altro mondo nel grembo, con la sua danza lenta e testarda come il battito del cuore.

Avvento: quando Dio è una realtà germinante, colui che presiede ad ogni nascita, che interviene nella storia non con le gesta dei potenti, ma con il miracolo umile e strepitoso della vita, con la danza di un grembo, in cui lievita il pane di un uomo nuovo. Dio è colui che invece di porre la scure alla radice dell’albero, inventa cure per ogni germoglio, per ogni hinnon (Salmo 72,17), che è anche nome di Dio. Due uomini saranno nel campo... due donne macineranno alla mola, una rapita, una lasciata; due soldati saranno al fronte in Ucraina, uno sarà ferito, uno resta incolume. Perché questa alternanza di vita e di morte, di salvati e di sommersi? Gesù stesso non lo spiega. Sappiamo però che caso, fatalità, fortuna sono concetti assolutamente estranei al mondo biblico. Dio non gioca a dadi con la sua creazione. Io credo con tutto me stesso che, nonostante qualsiasi smentita, la storia, mia e di tutti, è sempre un reale cammino di salvezza. E il capo del filo è saldo nelle mani di Dio.

Se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro... Un ladro come metafora del Signore! Di lui che non ruba niente e dona tutto. Se solo sapessi il momento... ma risposta non c’è, non c’è un momento da immaginare; il tempo, tutto il tempo è il messaggero di Dio, ne solleva le parole sulle sue ali insonni. Viene adesso il Signore, camminatore dei secoli e dei giorni, viene segnando le date nel calendario della vita; e ti sorprende quando l’abbraccio di un amico ti disarma, quando ti stupisce il grido vittorioso di un bimbo che nasce, una illuminazione interiore, un brivido di gioia che non sai perché. È un ladro ben strano: viene per rendere più breve la notte. Tempo di albe e di strade è l’avvento, quando il nome di Dio è Colui-che-viene, Dio che cammina a piedi nella polvere della strada. E la tua casa non è una tappa ma la meta del suo viaggio.

 

Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». (...) Diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. (...) Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».Il Vangelo adotta linguaggio, immagini e simboli da fine del mondo; evoca un turbinare di astri e di pianeti in fiamme, l’immensità del cosmo che si consuma: eppure non è di questo che si appassiona il discorso di Gesù. Come in una ripresa cinematografica, la macchina da presa di Luca inizia con il campo largo e poi con una zoomata restringe progressivamente la visione: cerca un uomo, un piccolo uomo, al sicuro nelle mani di Dio.

E continua ancora, fino a mettere a fuoco un solo dettaglio: neanche un capello del vostro capo andrà perduto. Allora non è la fine del mondo quella che Gesù fa intravvedere, ma il fine del mondo, del mio mondo. C’è una radice di distruttività nelle cose, nella storia, in me, la conosco fin troppo bene, ma non vincerà: nel mondo intero è all’opera anche una radice di tenerezza, che è più forte. Il mondo e l’uomo non finiranno nel fuoco di una conflagrazione nucleare, ma nella bellezza e nella tenerezza. Un giorno non resterà pietra su pietra delle nostre magnifiche costruzioni, delle piramidi millenarie, della magnificenza di San Pietro, ma l’uomo resterà per sempre, frammento su frammento, nemmeno il più piccolo capello andrà perduto. È meglio che crolli tutto, comprese le chiese, anche le più artistiche, piuttosto che crolli un solo uomo, questo dice il vangelo. L’uomo resterà, nella sua interezza, dettaglio su dettaglio.

Perché il nostro è un Dio innamorato. Ad ogni descrizione di dolore, segue un punto di rottura, dove tutto cambia; ad ogni tornante di distruttività appare una parola che apre la feritoia della speranza: non vi spaventate, non è la fine; neanche un capello andrà perduto...; risollevatevi....Che bella la conclusione del vangelo di oggi, quell’ultima riga lucente: risollevatevi, alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. In piedi, a testa alta, occhi alti, liberi, profondi: così vede i discepoli il vangelo. Sollevate il capo, e guardate lontano e oltre, perché la realtà non è solo questo che appare: viene continuamente qualcuno il cui nome è Liberatore, esperto in nascite. Mentre il creato ascende in Cristo al Padre/ nell’arcana sorte / tutto è doglia di parto: /quanto morir perché la vita nasca! (Clemente Rebora).

Il mondo è un immenso pianto, ma è anche un immenso parto. Questo mondo porta un altro mondo nel grembo. Ma quando il Signore verrà, troverà ancora fede sulla terra? Sì, certamente. Troverà molta fede, molti che hanno perseverato nel credere che l’amore è più forte della cattiveria, che la bellezza è più umana della violenza, che la giustizia è più sana del potere. E che questa storia non finirà nel caos, ma dentro un abbraccio. Che ha nome Dio.

 

XXXIII DomenicaTempo ordinario - Anno C

Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». (...) Diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. (...) Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».Il Vangelo adotta linguaggio, immagini e simboli da fine del mondo; evoca un turbinare di astri e di pianeti in fiamme, l’immensità del cosmo che si consuma: eppure non è di questo che si appassiona il discorso di Gesù. Come in una ripresa cinematografica, la macchina da presa di Luca inizia con il campo largo e poi con una zoomata restringe progressivamente la visione: cerca un uomo, un piccolo uomo, al sicuro nelle mani di Dio.

E continua ancora, fino a mettere a fuoco un solo dettaglio: neanche un capello del vostro capo andrà perduto. Allora non è la fine del mondo quella che Gesù fa intravvedere, ma il fine del mondo, del mio mondo. C’è una radice di distruttività nelle cose, nella storia, in me, la conosco fin troppo bene, ma non vincerà: nel mondo intero è all’opera anche una radice di tenerezza, che è più forte. Il mondo e l’uomo non finiranno nel fuoco di una conflagrazione nucleare, ma nella bellezza e nella tenerezza. Un giorno non resterà pietra su pietra delle nostre magnifiche costruzioni, delle piramidi millenarie, della magnificenza di San Pietro, ma l’uomo resterà per sempre, frammento su frammento, nemmeno il più piccolo capello andrà perduto. È meglio che crolli tutto, comprese le chiese, anche le più artistiche, piuttosto che crolli un solo uomo, questo dice il vangelo. L’uomo resterà, nella sua interezza, dettaglio su dettaglio. Perché il nostro è un Dio innamorato. Ad ogni descrizione di dolore, segue un punto di rottura, dove tutto cambia; ad ogni tornante di distruttività appare una parola che apre la feritoia della speranza: non vi spaventate, non è la fine; neanche un capello andrà perduto...; risollevatevi....

Che bella la conclusione del vangelo di oggi, quell’ultima riga lucente: risollevatevi, alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. In piedi, a testa alta, occhi alti, liberi, profondi: così vede i discepoli il vangelo. Sollevate il capo, e guardate lontano e oltre, perché la realtà non è solo questo che appare: viene continuamente qualcuno il cui nome è Liberatore, esperto in nascite. Mentre il creato ascende in Cristo al Padre/ nell’arcana sorte / tutto è doglia di parto: /quanto morir perché la vita nasca! (Clemente Rebora). Il mondo è un immenso pianto, ma è anche un immenso parto. Questo mondo porta un altro mondo nel grembo. Ma quando il Signore verrà, troverà ancora fede sulla terra? Sì, certamente. Troverà molta fede, molti che hanno perseverato nel credere che l’amore è più forte della cattiveria, che la bellezza è più umana della violenza, che la giustizia è più sana del potere. E che questa storia non finirà nel caos, ma dentro un abbraccio. Che ha nome Dio.

SABATO. “Preghiera ai diciannove italiani caduti a Nassiriya”
Ore 17,30 Messa in Cattedrale e inizio novenario.
Vorrei che questo giorno
non volgesse mai al declino
vorrei fosse amore, amore per sempre,
che salisse le scale di ogni cuore
e di ogni creatura
esistente sulla terra.
Vorrei fosse dolore
che lascia traccia
ad ogni suo passaggio;
dolore mai dimenticato,
dolore che strazia
che ricompone ogni uomo
nell’intimo del suo orgoglio
e del suo animo.
Vorrei che voi,
i diciannove angeli di pace
del duemilatre,
siate ricordati per sempre,
per amor di Patria
e per amor di tutti i valori umani
di cui siamo capaci di contenere
nel nostro essere fragili e forti
Vorrei che anche adesso,
in questo momento,
dove il sacrificio che avete affrontato
vi ha portati,
possiate portare ancora
il grande messaggio di pace.
Amen

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Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui» .

Sono gli ultimi giorni di Gesù. I gruppi di potere, sacerdoti, anziani, farisei, scribi, sadducei sono uniti nel rifiuto di quel rabbì di periferia, sbucato dal nulla, che si arroga il potere di insegnare, senza averne l'autorità, senza nessuna carta in regola, un laico qualsiasi. Lo contestano, lo affrontano, lo sfidano, un cerchio letale che gli si stringe intorno. In questo episodio adottano una strategia diversa: metterlo in ridicolo. La storiella paradossale di una donna, sette volte vedova e mai madre, è adoperata dai sadducei come caricatura della fede nella risurrezione dei morti: di quale dei sette fratelli che l’hanno sposata sarà moglie quella donna? Gesù, come è solito fare quando lo si vuole imprigionare in questioni di corto respiro, ci invita a pensare altrimenti e più in grande: Quelli che risorgono non prendono moglie né marito. La vita futura non è il prolungamento di quella presente. Coloro che sono morti non risorgono alla vita biologica ma alla vita di Dio. La vita eterna vuol dire vita dell’Eterno.

Io sono la risurrezione e la vita, ha detto Gesù a Marta. Notiamo la successione: prima la risurrezione e poi la vita, con una sorta di inversione temporale, e non, come ci saremmo aspettati: prima la vita, poi la morte, poi la risurrezione. La risurrezione inizia in questa vita. Risurrezione dei vivi, più che dei morti, sono i viventi che devono alzarsi e destarsi: risorgere. Facciamo attenzione: Gesù non dichiara la fine degli affetti. “Se nel tuo paradiso non posso ritrovare mia madre, tieniti pure il tuo paradiso” (David. M. Turoldo). Bellissimo il verso di Mariangela Gualtieri: io ringraziare desidero per i morti nostri che fanno della morte un luogo abitato.

L’eternità non è una terra senza volti e senza nomi. Forte come la morte è l’amore, tenace più dello sheol (Cantico). Non è la vita che vince la morte, è l’amore; quando ogni amore vero si sommerà agli altri nostri amori veri, senza gelosie e senza esclusioni, generando non limiti o rimpianti, ma una impensata capacità di intensità, di profondità, di vastità. Un cuore a misura di oceano.

Anzi: “non ci verrà chiesto di abbandonare quei volti amati e familiari per rivolgerci a uno sconosciuto, fosse pure Dio stesso. Il nostro errore non è stato quello di averli amati troppo, ma di non esserci resi conto di che cosa veramente stavamo amando” (Clive Staples Lewis). Quando vedremo il volto di Dio, capiremo di averlo sempre conosciuto: faceva parte di tutte le nostre innocenti esperienze d'amore terreno, creandole, sostenendole, e muovendole, istante dopo istante, dall'interno. Tutto ciò che in esse era autentico amore, è stato più suo che nostro, e nostro soltanto perché suo. Inizio di ogni risurrezione.

 

In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua».
Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia.

[...]Il Vangelo è un libro di strade e di vento. E di incontri. Gesù conosceva l’arte dell’incontro, questo gesto povero e disarmato, potente e generativo. Siamo a Gerico, forse la più antica città del mondo. Gesù va alle radici del mondo, raggiunge le radici dell’umano. Gerico: simbolo di tutte le città che verranno dopo. C’è un uomo, piccolo di statura, ladro come ammette lui stesso alla fine, impuro e pubblicano (cioè un venduto) che riscuoteva le tasse per i romani: soldi, bustarelle, favori, un disonesto per definizione. E in più ricco, ladro e capo dei ladri di Gerico: è quello che si dice un caso disperato. Ma non ci sono casi disperati per il Signore. Zaccheo sarebbe l’insalvabile, e Gesù non solo lo salva, ma lo fa modello del discepolo.

Gesù giunto sul luogo, alza lo sguardo verso il ramo su cui è seduto Zaccheo. Guarda dal basso verso l’alto, come quando si inginocchia a lavare i piedi ai discepoli. Il suo è uno sguardo che alza la vita, che ci innalza! Dio non ci guarda mai dall’alto in basso, ma sempre dal basso verso l’alto, con infinito rispetto. Noi lo cerchiamo nell’alto dei cieli e lui è inginocchiato ai nostri piedi. «Zaccheo, scendi subito, devo fermarmi a casa tua». Il nome proprio, prima di tutto. La misericordia è tenerezza che chiama ognuno per nome. “Devo”, dice Gesù. Dio deve venire: a cercarmi, a stare con me. È un suo intimo bisogno. Lui desidera me più di quanto io desideri lui. Verrà per un suo bisogno che gli urge nel cuore, perché lo spinge un fuoco e un’ansia. A Dio manca qualcosa, manca Zaccheo, manca l’ultima pecora, manco io. “Devo fermarmi”, non un semplice passaggio, non una visita di cortesia, e poi via di nuovo sulle strade; bensì “fermarmi”, prendendomi tutto il tempo che serve, perché quella casa non è una tappa del viaggio, ma la meta. “A casa tua”, Il Vangelo è cominciato in una casa, a Nazaret, e ricomincerà ancora dalle case, anche per noi, oggi.

L’infinito è sceso alla latitudine di casa: il luogo dove siamo più veri e più vivi, dove accadono le cose più importanti, la nascita, la morte, l’amore. «Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia». Accogliere Gesù è ciò che purifica Zaccheo: non deve prima cambiare vita, dare la metà ai poveri, e solo dopo il Signore entrerà nella sua casa. No. Gesù entra, ed entrando in quella casa la trasforma, la benedice, la purifica. Il tempo della misericordia è l’anticipo. La misericordia è la capacità che ha Dio di anticiparti. Incontrare uno come Gesù fa credere nell’uomo; un uomo così libero crea libertà; il suo amore senza condizioni crea amanti senza condizioni; incontrare un Dio che non fa prediche ma si fa amico, fa rinascere.

 

In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi [...] «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. [...].

Signore, sono pochi quelli che si salvano? “Salvarsi”: parola che capisce solo chi sta affogando o chi si è perso, e di cui non si vede il fondo. Con la “parabola” di oggi, Gesù aggiunge un altro capitolo al suo racconto della salvezza, parla di una porta, di una casa sonante di festa, di gente accalcata che chiede di entrare.

Una casa, prima di tutto: una casa grande, grande quanto il mondo: verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. La salvezza è una casa che risuona di una confusione multicolore, dove sono approdate le navi del sud e le carovane d'oriente. Quella casa sembra quasi il nodo alle trasversali del mondo, il centro di gravità della storia, l'approdo. Così ci racconta la salvezza, come una casa piena di festa, casa fatta tavola, casa fatta liturgia di volti e di occhi lucenti attorno al profumo del pane e alle coppe del vino: “entra, siediti, è in tavola la vita!”. Per star bene, tutti noi abbiamo tutti bisogno di poche cose: un po' pane, un po' d'affetto, un luogo dove sentirci a casa (G. Verdi), non raminghi o esuli, non naufraghi o fuggiaschi, ma con il caldo di un fuoco, difesi da una porta che spinge un po' più in là la notte.

Quando il padrone di casa chiuderà la porta, voi rimasti fuori, comincerete a bussare dicendo: Signore aprici. Abbiamo mangiato e bevuto con te, hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli vi dichiarerà: non vi conosco.
Se trasportiamo quelle immagini sul piano della nostra vita spirituale o comunitaria, quelle parole diventano: Signore, siamo noi, siamo sempre venuti in chiesa, abbiamo ascoltato tanto Vangelo e tante prediche, ci siamo confessati e comunicati, aprici! Perché non si apre quella porta, perché quel duro “non vi conosco”? Sono uomini e donne devoti e praticanti, ma hanno sbagliato qualcosa che rovina tutto: portano un elenco di

molte azioni compiute per Dio, ma nessuna per i fratelli; sono atti religiosi, ma che non hanno trasformato la loro vita sulla misura di quella di Cristo. Non basta mangiare Gesù il, pane vero, occorre farsi pane, per essere riconosciuti come discepoli, come quelli che prolungano la vita di Gesù. “Non vi conosco”, voi celebrate belle liturgie, ma non celebrate la liturgia della vita. La misura è nella vita: non si può “amare Dio impunemente” (Turoldo), senza cioè pagarne il prezzo in moneta di vita donata, impegnata per il bene degli altri, almeno con un bicchiere d'acqua fresca donato...
“Non è da come uno mi parla delle cose del cielo che io capisco se ha soggiornato in Dio, ma da come parla e fa uso delle cose della terra” (S. Weil). Entra nel cielo di Dio solo chi ha addosso la terra degli uomini.

 

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola (...): «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po' di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». (...)

Disse una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai. Molte volte ci siamo stancati! Le preghiere si alzavano in volo dal cuore, come colombe dall'arca del diluvio, e nessuna tornava indietro a portare una risposta. E mi sono chiesto molte volte: ma Dio esaudisce le nostre preghiere, si o no?
Bonhoeffer risponde: «Dio esaudisce sempre, ma non le nostre richieste, bensì le sue promesse». Pregate sempre... Pregare non equivale a dire preghiere. Mi sono sempre sentito inadeguato di fronte alle preghiere prolungate. E anche un pochino colpevole. Per la stanchezza e le distrazioni che aumentano in proporzione alla durata. Finché ho letto, nei Padri del deserto, che Evagrio il Pontico diceva: «Non compiacerti nel numero dei salmi che hai recitato: esso getta un velo sul tuo cuore. Vale di più una sola parola nell'intimità, che mille stando lontano».
Perché pregare è come voler bene. C'è sempre tempo per voler bene; se ami qualcuno, lo ami sempre, qualsiasi cosa tu stia facendo. «Il desiderio prega sempre, anche se la lingua tace. Se tu desideri sempre, tu preghi sempre» (S. Agostino). Quando uno ha Dio dentro, non occorre che stia sempre a pensarci. La donna incinta, anche se il pensiero non va in continuazione al bimbo che vive in lei, lo ama sempre, e diventa sempre più madre, ad ogni battito del cuore. Davanti a Dio non conta la quantità, ma la verità: mille anni sono come un giorno, gli spiccioli della vedova più delle offerte dei ricchi. Perché dentro c'è tutto il suo dolore, e la sua speranza.

Gesù ha una predilezione particolare per le donne sole: rappresentano la categoria biblica dei senza difesa, vedove orfani forestieri, i difesi da Dio. E oggi ci porta a scuola di preghiera da una vedova, una bella figura di donna, fragile e indomita, che ha subìto ingiustizia ma non cede al sopruso. E traduce bene la parola di Gesù: senza stancarsi mai. Verbo di lotta, di guerra: senza arrendersi. Certo che ci si stanca, che pregare stanca, che Dio stanca: il suo silenzio stanca. Ma tu non cedere, non lasciarti cadere le braccia. Nonostante il ritardo: il nostro compito non è interrogarci sul ritardo del sole, ma forzare l'aurora, come lei, la piccola vedova.
Una donna che non tace ci rivela che la preghiera è un “no” gridato al “così vanno le cose”, è come il primo vagito di una storia nuova che nasce.
Perché pregare? È come chiedere: perché respirare? Per vivere! «Io prego perché vivo e vivo perché prego» (R. Guardini). Pregare è aprire un canale in cui scorre l'ossigeno dell'infinito, riattaccare continuamente la terra al cielo, la bocca alla fontana. Come, per due che si amano, il loro bacio.

 

 

(...) Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. (...)

E mentre andavano furono guariti. Il Vangelo è pieno di guariti, sono come il corteo gioioso che accompagna l'annuncio di Gesù: Dio è qui, è con noi, coinvolto prima nelle piaghe dei dieci lebbrosi, e poi nello stupore dell'unico che torna cantando.
Mentre vanno sono guariti... i dieci lebbrosi si sono messi in cammino ancora malati, ed è il viaggio ad essere guaritore, il primo passo, la terra di mezzo dove la speranza diventa più potente della lebbra, spalanca orizzonti e porta via dalla vita immobile.
Il verbo all'imperfetto (mentre andavano) narra di una azione continuativa, lenta, progressiva; passo dopo passo, un piede dietro l'altro, a poco a poco. Guarigione paziente come la strada.

Al samaritano che ritorna Gesù dice: La tua fede ti ha salvato! Anche gli altri nove hanno avuto fede nella parole di Gesù, si sono messi in strada per un anticipo di fiducia. Dove sta la differenza?
Il lebbroso di Samaria non va dai sacerdoti perché ha capito che la salvezza non deriva da norme e leggi, ma dal rapporto personale con lui, Gesù di Nazaret. È salvo perché torna alla sorgente, trova la fonte e vi si immerge come in un lago.
Non gli basta la guarigione, lui ha bisogno di salvezza, che è più della salute, più della felicità. Altro è essere guariti, altro essere salvati: nella guarigione si chiudono le piaghe, nella salvezza si apre la sorgente, entri in Dio e Dio entra in te, raggiungi il cuore profondo dell'essere, l'unità di ogni tua parte. Ed è come unificare i frammenti, raggiungere non i doni, ma il Donatore, il suo oceano di luce.
L'unico lebbroso «salvato» rifà a ritroso la strada guaritrice, ed è come se guarisse due volte, e alla fine trova lo stupore di un Dio che ha i piedi anche lui nella polvere delle nostre strade, e gli occhi sulle nostre piaghe.

Gesù si lascia sfuggire una parola di sorpresa: Non si è trovato nessuno che tornasse a rendere gloria a Dio? Sulla bilancia del Signore ciò che pesa (l'etimologia di «gloria» ricorda il termine «peso») viene da altro, Dio non è la gloria di se stesso: «gloria di Dio è l'uomo vivente» (S. Ireneo). E chi è più vivente di questo piccolo uomo di Samaria? Il doppiamente escluso che si ritrova guarito, che torna gridando di gioia, ringraziando «a voce grande» dice Luca, danzando nella polvere della strada, libero come il vento?
Come usciremo da questo Vangelo, dalla Eucaristia di domenica prossima? Io voglio uscire aggrappato, come un samaritano dalla pelle di primavera, a un «grazie», troppe volte taciuto, troppe volte perduto.
Aggrappato, come un uomo molte volte guarito, alla manciata di polvere fragile che è la mia carne, ma dove respira il respiro di Dio, e la sua cura.

L’enorme potenza di una fede minuscola
Accresci in noi la fede. Invocazione eterna di ogni discepolo: aumenta, aggiungi, rinsalda la fede, è così poca, così fragile. Non c’è preghiera più limpida, ma Gesù non la esaudisce. La fede non è un “pacco-dono” che arriva da fuori, è la mia risposta ai doni di Dio, la mia risposta al suo corteggiamento amoroso.

«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “sradicati e vai a piantarti nel mare” e vi obbedirebbe”. Gusto la bellezza e la forza del linguaggio di Gesù e della sua carica immaginifica: il più piccolo tra tutti i semi intrecciato a grandi alberi che danzano sul mare!

Un granello di fede possiede la potenza di sradicare gelsi e la leggerezza del seme che si schiude nel silenzio; un niente che è tutto, leggero e forte. Ne basta poca di fede, anzi pochissima, meno di un granello di senape, una formichina, come dice il poeta J. Twardowski: «anche il più gran santo/ è trasportato come un fuscello/ dalla formica della fefe.

Un corteggiamento mite e disarmato
Fede vera non è piantare al­beri nel mare, neanche Gesù l’ha mai fatto, è vivere il miracolo quotidiano dell’a­more che non si arrende. Tutti abbiamo visto il mare riempirsi di alberi, erano intere piantagioni di testimoni, e non era un sogno.

Sràdicati e piàntati nel mare! Anch’io ho visto il mare riempirsi di alberi. Molte volte. Erano intere piantagioni di testimoni, di uomini liberi radicati in luoghi impossibili, in mari infuriati, a dissodare il presente e il futuro con fede da granellino di senapa.

Per capire il desiderio degli apostoli: “accresci in noi la fede”, dobbiamo fare un passo indietro, riandare alla proposta di Gesù un versetto prima: se tuo fratello peccherà sette volte contro di te e sette volte tornerà dicendosi pentito, tu gli perdonerai.

Sembra una missione impossibile, ma tu gli darai fiducia, gli darai credito, come fa Dio con te; e crederai nel suo futuro. Questo è il perdono, che non guarda a ieri ma al domani; che non libera il passato, libera il futuro di tutti.

Gli apostoli tentennano, temono di non farcela, e allora: “Signore, aumenta la nostra fede”. È così poca! Come sarebbe possibile vivere senza fidarsi di qualcuno?

Ma Gesù non li esaudisce, perché la fede non è un dono consegnato da fuori, è la mia risposta al corteggiamento mite e disarmato di Dio. Fede vera non è piantare al­beri nel mare, neanche Gesù l’ha mai fatto, è vivere il miracolo quotidiano dell’a­more che non si arrende.

Per questo, “se aveste un granel­lino microscopico di fede”… un quasi niente! E’ questione di qualità, non di quantità. Qui appare un tratto tipico di Gesù: l’infinito rivelato dal piccolo. E sceglie di parlare della fede con il registro delle briciole, del pizzico di lievito, della fogliolina di fico, del bambino in mezzo ai grandi. 

Ma come posso sapere se ho fede? Gesù ci indica la sua misura suprema: sii servo. «Quando avete fatto tutto, dite: siamo servi inutili». Inutili noi, ma mai è inutile il servizio. 

Inutile significa non servire a niente, non produrre. Ma per Gesù non è questo il senso: non sono incapaci né improduttivi quei servi che arano, pascolano, preparano da mangiare. Sono semplicemente servi senza pretese e senza secondi fini. E ci chiama ad osare la vita, all’audacia di scegliere, in un mondo che percorre la strada della guerra, il sentiero ripido della pace. Farsi costruttori di pace è un servizio più vero ancora dei suoi risultati: è questo il nostro modo di sradicare alberi e farli volare.

È il servizio che è vero, non il premio. Vera fede è amare Dio più delle Sue consolazioni.
Aiutaci Gesu' a crescere nella fede.

 

Storia di un ricco, di un mendicante e di un “grande abisso” scavato tra le persone. Che cosa scava fossati tra noi e ci separa? Come si scavalcano? Storia da cui emerge il principio etico e morale decisivo: prendersi cura dell'umano contro il disumano. Primo tempo: due protagonisti che si incrociano e non si parlano, uno è vestito di piaghe, l'altro di porpora; uno vive come un nababbo, in una casa lussuosa, l'altro è malato, abita la strada, disputa qualche briciola ai cani.

È questo il mondo sognato da Dio per i suoi figli? Un Dio che non è mai nominato nella parabola, eppure è lì: non abita la luce ma le piaghe di un povero; non c'è posto per lui dentro il palazzo, perché Dio non è presente dove è assente il cuore. Forse il ricco è perfino un devoto e prega: “ o Dio tendi l'orecchio alla mia supplica” , mentre è sordo al lamento del povero. Lo scavalca ogni giorno come si fa con una pozzanghera. Di fermarsi, di toccarlo neppure l'idea: il povero è invisibile a chi ha perduto gli occhi del cuore. Quanti invisibili nelle nostre città, nei nostri paesi! Attenzione agli invisibili, vi si rifugia l'eterno.

Il ricco non danneggia Lazzaro, non gli fa del male. Fa qualcosa di peggio: non lo fa esistere, lo riduce a un rifiuto, a un nulla. Nel suo cuore l'ha ucciso. «Il vero nemico della fede è il narcisismo, non l'ateismo» (K. Doria). Per Narciso nessuno esiste. Invece un samaritano che era in viaggio, lo vide, fu mosso a pietà, scese da cavallo, si chinò su quell'uomo mezzo morto. Vedere, commuoversi, scendere, toccare, verbi umanissimi, i primi affinché la nostra terra sia abitata non dalla ferocia ma dalla tenerezza. Chi non accoglie l'altro, in realtà isola se stesso, è lui la prima vittima del “grande abisso” , dell'esclusione.
Secondo tempo: il povero e il ricco muoiono, e la parabola li colloca agli antipodi, come già era sulla terra. «Ti prego, padre Abramo, manda Lazzaro con una goccia d'acqua sulla punta del dito». Una gocciolina per varcare l'abisso.
Che ti costa, padre Abramo, un piccolo miracolo! Una parola sola per i miei cinque fratelli! E invece no, perché non è il ritorno di un morto che convertirà qualcuno, è la vita e i viventi. Non sono i miracoli a cambiare la nostra traiettoria, non apparizioni o segni, la terra è già piena di miracoli, piena di profeti: hanno i profeti, ascoltino quelli; hanno il Vangelo, lo ascoltino!

Di più ancora: la terra è piena di poveri Lazzari, li ascoltino, li guardino, li tocchino. «Il primo miracolo è accorgerci che l'altro esiste» (S. Weil). Non c'è evento soprannaturale che valga il grido dei poveri. O il loro silenzio.
La cura delle creature è la sola misura dell'eternità.

 

(...) «Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera?».

Un'altra parabola dal finale spiazzante: il truffato loda il suo truffatore. La lode del signore però ha un bersaglio preciso, non si riferisce alla disonestà dell'amministratore, ma alla sua scaltrezza (lodò quell'uomo perché aveva agito con scaltrezza). Ha saputo fermarsi a pensare (disse tra sé: cosa farò?) e lì ha incominciato a capire la differenza tra falsa ricchezza e vera ricchezza. Poi ha iniziato a usare il patrimonio economico per crearsi il vero patrimonio, quello relazionale: farsi degli amici che lo accolgano.
Siediti e scrivi cinquanta, prendi la ricevuta e scrivi ottanta.

Forse è pronto a eliminare dal debito la percentuale che spettava a lui, ma questo non è determinate. Ha capito dove investire: condividere il debito per creare reddito, reddito di amicizia, spirituale.

E il racconto continua assicurando che servono amici e relazioni buone nella vita, che solo questi possono darti un futuro, addirittura “nelle dimore eterne”. Vita eterna, casa eterna, sono termini che sulla bocca di Gesù non indicano tanto ciò che accadrà alla fine della vita, nel cielo o negli inferi, quanto quello che rende la vita vera, già da ora, qui tra noi, la vita così come dev'essere, l'autentico dell'umano.

Ed ecco il meraviglioso comandamento: fatevi degli amici. Perfino con la disonesta ricchezza. Le persone valgono più del denaro. Il bene è sempre bene, è comunque bene. L'elemosina anche fatta da un ladro, non cessa di essere elemosina. Il bene non è mai inutile. Non è il male che revoca il bene che hai fatto. Accade il contrario: è il bene che revoca, annulla, abroga il male che hai commesso.

Nessuno può servire due padroni, Dio e la ricchezza. Il grande potere della ricchezza è quello di renderci atei. Il vero nemico, l'avversario di Dio nella Bibbia non è il diavolo, infatti Gesù libera la persona dai demoni che si sono installati in lui. Il competitore di Dio non è neppure il peccato: Dio perdona e azzera i peccati. Il vero concorrente di Dio, il dio alternativo, è la ricchezza. La ricchezza è atea. Si conquista la fiducia, dona certezze, prende il cuore. Il ricco è malato di ateismo. Non importa che frequenti la chiesa, è un aspetto di superficie che non modifica la sostanza. Il suo dio è in banca. E il suo cuore è lì, vicino al suo denaro.

La soluzione che Gesù offre è “fatevi degli amici”: saranno loro ad accogliervi, prima e meglio degli angeli. O, forse, sta dicendo che le mani di chi ti vuol bene terminano in angeli. I tuoi amici apriranno la porta come se il cielo fosse casa loro, come se la chiavi dell'eternità per te le avessero trovate loro, quelli che tu, per un giorno o una vita, hai reso felici.

 

In quel tempo (...) disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno (...)

Si è persa una pecora, si perde una moneta, si perde un figlio. Si direbbero quasi le sconfitte di Dio. E invece protagonisti delle parabole sono un pastore che sfida il deserto, una donna non si dà pace per la moneta che non trova, un padre tormentato, esperto in abbracci, che non si arrende e non smette di vegliare. Le tre parabole della misericordia sono il vangelo del vangelo. Noi possiamo perdere Dio, ma lui non ci perderà mai. Nessuna pagina al mondo raggiunge come questa l'essenziale del rapporto con noi stessi, con gli altri, con Dio.

Il ragazzo era partito di casa, giovane e affamato di vita, libero e ricco,
ma si ritrova povero servo a disputarsi con i porci l'amaro delle ghiande. Allora ritorna in sé, dice la parabola, chiamato da un sogno di pane (la casa di mio padre profuma di pane...) . Non torna per amore, torna per fame. Non cerca un padre, cerca un buon padrone. Non torna perché pentito, ma perché ha paura. Ma a Dio non importa il motivo per cui ci mettiamo in viaggio. È sufficiente che compiamo un primo passo nella direzione buona. L'uomo cammina, Dio corre. L'uomo si avvia, Dio è già arrivato.
Lo vide da lontano, commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciava. Al solo muovere un passo Lui mi ha già visto e si commuove. Io cammino e Lui corre. Io inizio e Lui mi attende alla fine. Io dico: non sono più tuo figlio, Lui mi tappa la bocca, perché vuole salvarmi proprio dal mio cuore di servo e restituirmi un cuore di figlio.

Il Padre è stanco di avere servi per casa invece che figli. Almeno il perduto che torna gli sia figlio. Dobbiamo smetterla di amare Dio da sottomessi e tornare ad amarlo da innamorati, allora possiamo entrare nella festa del padre: perché non è la paura che libera dal male, ma un di più d'amore; non è il castigo, ma l'abbraccio.
Il Padre che tutto abbraccia è ridotto ad essere nient'altro che questo: braccia eternamente aperte, ad attenderci su ogni strada d'esilio, su ogni muretto di pozzo in Samaria, ai piedi di ogni albero di sicomoro: la casa del Padre confina con ogni nostra casa. È “giusto” il Padre in questa parabola?

No, non è giusto, ma la giustizia non basta per essere uomini e tanto meno per essere Dio. La sua giustizia è riconquistare figli, non retribuire le loro azioni. L'amore non è giusto, è una divina follia.
La parabola racconta un Dio scandalosamente buono, che preferisce la felicità dei suoi figli alla loro fedeltà, che non è giusto ma di più, è esclusivamente buono.
Allora Dio è così? Così eccessivo, così tanto, così esagerato? Sì, il Dio in cui crediamo è così. Immensa rivelazione per la quale Gesù darà la sua vita.

 

 

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo». [...]

Parole dure e severe. Alcune bruciano come chiodi di una crocifissione del cuore. Se uno non mi ama più di quanto ami padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la propria vita, non può... Un elenco puntiglioso di sette oggetti d'amore che compongono la geografia del cuore, la nostra mappa della felicità.

Se uno non mi ama più della propria vita... sembrano le parole di un esaltato. Ma davvero questo brano parla di sacrificare qualsiasi legame del cuore? Credo si tratti di colpi duri che spezzano la conchiglia per trovare la perla. Il punto di comparazione è attorno al verbo «amare», in una formula per me meravigliosa e creativa «amare di più». Le condizioni che Gesù pone contengono il «morso del più», il loro obiettivo non è una diminuzione ma un potenziamento, il cuore umano non è figlio di sottrazioni ma di addizioni, non è chiesto di sacrificare ma di aggiungere. Come se dicesse: Tu sai quanto è bello dare e ricevere amore, quanto gli affetti ti lavorino per farti uomo realizzato, donna felice, ebbene io posso offrirti qualcosa di ancora più bello e vitale.
Gesù si offre come incremento, accrescimento di vita. Una vita intensa, piena, profondamente amata e mai rinnegata.

Chi non porta la propria croce... La croce non è da portare per amore della sofferenza. “Credimi, è così semplice quando si ama” (J. Twardowski): là dove metti il tuo cuore, lì
troverai anche le tue ferite.
Con il suo “amare di più” Gesù non intende instaurare una competizione sentimentale o emotiva tra sé e la costellazione degli affetti del discepolo. Da una simile sfida affettiva sa bene che non uscirebbe vincitore, se non presso pochi “folli di Dio”.
Per comprendere nel giusto senso il verbo amare,
occorre considerare il retroterra biblico, confrontarsi con il Dio geloso dell'Alleanza (Dt 6,15) che chiede di essere amato con tutto il cuore e l'anima e le forze (in modo radicale come Gesù).

La richiesta di amare Dio non è primariamente affettiva. Lungo tutta l'Alleanza e i Profeti significa essere fedeli, non seguire gli idoli, ascoltare, ubbidire, essere giusti nella vita.
Amare “con tutto il cuore”, la totalità del cuore non significa esclusività. Amerai Dio con tutto il cuore, non significa amerai solo lui. Con tutto il cuore amerai anche tua madre, tuo figlio, tuo marito, il tuo amico. Senza amori dimezzati. Ascolta Israele: non avrai altro dio all'infuori di me, e non già: non avrai altri amori all'infuori di me.
Gesù si offre come ottavo oggetto d'amore al nostro cuore plurale, come pienezza della polifonia dell'esistenza. E lo può fare perché Lui possiede la chiave dell'arte di amare fino in fondo, fino all'estremo del dono.

Ormai la festa del Santo Patrono e' passata ma io non posso non ringraziare chi dietro le quinte lavora giorno e notte e mantiene la Cattedrale un gioiello.

Tutti lo chiamiamo il Sacrista o Sacrestano.
Per tutti un fratello per me un figlio carissimo.
Grazie Francesco a nome di tutti gli Eoliani sparsi ovunque.

La gratitudine e' un fiore che non sempre sboccia nel giardino degli uomini.
Ricordati che tua mamma sul letto di morte ti ha detto: lascia tante cose ma mai il servizio a San Bartolo.
Grazie di esserci per tutti noi, anche quando io non ci saro' piu'.
Dio ti benedica e San Bartolo vegli sul tuo cammino.

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(...)Gesù disse ai suoi dicepoli:« Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D'ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera» (...)

Fuoco e divisione sono venuto a portare. Vangelo drammatico, duro e pensoso. E bellissimo. Testi scritti sotto il fuoco della prima violenta persecuzione contro i cristiani, quando i discepoli di Gesù si trovano di colpo scomunicati dall'istituzione giudaica e, come tali, passibili di prigione e morte. Un colpo terribile per le prime comunità di Palestina, dove erano tutti ebrei, dove le famiglie cominciano a spaccarsi attorno al fuoco e alla spada, allo scandalo della croce di Cristo.

Sono venuto a gettare fuoco sulla terra. Il fuoco è simbolo altissimo, in cui si riassumono tutti gli altri simboli di Dio, è la prima memoria nel racconto dell'Esodo della sua presenza: fiamma che arde e non consuma al Sinai; bruciore del cuore come per i discepoli di Emmaus; fuoco ardente dentro le ossa per il profeta Geremia; lingue di fuoco a Pentecoste; sigillo finale del Cantico dei Cantici: le sue vampe sono vampe di fuoco, una scheggia di Dio infuocata è l'amore.

Sono venuto a gettare Dio, il volto vero di Dio sulla terra. Con l'alta temperatura morale in cui avvengono le vere rivoluzioni.
Pensate che io sia venuto a portare la pace? No, vi dico, ma divisione. La pace non è neutralità, mediocrità, equilibrio tra bene e male. “Credere è entrare in conflitto” (David Turoldo). Forse il punto più difficile e profondo della promessa messianica di pace: essa non verrà come pienezza improvvisa, ma come lotta e conquista, terreno di conflitto, sarà scritta infatti con l'alfabeto delle ferite inciso su di una carne innocente, un tenero agnello crocifisso.

Gesù per primo è stato con tutta la sua vita segno di contraddizione, “per la caduta e la risurrezione di molti” (Luca 2,34). Conosceva, come i profeti antichi, la misteriosa beatitudine degli oppositori, di chi si oppone a tutto ciò che fa male alla storia e ai figli di Dio. La sua predicazione non metteva in pace la coscienza di nessuno, la scuoteva dalle false paci apparenti, frantumate da un modo più vero di intendere la vita.

La scelta di chi perdona, di chi non si attacca al denaro, di chi non vuole dominare ma servire, di chi non vuole vendicarsi, di chi apre le braccia e la casa, diventa precisamente, inevitabilmente, divisione, guerra, urto con chi pensa a vendicarsi, a salire e dominare, con chi pensa che vita vera sia solo quella di colui che vince.

Come Gesù, così anche noi siamo inviati a usare la nostra intelligenza non per venerare il tepore della cenere, ma per custodire il bruciore del fuoco (G. Mahler), siamo una manciata, un pugno di calore e di luce gettati in faccia alla terra, non per abbagliare, ma per illuminare e riscaldare quella porzione di mondo che è affidata alle nostre cure.

PADRE ALESSANDRO LO NARDO NUOVO PARROCO DI SPADAFORA

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di Gaetano Sardella

Carissimo Padre Alessandro dopo il tempo vissuto come Rettore della Comunita' del Seminario sei stato chiamato dal Vescovo ad essere Parroco di Spadafora e con docile obbedienza hai accettato.Tutte le Isole ti abbracciano ed anche io ti auguro sii sempre un pastore secondo il cuore di Dio.
Auguri.

A Don Alessandro congratulazioni anche dal Notiziario

(...) Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa gli aprano subito (...).

Il fondale unico su cui si stagliano le tre parabole (i servi che attendono il loro signore, l'amministratore messo a capo del personale, il padrone di casa che monta la guardia) è la notte, simbolo della fatica del vivere, della cronaca amara dei giorni, di tutte le paure che escono dal buio dell'anima in ansia di luce. È dentro la notte, nel suo lungo silenzio, che spesso capiamo che cosa è essenziale nella nostra vita. Nella notte diventiamo credenti, cercatori di senso, rabdomanti della luce. L'altro ordito su cui sono intesse le parabole è il termine "servo", l'autodefinizione più sconcertante che ha dato di se stesso. I servi di casa, ma più ancora un signore che si fa servitore dei suoi dipendenti, mostrano che la chiave per entrare nel regno è il servizio. L'idea-forza del mondo nuovo è nel coraggio di prendersi cura. Benché sia notte. Non possiamo neppure cominciare a parlare di etica, tanto meno di Regno di Dio, se non abbiamo provato un sentimento di cura per qualcosa.

Nella notte i servi attendono. Restare svegli fino all'alba, con le vesti da lavoro, le lampade sempre accese, come alla soglia di un nuovo esodo (cf Es 12.11) è “un di più”, un'eccedenza gratuita che ha il potere di incantare il padrone.

E mi sembra di ascoltare in controcanto la sua voce esclamare felice: questi miei figli, capaci ancora di stupirmi! Con un di più, un eccesso, una veglia fino all'alba, un vaso di profumo, un perdono di tutto cuore, gli ultimi due spiccioli gettati nel tesoro, abbracciare il più piccolo, il coraggio di varcare insieme la notte.

Se alla fine della notte lo troverà sveglio. “Se” lo troverà, non è sicuro, perché non di un obbligo si tratta, ma di sorpresa; non dovere ma stupore.
E quello che segue è lo stravolgimento che solo le parabole, la punta più rifinita del linguaggio di Gesù, sanno trasmettere: li farà mettere a tavola, si cingerà le vesti, e passerà a servirli. Il punto commovente, il sublime del racconto è quando accade l'impensabile: il padrone che si fa servitore. «Potenza della metafora, diacona linguistica di Gesù nella scuola del regno» (R. Virgili).

I servi sono signori. E il Signore è servo. Un'immagine inedita di Dio che solo lui ha osato, il Maestro dell'ultima cena, il Dio capovolto, inginocchiato davanti agli apostoli, i loro piedi nelle sue mani; e poi inchiodato su quel poco di legno che basta per morire. Mi aveva affidato le chiavi di casa ed era partito, con fiducia totale, senza dubitare, cuore luminoso. Il miracolo della fiducia del mio Signore mi seduce di nuovo: io credo in lui, perché lui crede in me. Questo sarà il solo Signore che io servirò perché è l'unico che si è fatto mio servitore.

 

 

(...) Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. (...) Demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita”». (...)

La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante: una doppia benedizione secondo la bibbia, eppure tutto è corroso da un tarlo micidiale. Ascolti la parabola e vedi che il fondale di quella storia è vuoto. L'uomo ricco è solo, chiuso nel cerchio murato del suo io, ossessionato dalla logica dell'accumulo, con un solo aggettivo nel suo vocabolario: “mio”, i miei raccolti, i miei magazzini, i miei beni, la mia vita, anima mia.

Nessun altro personaggio che entri in scena, nessun nome, nessun volto, nessuno nella casa, nessuno alla porta, nessuno nel cuore. Vita desolatamente vuota, dalla quale perfino Dio è assente, sostituito dall'idolo dell'accumulo. Perché il ricco non ha mai abbastanza. Investe in magazzini e granai e non sa giocare al tavolo delle relazioni umane, sola garanzia di felicità. Ecco l'innesco del dramma: la totale solitudine.

L'accumulo è la sua idolatria. E gli idoli alla fine divorano i loro stessi devoti. Ingannandoli: “Anima mia hai molti beni per molti anni, divertiti e goditi la vita”. È forse questo, alla fin fine, l'errore che rovina tutto? Il voler godere la vita? No. Anche per il Vangelo è scontato che la vita umana sia, e non possa che essere un'incessante ricerca di felicità. Ma la sfida della felicità è che non può mai essere solitaria, ed ha sempre a che fare con il dono.

L'uomo ricco è entrato nell'atrofia della vita, non ha più allenato i muscoli del dono e delle relazioni: Stolto, questa notte stessa... Stolto, perché vuoto di volti, vive soltanto un lungo morire Perché il cuore solitario si ammala; isolato, muore. Così si alleva la propria morte. Infatti: questa notte stessa ti sarà richiesta indietro la tua vita.... Essere vivo domani non è un diritto, è un miracolo. Rivedere il sole e i volti cari al mattino, non è né ovvio né dovuto, è un regalo. E che domani i miliardi di cellule del mio corpo siano ancora tutte tra loro connesse, coordinate e solidali è un improbabile prodigio.

E quello che hai accumulato di chi sarà? La domanda ultima, la sola che rimane quando non rimane più niente, suona così: dopo che tu sei passato, dietro di te, nel tuo mondo, è rimasta più vita o meno vita? Unico bene.
La parabola ricorda le semplici, sovversive leggi evangeliche dell'economia, quelle che rovesciano le regole del gioco, e che si possono ridurre a due soltanto: 1. non accumulare; 2. se hai, hai per condividere.

Davanti a Dio noi siamo ricchi solo di ciò che abbiamo condiviso; siamo ricchi di uno, di molti bicchieri di acqua fresca dati; di uno, di cento passi compiuti con chi aveva paura di restare solo; siamo ricchi di un cuore che ha perdonato per sette volte, per settanta volte sette.

 

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”» (...).

Da sempre i cristiani hanno cercato di definire il contenuto essenziale della loro fede. Gesù stesso ce lo consegna: lo fa con una preghiera, non con un dogma. Insegnaci a pregare, gli hanno chiesto. Non per domandare cose, ma per essere trasformati. Pregare è riattaccarci a Dio, come si attacca la bocca alla fontana; è aprire canali dove può scorrere cielo; è dare a Dio del padre, del papà innamorato dei suoi figli, è chiamare vicino un Dio che sa di abbracci, e con lui custodire le poche cose indispensabili per vivere bene. Ma custodirle da fratelli, dimenticando le parole “io e mio”, perché fuori dalla grammatica di Dio, fuori dal Padre Nostro, dove mai si dice “io”, mai “mio”, ma sempre Tu, tuo e nostro. Parole che stanno lì come braccia aperte: il tuo Nome, il nostro pane, Tu dona, Tu perdona.

La prima cosa da custodire: che il Tuo nome sia santificato. Il nome contiene, nella lingua della Bibbia, tutta la persona: è come chiedere Dio a Dio, chiedere che Dio ci doni Dio. E il nome di Dio è amore: che l'amore sia santificato sulla terra, da tutti. Se c'è qualcosa di santo e di eterno in noi, è la capacità di amare e di essere amati.
Venga il tuo Regno, nasca la terra nuova come tu la sogni, una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani.

Dacci il pane nostro quotidiano. Il Padre Nostro mi vieta di chiedere solo per me: «il pane per me è un fatto materiale, il pane per mio fratello è un fatto spirituale» (N. Berdiaev). Dona a noi tutti ciò che ci fa vivere, il pane e l'amore, entrambi necessari, donaceli per oggi e per domani.
E perdona i nostri peccati, togli tutto ciò che invecchia il cuore e lo fa pesante; dona la forza per sciogliere le vele e salpare ad ogni alba verso terre intatte. Libera il futuro.
E noi, che conosciamo come il perdono potenzia la vita, lo doneremo ai nostri fra-telli e a noi stessi, per tornare leggeri a costruire di nuovo la pace.

Non abbandonarci alla tentazione. Non ti chiediamo di essere esentati dalla prova, ma di non essere lasciati soli a lottare contro il male. E dalla sfiducia e dalla paura tiraci fuori; e da ogni ferita o caduta rialzaci tu, Samaritano buono delle nostre vite.
Il Padre Nostro non va solo recitato, va sillabato ogni giorno di nuovo, sulle ginocchia della vita: nelle carezze della gioia, nel graffio delle spine, nella fame dei fratelli. Bisogna avere molta fame di vita per pregare bene. Fame di Dio, perché nella preghiera non ottengo delle cose, ottengo Dio stesso. Un Dio che non signoreggia ma si coinvolge, che intreccia il suo respiro con il mio, che mescola le sue lacrime con le mie, che chiede solo di lasciarlo essere amico. Non potevo pensare avventura migliore.

 

La casa è piena di gente, ci sono Gesù e i suoi; Maria, la giovane, seduta ai piedi dell’amico, i discepoli intorno, forse Lazzaro tra loro; Marta, la generosa, è nella sua cucina, alimenta il fuoco, controlla le pentole, si alza, passa e ripassa davanti al gruppo a preparare la tavola, affaccendata per tutti. Maria seduta ascoltava Gesù.

Un uomo che profuma di cielo e una donna, seduti vicinissimi. Una scena di maestro-discepola così inconsueta per gli usi del tempo che pare quasi un miracolo. Tutti i pregiudizi sulle donne saltati in aria, rotti gli schemi. Presi l’uno dall’altra: lui totalmente suo, lei totalmente sua. La immagino incantata davanti alle parole del maestro e amico, come se fosse la prima volta. Conosciamo tutti il miracolo della prima volta.

Poi, lentamente ci si abitua. L’eternità invece è non abituarsi mai, è il miracolo della prima volta che si ripete sempre, come nella casa dell’amicizia, a Betania. E poi c’è Marta, la padrona di casa, tutto compresa del suo ruolo santo. Gli ospiti sono come angeli e c’è da offrire loro il meglio; teme di non farcela e allora “si fa avanti”, con la libertà dell’amicizia, e s’interpone tra Gesù e la sorella: “dille che mi aiuti!”. […]

 

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. Uno dei racconti più belli al mondo. Solo poche righe, di sangue, polvere e splendore. Il mondo intero scende da Gerusalemme a Gerico. Nessuno può dire: io faccio un’altra strada, io non c’entro.

Siamo tutti sulla medesima strada. E ci salveremo insieme, o non ci sarà salvezza. Un sacerdote scendeva per quella stessa strada. Il primo che passa è un prete, un rappresentante di Dio e del potere, vede l’uomo ferito ma passa oltre. Non passare oltre il sangue di Abele. Oltre non c’è nulla, tantomeno Dio, solo una religione sterile come la polvere.

Invece un samaritano, che era in viaggio, vide, ne ebbe compassione, si fece vicino. Un samaritano, gente ostile e disprezzata, che non frequenta il tempio, si commuove, si fa vicino, si fa prossimo. Tutti termini di una carica infinita, bellissima, che grondano umanità. Non c’è umanità possibile senza compassione, il meno sentimentale dei sentimenti, senza prossimità, il meno zuccheroso, il più concreto. Il samaritano si avvicina. Non è spontaneo fermarsi, i briganti possono essere ancora nei dintorni. Avvicinarsi non è un istinto, è una conquista; la fraternità non è un dato ma un compito.

I primi tre gesti concreti: vedere, fermarsi, toccare, tracciano i primi tre passi della risposta a “chi è il mio prossimo?”. Vedere e lasciarsi ferire dalle ferite dell’altro. Il mondo è un immenso pianto, e «Dio naviga in questo fiume di lacrime» (Turoldo), invisibili però a chi ha perduto gli occhi del cuore, come il sacerdote e il levita. Fermarsi addosso alla vita che geme e si sta perdendo nella polvere della

 

Vanno i settantadue discepoli, a due a due, quotidianamente dipendenti dal cielo e da un amico; senza borsa, né sacca, né sandali, senza cose, senza mezzi, semplicemente uomini. «L’annunciatore deve essere infinitamente piccolo, solo così l’annuncio sarà infinitamente grande» (G. Vannucci).

Non portano niente e dicono: torniamo semplici e naturali, quello che conta è davvero poco. I discepoli sono dei ricostruttori di umanità, e il loro primo passo contiene l’arte dell’accompagnamento, mai senza l’altro. Due non è la somma di uno più uno, è l’inizio della comunione. Allora puoi anche attraversare la terra dei lupi, passarvi in mezzo, con coraggio e fiducia: vi mando come agnelli in mezzo ai lupi.

Che forse sono più numerosi ma non più forti, che possono azzannare e fare male, ma che non possono vincere. Vi mando come agnelli, senza zanne o artigli, ma non allo sbaraglio e al martirio, bensì a immaginare il mondo in altra luce, ad aprire il passaggio verso una casa comune più calda di libertà e di affetti.

I campi della vita sono anche violenti, Gesù lo sconterà fino al sangue, eppure consegna ai suoi una visione del mondo bella come una sorpresa, una piccola meraviglia di positività e di luminosità: la messe è molta, ma gli operai sono pochi. […]

 

Sulla trama dell’ultimo viaggio, un villaggio di Samaria rifiuta di accogliere Gesù. Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi? Eterna tentazione di farla pagare a qualcuno, la propria sconfitta.

Gesù si volta, li rimprovera e si avvia verso un altro villaggio. Nella concisione di queste poche parole appare la grande forza interiore di Gesù, che non si deprime per un fallimento, non si esalta per un successo, non ricerca né il consenso né il dissenso, ma il senso: portare vangelo. Andiamo in un altro villaggio! appena oltre, un cuore è pronto per il sogno di Dio, una casa c’è cui augurare pace, un lebbroso grida di essere guarito.

Gesù difende quei samaritani per difenderci tutti. Per lui l’uomo viene prima della sua fede, la persona conta più delle sue idee. E guai se ci fosse un attributo: ricco o fariseo, zelota o scriba; è un uomo e questo basta.

Il vangelo prosegue con una piccola catechesi sulla sequela. Il primo a venire incontro è un generoso: Ti seguirò, dovunque tu vada! Gesù deve avere gioito per lo slancio, per l’entusiasmo giovane di quest’uomo. Eppure risponde: Pensaci. Neanche un nido, neanche una tana. Ti va di posare il capo sulla strada? […]

 

(...) Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C'erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà (...)

Mandali via, è sera ormai, e siamo in un luogo deserto. Gli apostoli si preoccupano per la folla, ne condividono la fame, ma non vedono soluzioni: «lascia che ciascuno vada a risolversi i suoi problemi, come può, dove può». Ma Gesù non ha mai mandato via nessuno. Anzi vuole fare di quel luogo deserto una casa calda di pane e di affetto. E condividendo la fame dell'uomo, condivide il volto del Padre: “alcuni uomini hanno così tanta fame, che per loro Dio non può avere che la forma di un pane” (Gandhi). E allora imprime un improvviso cambio di direzione al racconto, attraverso una richiesta illogica ai suoi: Date loro voi stessi da mangiare. Un verbo semplice, asciutto, concreto: date. Nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con un altro verbo, fattivo, di mani: dare (Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio (Gv 3,16), non c'è amore più grande che dare la vita per i propri amici (Gv 15,13).

Ma è una richiesta impossibile: non abbiamo che cinque pani e due pesci. Un pane per ogni mille persone e due pesciolini: è poco, quasi niente, non basta neppure per la nostra cena. Ma il Signore vuole che nei suoi discepoli metta radici il suo coraggio e il miracolo del dono. C'è pane sulla terra a sufficienza per la fame di tutti, ma non è sufficiente per l'avidità di pochi. Eppure chi dona non diventa mai povero. La vita vive di vita donata.

Fateli sedere a gruppi. Nessuno da solo, tutti dentro un cerchio, tutti dentro un legame; seduti, come si fa per una cena importante; fianco a fianco, come per una cena in famiglia: primo passo per entrare nel gioco divino del dono. Fuori, non c'è altro che una tavola d'erba, primo altare del vangelo, e il lago sullo sfondo con la sua abside azzurra. La sorpresa di quella sera è che poco pane condiviso tra tutti, che passa di mano in mano e ne rimane in ogni mano, diventa sufficiente, si moltiplica in pane in-finito. La sorpresa è vedere che la fine della fame non consiste nel mangiare da solo, a sazietà, il mio pane, ma nello spartire il poco che ho, e non importa cosa: due pesci, un bicchiere d'acqua fresca, olio e vino sulle ferite, un po' di tempo e un po' di cuore, una carezza amorevole.
Sento che questa è la grande parola del pane, che il nostro compito nella vita sa di pane: non andarcene da questa terra senza essere prima diventati pezzo di pane buono per la vita e la pace di qualcuno. Tutti mangiarono a sazietà. Quel “tutti” è importante. Sono bambini, donne, uomini. Sono santi e peccatori, sinceri o bugiardi, nessuno escluso, donne di Samaria con cinque mariti e altrettanti fallimenti, nessuno escluso. Prodigiosa moltiplicazione: non del pane ma del cuore.

 

La Trinità è sorgente di sapienza del vivere

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. (...)

Trinità: un solo Dio in tre persone. Dogma che non capisco, eppure liberante perché mi assicura che Dio non è in se stesso solitudine, che l'oceano della sua essenza vibra di un infinito movimento d'amore. C'è in Dio reciprocità, scambio, superamento di sé, incontro, abbraccio. L'essenza di Dio è comunione.

Il dogma della Trinità non è una teoria dove si cerca di far coincidere il Tre e l'Uno, ma è sorgente di sapienza del vivere. E se Dio si realizza solo nella comunione, così sarà anche per l'uomo. Aveva detto in principio: «Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza». Non solo a immagine di Dio: molto di più! L'uomo è fatto a somiglianza della Trinità. Ad immagine e somiglianza della comunione, di un legame d'amore, mistero di singolare e plurale. In principio a tutto, per Dio e per me, c'è la relazione. In principio a tutto qualcosa che mi lega a qualcuno, a molti. Così è per tutte le cose, tutto è in comunione. Perfino i nomi che Gesù sceglie per raccontare il volto di Dio sono nomi che contengono legami: Padre e Figlio sono nomi che abbracciano e stringono legami.

Allora capisco perché la solitudine mi pesa tanto e mi fa paura: perché è contro la mia natura. Allora capisco perché quando sono con chi mi vuole bene, quando so accogliere e sono accolto, sto così bene: perché realizzo la mia vocazione di comunione. Ho ancora molte cose da dirvi, ma ora non potete portarne il peso. Gesù se ne va senza aver detto tutto. Invece di concludere dicendo: questo è tutto, non c'è altro, Gesù apre strade, ci lancia in un sistema aperto, promette una guida per un lungo cammino. Lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera. Lo Spirito genera Vangelo in noi, e sogni di futuro. Allora spirituale e reale coincidono, la verità e la vita coincidono. Questa è la bellezza della fede. Credere è acquisire bellezza del vivere. La festa della Trinità è specchio del senso ultimo dell'universo. Davanti alla Trinità mi sento piccolo ma abbracciato, come un bambino: abbracciato dentro un vento in cui naviga l'intero creato e che ha nome comunione.

Dì loro ciò che il vento dice alle rocce, ciò che il mare dice alle montagne.
Dì loro che una bontà immensa penetra l'universo, dì loro che Dio non è quello che credono, che è un vino di festa, un banchetto di condivisione in cui ciascuno dà e riceve.
Dì loro che Dio è Colui che suona il flauto nella luce piena del giorno, si avvicina e scompare chiamandoci alle sorgenti.
Dì loro l'innocenza del suo volto, i suoi lineamenti, il suo sorriso.
Dì loro che Egli è il tuo spazio e la tua notte,
la tua ferita e la tua gioia.

 
Domenica Ascensione del Signore.
La Pasqua e' un tempo di 50 giorni che si conclude con la Pentecoste domenica Prossima.
Imparare a cercare Gesu' non tra i morti ma tra i vivi e' l'impegno di noi battezzati. Non costruire sepolcri ce ne sono gia' tanti ma ravvivare la speranza nella vita facendoci operatori di pace.
 
Il mondo ha bisogno dei costruttori di pace che non stanno a guardare il cielo ma che si rimbocchino le maniche a volte sporcandosi perche'  nessuno ci rubi la speranza.
Un cristianesimo di incarnazione e' l'impegno che tutti prendiamo in questa solennita'.
L'ultimo gesto di Gesu' e' benedirci perche' noi non ci stanchiamo di benedire tutti quelli che incontriamo come compagni di strada.
Buona Domenica.

 

“Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia”. Non dobbiamo mai dimenticare che c’è una strutturale e radicale diversità tra la logica del mondo e la logica del Vangelo. Fino alla fine della storia ci sarà sempre conflitto tra come ragiona il mondo e come ragiona il Vangelo. Per questo bisogna preoccuparsi quando il messaggio cristiano riceve eccessivi applausi e consensi.

Bisogna diffidare dalla popolarità perché ciò che Cristo annuncia non ha niente di popolare perché fa appello alla libertà degli uomini non ai loro applausi. Troppo spesso invece pensiamo che l’evangelizzazione consista nel riuscire a diventare simpatici al mondo. Quando la Chiesa o semplicemente un cristiano per non dispiacere gli altri manomette il Vangelo, non solo ha resa vana la propria fede ma ha tolto sapore al sale che doveva portare nella storia.

Bisogna però stare attenti anche al rischio contrario che è quello di godere molto dei conflitti con il mondo, delle distanze, della differenza. È un pericoloso narcisismo spirituale pensarsi sempre come vittime, e godere di un martirio che sembra più la ricerca di medaglie sul campo che estremo tentativo di non tradire Cristo. I veri testimoni, i veri martiri non godono della sofferenza che viene dal mondo. Non si sentono fomentati, vivono tutto con umiltà, con mitezza, con compassione.

 

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Le mie pecore ascoltano la mia voce. Non comandi da eseguire, ma voce amica da ospitare. L'ascolto è l'ospitalità della vita. Per farlo, devi “aprire l'orecchio del cuore”, raccomanda la Regola di san Benedetto. La voce di chi ti vuole bene giunge ai sensi del cuore prima del contenuto delle parole, lo avvolge e lo penetra, perché pronuncia il tuo nome e la tua vita come nessuno. È l'esperienza di Maria di Magdala al mattino di Pasqua, di ogni bambino che, prima di conoscere il senso delle parole, riconosce la voce della madre, e smette di piangere e sorride e si sporge alla carezza.
La voce è il canto amoroso dell'essere: Una voce! L'amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline (Ct 2,8). E prima ancora di giungere, l'amato chiede a sua volta il canto della voce dell'amata: la tua voce fammi sentire (Ct 2,14)...
Perché le pecore ascoltano? Non per costrizione, ma perché la voce è bellissima e ospita il futuro. Io do loro la vita eterna!(v.28). La vita è data, senza condizioni, senza paletti e confini, prima ancora della mia risposta; è data come un seme potente, seme di fuoco nella mia terra nera. Linfa che giorno e notte risale il labirinto infinito delle mie gemme, per la fioritura dell'essere.

Due generi di persone si disputano il nostro ascolto: i seduttori e i maestri. I seduttori, sono quelli che promettono vita facile, piaceri facili; i maestri veri sono quelli che donano ali e fecondità alla tua vita, orizzonti e un grembo ospitale.
Il Vangelo ci sorprende con una immagine di lotta: Nessuno le strapperà dalla mia mano (v.28). Ben lontano dal pastore sdolcinato e languido di tanti nostri santini, dentro un quadro bucolico di agnellini, prati e ruscelli. Le sue sono le mani forti di un lottatore contro lupi e ladri, mani vigorose che stringono un bastone da cammino e da lotta.

E se abbiamo capito male e restano dei dubbi, Gesù coinvolge il Padre: nessuno può strapparle dalla mano del Padre (v.29). Nessuno, mai (v.28). Due parole perfette, assolute, senza crepe, che convocano tutte le creature (nessuno), tutti i secoli e i giorni (mai): nessuno ti scioglierà più dall'abbraccio e dalla presa delle mani di Dio. Legame forte, non lacerabile. Nodo amoroso, che nulla scioglie.

L'eternità è la sua mano che ti prende per mano. Come passeri abbiamo il nido nelle sue mani; come un bambino stringo forte la mano che non mi lascerà cadere.
E noi, a sua immagine piccoli pastori di un minimo gregge, prendiamo schegge di parole dalla voce del Pastore grande, e le offriamo a quelli che contano per noi: nessuno mai ti strapperà dalla mia mano.
E beato chi sa farle volare via verso tutti gli agnellini del mondo.

 

Amare fino a dare la vita
Terza domenica di Pasqua: le letture (Atti e Apocalisse) ribadiscono che Cristo è il Signore, Agnello immolato per la salvezza del mondo. Gli uomini lo hanno crocifisso, Dio lo ha risuscitato: a Lui onore e gloria! Chi ha incontrato il suo amore lo annuncia, non tace se minacciato, dà la vita, sa che il Signore risolleva dalla morte (Salmo 29).

Così gli apostoli subiscono la flagellazione “lieti di essere stati giudicati degni di oltraggi nel nome di Gesù”. E Gesù stesso, nella pagina evangelica, evoca il martirio con cui Pietro glorificherà Dio. Sulla riva del “mare” di Galilea, dove avevano incontrato per la prima volta Gesù e avevano ricevuto da Lui la chiamata a seguirlo, sono presenti sette discepoli, simbolo della totalità di quelli che, in ogni tempo, con Pietro, seguono il Maestro.

Sono pieni di nostalgia e si sentono scoraggiati; Pietro decide di andare a pescare, di tornare alla vita di prima, come se niente fosse accaduto nel tempo trascorso con Gesù, che aveva riconosciuto come il Cristo e per il quale, alla promessa di diventare pescatore di uomini, aveva lasciato la barca.

Tutti seguono Pietro, che proprio lì Gesù aveva costituito capo della Chiesa, e vanno a pesca, ma quella notte non prendono nulla. In questa situazione si manifesta il Risorto: nella nostra delusione, nello scoramento, quando tutto sembra inutile.[…]

 

Siamo tutti mendicanti di amore e di luce

Domenica 25 2021 XXX Domenica Tempo ordinario – Anno B

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». (...) E Gesù gli disse: «Va', la tua fede ti ha salvato» (...).

Vangeli di strade e di incontri, in queste settimane. «Mentre partiva da Gerico...». Siamo alle porte della città, dove le carovane dei pellegrini si ricompongono, dove si aggirano i mendicanti, sperando in una monetina tra i tanti che si danno appuntamento alle porte. Un cieco, seduto, a terra, immobile, sta lì a mendicare la sua sopravvivenza da chi passa. Ma ecco che «sentendo che era Gesù il Nazareno» Bartimeo è come investito da un brivido, da una scossa: alza la testa, si rianima, comincia a gridare il suo dolore. Non si vergogna di essere il più povero di tutti, anzi è la sua forza. Siamo tutti come lui, mendicanti di affetto o di amore o di luce. La mendicanza è la sorgente della preghiera: Kyrie eleison, grida. Tra tutte, la preghiera più cristiana ed evangelica, la più antica e la più umana. Che nelle nostre liturgie abbiamo confinato all'atto penitenziale, mentre è la richiesta di nascere di nuovo. La ripetono lebbrosi, donne, ciechi e non è richiesta di perdono per i peccati, ma di luce per gli occhi spenti, di una pelle nuova che riceva carezze ancora.

Come un bambino che grida alla madre lontana, chiedono a Dio: mostrati padre, sentiti madre di questo figlio naufrago, fammi nascere di nuovo, ridammi alla luce! Bartimeo cerca un Dio che si intrecci con la sua vita a pezzi, con i suoi stracci. Ma la folla attorno fa muro al suo grido: taci! disturbi! Terribile pensare che la sofferenza possa disturbare. Disturbare Dio! Bartimeo allora fa l'unica cosa che si può fare in questi casi: grida più forte. È il suo combattimento, con le tenebre e con la folla.

Il Nazareno ascolta il grido e risponde in un modo tutto nuovo: coinvolge la folla che prima voleva zittire il mendicante, si fida della folla, anche se è così facile a cambiare di umore: chiamatelo! E la folla va, portavoce di Cristo, e si rivolge al cieco con parole bellissime, da brivido, dove è custodito il cuore dell'annuncio evangelico. Parole facili e che vanno diritte al cuore, da imparare, da ripetere, sempre, a tutti: «Coraggio, alzati, ti chiama». Coraggio, la virtù degli inizi. Alzati, dipende da te, lo puoi fare, riprendi in mano la tua vita. Ti chiama, è qui per te, non sei solo, il cielo non è muto. Ed ecco che si libera l'energia compressa, e fioriscono gesti quasi eccessivi: non parla, grida; non si toglie il mantello, lo getta; non si alza da terra, ma balza in piedi. Guarisce in quella voce che lo accarezza, lo chiama e diventa la strada su cui cammina. Noi, che siamo al tempo stesso mendicanti e folla, nelle nostre Gerico, lungo le nostre strade, ad ogni persona a terra, portiamo in dono, senza stancarci mai, queste tre parole generanti: «Coraggio, alzati, ti chiama».

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Lipari, famiglia dona un nuovo organo per la Basilica Cattedrale in onore del Patrono San Bartolomeo

È arrivato ieri il nuovo organo regalato da una famiglia alla Basilica Cattedrale. E' un dono a San Bartolomeo che in questo tempo difficile non ci ha abbandonati.
Grazie dal profondo del cuore a chi lo ha donato e vuole restare nell'anonimato chiedendo solo un ricordo nella preghiera. Lo inaugureremo il 16 Novembre ultima festa in onore del Santo Patrono alla presenza del nostro Arivescovo Mons.Giovanni Accolla.

In questi giorni nei quali Vulcano e monitorato da vulcanologi noi alziamo lo sguardo a te dalle sette isole e come i nostri padri ti diciamo : San Bartolomeo salvaci dal pericolo dei terremoti e dalle eruzioni del vulcano. Liberaci dai pericoli.

Grazie San Bartolomeo.(G:S:)

E subito prove tecniche per il Maestro Gianluca Zanca 

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Così Gesù ci spiazza: sono venuto per servire
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».[...]
Tra voi non è così! Bellissima espressione che mette a fuoco la differenza cristiana. Gli altri dominano, non così tra voi. Voi vi metterete a fianco delle persone, o ai loro piedi, e non al di sopra. Gli altri opprimono. Voi invece solleverete le persone, le tirerete su per un'altra luce, altro sole, altro respiro.

La storia gloriosa di ciascuno non è scritta da chi ha avuto la capacità di dominarci, ma da chi ha avuto l'arte di amarci: gloria della vita. Sono venuto per dare la mia vita in riscatto per la moltitudine...

Gesù riscatta l'umano, ridipinge l'icona di cosa sia la persona, cosa sia vita e cosa no, tira fuori un tesoro di luce, di sole, di bellezza da ciascuno. Libera il volto nuovo dell'umanità, riscatta l'umano dagli artigli del disumano; riscatta il cuore dell'uomo dal potere mortifero della indifferenza.

Gesù è il guaritore del peccato del mondo, che ha un solo nome: disamore. Giacomo e Giovanni, i “figli del tuono”, gli avevano chiesto, con quel tono da bambini: Vogliamo che tu ci faccia quello che vogliamo noi... Gli altri apostoli si indignano, lo fanno per rivalità, per gelosia, perché i due fratelli hanno tentato di manipolare la comunità. Ma Gesù non li segue, va avanti, salva la domanda dei due e anche l'indignazione degli altri: Li chiama a sé, nell'intimità, cuore a cuore, e spiega, argomenta. Perché dietro ad ogni desiderio umano, anche i più storti, c'è sempre una matrice buona, un desiderio di vita, di bellezza, di armonia. Ogni desiderio umano ha sempre dietro una parte sana, piccolissima magari. Ma quella è la parte da non perdere. Gli uomini non sono cattivi, sono fragili e si sbagliano facilmente. «Anche il peccato è spesso un modo sbagliato per cercarti» (D. M. Turoldo).

L'ultima frase del Vangelo è di capitale importanza: Sono venuto per servire. La più spiazzante autodefinizione di Gesù. La più rivoluzionaria e contromano. Ma che illumina di colpo il cuore di Dio, il senso della vita di Cristo, e quindi della vita di ogni uomo e ogni donna. Un Dio che, mentre nel nostro immaginario è onnipotente, nella sua rivelazione è servo. Da onnipotente a servo. Novità assoluta.

Perché Dio ci ha creati? Molti ricordiamo la risposta del catechismo: Per conoscere, amare e servire Dio in questa vita, e goderlo nell'altra. Gesù capovolge la prospettiva, le dà una bellezza e una profondità che stordiscono: siamo stati creati per essere amati e serviti da Dio, qui e per sempre. Dio esiste per te, per amarti e servirti, dare per te la sua vita, per essere sorpreso da noi, da questi imprevedibili, liberi, splendidi, creativi e fragili figli.

 

Sarai felice se renderai felice qualcuno

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: (...) «Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”» (...). «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri». (...)

Gesù è sulla strada, il luogo che più amava: la strada, che è di tutti, collega i lontani, è libera e aperta, una breccia nelle mura, ama gli orizzonti. Ed ecco un tale, uno senza nome ma ricco (la sua identità rubata dal denaro) gli corre incontro. Corre, come uno che ha fretta, fretta di vivere, di vivere davvero. L'uomo senza nome sta per affrontare un grande rischio: interroga Gesù per sapere la verità su se stesso. «Maestro buono, è vita o no la mia? Cosa devo fare per essere vivo davvero?». Domanda eterna. Universale.

Gesù risponde elencando cinque comandamenti e un precetto. «Maestro, tutto questo io l'ho già fatto, da sempre. Eppure.... Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò. Lo amò per quel “eppure”, che racconta fame e sete d'altro: osservare la legge non ha riempito la vita.

Gesù lo fissa. Quell'uomo fa una esperienza da brividi, sente su di sé lo sguardo di Gesù, incrocia i suoi occhi amanti, può naufragarvi dentro. E se io dovessi continuare il racconto direi: adesso gli va dietro, adesso è preso dall'incantamento, dal fascino del Signore, non resiste...

Invece la conclusione cammina nella direzione che non ti aspetti: «Una cosa ti manca, va', vendi, dona ai poveri...». Dona. Sarai felice se farai felice qualcuno. Tu non sei ciò che hai, ma ciò che dai.

Dare: verbo pauroso. Noi vogliamo prendere, trattenere, accumulare. Dare ai poveri... Nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con il verbo dare. Ma l'uomo ricco se ne va triste. Noi tutti abbiamo due vite in guerra tra loro: una è fatta di cose e di quotidiano e la seconda si nutre di richiami e appelli, di vocazione e sogno.

L'uomo ricco cammina triste: hanno vinto le cose e il denaro; non seguirà più la vita come appello, ma solo la vita come esistenza ordinaria, ostaggio delle cose.

Per tre volte oggi si dice che Gesù “guardò”: con amore, con preoccupazione, con incoraggiamento. La fede altro non è che la mia risposta al corteggiamento di Dio, un'avventura che nasce da un incontro, quando Dio entra in te e io gli do tempo e cuore.
Ecco allora una delle parole più belle di Gesù: tutto è possibile presso Dio. Egli è capace di far passare un cammello per la cruna di un ago. Dio ha la passione dell'impossibile. Dieci cammelli passeranno.

Don Milani sul letto di morte lo ha capito: adesso finalmente vedo il cammello passare per la cruna dell'ago. Era lui, il cammello, lui di famiglia ricca e potente, che passava per la cruna della piccolezza.

Signore, ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa avremo in cambio? Avrai in cambio cento fratelli e un cuore moltiplicato.

 

Dall’origine il Signore congiunge le vite
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 3 Ottobre 2021.
È lecito a un marito ripudiare la moglie? È risaputo, tutta la tradizione religiosa, avallata dalla Parola di Dio, lo legittimava: sì, è lecito. Ma Gesù prende le distanze: che cosa vi ha ordinato Mosè? Da ebreo, avrebbe dovuto dire: che cosa “ci” ha ordinato Mosè, invece marca la sua differenza. Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio.

Gesù prende le distanze anche da Mosè: per la durezza del vostro cuore egli scrisse questa norma. Affermazione enorme: la legge che noi diciamo divina non sempre, non tutta riflette la volontà di Dio, talvolta è il riflesso del nostro cuore duro.

In principio non era così. A Gesù non interessa spostare avanti o indietro i paletti della morale, disciplinare la vita, ma ispirarla, accenderla, rinnovarla: il Vangelo non è una morale, ma una sconvolgente liberazione (G. Vannucci). Ci prende per mano e ci accompagna nei territori di Dio, dentro il suo sogno iniziale, sorgivo, originario; ci insegna a guardare non dal punto di vista della fine dell’amore, ma del suo inizio: per questo l’uomo lascerà il padre e la madre, si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola.

Il sogno di Dio è i due che si cercano, i due che si trovano, i due che si amano e che diventano uno.

 

In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. (...)».

Maestro, quell'uomo non è dei nostri. Quel forestiero che fa miracoli, ma che non è iscritto al gruppo; che migliora la vita delle persone, ma forse è un po' eretico o troppo libero, viene bloccato. E a capo dell'operazione c'è Giovanni, il discepolo amato, il teologo fine, “il figlio del tuono”', ma che è ancora figlio di un cuore piccolo, morso dalla gelosia. «Non ti è lecito rendere migliore il mondo se non sei dei nostri!». La forma prima della sostanza, l'iscrizione al gruppo prima del bene, l'idea prima della realtà! Invece Mosè, nella prima lettura, dà una risposta così liberante a chi gli riferisce di due che non sono nell'elenco eppure profetizzano: magari fossero tutti profeti...

La risposta di Gesù, l'uomo senza frontiere, è molto articolata e molto alla Mosè: Lascialo fare! Non tracciare confini. Il nostro scopo non è aumentare il numero di chi ci segue, ma far crescere il bene; aumentare il numero di coloro che, in molti modi diversi, possano fare esperienza del Regno di Dio, che è gioia, libertà e pienezza.

È grande cosa vedere che per Gesù la prova ultima della bontà della fede non sta in una adesione teorica al “nome”, ma nella sua capacità di trasmettere umanità, gioia, salute, vita. Chiunque regala un sorso di vita, è di Dio. Questo ci pone tutti, serenamente e gioiosamente, accanto a tanti uomini e donne, diversamente credenti o non credenti, che però hanno a cuore la vita e si appassionano per essa, che sono capaci di inventarsi miracoli per far nascere un sorriso sul volto di qualcuno. Il vangelo ci chiama a «stare accanto a loro, sognando la vita insieme» (Evangelii gaudium, 74).

Chiunque vi darà un bicchiere d'acqua... non perderà la sua ricompensa.

Un po' d'acqua, il quasi niente, una cosa così semplice e povera che nessuno ne è privo.

Gesù semplifica la vita: tutto il vangelo in un bicchiere d'acqua. Di fronte all'invasività del male, Gesù conforta: al male opponi il tuo bicchiere d'acqua; e poi fidati: il peggio non prevarrà.

Mosè e Gesù, maestri della fede, ci invitano a non piantare paletti ma ad amare gli orizzonti, a guardare oltre il cortile di casa, a tutto l'accampamento umano, a tutta la strada da percorrere: alzate gli occhi, non vedete quanti semi dello Spirito volano dappertutto? Quante persone lottano per la vita dei fratelli contro i démoni moderni: inquinamento, violenza, fake news, corruzione, economia che uccide? E se anche sono fuori dal nostro accampamento, sono comunque profeti. Sono quelli che ascoltano il grido dei mietitori non pagati (Giacomo 5,4) e ridanno loro parola, perché tutto ciò che riguarda l'avventura umana riguarda noi. Perché tutti sono dei nostri e noi siamo di tutti.

Chi accoglie e abbraccia un bambino accoglie Dio

Un’alternanza di strade e di case: i tre anni di Galilea sono raccontati così da Marco. Sulla strada si cammina al ritmo del cuore; si avanza in gruppo; qualcuno resta un po’ indietro, qualcun’altro condivide chiacchiere leggere con un amico, lasciando fiorire parole autentiche e senza maschere.

Gesù ha lasciato liberi i discepoli di stare tra loro, per tutto il tempo che vogliono, con i pensieri che hanno, con le parole che sanno, senza stare loro addosso, controllare tutto, come un genitore ansioso. Poi il Vangelo cambia ambientazione: giungono in casa, e allora cambia anche la modalità di comunicazione di Gesù: sedutosi, chiamò i dodici e disse loro (sedette, chiamò, disse sono tre verbi tecnici che indicano un insegnamento importante): di cosa stavate parlando? Di chi è il più grande.

Questione infinita, che inseguiamo da millenni, su tutta la terra. Questa fame di potere, questa furia di comandare è da sempre un principio di distruzione nella famiglia, nella società, nella convivenza tra i popoli. Gesù si colloca a una distanza abissale da tutto questo: se uno vuol essere il primo sia il servo.

Ma non basta, c’è un secondo passaggio: “servo di tutti”, senza limiti di gruppo, di famiglia, di etnìa, di bontà o di cattiveria.  […]

 

E per la strada interrogava: un'azione continuativa, prolungata, uno stile di vita: strada e domande. Gesù non è la risposta, lui è la domanda; non il punto di arrivo, ma la forza che fa salpare la vita, smontare le tende al levar delle sole.

Le tante domande del vangelo funzionano come punto di incontro tra lui e noi. La gente, chi dice che io sia? Non un semplice sondaggio per misurare la sua popolarità, Gesù vuole capire che cosa del suo messaggio ha raggiunto il cuore. Si è accorto che non tutto ha funzionato nella comunicazione, si è rotto qualcosa in quella crisi galilaica che tutti gli evangelisti riferiscono. Infatti, la risposta della gente, se può sembrare gratificante, rivela invece una percezione deformata di Gesù: per qualcuno è un maestro moralizzatore di costumi ("dicono che sei Giovanni il Battista"); altri hanno percepito in lui la forza che abbatte idoli e falsi profeti ("dicono che sei Elia"); altri ancora non colgono nulla di nuovo, solo l'eco di vecchi messaggi già ascoltati ("dicono che sei uno dei profeti").

Ma Gesù non è niente fra le cose di ieri. È novità in cammino. E il domandare continua, si fa diretto: ma voi chi dite che io sia? Per far emergere l'ambiguità che abita il cuore di tutti, Gesù mette in discussione se stesso.

Non è facile sottoporsi alla valutazione degli altri, costa molta umiltà e libertà chiedere: cosa pensate di me? Ma Gesù è senza maschere e senza paure, libero come nessuno. Tu sei il Cristo, si espone Pietro, il senso di Israele, il senso della mia vita. A questo punto il registro cambia e il racconto si fa spiazzante: Gesù cominciò a insegnare che il Cristo doveva molto soffrire e venire ucciso e il terzo giorno risorgere. Come fa Pietro ad accettare un messia perdente? «Tu sei il messia, l'atteso, che senso ha un messia sconfitto?». Allora lo prende in disparte e comincia a rimproverarlo. Lo contesta, gli indica un'altra storia e altri sogni. E la tensione si alza, il dialogo si fa concitato e culmina in parole durissime: va dietro di me, satana. Il tuo posto è seguirmi.

Pietro è la voce di ogni ambiguità della vita, questo fiume che trasporta tutto, fango e pagliuzze d'oro, e attraversa macchie di sole e zone d'ombra; dà voce a quell'ambiguità senza colpa (G. Piccolo), per cui le cose non ci sono chiare, per cui nelle nostre parole sentiamo al tempo stesso il suono di Dio (non la carne o il sangue te l'hanno rivelato) e il sussurro del male (tu pensi secondo il mondo).

La soluzione è quella indicata a Pietro («va dietro di me»). Gesù ha dato una carezza alle mie ferite, ha attraversato le mie contraddizioni e mi fa camminare proprio lì, lungo la «linea incerta che addividi la luci dallo scuru» (A. Camilleri).

 

In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate [...] lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». [...]

Portarono a Gesù un sordomuto. Un uomo prigioniero del silenzio, una vita senza parole e senza musica, ma che non ha fatto naufragio, perché accolta dentro un cerchio di amici che si prendono cura di lui: e lo condussero da Gesù. La guarigione inizia quando qualcuno mette mano all'umanissima arte dell'accompagnamento. E lo pregarono di imporgli la mano. Ma Gesù fa molto di più, non gli basta imporre le mani in un gesto ieratico, vuole mostrare l'eccedenza e la vicinanza di Dio: lo prese in disparte, lontano dalla folla: «Io e te soli, ora conti solo tu e, per questo tempo, niente è più importante di te». Li immagino occhi negli occhi, e Gesù che prende quel volto fra le sue mani.

Seguono gesti molto corporei e delicati: Gesù pose le dita sugli orecchi del sordo. Le dita: come lo scultore che modella delicatamente la creta che ha plasmato. Come una carezza. Non ci sono parole, solo la tenerezza dei gesti. Poi con la saliva toccò la sua lingua. Gesto intimo, coinvolgente: ti do qualcosa di mio, qualcosa che sta nella bocca dell'uomo, insieme al respiro e alla parola, simboli della vita.

Vangelo di contatti, di odori, di sapori. Il contatto fisico non dispiaceva a Gesù, anzi. E i corpi diventano luogo santo d'incontro con il Signore, laboratorio del Regno. La salvezza non è estranea ai corpi, passa attraverso di essi, che non sono strade del male ma «scorciatoie divine» (J.P.Sonnet),

Guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro. Un sospiro non è un grido che esprime potenza, non è un singhiozzo, ma il respiro della speranza, calma e umile, il sospiro del prigioniero (Sal 102,21), e Gesù è anche lui prigioniero con quell'uomo.

E gli disse: Effatà, apriti! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua della madre, ripartendo dalle radici: apriti, come si apre una porta all'ospite, una finestra al sole, le braccia all'amore. Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite, attraverso le quali vita esce e vita entra. Se apri la tua porta, la vita viene.

Una vita guarita è quella che si apre agli altri: e subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. Prima gli orecchi. Perché il primo servizio da rendere a Dio e all'uomo è sempre l'ascolto. Se non sai ascoltare, perdi la parola, diventi muto o parli senza toccare il cuore di nessuno.

Forse l'afasia della chiesa dipende oggi dal fatto che non sappiamo più ascoltare, Dio e l'uomo. Dettaglio eloquente: sa parlare solo chi sa ascoltare. Dono da chiedere instancabilmente, per il sordomuto che è in noi: donaci, Signore, un cuore che ascolta (cfr 1Re 3,9). Allora nasceranno pensieri e parole che sanno di vita.

 

 

Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano. Gesù indirizza oggi la nostra attenzione verso il cuore, quegli oceani interiori che ci minacciano e che ci generano; che ci sommergono talvolta di ombre e di sofferenze ma che più spesso ancora producono isole di generosità, di bellezza e di luce: siate liberi e sinceri.

Gesù veniva dai campi veri del mondo dove piange e ride la vita, E ora che cosa trova?

Gente che collega la religione a macchioline, mani e piatti lavati, a pratiche esteriori. Gesù, anziché scoraggiarsi, diventa eco del grido antico dei profeti: vera religione è illimpidire il cuore a immagine del Padre della luce (prima Lettura, Gc 1,17): è dal cuore degli uomini che escono le intenzioni cattive...

È la grande svolta: il ritorno al cuore. Passando da una religione delle pratiche esteriori a una religione dell'interiorità, perché l'io esiste raccogliendosi non disperdendosi, e perché quando ti raccogli fai la scoperta che Dio è vicino: «Fuori di me ti cercavo e tu eri dentro di me» (sant'Agostino).

Ritorna al tuo cuore: per quasi mille volte nella Bibbia ricorre il termine cuore, che non indica la sede dei sentimenti o dell'affettività, ma è il luogo dove nascono le azioni e i sogni, dove si sceglie la vita o la morte, dove si è sinceri e liberi, dove fa presa l'attrazione di Dio, e seduce e brucia, come a Emmaus.

Il ritorno al cuore è un precetto antico quanto la sapienza umana («conosci te stesso» era scritto sul frontone del tempio di Delfi), ma non basta a salvare, perché nel cuore dell'uomo c'è di tutto: radici di veleno e frutti di luce; campi di buon grano ed erbe malate.

L'azione decisiva sta nell'evangelizzare il cuore, nel fecondare di Vangelo le nostre zolle di durezza, le intolleranze e le chiusure, i desideri oscuri e i nostri idoli mascherati...

Gesù, maestro del cuore, esegeta e interprete del desiderio, pone le sue mani sante nel tessuto più profondo della persona, sul motore della vita, e salva il desiderio dalle sue pulsioni di morte: dal di dentro, cioè dal cuore dell'uomo escono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità... e segue un elenco impressionante di dodici cose cattive, che rendono impura e vuota la vita.

Ma tu non dare loro cittadinanza, non legittimarle, non farle uscire da te, non permettere loro di galoppare sulle praterie del mondo, perché sono segnali di morte. Evangelizzare significa far scendere sul cuore un messaggio felice.

 

Giovanni mette in scena il resoconto di una crisi drammatica. Dopo il lungo discorso nella sinagoga di Cafarnao sulla sua carne come cibo, Gesù vede profilarsi l'ombra del fallimento: molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. E lo motivano chiaramente: questa parola è dura. Chi può ascoltarla?

Dura era stata anche per il giovane ricco: vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri.
Dure le parole sulla montagna: beati i perseguitati, beati quelli che piangono.

Ma ciò che Gesù ora propone non è una nuova morale, più ardua che mai, ma una visione ancora più rivoluzionaria, una fede ancor più sovversiva: io sono il pane di Dio; io trasmetto la vita di Dio; la mia carne dà la vita al mondo.

Nessuno aveva mai detto “io” con questa pretesa assoluta.

Nessuno aveva mai parlato di Dio così: un Dio che non versa sangue, versa il suo sangue; un Dio che va a morire d'amore, che si fa piccolo come un pezzo di pane, si fa cibo per l'uomo.

Finita la religione delle pratiche esterne, dei riti, degli obblighi, questa è la religione dell'essere una cosa sola con Dio: io in Lui, Lui in me.

La svolta del racconto avviene attorno alle parole spiazzanti di Gesù: volete andarvene anche voi?

Il maestro non tenta di fermarli, di convincerli, non li prega: aspettate un momento, restate, vi spiego meglio.

C'è tristezza nelle sue parole, ma anche fierezza e sfida, e soprattutto un appello alla libertà di ciascuno: siete liberi, andate o restate, ma scegliete!

Sono chiamato anch'io a scegliere di nuovo, andare o restare. E mi viene in aiuto la stupenda risposta di Pietro: Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna. Tu solo. Dio solo. Un inizio bellissimo. Non ho altro di meglio. Ed esclude un mondo intero. Tu solo. Nessun altro c'è cui affidare la vita. Tu solo hai parole: Dio ha parole, il cielo non è vuoto e muto, e la sua parola è creativa, rotola via la pietra del sepolcro, vince il gelo, apre strade e nuvole e incontri, apre carezze e incendi. Tu solo hai parole di vita. Parole che danno vita, la danno ad ogni parte di me. Danno vita al cuore, gli danno coraggio e orizzonti, ne sciolgono la durezza.

Danno vita alla mente perché la mente vive di libertà e di verità, e tu sei la verità che rende liberi. Vita allo spirito, a questa parte divina deposta in noi, a questa porzione di cielo che ci compone. Parole che danno vita anche al corpo perché in Lui siamo, viviamo e respiriamo; e le sue parole muovono le mani e le fanno generose e pronte, seminano occhi nuovi, luminosi e accoglienti.

Parole di vita eterna, che portano in dono l'eternità a tutto ciò che di più bello abbiamo nel cuore. Che fanno viva, finalmente, la nostra vita.

Lipari, alla 10 nella Chiesa di San Pietro sarà ricordato l'avvocato Antonio Barresi

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Sabato 21 Agosto nella Parrocchia di San Pietro con una Santa Messa alle ore 10 ricorderemo l'Avvocato Antonio Barresi deceduto il 5 Agosto 2021.

Alla famiglia il nostro abbraccio.

Magnificat, una finestra aperta sul futuro

Luca ci offre, in questa festa dell'Assunzione di Maria, l'unica pagina evangelica in cui protagoniste sono le donne. Due madri, entrambe incinte in modo «impossibile», sono le prime profetesse del Nuovo Testamento. Sole, nessun'altra presenza, se non quella del mistero di Dio pulsante nel grembo.

Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! Elisabetta ci insegna la prima parola di ogni dialogo vero: a chi ci sta vicino, a chi condivide strada e casa, a chi mi porta luce, a chi mi porta un abbraccio, ripeto la sua prima parola: che tu sia benedetto; tu sei benedizione scesa sulla mia vita!.

Elisabetta ha introdotto la melodia, ha iniziato a battere il ritmo dell'anima, e Maria è diventata musica e danza, il suo corpo è un salmo: L'anima mia magnifica il Signore!.

Da dove nasce il canto di Maria?

Ha sentito Dio entrare nella storia, venire come vita nel grembo, intervenire non con le gesta spettacolari di comandanti o eroi, ma attraverso il miracolo umile e strepitoso della vita: una ragazza che dice sì, un'anziana che rifiorisce, un bimbo di sei mesi che danza di gioia all'abbraccio delle madri. Viene attraverso il miracolo di tutti quelli che salvano vite, in terra e in mare.

Il Magnificat è il vangelo di Maria, la sua bella notizia che raggiunge tutte le generazioni. Per dieci volte ripete:

è lui che ha guardato, è lui che fa grandi cose, che ha dispiegato, che ha disperso, che ha rovesciato, che ha innalzato, che ha ricolmato, che ha rimandato, che ha soccorso, che si è ricordato.... è lui, per dieci volte. La pietra d'angolo della fede non è quello che io faccio per Dio, ma quello che Dio fa per me; la salvezza è che lui mi ama, non che io lo amo. E che io sia amato dipende da lui, non dipende da me.

Maria vede un Dio con le mani impigliate nel folto della vita. E usa i verbi al passato, con uno stratagemma profetico, come se tutto fosse già accaduto. Invece è il suo modo audace per affermare che si farà, con assoluta certezza, una terra e un cielo nuovi, che il futuro di Dio è certo quanto il passato, che questo mondo porta un altro mondo nel grembo.

Pregare il Magnificat è affacciarsi con lei al balcone del futuro. Santa Maria, assunta in cielo, vittoriosa sul drago, fa scendere su di noi una benedizione di speranza, consolante, su tutto ciò che rappresenta il nostro male di vivere: una benedizione sugli anni che passano, sulle tenerezze negate, sulle solitudini patite, sul decadimento di questo nostro corpo, sulla corruzione della morte, sulle sofferenze dei volti cari, sul nostro piccolo o grande drago rosso, che però non vincerà, perché la bellezza e la tenerezza sono, nel tempo e nell'eterno, più forti della violenza.

 

 

L’opera del Signore è nutrire la vita

Gesù ha appena compiuto il “segno” al quale tiene di più, il pane condiviso, ed è poi quello più frainteso, il meno capito. La gente infatti lo cerca, lo raggiunge e vorrebbe accaparrarselo come garanzia contro ogni fame futura. Ma il Vangelo di Gesù non fornisce pane, bensì lievito mite e possente al cuore della storia, per farla scorrere verso l’alto, verso la vita indistruttibile.

Davanti a loro Gesù annuncia la sua pretesa, assoluta: come ho saziato per un giorno la vostra fame, così posso colmare le profondità della vostra vita! E loro non ce la fanno a seguirlo. Come loro anch’io, che sono creatura di terra, preferisco il pane, mi fa vivere, lo sento in bocca, lo gusto, lo inghiotto, è così concreto e immediato. Dio e l’eternità restano idee sfuggenti, vaghe, poco più che un fumo di parole.

E non li giudico, quelli di Cafarnao, non mi sento superiore a loro: c’è così tanta fame sulla terra che per molti Dio non può che avere la forma di un pane. Inizia allora un’incomprensione di fondo, un dialogo su due piani diversi: Qual è l’opera di Dio? E Gesù risponde disegnando davanti a loro il volto amico di Dio: Come un tempo vi ha dato la manna, così oggi ancora Dio dà. Due parole semplicissime eppure chiave di volta della rivelazione biblica: nutrire la vita è l’opera di Dio. Dio non domanda, Dio dà. Non pretende, offre. Dio non esige nulla, dona tutto.

FAME E PAURA
Il lago si è riempito di barche e di speranze. Lago che germoglia di domande.

Rabbi, perché ti nascondi? Quando sei venuto qua?

E la folla pone la terza domanda: quale segno fai perché possiamo crederti? Mosè ci ha dato la manna, ma tu che cosa ci dai?

Gesù interroga la mia fede illusoria: io amo Dio o i favori di Dio? Abramo, padre dei credenti, i profeti, credono nella Parola più che nella sua realizzazione. E io? Amo i doni che attendo o amo il Donatore?

E Gesù svela la sua distanza: molto più di un lago c’è di mezzo tra me e voi… Incompreso, è sempre sull’altra riva.

Ma lui, che ha sfamato la folla, vuole svegliare in loro un’altra fame, per un pane diverso; e risponde con due parole semplicissime, che sono la chiave di volta del Vangelo: Dio dà.

Dio non chiede, Dio dà.

Non pretende, non esige, Dio dà. Non pane in cambio di potere, neppure del potere sulle anime. Dio dà vita al mondo.

Ma Rabbi, cosa dobbiamo fare per avere questo pane?

Dovete credere che io porto senso, profondità, forza e canto alla vita. Credere, ma con fede pura, che va oltre. Non cercandomi solo perché avete mangiato!

Le cose, lo sappiamo, non bastano mai. E le persone? Quando ci hanno dato tutto ciò che potevano, affetti, stima, amore, capiamo «di conclamarci a vicenda immortali, con la morte fra le braccia» (Turoldo).

Neanche le persone ci colmano la vita. E se ne vanno. E ci limitano.

Ma Dio ha fatto il cuore più profondo di tutte le creature della terra messe insieme.

L’uomo nasce affamato. Ed è la sua fortuna. Il bambino ha fame di sua madre, gli amanti hanno fame l’uno dell’altro, e poi di un figlio che incarni il loro amore, dove vedere affacciarsi il futuro per sempre.

E quando una famiglia è completa, dovrebbe sentirsi appagata. E invece l’uomo sente una felicità sempre minacciata.

Ed ha fame e paura, desidera amici e teme tradimenti. Ha fame di corpi e poi di infinito.

La risposta a questa fame non è nel creato, è fuori. E’ un pane dal cielo.

 

L’opera del Signore è nutrire la vita

Gesù ha appena compiuto il “segno” al quale tiene di più, il pane condiviso, ed è poi quello più frainteso, il meno capito. La gente infatti lo cerca, lo raggiunge e vorrebbe accaparrarselo come garanzia contro ogni fame futura. Ma il Vangelo di Gesù non fornisce pane, bensì lievito mite e possente al cuore della storia, per farla scorrere verso l’alto, verso la vita indistruttibile.

Davanti a loro Gesù annuncia la sua pretesa, assoluta: come ho saziato per un giorno la vostra fame, così posso colmare le profondità della vostra vita! E loro non ce la fanno a seguirlo. Come loro anch’io, che sono creatura di terra, preferisco il pane, mi fa vivere, lo sento in bocca, lo gusto, lo inghiotto, è così concreto e immediato. Dio e l’eternità restano idee sfuggenti, vaghe, poco più che un fumo di parole.

E non li giudico, quelli di Cafarnao, non mi sento superiore a loro: c’è così tanta fame sulla terra che per molti Dio non può che avere la forma di un pane. Inizia allora un’incomprensione di fondo, un dialogo su due piani diversi: Qual è l’opera di Dio? E Gesù risponde disegnando davanti a loro il volto amico di Dio: Come un tempo vi ha dato la manna, così oggi ancora Dio dà. Due parole semplicissime eppure chiave di volta della rivelazione biblica: nutrire la vita è l’opera di Dio. Dio non domanda, Dio dà. Non pretende, offre. Dio non esige nulla, dona tutto.

Domenica del pane che trabocca dalle mani, dalle ceste, che sembra non finire mai. E mentre lo distribuivano, non veniva a mancare; e mentre passava di mano in mano, restava in ogni mano.

C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci... Un pane d'orzo, il primo cereale che matura; un ragazzo, in cui matura un uomo. Quella primizia d'umanità ha capito tutto, nessuno gli ha chiesto nulla e il ragazzo mette tutto a disposizione. È questa la prima scintilla della risposta alla fame della folla.

Ma che cosa sono cinque pani per 5.000: uno a mille. Il Vangelo sottolinea la sproporzione tra il poco di partenza e la fame innumerevole che assedia. Sproporzione però è anche il nome della speranza, che ha ragioni che la ragione non conosce. E il cristiano non può misurare le sue scelte solo sul ragionevole, sul possibile.

Perché dovremmo credere a un Risorto, se siamo legati al possibile? La stessa sproporzione la sentiamo di fronte ai problemi immensi del nostro mondo. Io ho solo cinque pani, e i poveri sono legioni. Eppure Gesù non bada alla quantità, ne basta anche meno, molto meno, una briciola. E la follia della generosità. E infatti, non appena gli riferiscono la poesia e il coraggio di questo ragazzo, sente scattare dentro come una molla: Fateli sedere! Adesso sì che è possibile cominciare ad affrontare la fame!

Gesù prese i pani e dopo aver reso grazie li diede... Giovanni non riferisce come accade. Come avvengano certi miracoli non lo sapremo mai. Ci sono e basta. Sono perfino troppi. Ci sono, quando a vincere è la legge della generosità: poco pane spezzato con gli altri è misteriosamente sufficiente; il nostro pane tenuto gelosamente per noi è l'inizio della fame: «Nel mondo c'è pane sufficiente per la fame di tutti, ma insufficiente per l'avidità di pochi» (Gandhi).

Prese i pani e dopo aver reso grazie li diede... Tre verbi benedetti: prendere, ringraziare, donare. Gesù non è il padrone del pane, lo riceve, ne è attraversato, semplice luogo di passaggio. Quando noi ci consideriamo i padroni delle cose, ne profaniamo l'anima, roviniamo l'aria, l'acqua, la terra, il pane. Niente è nostro, noi riceviamo e doniamo, siamo attraversati da una vita, che viene da prima di noi e va oltre noi.

Rese grazie: al Padre e al ragazzo senza nome, alla suolo e alla pioggia d'autunno, alla macina e al fuoco, madre e padre del pane. Tutto ci viene incontro, è vita che ci ospita, dono che viene «da un divino labirinto di cause ed effetti» (M. Gualtieri). Che fa della vita un sacramento di comunione. E li diede. Perché la vita è come il respiro, che non puoi trattenere o accumulare; è come una manna che per domani non dura. Dare è vivere.

 

 

Finché c'è compassione il mondo può sperare.

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po'». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

Venite in disparte e riposatevi un po'. I suoi sono ritornati7 felici da quell'invio a due a due, da quella missione in cui li aveva lanciati, un pellegrinaggio di Parola e di povertà.

I Dodici hanno incontrato tanta gente, l'hanno fatto con l'arte appresa da Gesù: l'arte della prossimità e della carezza, della guarigione dai demoni del vivere. Ora è il tempo dell'incontro con se stessi, di riconnettersi con ciò che accade nel proprio spazio vitale.

C'è un tempo per ogni cosa, dice il sapiente d'Israele, un tempo per agire e un tempo per interrogarsi sui motivi dell'agire. Un tempo per andare di casa in casa e un tempo per “fare casa” tra amici e con se stessi. C'è tanto da fare in Israele, malati, lebbrosi, vedove di Nain, lacrime, eppure Gesù, invece di buttare i suoi discepoli dentro il vortice del dolore e della fame, li porta via con sé e insegna loro una sapienza del vivere.

Viviamo oggi in una cultura in cui il reddito che deve crescere e la produttività che deve sempre aumentare ci hanno convinti che sono gli impegni a dare valore alla vita. Gesù ci insegna che la vita vale indipendentemente dai nostri impegni (G. Piccolo).

La gente ha capito, e il flusso inarrestabile delle persone li raggiunge anche in quel luogo appartato. E Gesù anziché dare la priorità al suo programma, la dà alle persone. Il motivo è detto in due parole: prova compassione. Termine di una carica bellissima, infinita, termine che richiama le viscere, e indica un morso, un crampo, uno spasmo dentro. La prima reazione di Gesù: prova dolore per il dolore del mondo. E si mise a insegnare molte cose.

Forse, diremmo noi, c'erano problemi più urgenti per la folla: guarire, sfamare, liberare; bisogni più immediati che non mettersi a insegnare. Forse abbiamo dimenticato che c'è una vita profonda in noi che continuiamo a mortificare, ad affamare, a disidratare. A questa Gesù si rivolge, come una manciata di luce gettata nel cuore di ciascuno, a illuminare la via.

Questo Gesù che si mette a disposizione, che non si risparmia, che lascia dettare agli altri l'agenda, generoso di sentimenti, consegna qualcosa di grande alla folla: «Si può dare il pane, è vero, ma chi riceve il pane può non averne bisogno estremo. Invece di un gesto d'affetto ha bisogno ogni cuore stanco. E ogni cuore è stanco» (Sorella Maria di Campello).

È il grande insegnamento ai Dodici: imparare uno sguardo che abbia commozione e tenerezza. Le parole nasceranno. E vale per ognuno di noi: quando impari la compassione, quando ritrovi la capacità di commuoverti, il mondo si innesta nella tua anima, e diventiamo un fiume solo. Se ancora c'è chi sa, tra noi, commuoversi per l'uomo, questo mondo può ancora sperare.

 

Vita senza demoni e un mondo guarito
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 11 Luglio 2021.
Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli. Ogni volta che Dio ti chiama, ti mette in viaggio. Il nostro Dio ama gli orizzonti e le brecce. A due a due: perché il due non è semplicemente la somma di uno più uno, è l’inizio del noi, la prima cellula della comunità. Ordinò loro di non prendere nient’altro che un bastone. Solo un bastone a sorreggere la stanchezza e un amico su cui appoggiare il cuore.

Né pane, né sacca, né denaro, né due tuniche. Saranno quotidianamente dipendenti dal cielo. Li vedi avanzare da una curva della strada, sembrano mendicanti sotto il cielo di Abramo. Gente che sa che il loro segreto è oltre loro, «annunciatori infinitamente piccoli, perché solo così l’annuncio sarà infinitamente grande» (G. Vannucci).

Ma se guardi meglio, puoi notare che oltre al bastone portano qualcosa: un vasetto d’olio alla cintura. Il loro è un pellegrinaggio mite e guaritore da corpo a corpo, da casa a casa. La missione dei discepoli è semplice: sono chiamati a portare avanti la vita, la vita debole: ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Si occupano della vita, come il profeta Amos, cacciano i demoni, toccano i malati e le loro mani dicono: «Dio è qui, è vicino a te, con amore». Hanno visto con Gesù come si toccano le piaghe, come non si fugga mai dal dolore, hanno imparato l’arte della carezza e della prossimità....

 

 

Due braccia aperte, non un dito accusatore.

In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

Quello che mi incanta è Gesù che si stupisce del Padre. Una cosa bellissima: il Maestro di Nazaret che è sorpreso da un Dio sempre più fantasioso e inventivo nelle sue trovate, che spiazza tutti, perfino suo Figlio. Cosa è accaduto? Il Vangelo ha appena riferito un periodo di insuccessi, tira una brutta aria: Giovanni è arrestato, Gesù è contestato duramente dai rappresentanti del tempio, i villaggi attorno al lago, dopo la prima ondata di entusiasmo e di miracoli, si sono allontanati.

Ed ecco che, in quell'aria di sconfitta, si apre davanti a Gesù uno squarcio inatteso, un capovolgimento improvviso che lo riempie di gioia: Padre, ti benedico, ti rendo lode, ti ringrazio, perché ti sei rivelato ai piccoli. Il posto vuoto dei grandi lo riempiono i piccoli: pescatori, poveri, malati, vedove, bambini, pubblicani, i preferiti da Dio. Gesù non se l'aspettava e si stupisce della novità; la meraviglia lo invade e lo senti felice. Scopre l'agire di Dio, come prima sapeva scoprire, nel fondo di ogni persona, angosce e speranze, e per loro sapeva inventare come risposta parole e gesti di vita, quelli che l'amore ci fa chiamare “miracoli”.

Hai rivelato queste cose ai piccoli... di quali cose si tratta? Un piccolo, un bambino capisce subito l'essenziale: se gli vuoi bene o no. In fondo è questo il segreto semplice della vita. Non ce n'è un altro, più profondo. I piccoli, i peccatori, gli ultimi della fila, le periferie del mondo hanno capito che Gesù è venuto a portare la rivoluzione della tenerezza: voi valete più di molti passeri, ha detto l'altra domenica, voi avete il nido nelle sue mani. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Non è difficile Dio: sta al fianco di chi non ce la fa, porta quel pane d'amore di cui ha bisogno ogni cuore umano stanco... E ogni cuore è stanco. Venite, vi darò ristoro. E non già vi presenterò un nuovo catechismo, regole superiori, ma il conforto del vivere. Due mani su cui appoggiare la vita stanca e riprendere il fiato del coraggio. Il mio giogo è dolce e il mio peso è leggero: parole che sono musica, buona notizia. Gesù è venuto a cancellare la vecchia immagine di Dio.

Non più un dito accusatore puntato contro di noi, ma due braccia aperte. È venuto a rendere leggera e fresca la religione, a toglierci di dosso pesi e a darci le ali di una fede che libera. Gesù è un liberatore di energie creative e perciò è amato dai piccoli e dagli oppressi della terra. Imparate da me che sono mite e umile di cuore, cioè imparate dal mio cuore, dal mio modo di amare delicato e indomito. Da lui apprendiamo l'alfabeto della vita; alla scuola del cuore, la sapienza della vita.

Nel dolore e nella vita Gesù ti tiene per mano

C’è una casa, a Cafarnao, dove la morte ha messo il nido; una casa importante, quella del capo della sinagoga. Casa potente, eppure incapace di garantire la vita di una bambina. Giairo ne è uscito, ha camminato in cerca di Gesù, lo ha trovato, si è gettato ai suoi piedi: La mia figlioletta sta morendo, vieni!

Ha dodici anni, età in cui è d’obbligo fiorire, non soccombere! Gesù ascolta il grido del padre, interrompe quello che stava facendo, cambia i suoi programmi, e si incamminano insieme, il libero Maestro delle strade e l’uomo dell’istituzione. Il dolore e l’amore hanno cominciato a battere il ritmo di una musica assoluta, e Gesù vi entra: sono le nostre radici, e lui ci raggiunge, con passo di madre, proprio attraverso le radici.

Dalla casa vennero a dire: tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il maestro? La tempesta definitiva è arrivata. Caduta l’ultima speranza. E allora Gesù si gira, si avvicina, si fa argine al dolore: non temere, soltanto abbi fede. Giunti alla casa, Gesù prende il padre e la madre con sé, ricompone il cerchio vitale degli affetti, il cerchio dell’amore che fa vivere. «Amare è dire: tu non morirai» (Gabriel Marcel). Prende con sé anche i suoi tre discepoli preferiti, li mette alla scuola dell’esistenza.

Non spiega loro perché si muore a dodici anni, perché esiste il dolore, ma li porta con sé nel corpo a corpo con l’ultima nemica. «Prese la mano della bambina». Gesù una mano che ti prende per mano. Bellissima immagine: Dio e una bambina, mano nella mano. Non era lecito per la legge toccare un morto, si diventava impuri, ma Gesù profuma di libertà.

 

Dio ci salva non “dalla” ma “nella” tempesta

Le piccole barche sono al sicuro, ormeggiate nel porto, ma non è per questo che sono state costruite. Sono fatte per navigare, e anche per affrontare burrasche. Noi siamo naviganti su fragili legni nel mare della vita, su gusci di noci. Eppure ci raggiunge la parola di Gesù: passiamo all’altra riva, andiamo oltre.

C’è un oltre che abita le cose. Non è nel segno del Vangelo restarsene al sicuro, attraccati alla banchina o fermi all’ancora. Il nostro posto non è nei successi, ma in una barca in mare, mare aperto, dove prima o poi durante la navigazione della vita verranno acque agitate e vento contrario. Vera pedagogia è quella di Gesù: trasmettere non paura la passione per il mare aperto, il desiderio di navigare avanti, la gioia del mare alto e infinito.

Nella breve navigazione Gesù si addormenta, sfinito. Io non so perché si alzano tempeste nella vita. Non lo sanno Luca, Marco, Matteo: raccontano tempeste sempre uguali e tutte senza perché. Vorrei anch’io un cielo sempre sereno e luci chiare a indicare la navigazione, un porto sicuro e vicino. Ma intanto la barca, simbolo di me, della mia vita fragile, della grande comunità, intanto resiste. E non per il morire del vento, non perché finiscono i problemi, ma per il miracolo umile dei rematori che non abbandonano i remi, che sostengono ciascuno la speranza dell’altro.

A noi invece pare di essere abbandonati appena si alza il vento di una malattia, di una crisi familiare, di relazioni che dolgono, di questa pandemia. […]

 

La pienezza del Regno e la gioia del raccolto
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 13 Giugno 2021.
Due piccole parabole (il grano che spunta da solo, il seme di senape): storie di terra che Gesù fa diventare storie di Dio. Con parole che sanno di casa, di orto, di campo, ci porta alla scuola dei semi e di madre terra, cancella la distanza tra Dio e la vita. Siamo convocati davanti al mistero del germoglio e delle cose che nascono, chiamati «a decifrare la nostra sacralità, esplorando quella del mondo» (P. Ricoeur).

Nel Vangelo, la puntina verde di un germoglio di grano e un minuscolo semino diventano personaggi di un annuncio, una rivelazione del divino (Laudato si’), una sillaba del messaggio di Dio. Chi ha occhi puri e meravigliabili, come quelli di un bambino, può vedere il divino che traspare dal fondo di ogni essere (T. De Chardin).

La terra e il Regno sono un appello allo stupore, a un sentimento lungo che diventa atteggiamento di vita. È commovente e affascinante leggere il mondo con lo sguardo di Gesù, a partire non da un cedro gigante sulla cima del monte (come Ezechiele nella prima lettura) ma dall’orto di casa. Leggero e liberatorio leggere il Regno dei cieli dal basso, da dove il germoglio che spunta guarda il mondo, raso terra, anzi: «raso le margherite» come mi correggeva un bambino, o i gigli del campo. Il terreno produce da sé, che tu dorma o vegli: le cose più importanti non vanno cercate, vanno attese (S. Weil), non dipendono da noi, non le devi forzare.

Perché Dio è all’opera, e tutto il mondo è un grembo, un fiume di vita che scorre verso la pienezza. Il granellino di senape è incamminato verso la grande pianta futura che non ha altro scopo che quello di essere utile ad altri viventi, fosse anche solo agli uccelli del cielo. È nella natura della natura di essere dono: accogliere, offrire riparo, frescura, cibo, ristoro.

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo.

Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (...) Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Nella sinagoga di Cafarnao, il discorso più dirompente di Gesù: mangiate la mia carne e bevete il mio sangue. Un invito che sconcerta amici e avversari, che Gesù ostinatamente ribadisce per otto volte, incidendone la motivazione sempre più chiara: per vivere, semplicemente vivere, per vivere davvero. È l'incalzante convinzione di Gesù di possedere qualcosa che cambia la direzione della vita.

Mentre la nostra esperienza attesta che la vita scivola inesorabile verso la morte, Gesù capovolge questo piano inclinato mostrando che la nostra vita scivola verso Dio. Anzi, che è la vita di Dio a scorrere, a entrare, a perdersi dentro la nostra. Qui è racchiusa la genialità del cristianesimo: Dio viene dentro le sue creature, come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo, come corpo dentro l'abbraccio. Dentro l'amore. Il nostro pensiero corre all'Eucaristia. È lì la risposta?

Ma a Cafarnao Gesù non sta indicando un rito liturgico; lui non è venuto nel mondo per inventare liturgie, ma fratelli liberi e amanti. Gesù sta parlando della grande liturgia dell'esistenza, di persona, realtà e storia. Le parole «carne», «sangue», «pane di cielo» indicano l'intera sua esistenza, la sua vicenda umana e divina, le sue mani di carpentiere con il profumo del legno, le sue lacrime, le sue passioni, la polvere delle strade, i piedi intrisi di nardo, e la casa che si riempie di profumo e di amicizia.

E Dio in ogni fibra. E poi come accoglieva, come liberava, come piangeva, come abbracciava. Libero come nessuno mai, capace di amare come nessuno prima. Allora il suo invito incalzante significa: mangia e bevi ogni goccia e ogni fibra di me. Prendi la mia vita come misura alta del vivere, come lievito del tuo pane, seme della tua spiga, sangue delle tue vene, allora conoscerai cos'è vivere davvero.

Cristo vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo della sua vita, che nel cuore metta radici il suo coraggio, perché ci incamminiamo a vivere l'esistenza come l'ha vissuta lui. Dio si è fatto uomo perché ogni uomo si faccia come Dio. E allora vivi due vite, la tua e quella di Cristo, è lui che ti fa capace di cose che non pensavi, cose che meritano di non morire, gesti capaci di attraversare il tempo, la morte e l'eternità: una vita che non va perduta mai e che non finisce mai.
Mangiate di me! Parole che mi sorprendono ogni volta, come una dichiarazione d'amore. «Voglio stare nelle tue mani come dono, nella tua bocca come pane, nell'intimo tuo come sangue; farmi _, respiro, pensiero di te. Tua vita». Qui è il miracolo, il batticuore, lo stupore: Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore.

 

Santissima Trinità Anno C

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

Memoria emozionante della Trinità, dove il racconto di Dio diventa racconto dell'uomo. Dio non è in se stesso solitudine: esistere è coesistere, per Dio prima, e poi anche per l'essere umano. Vivere è convivere, nei cieli prima, e poi sulla terra. I dogmi allora fioriscono in un concentrato d'indicazioni vitali, di sapienza del vivere. Quando Gesù ha raccontato il mistero di Dio, ha scelto nomi di casa, di famiglia: abbà, padre... figlio, nomi che abbracciano, che si abbracciano. Spirito, ruhà, è un termine che avvolge e lega insieme ogni cosa come libero respiro di Dio, e mi assicura che ogni vita prende a respirare bene, allarga le sue ali, vive quando si sa accolta, presa in carico, abbracciata da altre vite.

Abbà, Figlio e Spirito ci consegnano il segreto per ritornare pienamente umani: in principio a tutto c'è un legame, ed è un legame d'amore. Allora capisco che il grande progetto della Genesi: «facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza», significa «facciamolo a immagine della Trinità», a immagine di un legame d'amore, a somiglianza della comunione. La Trinità non è una dottrina esterna, è al di qua, è dentro, non al di là di me. Allora spirituale e reale coincidono, verità ed esistenza corrispondono. E questo mi regala un senso di armoniosa pace, di radice santa che unifica e fa respirare tutto ciò che vive. In principio c'è la relazione (G. Bachelard). «Quando verrà lo Spirito di verità, vi guiderà... parlerà... dirà... prenderà... annunzierà». Gesù impiega tutti verbi al futuro, a indicare l'energia di una strada che si apre, orizzonti inesplorati, un trascinamento in avanti della storia.

Vi guiderà alla verità tutta intera: la verità è in-finita, «interminati spazi» (Leopardi), l'interezza della vita. E allora su questo sterminato esercito umano di incompiuti, di fragili, di incompresi, di innamorati delusi, di licenziati all'improvviso, di migranti in fuga, di sognatori che siamo noi, di questa immensa carovana, incamminata verso la vita, fa parte Uno che ci guida e che conosce la strada. Conosce anche le ferite interiori, che esistono in tutti e per sempre, e insegna a costruirci sopra anziché a nasconderle, perché possono marcire o fiorire, seppellire la persona o spingerla in avanti. La verità tutta intera di cui parla Gesù non consiste in concetti più precisi, ma in una sapienza del vivere custodita nell'umanità di Gesù, volto del Padre, respiro dello Spirito: una sapienza sulla nascita e sulla morte, sulla vita e sugli affetti, su me e sugli altri, sul dolore e sulla infinita pazienza di ricominciare, che ci viene consegnata come un presente, inciso di fessure, di feritoie di futuro.

 

Quando verrà lo Spirito, vi guiderà a tutta la verità. È l’umiltà di Gesù, che non pretende di aver detto tutto, di avere l’ultima parola su tutto, ma parla della nostra storia con Dio con solo verbi al futuro: lo Spirito verrà, annuncerà, guiderà, parlerà. Un senso di vitalità, di energia, di spazi aperti!

Lo Spirito come una corrente che trascina la storia verso il futuro, apre sentieri, fa avanzare. Pregarlo è come affacciarsi al balcone del futuro. Che è la terra fertile e incolta della speranza. Lo Spirito provoca come un cortocircuito nella storia e nel tempo: ci riporta al cuore, accende in noi, come una pietra focaia che alleva scintille, la bellezza di allora, di gesti e parole di quei tre anni di Galilea. E innamorati della bellezza spirituale diventiamo «cercatori veraci di Dio, che inciampano in una stella e, tentando strade nuove, si smarriscono nel pulviscolo magico del deserto» (D.M. Montagna).

Siamo come pellegrini senza strada, ma tenacemente in cammino (Giovanni della Croce), o anche in mezzo a un mare piatto, su un guscio di noce, dove tutto è più grande di noi. In quel momento: bisogna sapere a ogni costo/ far sorgere una vela / sul vuoto del mare (Julian Gracq).

Una vela, e il mare cambia, non è più un vuoto in cui perdersi o affondare; basta che sorga una vela e che si lasci investire dal soffio vigoroso dello Spirito (io la vela, Dio il vento) per iniziare una avventura appassionante.

Gli sono rimasti soltanto undici uomini impauriti e confusi, e un piccolo nucleo di donne, fedeli e coraggiose. Lo hanno seguito per tre anni sulle strade di Palestina, non hanno capito molto ma lo hanno amato molto, e sono venuti tutti all’appuntamento sull’ultimo colle.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.

Gesù compie un atto di enorme, illogica fiducia in uomini e donne che dubitano ancora, affidando proprio a loro il mondo e il Vangelo. Non rimane con i suoi ancora un po’ di tempo, per spiegare meglio, per chiarire meglio, ma affida loro la lieta notizia nonostante i dubbi. I dubbi nella fede sono come i poveri: li avremo sempre con noi.

Gesù affida il vangelo e il mondo nuovo, sognato insieme, alla povertà di undici pescatori illetterati e non all’intelligenza dei primi della classe. Con fiducia totale, affida la verità ai dubitanti, chiama i claudicanti a camminare, gli zoppicanti a percorrere tutte le strade del mondo: è la legge del granello di senape, del pizzico di sale, della luce sul monte, del cuore acceso che può contagiare di vangelo e di nascite quanti incontra.

Andate, profumate di cielo le vite che incontrate, insegnate il mestiere di vivere, così come l’avete visto fare a me, mostrate loro il volto alto e luminoso dell’umano. […]

 
I pochi versetti del Vangelo di oggi ruotano intorno al magico vocabolario degli innamorati: amore, amato, amatevi, gioia. «Tutta la legge inizia con un “sei amato” e termina con un “tu amerai”. Chi astrae da questo, ama il contrario della vita» (P. Beauchamp). Roba grossa. Questione che riempie o svuota la vita: questo vi dico perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
 
L’amore è da prendere sul serio, ne va del nostro benessere, della nostra gioia. Anzi, ognuno di noi vi sta giocando, consapevole o no, la partita della propria eternità. Io però faccio fatica a seguirlo: l’amore è sempre così poco, così a rischio, così fragile.
Faccio fatica perfino a capire in che cosa consista l’amore vero, vi si mescola tutto: passione, tenerezza, emozioni, lacrime, paure, sorrisi, sogni e impegno concreto.
 
L’amore è sempre meravigliosamente complicato, e sempre imperfetto, cioè incompiuto. Sempre artigianale, e come ogni lavoro artigianale chiede mani, tempo, cura, regole: se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore. Ma come, Signore, chiudi dentro i comandamenti l’unica cosa che non si può comandare? Mi scoraggi: il comandamento è regola, costrizione, sanzione. Un guinzaglio che mi strattona. L’amore invece è libertà, creatività, una divina follia…
 
Ma Gesù, il guaritore del disamore, offre la sua pedagogia sicura in due tempi: 1. Amatevi gli uni gli altri. Non semplicemente: amatevi. Ma: gli uni gli altri, Non si ama l’umanità in generale o in teoria. Si amano le persone ad una ad una; si ama quest’uomo, questa donna, questo bambino, il povero qui a fianco, faccia a faccia, occhi negli occhi. 2. Amatevi come io vi ho amato. […] Continua a leggere tutto il testo del commento su Avvenire
 
Rimanete, non andatevene, non fuggite dall’amore. E dell’amore Dio diventa  la misura, musica per il cuore dell’uomo.
 
NELLA SINFONIA DI DIO
Giovanni propone una pagina in cui pare custodita l’essenza del cristianesimo, un canto d’amore al cuore degli insegnamenti di Gesù. Musica dolcissima e profonda, ritmata sul lessico degli amanti: rimanere, amore, amare, gioia, pienezza, frutti…  E’ la melodia della nostra fede.
Come il Padre ha amato me, io ho amato voi. Di amore parliamo come di un nostro compito. Ma non possiamo far sgorgare amore se non ci viene prima donato. Siamo letti di fiume che Dio trasforma in sorgenti, e che diventeranno cascata.
Rimanete nel mio amore. Nell’amore si entra e si dimora. Rimanete, non andatevene, non fuggite dall’amore. Credi in lui, sebbene la sua voce possa frantumare sogni e strappare fiori nel giardino della tua anima (Gibran).
Gesù indica la strada per stare dentro l’amore: osservate i miei comandamenti. Che non sono il decalogo ma il modo di agire di Dio, colui che libera e fonda alleanze, che pianta la sua tenda in mezzo al nostro accampamento.
 
Resto nell’amore se faccio le cose che Dio fa.
Il brano è tutto un alternarsi di misura umana e di misura divina nell’amore. Gesù non dice semplicemente: amate. Non basta amare, potrebbe essere solo mero opportunismo, dipendenza, sentimentalismo, oppure una necessità storica, perché se non ci amiamo ci distruggiamo. Non dice neanche: amate gli altri con la misura con cui
amate voi stessi. Conosco gli sbandamenti del cuore, i testacoda della volontà, io non sono misura a nessuno. Dice invece: amatevi come io vi ho amato. E diventa Dio la misura dell’amore, musica per il cuore dell’uomo, per stare alla pari, per dire uguaglianza e affetto.
Non vi chiamo più servi, ma  amici. Parola dolce, sinfonia nel cuore.

 

Più che pulite Dio chiede mani colme di vendemmia

Gesù ci comunica Dio attraverso lo specchio delle creature più semplici: Cristo vite, io tralcio, io e lui la stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa.
E poi la meravigliosa metafora del Dio contadino, un vignaiolo profumato di sole e di terra, che si prende cura di me e adopera tutta la sua intelligenza perché io porti molto frutto; che non impugna lo scettro dall’alto del trono ma la vanga e guarda il mondo piegato su di me, ad altezza di gemma, di tralcio, di grappolo, con occhi belli di speranza.

Fra tutti i campi, la vigna era il campo preferito di mio padre, quello in cui investiva più tempo e passione, perfino poesia. E credo sia così per tutti i contadini. Narrare di vigne è allora svelare un amore di preferenza da parte del nostro Dio contadino. Tu, io, noi siamo il campo preferito di Dio. La metafora della vite cresce verso un vertice già anticipato nelle parole: io sono la vite, voi i tralci (v.5). Siamo davanti ad una affermazione inedita, mai udita prima nelle Scritture: le creature (i tralci) sono parte del Creatore (la vite).

Cosa è venuto a portare Gesù nel mondo? Forse una morale più nobile oppure il perdono dei peccati? Troppo poco; è venuto a portare molto di più, a portare se stesso, la sua vita in noi, il cromosoma divino dentro il nostro DNA. Il grande vasaio che plasmava Adamo con la polvere del suolo si è fatto argilla di questo suolo, linfa di questo grappolo.

E se il tralcio per vivere deve rimanere innestato alla vite, succede che anche la vite vive dei propri tralci, senza di essi non c’è frutto, né scopo, né storia. Senza i suoi figli, Dio sarebbe padre di nessuno. […

Facciamo parte della stessa pianta come le scintille nel fuoco, come la goccia nell’acqua, come il respiro nell’aria, come i colori che si tuffano l’uno nell’altro.

Vangelo che ruota attorno ad una immagine concreta e ad un’azione: la vite, i tralci e il verbo «rimanere». Rimanete in me. Alla sola condizione, non condizionamento ma base dell’esistenza, di nutrirvi della mia linfa.

Non sono parole astratte, sono quelle dette anche dall’amore umano. Rimanere insieme, nonostante tutte le distanze, i lunghi inverni, le forze che ci trascinano via.
La bibbia è un libro pieno di viti e di uomini di cui Dio si prende cura, e dai quali riceve un vino di gioia. Per ogni contadino la vigna è il preferito tra i campi: noi siamo la piantagione prediletta di Dio. Ma mentre nell’Antico Testamento Dio era il padrone della vigna, custode buono e operoso, ma altra cosa rispetto alle viti, ora Gesù introduce una grande novità: io sono la vite, voi i tralci.
Facciamo parte della stessa pianta, come le scintille nel fuoco, come la goccia nell’acqua, come il respiro nell’aria, come i colori che si tuffano l’uno nell’altro e amandosi si fondono, senza gerarchie.

Con l’Incarnazione di Gesù, il vignaiolo si è fatto vite, il seminatore seme, il vasaio argilla, il Creatore creatura.
Dio è in me, non come padrone, ma come linfa; Dio è in me, non come voce da fuori, ma come segreto della vita. Dio è in me, per meglio prendersi cura di me.
Questa è la stagione in cui profumano i fiori della vite; ieri il vignaiolo attendeva che la linfa, salita misteriosamente lungo il ceppo, si
affacciasse alla ferita del tralcio potato, come una lacrima. Allora mio padre contadino diceva: è la vite che va in amore.

 

 

Il Dio-pastore dona la vita anche a chi gliela toglie.

Io sono il buon pastore! Per sette volte Gesù si presenta: “Io sono” pane, vita, strada, verità, vite, porta, pastore buono. E non intende “buono” nel senso di paziente e delicato con pecore e agnelli; non un pastore, ma il pastore, quello vero, l’autentico. Non un pecoraio salariato, ma quello, l’unico, che mette sul piatto la sua vita.

Sono il pastore bello, dice letteralmente il testo evangelico originale. E noi capiamo che la sua bellezza non sta nell’aspetto, ma nel suo rapporto bello con il gregge, espresso con un verbo alto che il Vangelo oggi rilancia per ben cinque volte: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Qual è il contenuto di questo dono? Il massimo possibile: “Io offro la vita”. Molto di più che pascoli e acqua, infinitamente di più che erba e ovile sicuro. Il pastore è vero perché compie il gesto più regale e potente: dare, offrire, donare, gettare sulla bilancia la propria vita.

Ecco il Dio-pastore che non chiede, offre; non prende niente e dona il meglio; non toglie vita ma dà la sua vita anche a coloro che gliela tolgono. Cerco di capire di più: con le parole “io offro la vita” Gesù non si riferisce al suo morire, quel venerdì, inchiodato a un legno. “Dare la vita” è il mestiere di Dio, il suo lavoro, la sua attività inesausta, inteso al modo delle madri, al modo della vite che dà linfa al tralci (Giovanni), della sorgente che zampilla acqua viva (Samaritana), del tronco d’olivo che trasmette potenza buona al ramo innestato (Paolo). Da lui la vita fluisce inesauribile, potente, illimitata. […]

Come passeri abbiamo il nido nelle sue mani, mani impigliate nel folto della vita e che non scagliano pietre, mai. Da quelle mani di pastore nessuno mai mi rapirà.

L’ULIVO, NIDO DELLA QUERCIA
Sì, mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante.
Lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo, ma voi valete di più.
Mi importano i gigli del campo, ma tu vali molto di più.
Ti ho contato i capelli in capo, e tutta la paura che porti nel cuore. Questa è la certezza: a Dio importa di me. A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo, turbati per il suo silenzio.
Con la formula solenne delle rivelazioni, oggi Gesù afferma: Io sono il buon pastore, e per farcene capire il senso, per cinque volte ripete il verbo offrire.
Ciò che il pastore offre è la vita, e non so immaginare migliore avventura: io sono vaso che accoglie vita, sono anfora che vuole riceverne sempre più.
Sono il pastore ‘bello’, specifica il testo greco, e la bellezza, il fascino del pastore sta nella sua passione per il fiorire della vita in tutte le sue
forme.

Io do la vita: non significa per prima cosa vado a morire, perché se il pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo vince, seminando
disperazione e morte. Dare la vita qui è inteso nel senso che hanno ben compreso gli apostoli: della vite che dà linfa al tralcio (Giovanni); dell’ulivo innestato che trasmette potenza buona al ramo selvatico (Paolo); di uno che essendo l’autore della vita (Pietro) l’ha inventata e la scrive, sillaba per sillaba, sulle tavole di carne che siamo noi.
Io offro la mia vita significa: vi offro un’ energia di nascita dall’alto;offro germi di divinità, per farvi simili a me ( II lettura).

Un Dio compreso nel pastore che si impegna per le pecore; nella donna cheoffre il seno al piccolo; nell’acqua che dà vita alla steppa arida, nel padre che si strugge nell’attesa del figlio8 lontano. In un germoglio di quercia che miracolosamente trova casa

 

Gesù risorto e quell’invito a mangiare assieme a lui

Stanno ancora parlando, dopo la gioiosa corsa notturna di ritorno a Gerusalemme, quando Gesù di persona apparve in mezzo a loro. In mezzo: non sopra di loro; non davanti, affinché nessuno sia più vicino di altri. Ma in mezzo: tutti importanti allo stesso modo e lui collante delle vite. Pace è la prima parola. La pace è qui: pace alle vostre paure, alle vostre ombre, ai pensieri che vi torturano, ai rimorsi, ai sentieri spezzati, pace anche a chi è fuggito, a Tommaso che non c’è, pace anche a Giuda…

Sconvolti e pieni di paura credevano di vedere un fantasma. Lo conoscevano bene, dopo tre anni di Galilea, di olivi, di lago, di villaggi, di occhi negli occhi, eppure non lo riconoscono. Gesù è lo stesso ed è diverso, è il medesimo ed è trasformato, è quello di prima ma non più come prima: la Risurrezione non è un semplice ritorno indietro, è andare avanti, trasformazione, pienezza.

Gesù l’aveva spiegato con la parabola del chicco di grano che diventa spiga: viene sepolto come piccola semente e risorge dalla terra come spiga piena. Mi consola la fatica dei discepoli a credere, è la garanzia che non si tratta di un evento inventato da loro, ma di un fatto che li ha spiazzati. Allora Gesù pronuncia, per sciogliere paure e dubbi, i verbi più semplici e familiari: “Guardate, toccate, mangiamo insieme! Non sono un fantasma”.

Lui è l’amico che dà sapore al pane. E mi assicura che la salvezza non sta nei miei digiuni per lui, ma nel suo mangiare con me pane e sogni.

UN SOGNO DAL SAPORE DI PANE
Com’è difficile credere! Si fondono insieme dubbi ed una gioia eccessiva: troppo bello per essere vero! Non basta nemmeno il cuore che balza nel petto.
«Non sono un fantasma», dice sottovoce Gesù: non sono un’illusione, non sono un mantello di parole, pieno di vento.

E sento il suo umile desiderio di essere abbracciato come un amico che torna da lontano, di essere stretto con lo slancio diretto di chi ti
vuole bene.
Non si ama un fantasma, e io voglio l’amore. Io ho vita piena: guardate! Vedete! Toccate! Mangiamo insieme!
Ma come toccarlo oggi, dove vederlo?
Quando scorre l’amore. Quando tocco, con emozione e venerazione, le piaghe della terra: «ecco io carezzo la vita perché profuma di Te» (Rumi).
Non alla gioia, non alla visione, non alle profezie, gli apostoli si arrendono ad una porzione di pesce arrostito, al più semplice dei segni, al più umano e primitivo bisogno.
Signore così umile che ti avvicini a questi nostri sensi, che lamenti il tuo bisogno piccolo e concreto, perché ti possiamo toccare, per venirci più vicino possibile!

Gli apostoli, ora segnati per sempre, lo daranno come prova: abbiamo mangiato con lui dopo la sua risurrezione (At 10,41).
Lui è l’amico che dà sapore al pane. E mi assicura che la salvezza non sta nei miei digiuni per lui, ma nel suo mangiare con me pane e sogni.
Lo conoscevano bene Gesù, dopo tre anni di vento, pesci, villaggi, di fame di pane e di occhi negli occhi. Eppure ora non lo riconoscono, perché la Risurrezione non è semplicemente tornare alla vita di prima: è trasformazione.
Gesù è lo stesso ed è diverso, è il medesimo ed è trasformato, è quello di prima ed è altro.
Mi consola la fatica dei discepoli a credere, il loro oscillare tra paura e gioia. È la garanzia che Gesù risorto non è una loro invenzione, ma è l’evento che, spiazzandoli, li costringe ad andare avanti, dentro il tocco di Dio che entra nella carne, e la trasfigura.

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Solenne celebrazione nel ricordo del Sisma del 17 Aprile 1978. 

Benedizione al direttivo della Confraternita di San Bartolomeo. Presenti il Sindaco, le autorità militari e i bambini di Prima Comunione. Grazie San Bartolomeo. Buona domenica.

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video per la visione cliccare nel link che segue

Le ferite del Risorto, alfabeto d’amore

I discepoli erano chiusi in casa per paura. Paura dei capi dei giudei, delle guardie del tempio, della folla volubile, dei romani, di se stessi. E tuttavia Gesù viene. In quella casa dalle porte sbarrate, in quella stanza dove manca l’aria, dove non si può star bene, nonostante tutto Gesù viene. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso.

Venne Gesù a porte chiuse. La prima sua venuta sembra senza effetto, otto giorni dopo tutto è come prima, eppure lui è di nuovo lì. Secoli dopo è ancora qui, davanti alle mie porte chiuse, mite e determinato come un seme che non si lascia sgomentare da nessun nero di terra. Che bello il nostro Dio!

Non accusa, non rimprovera, non abbandona, ma si ripropone, si riconsegna a discepoli che non l’hanno capito, facili alla viltà e alla bugia. Li aveva inviati per le strade di Gerusalemme e del mondo, e li ritrova ancora paralizzati dalla paura. In quali povere mani si è messo. Che si stancano presto, che si sporcano subito. […]

Mio Signore e mio Dio! Questa dichiarazione al “mio” Dio, non è possesso, è fedele appartenenza a chi è stato capace di rubarmi il cuore, al nido che mi ha lanciato in volo. Mio perché è parte di me.

ARRESO ALLA PACE «Se non vedo e non tocco, non crederò». Povero, caro Tommaso! Vuole delle garanzie, ed ha ragione, perché se Gesù è vivo tutta la sua vita ne sarà sconvolta.
Otto giorni dopo Gesù è ancora lì: aria di paura in quella casa. Paura dei Giudei e di se stessi, della propria viltà nella notte del tradimento. Solo Tommaso ha il coraggio di andare e venire.
La paura è la paralisi della vita, e ciò che invece la fa ripartire sono gli incontri, Gesù lo sa bene. I suoi erano scappati tutti: che cosa di meno affidabile di quel gruppetto allo sbando?
E tuttavia Gesù viene. Per vivere, anche Dio ha bisogno di comunicare vita, dare respiro, il suo respiro. La misericordia è l’identità stessa del Padre, una necessità divina: oggi devo fermarmi a casa tua.

Gli apostoli hanno provato a convincere Tommaso: abbiamo visto il Signore, ha le mani piagate! Ma lui, il più libero di tutti, non ci sta, non si accontenta di parole: se il Maestro è vivo, perché siete ancora rinchiusi qui, invece di uscire nel sole del mondo?
Se lui è vivo, cambia tutto.
“A noi giovò più l’incredulità di Tommaso che non la fede degli apostoli” (Gregorio Magno). Tommaso ci mostra quale grande educatore fosse Gesù: lo aveva formato alla libertà interiore, al coraggio di dissentire per seguire la propria coscienza. Maestro di
libertà e di serietà nelle scelte. Che bello se anche nella Chiesa fossimo educati più alla consapevolezza che all’ubbidienza; più all’approfondimento che alla docilità.
Guarda, metti, tocca!

Fai la tua verifica. Il Risorto che parla è colui che è stato crocifisso, ha le piaghe ancora aperte. Colui che è stato crocifisso è qui Risorto, ha un corpo di luce che ha attraversato le sbarre delle porte. Croce e Pasqua indissolubili: Croce senza Pasqua è cieca, Pasqua senza croce è vuota.
E Tommaso si arrende; si arrende non al toccare, ma alla pace che incalza, che palpita, che dilaga. Non all’imporsi della logica, ma all’accensione del cuore.

Ogni esperienza pasquale si riassume nella bellissima professione di fede di Tommaso: mio Signore e mio Dio.

 

Domenica delle Palme Anno B

Cercavano il modo di impadronirsi di lui per ucciderlo. Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Àzzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturare Gesù con un inganno per farlo morire. Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo»(...).

L'entrata di Gesù a Gerusalemme non è solo un evento storico, ma una parabola in azione. Di più: una trappola d'amore perché la città lo accolga, perché io lo accolga.
Dio corteggia la sua città (fede è la mia risposta al corteggiamento di Dio): viene come un Re mendicante (il maestro ne ha bisogno, ma lo rimanderà subito), così povero da non possedere neanche la più povera bestia da soma. Un Potente umile, che non si impone, si propone; come un disarmato amante.

Benedetto Colui che viene. È straordinario poter dire: Dio viene. In questo paese, per queste strade, nella mia casa che sa di pane e di abbracci, Dio viene ancora, viaggiatore dei millenni e dei cuori. Si avvicina, è alla porta.
La Settimana Santa dispiega, a uno a uno, i giorni del nostro destino; ci vengono incontro lentamente, ognuno generoso di segni, di simboli, di luce. In questa settimana, il ritmo dell'anno liturgico rallenta, possiamo seguire Gesù giorno per giorno, quasi ora per ora. La cosa più santa che possiamo fare è stare con lui: «uomini e donne vanno a Dio nella loro sofferenza, piangono per aiuto, chiedono pane e conforto. Così fan tutti, tutti. I cristiani invece stanno vicino a Dio nella sua sofferenza» (Bonhoffer). Stanno vicino a un Dio che sulla croce non è più "l'onnipotente" dei nostri desideri infantili, il salvagente nei nostri naufragi, ma è il Tutto-abbracciante, l'Onni-amante cha fa naufragio nella tempesta perfetta dell'amore per noi.
Sono giorni per stare vicino a Dio nella sua sofferenza: la passione di Cristo si consuma ancora, in diretta, nelle infinite croci del mondo, dove noi possiamo stare accanto ai crocifissi della storia, lasciarci ferire dalle loro ferite, provare dolore per il dolore della terra, di Dio, dell'uomo, patire e portare conforto.

La croce disorienta, ma se persisto a restarle accanto come le donne, a guardarla come il centurione, esperto di morte, di certo non capirò tutto, ma una cosa sì, che lì, in quella morte, è il primo vagito di un mondo nuovo.
Cosa ha visto il centurione per pronunciare lui, pagano, il primo compiuto atto di fede cristiano: "era il Figlio di Dio"? Ha visto un Dio che ama da morire, da morirci. La fede cristiana poggia sulla cosa più bella del mondo: un atto d'amore perfetto. Ha visto il capovolgimento del mondo; Dio che dà la vita anche a chi gli dà la morte; il cui potere è servire anziché asservire; vincere la violenza non con un di più di violenza, ma prendendola su di sé.
La croce è l'immagine più pura, più alta, più bella che Dio ha dato di se stesso. Sono i giorni che lo rivelano: "per sapere chi sia Dio devo solo inginocchiarmi dinnanzi alla croce

 

Santa e Buona Domenica delle Palme

 

di Peppino Mirabito

Santa e Buona Domenica delle Palme!
Il Mistero Pasquale trova nella Settimana Santa la sua più alta e commossa celebrazione, ma anche la sorgente di ogni grazia e benedizione per portare frutti copiosi. Chiediamo al Signore Gesù di viverla in pienezza. Accogliamolo nella nostra vita sempre di più, affinché la sua Passione cambi il nostro cuore. Un affettuoso saluto unito alla mia preghiera. 

 

La lezione di “vita” del chicco che “muore”

Vogliamo vedere Gesù: domanda dell’anima eterna dell’uomo che cerca, e che sento mia. La risposta di Gesù esige occhi profondi: se volete capire guardate il chicco di grano, cercate nella croce, sintesi ultima del Vangelo. Se il chicco di grano non muore resta solo, se muore produce molto frutto. Una delle frasi più celebri e più difficili del Vangelo.

Quel «se muore» fa peso sul cuore e oscura tutto il resto. Ma se ascolti la lezione del chicco, il senso si sposta; se osservi, vedi che il cuore del seme, il nucleo intimo e vivo da cui germoglierà la spiga, è il germe, e il grembo che lo avvolge è il suo nutrimento. Il chicco in realtà è un forziere di vita che lentamente si apre, un piccolo vulcano vivo da cui erompe, invece che lava, un piccolo miracolo verde.

Nella terra ciò che accade non è la morte del seme (il seme marcito è sterile) ma un lavorio infaticabile e meraviglioso, una donazione continua e ininterrotta, vero dono di sé: la terra dona al chicco i suoi elementi minerali, il chicco offre al germe (e sono una cosa sola) se stesso in nutrimento, come una madre offre al bimbo il suo seno. E quando il chicco ha dato tutto, il germe si lancia all’intorno con le sue radici affamate di vita, si lancia verso l’alto con la punta fragile e potentissima delle sue mani.

 

L’essenziale è il grande amore di Dio per il mondo

Si è appena conclusa la scena irruente, fragorosa di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio. A Gerusalemme, capi e gente comune tutti parlano della novità di quel giovane rabbi. Ora, da quella scena clamorosa e sovversiva si passa a un vangelo intimo e raccolto. Nicodemo ha grande stima di Gesù e vuole capire di più, ma non osa compromettersi e si reca da lui di notte.

Prima sorpresa: quel Gesù che dirà «il vostro parlare sia sì sì, no no», rispetta la paura di Nicodemo, non si perde nei limiti della sua poca coerenza, ma mostrando comprensione per la sua debolezza, lo trasforma nel coraggioso che si opporrà al suo gruppo (Gv 7,50) e verrà al tramonto del grande venerdì (Gv 19,39) a prendersi cura del corpo del Crocifisso. Quando tutti i coraggiosi fuggono, il pauroso va sotto la croce, portando trenta chili di aloe e mirra, una quantità in eccesso, una eccedenza di affetto e gratitudine.

Gesù trasforma. È una via tutta nuova, per noi che i maestri dello spirito hanno sempre stretto nell’alternativa: coraggio o viltà, coerenza o incoerenza, resistenza o debolezza, perfezione o errore. Gesù mostra una terza via: il rispetto che abbraccia l’imperfezione, la fiducia che accoglie la fragilità e la trasforma. La terza via di Gesù è credere nel cammino dell’uomo più che nel traguardo, puntare sulla verità umile del primo passo più che sul raggiungimento della meta lontana.

ABISSO ALTISSIMO
Dio ha tanto amato. Versetto gonfio di stupore ogni volta nuovo, per queste parole tonificanti come una camminata in riva al mare, fra spruzzi d’onde e aria fresca respirata a pieni polmoni; parole da riassaporare ogni giorno e alle quali aggrapparci in tutti i passaggi forti della vita, in ogni caduta, in ogni notte, in ogni delusone.
La storia biblica inizia con un “sei amato” e termina con un “amerai”.
Dio ha tanto amato, ed è l’amore che gli ha fatto fare grandi cose! Se noi vogliamo salvare il mondo, sarà un’illusione ottica poiché l’ha già salvato Lui. Se vogliamo convertire le persone, sarà un abbaglio, noi possiamo solo amarle, senza andare oltre; se non per sempre, almeno per oggi, se non tanto, almeno un po’, ma quel poco sia
secondo verità, e resteremo vivi.
Dio ha così tanto amato che la notte di Nicodemo, e le nostre, si illuminano. Qui possiamo rinascere. Ci basta.
Ora so che sono cristiano per attrazione perché sulla croce Gesù è forza di gravità che trascina verso l’alto la storia e il dolore del mondo.

Credere è lasciarmi attrarre lungo la verticale dell’amore che assembla tutto il Vangelo, tutta la teologia, tutta la fede attorno a sé. Nucleo della storia, sguardo sull’abisso altissimo di Dio che ha considerato noi, me, questo niente cui ha donato un cuore, più importante di se stesso.
E se con me ha amato il mondo, anch’io devo amare questa terra e i suoi figli, il suo verde, i suoi fiori, la sua bellezza; e curarne le piaghe là dove Egli mi ha chiamato.
Terra ferita e amata.

 

L’episodio della cacciata dei mercanti nel tempio si è stampato così prepotentemente nella memoria dei discepoli da essere riportato da tutti i Vangeli. Ciò che sorprende, e commuove, in Gesù è vedere come in lui convivono e si alternano, come in un passo di danza, la tenerezza di una donna innamorata e il coraggio di un eroe (C. Biscontin), con tutta la passione e l’irruenza del mediorientale. Gesù entra nel tempio: ed è come entrare nel centro del tempo e dello spazio.

Ciò che ora Gesù farà e dirà nel luogo più sacro di Israele è di capitale importanza: ne va di Dio stesso. Nel tempio trova i venditori di animali: pecore, buoi e mercanti sono cacciati fuori, tutti insieme, eloquenza dei gesti. Invece ai venditori di colombe rivolge la parola: la colomba era l’offerta dei poveri, c’è come un riguardo verso di loro. Gettò a terra il denaro, il dio denaro, l’idolo mammona innalzato su tutto, insediato nel tempio come un re sul trono, l’eterno vitello d’oro. Non fate della casa del Padre mio un mercato…

Mi domando qual è la vera casa del padre. Una casa di pietre? «Casa di Dio siamo noi se custodiamo libertà e speranza» (Eb 3,6). La parola di Gesù allora raggiunge noi: non fate mercato della persona! Non comprate e non vendete la vita, nessuna vita, voi che comprate i poveri, i migranti, per un paio di sandali, o un operaio per pochi euro. Se togli libertà, se lasci morire speranze, tu dissacri e profani il più vero tabernacolo di Dio. E ancora: non fate mercato della fede.

Tutti abbiamo piazzato ben saldo nell’anima un tavolino di cambiamonete con Dio: io ti do preghiere, sacrifici e offerte, tu in cambio mi assicuri salute e benessere, per me e per i miei.

Non venderti in cambio di cose, non sprecare il tuo cuore riducendo i suoi sogni a oro e argento.

IL BRAVO MARINAIO
A volte nel Vangelo troviamo Gesù al tempio, ma molto più spesso egli frequenta case, campi, lago, villaggi e polvere, tutta la polvere delle strade di Palestina. A dire che Dio ci raggiunge nella vita, che noi siamo tempio suo, fragile, bellissimo e infinito.
Ma oggi il Maestro compie un gesto estremo, spiazzante: prende una frusta, la brandisce e invade l’atrio del tempio come un torrente in piena travolgendo uomini, animali, tavoli e monete.

Getta a terra il Dio denaro, l’idolo mammona, vessillo innalzato nel tempio e in ogni cosa, come un re sul trono.
L’eterno vitello d’oro è rovesciato a terra, smascherata la sua illusione.
Gesù sovverte quel sistema millenario, si conclude così il tempo del sangue per lodare Dio. Come avevano gridato invano i profeti: io non bevo il sangue degli agnelli e non mangio la loro carne; misericordia io voglio! Non sacrifici (Os 6,6).
Il sacrificio di Dio per l’uomo prende il posto dei tanti sacrifici dell’uomo a Dio. Probabilmente già un’ora dopo i mercanti, recuperate le bestie, avevano ripreso possesso delle loro postazioni. Il denaro scorreva di nuovo di mano in mano, necessario e giustificato: «è per la devozione, è per le elemosine»!

Non fare mercato con Dio! La compravendita di favori, dove tu gli dai una messa, un’offerta, una candela, purché lui dia qualcosa a te ci rende dei cambiamonete, e Gesù rovescerà il nostro tavolo. Dio non si compra. Nemmeno a prezzo della moneta più pura. Lui è di tutti, e noi siamo salvi perché lo accogliamo. Semplice.
Casa di Dio è l’uomo: non fare mercato della vita! Non fare mercato del cuore! Non fare mercato di te stesso, vendendo la tua dignità per briciole di potere, per un po’ di profitto o di carriera.

 

Conservare la luce per quando viene il buio.
Il monte della luce, collocato a metà del racconto di Marco, è lo spartiacque della ricerca su chi è Gesù. Come in un dittico, la prima parte del suo libretto racconta opere e giorni del Messia, la seconda parte, a partire da qui, disegna il volto altro del “Figlio di Dio”: vangelo di Gesù, il Cristo, il figlio di Dio (Mc 1,1).

Il racconto è tessuto ad arte con i fili dorati della lingua dell’Esodo, monte, nube, voce, Mosè, splendore, ascolto, cornice di rivelazioni. Nuovo invece è il grido entusiasta di Pietro: che bello qui! Esperienza di bellezza, da cui sgorga gioia senza interessi. Marco sta raccontando un momento di felicità di Gesù (G. Piccolo) che contagia i suoi. A noi che il fariseismo eterno ha reso diffidenti verso la gioia, viene proposto un Gesù che non ha paura della felicità. E i suoi discepoli con lui.

Gesù è felice perché la luce è un sintomo, il sintomo che lui, il rabbi di Nazaret, sta camminando bene, verso il volto di Dio; e poi perché si sente amato dal Padre, sente le parole che ogni figlio vorrebbe sentirsi dire; ed è felice perché sta parlando dei suoi sogni con i più grandi sognatori della Bibbia, Mosè ed Elia, il liberatore e il profeta; perché ha vicino tre ragazzi che non capiscono granché, ma che comunque gli vogliono bene, e lo seguono da anni, dappertutto.

Anche i tre apostoli guardano, si emozionano, sono storditi, sentono l’urto della felicità e della bellezza sul monte, qualcosa che toglie il fiato: che bello con te, rabbi! Vedono volti imbevuti di luce, occhi di sole, quello che anche noi notiamo in una persona felice: ti brillano gli occhi! Vorrebbero congelare quella esperienza, la più bella mai vissuta: facciamo tre capanne! Fermiamoci qui sul monte, è un momento perfetto.

Dalla domenica del deserto al Vangelo dell’estasi. Il mondo è imbevuto di luce, lo sanno tutte le religioni, lo sanno gli innamorati, gli artisti, i puri.

IL FASCINO DI DIO
La montagna è la terra che penetra nel cielo, il luogo dove si posa il primo raggio di sole e indugia l’ultimo. E’ il mondo che si innalza nella luce, che la cerca, la vuole.

Quella che Dio sceglie per parlare e rivelarsi.
Dalla domenica del deserto al Vangelo dell’estasi. Il mondo è imbevuto di luce, lo sanno tutte le religioni, lo sanno gli innamorati, gli artisti, i puri.
Le prime due domeniche di Quaresima sono sintesi del percorso che noi credenti dobbiamo affrontare: evangelizzare le nostre zone d’ombra e di durezza, liberando la luce sepolta in noi. Il Vangelo di domenica scorsa chiedeva: convertiti.

 

La tentazione ti spinge a scegliere la tua bussola
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 21 Febbraio 2021.
Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e vi rimase quaranta giorni, tentato da Satana. La tentazione? Una scelta tra due amori. Vivere è scegliere. La tentazione ti chiede di scegliere la bussola, la stella polare per il tuo cuore. Se non scegli non vivi, non a pieno cuore. Al punto che l’apostolo Giacomo, camminando lungo questo filo sottile ma fortissimo, ci fa sobbalzare: considerate perfetta letizia subire ogni sorta di prove e di tentazioni. Quasi a dirci che essere tentati forse è perfino bello, che di certo è assolutamente vitale, per la verità e la libertà della persona.

L’arcobaleno, lanciato sull’arca di Noè tra cielo e terra, dopo quaranta giorni di navigazione nel diluvio, prende nuove radici nel deserto, nei quaranta giorni di Gesù. Ne intravvedo i colori nelle parole: stava con le fiere e gli angeli lo servivano. Affiora la nostalgia del giardino dell’Eden, l’eco della grande alleanza dopo il diluvio. Gesù ricostruisce l’armonia perduta e anche l’infinito si allinea. E nulla che faccia più paura.

Ma quelle bestie che Gesù incontra, sono anche il simbolo delle nostre parti oscure, gli spazi d’ombra che ci abitano, ciò che non mi permette di essere completamente libero o felice, che mi rallenta, che mi spaventa: le nostre bestie selvatiche che un giorno ci hanno graffiato, sbranato, artigliato. Gesù stava con…

Impariamo con lui a stare lì, a guardarle in faccia, a nominarle. Non le devi né ignorare né temere, non le devi neppure uccidere, ma dar loro un nome, che è come conoscerle, e poi dare loro una direzione: sono la tua parte di caos, ma chi te le fa incontrare è lo Spirito Santo. Anche a te, come a Israele, Dio parla nel tempo della prova, nel deserto, lo fa attraverso la tua debolezza, che diventa il tuo punto di forza.

 

Dio vuole guarire tutti Non rifiuta mai nessuno
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 14 Febbraio 2021.
Entra in scena un lebbroso, un disperato che ha perso tutto: casa, lavoro, amici, abbracci, dignità e perfino Dio. Quell’uomo che si sta decomponendo da vivo, per la società è un peccatore, rifiutato da Dio e castigato con la lebbra. Viene e si avvicina a Gesù, e non deve, non può, la legge gli impone la segregazione assoluta. Ma Gesù non scappa, non si scansa, non lo manda via, sta in piedi davanti a lui e ascolta. Il lebbroso avrebbe dovuto gridare da lontano, a chi incontrava: “immondo, contagioso”; invece da vicino, a tu per tu, sussurra: se vuoi puoi rendermi puro!

«Se vuoi». Il lebbroso naufrago si aggrappa a un “se”, è il suo “gancio in mezzo al cielo”, terra ferma dopo la palude. E mi pare di vedere Gesù vacillare davanti alla richiesta sommessa di questa creatura alla deriva. Vacillare, come chi ha ricevuto un colpo allo stomaco, un’unghiata sul cuore: «fu preso alle viscere da compassione».

«Se vuoi»… grande domanda: dimmi il cuore di Dio! Cosa vuole veramente per me? Vuole la lebbra? Che io sia l’immondizia del paese? È lui che manda il cancro?. Gesù vede, si ferma, si commuove e tocca. Da troppo tempo nessuno osava toccarlo, la sua carne moriva di solitudine. Gesù stende la mano e tocca l’intoccabile, contro ogni legge e ogni prudenza, lo tocca mentre è ancora contagioso; ed è così che inizia a guarirlo, con una carezza che arriva prima della voce, con dita più eloquenti delle parole. 

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Si è conclusa la festa del 13 febbraio presieduta da Monsognor Giovanni Accolla con la creazione di due nuovi canonici don Giuseppe La Rosa e Don Godwin.

Augurissimi ai novelli canonici e che il Santo Patrono ci custodisca.

VIDEO

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In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!».
Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

All'inizio della vita pubblica Gesù attraversa i luoghi dove più forte pulsa la vita: il lavoro (barche, reti, lago), la preghiera e le assemblee (la sinagoga), il luogo dei sentimenti e dell'affettività (la casa di Simone).

Gesù, liberato un uomo dal suo spirito malato, esce dalla sinagoga e “subito”, come incalzato da qualcosa, entra in casa di Simone e Andrea, dove “subito” (bella di nuovo l'urgenza, la pressione degli affetti) gli parlano della suocera con la febbre. Ospite inatteso, in una casa dove la responsabile dei servizi è malata, e l'ambiente non è pronto, non è stato preparato al meglio, probabilmente è in disordine.

Grande maestro, Gesù, che non si preoccupa del disordine, di quanto di impreparato c'è in noi, di quel tanto di sporco, dell'aria un po' chiusa delle nostre vite. E anche lei, donna ormai anziana, non si vergogna di farsi vedere da un estraneo, malata e febbricitante: lui è venuto proprio per i malati.

Gesù la prende per mano, la rialza, la “risuscita” e quella casa dalla vita bloccata si rianima, e la donna, senza riservarsi un tempo, “subito”, senza dire «ho bisogno di un attimo, devo sistemarmi, riprendermi» (A. Guida) si mette a servire, con il verbo degli angeli nel deserto.

Noi siamo abituati a pensare la nostra vita spirituale come a un qualcosa che si svolge nel salotto buono, e noi ben vestiti e ordinati davanti a Dio. Crediamo che la realtà della vita nelle altre stanze, quella banale, quotidiana, accidentata, non sia adatta per Dio. E ci sbagliamo: Dio è innamorato di normalità. Cerca la nostra vita imperfetta per diventarvi lievito e sale e mano che solleva.

Questo racconto di un miracolo dimesso, non vistoso, senza commenti da parte di Gesù, ci ispira a credere che il limite umano è lo spazio di Dio, il luogo dove atterra la sua potenza. Il seguito è energia: la casa si apre, anzi si espande, diventa grande al punto di poter accogliere, a sera, davanti alla soglia, tutti i malati di Cafarnao.

La città intera è riunita sulla soglia tra la casa e la strada, tra la casa e la piazza. Gesù, polline di gesti e di parole, che ama porte aperte e tetti spalancati per dove entrano occhi e stelle, che ama il rischio del dolore, dell'amore, del vivere, lì guarisce.

Quando era ancora buio, uscì in segreto e pregava. Simone lo rincorre, lo cerca, lo trova: «cosa fai qui? Sfruttiamo il successo, Cafarnao è ai tuoi piedi». E Gesù comincia a destrutturare le attese di Pietro.

 

La gente si stupiva del suo insegnamento, come quando nel deserto del sempre uguale ci si imbatte nell’inaudito. Si stupiva, e l’ascolto si faceva disarmato. E il motivo: perché insegnava con autorità. Gesù è autorevole perché credibile, in lui messaggio e messaggero coincidono: dice ciò che è, ed è ciò che dice. Non recita un ruolo. Autorevole, alla lettera significa “che fa crescere”. Lui è accrescimento di vita, respiro grande, libero orizzonte. Non insegnava come gli scribi…Gli scribi sono intelligenti, hanno studiato, conoscono bene le Scritture, ma le ascoltano solo con la testa, in una lettura che non muove il cuore, non lo accende, non diventa pane e gesto.

Molte volte anche noi siamo come degli scribi con noi stessi, ci basta accostare il Vangelo con la ragione, ci pare anche di averlo capito, spesso ci piace, ma l’esistenza non cambia. La fede non è sapere delle cose, ma farle diventare sangue e vita.

Gesù insegnava come chi ha autorità. Il mondo ha un disperato bisogno di maestri autorevoli. Ma noi chi ascoltiamo? Scegliamoli con cura i nostri maestri e con umiltà, camminando al passo di chi è andato più avanti. Da chi imparare? Da chi ci aiuta a crescere in sapienza e grazia, cioè nella capacità di stupore infinito. Dobbiamo scegliere chi dona ali. I maestri veri non sono quelli che metteranno ulteriori lacci alla mia vita o nuovi pa-letti, ma quelli che mi daranno ulteriori ali, che mi permetteranno di trasformarle, le pettineranno, le allungheranno, le faranno forti. Mi daranno la capacità di volare (A. Potente). […]

Gesù è venuto a rovinare la fede del demone che sente Dio come un predatore della mia libertà, che lo immagina come colui che toglie, non come colui che dona.

LE ALI GUARITE
C’è nella sinagoga un uomo prigioniero di qualcosa che è più forte di lui. Gesù interviene, e non pronuncia discorsi su Dio o sul male, ma si immerge nella vita ferita e, come Dio, combatte contro ciò che imprigiona ogni persona.
Cosa vuoi da me? So che Cristo vuole le mie mani, i miei occhi, i miei sentimenti, il mio andare e venire. Ma io tentenno, non voglio brecce aperte sulle mura del mio mondo. Una fede senza sapore di pane, di vino buono, di lavoro, di carezze, di scelte concrete.
Fede di sole parole.
Gesù parlava e si stupivano del suo insegnamento. Ecco lo stupore da difendere sempre, perché la nostra capacità di gioire è proporzionale alla capacità di incantarci ogni volta che incontriamo parole di sapienza, nate dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dalla vicinanza al Roveto di fuoco.
L’autorità di Gesù stava nelle parole di chi è credibile, di chi dice ciò che è ed è ciò che dice. Se messaggio e messaggero coincidono, ciò non significa “dire” il Vangelo, ma diventare tutt’uno con l’annuncio.

Così per noi, se non vogliamo essere scribi inascoltati. Coltiviamo il coraggio del seme silente che nasce senza che tu sappia come! Spesso i testimoni silenziosi sono i più efficaci. “Sono sempre i pensieri che avanzano con passo di colomba quelli che cambiano il mondo” (Albert Camus).
L’autorevole Gesù è Dio che si oppone al laccio, e i demoni se ne accorgono: che c’è fra noi e te? Sei qui per rovinarci?
L’uomo di Cafarnao frequenta il luogo sacro, recita le benedizioni e lo Shemà Israel, eppure in lui vive un demone che vuole la fede del sabato, quella limitata al sacro e alle devozioni. Il Dio vero, no! Lui spazia come libera brezza nella vita, nella polvere di casa e della strada.

 

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio (…) Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

«Passando lungo il mare di Galilea» (il paesaggio d’acque del lago è l’ambiente naturale preferito da Gesù) «vide Simone e Andrea che gettavano le reti in mare». Pescatori che svolgono la loro attività quotidiana, ed è lì che il Maestro li incontra. Dio si incarna nella vita, al tempio preferisce il tempo, allo straordinario il piccolo. Come in tutta la Bibbia: Mosè e Davide sono incontrati mentre seguono le loro greggi al pascolo; Saul sta cercando le asine del padre; Eliseo ara la terra con sei paia di buoi, Levi è seduto allo sportello delle imposte…

Nulla vi è di profano nell’amorosa fatica. E Gesù, il figlio del falegname, che si è sporcato le mani con suo padre, che sa riconoscere ogni albero dalle venature e dal profumo del legno, che si è fatto maturo e forte nella fatica quotidiana, lì ha incontrato l’esodo di Dio in cerca delle sue creature: «Dio si trova in qualche modo sulla punta della mia penna, del mio piccone, del mio pennello, del mio ago, del mio cuore, del mio pensiero» (Teilhard de Chardin). Venite dietro a me vi farò diventare pescatori di uomini. E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Neanche le recuperano, le mollano in acqua, e vanno, come Eliseo che brucia l’aratro nei solchi del campo… «in tutta la Bibbia le azioni dicono il cuore» (A. Guida).

Gesù passa e mette in moto le vite. Dove sta la sua forza? Che cosa mancava ai quattro per convincerli a mollare tutto per un mestiere improbabile come pescare uomini? Partire dietro a quel giovane rabbi, senza neppure sapere dove li avrebbe condotti? Avevano il lavoro, una casa, una famiglia, la salute, la fede, tutto il necessario, eppure sentivano il morso di un’assenza: cos’è la vita? pescare, mangiare, dormire? E poi di nuovo pescare, mangiare, dormire. Tutto qua? Sapevano a memoria le rotte del lago. Gesù offre loro la rotta del mondo.
Invece del piccolo cabotaggio dietro ai pesci, offre un’avventura dentro il cuore di Dio e dei figli. Mancava un sogno, e Gesù, guaritore dei sogni, regala il sogno di cieli nuovi e terra nuova.
Gesù non spiega, loro non chiedono: e lasciati padre, barca, reti, compagni di lavoro andarono dietro a lui.

Chi ha seguito il Nazareno, ha sperimentato che Dio riempie le reti, riempie la vita, moltiplica coraggio e fecondità. Che non ruba niente e dona tutto. Che «rinunciare per lui è uguale a fiorire» (M. Marcolini).
Due coppie di fratelli silenziosi sono il primo nucleo della fraternità universale, il progetto di Gesù, che parlerà di Dio con il linguaggio di casa (abbà), che vorrà estendere a livello di umanità intera le relazioni familiari.

 

I personaggi del racconto: un Giovanni dagli occhi penetranti; due discepoli meravigliosi, che non se ne stanno comodi e appagati, all’ombra del più grande profeta del tempo, ma si incamminano per sentieri sconosciuti, dietro a un giovane rabbi di cui ignorano tutto, salvo un’immagine folgorante: ecco l’agnello di Dio!

Un racconto che profuma di libertà e di coraggio, dove sono incastonate le prime parole di Gesù: che cosa cercate? Così lungo il fiume; così, tre anni dopo, nel giardino: donna, chi cerchi? Sempre lo stesso verbo, quello che ci definisce: noi siamo cercatori d’oro nati dal soffio dello Spirito (G. Vannucci). Cosa cercate?

Il Maestro inizia ponendosi in ascolto, non vuole né imporsi né indottrinare, saranno i due ragazzi a dettare l’agenda. La domanda è come un amo da pesca calato in loro (la forma del punto di domanda ricorda quella di un amo rovesciato), che scende nell’intimo ad agganciare, a tirare alla luce cose nascoste. Gesù con questa domanda pone le sue mani sante nel tessuto profondo e vivo della persona, che è il desiderio: cosa desiderate davvero? qual è il vostro desiderio più forte? Parole che sono «come una mano che prende le viscere e ti fa partorire» (A. Merini): Gesù, maestro del desiderio, esegeta e interprete del cuore, domanda a ciascuno: quale fame fa viva la tua vita? dietro quale sogno cammini?.

E non chiede rinunce o sacrifici, non di immolarsi sull’altare del dovere, ma di rientrare in sé, ritornare al cuore (reditus ad cor, dei maestri spirituali), guardare a ciò che accade nello spazio vitale, custodire ciò che si muove e germoglia nell’intimo.  […]

Gesù afferma che qualcosa ci manca, ed è per questo vuoto che ogni figlio prodigo si rimette in cammino verso casa. L’assenza è diventata la nostra energia vitale: «Vi auguro la gioia impenitente di avere amato quelle assenze che ci fanno vivere» (Rilke). Mi manca denaro, salute, la famiglia che sognavo? Mi mancano opportunità, amici, un senso alla vita? Quale povertà mi muove? Mi manca la pace dentro? Molte volte arriviamo davanti al Signore solo per aver inseguito l’appello delle nostre povertà.

Tutto intorno a noi grida: accontentati! Invece il Vangelo ripete la beatitudine dimenticata: Beati gli insoddisfatti, gli inquieti, beati perché diventeranno cercatori di tesori, mercanti di pietre preziose. Con “cosa cercate?” Gesù non si rivolge alla nostra intelligenza, e nemmeno alla volontà; il Maestro pone le sue mani sante dentro il tessuto profondo dell’essere per farne emergere i pensieri più forti, i bisogni più veri, senza mai chiedere immolazioni sull’altare dei sacrifici, sforzi o rinunce.

 

In quel tempo, Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare. Appena battezzato, Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. [...]

La scena grandiosa del battesimo di Gesù, con il cielo squarciato, con il volo ad ali aperte dello Spirito sulle acque del Giordano, con la dichiarazione d'amore di Dio, è accaduta anche al mio battesimo e accade ancora a ogni quotidiana ripartenza. La Voce, la sola che suona in mezzo all'anima, ripete a ciascuno: tu sei mio figlio, l'amato, in te ho posto il mio compiacimento. Parole che ardono e bruciano: figlio mio, amore mio, gioia mia. Figlio è la prima parola. Figlio è un termine potente sulla terra, potente per il cuore dell'uomo. E per la fede. Dio genera figli secondo la propria specie, e io e tu, noi tutti abbiamo il cromosoma del genitore nelle nostre cellule, il Dna divino in noi. Amato è la seconda parola. Prima che tu agisca, prima che tu dica «sì», che tu lo sappia o no, ogni giorno, ad ogni risveglio, il tuo nome per Dio è «amato».

Di un amore che ti previene, che ti anticipa, che ti avvolge a prescindere da ciò che oggi sarai e farai. Amato, senza se e senza ma. La salvezza deriva dal fatto che Dio mi ama, non dal fatto che io amo lui. E che io sia amato dipende da Dio, non dipende da me! Per fortuna, vorrei dire; o, meglio, per grazia! Ed è questo amore che entra, dilaga, avvolge e trasforma: noi siamo santi perché amati. La terza parola: Mio compiacimento. Termine desueto, inusuale eppure bellissimo, che nel suo nucleo contiene l'idea di piacere. La Voce grida dall'alto del cielo, grida sul mondo e in mezzo al cuore, la gioia di Dio: è bello con te, figlio mio; tu mi piaci; stare con te mi riempie di gioia. La potenza del battesimo è detta con il simbolo vasto delle acque che puliscono, dissetano, rinfrescano, guariscono, fanno germogliare i semi; con lo Spirito che, insieme all'acqua, è la prima di tutte le presenze nella Bibbia, in scena già dal secondo versetto della Genesi: «Lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque».

Una danza dello Spirito sulle acque è il primo movimento della storia. Da allora lo Spirito e l'acqua sono legati a ogni genesi, a ogni nascita, a ogni battesimo, a ogni vita che sgorga. Noi pensiamo al rito del battesimo come a qualche goccia d'acqua versata sul capo del bambino. La realtà è grandiosa: nella sua radice battezzare significa immergere: «Siamo immersi in un oceano d'amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). Io sono immerso in Dio e Dio è immerso in me; io nella Sua vita, Lui nella mia vita; «stringimi a te, stringiti in me» (G. Testori). Sono dentro Dio, come dentro l'aria che respiro, dentro la luce che mi bacia gli occhi; immerso in una sorgente che non verrà mai meno, inabissato in un grembo vivo che nutre e fa crescere .

 

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. […]

Un Vangelo che toglie il fiato, che impedisce piccoli pensieri e spalanca su di noi le porte dell'infinito e dell'eterno. Giovanni non inizia raccontando un episodio, ma componendo un poema, un volo d'aquila che proietta Gesù di Nazaret verso i confini del cosmo e del tempo. In principio era il Verbo... e il Verbo era Dio. In principio: prima parola della Bibbia. Non solo un lontano cominciamento temporale, ma architettura profonda delle cose, forma e senso delle creature: «Nel principio e nel profondo, nel tempo e fuori del tempo, tu, o Verbo di Dio, sei e sarai anima e vita di ciò che esiste» (G. Vannucci).

Un avvio di Vangelo grandioso che poi plana fra le tende dello sterminato accampamento umano: e venne ad abitare in mezzo a noi. Poi Giovanni apre di nuovo le ali e si lancia verso l'origine delle cose che sono: tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Nulla di nulla, senza di lui. «In principio», «tutto», «nulla», «Dio», parole assolute, che ci mettono in rapporto con la totalità e con l'eternità, con Dio e con tutte le creature del cosmo, tutti connessi insieme, nell'unico meraviglioso arazzo dell'essere. Senza di lui, nulla di nulla. Non solo gli esseri umani, ma il filo d'erba e la pietra e il passero intirizzito sul ramo, tutto riceve senso ed è plasmato da lui, suo messaggio e sua carezza, sua lettera d'amore. In lui era la vita.

Cristo non è venuto a portarci un sistema di pensiero o una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, e ha acceso in noi il desiderio di ulteriore più grande vita: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). E la vita era la luce degli uomini. Cerchi luce? Contempla la vita: è una grande parabola intrisa d'ombra e di luce, imbevuta di Dio. Il Vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo, a intuire gli ultimi tempi già in un piccolo germoglio di fico a primavera. Cerchi luce? Ama la vita, amala come l'ama Dio, con i suoi turbini e le sue tempeste, ma anche con il suo sole e le sue primule appena nate. Sii amico e abbine cura, perché è la tenda immensa del Verbo, le vene per le quali scorre nel mondo.

A quanti l'hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. L'abbiamo sentito dire così tante volte, che non ci pensiamo più. Ma cosa significhi l'ha spiegato benissimo papa Francesco nell'omelia di Natale: «Dio viene nel mondo come figlio per renderci figli. Oggi Dio ci meraviglia. Dice a ciascuno di noi: tu sei una meraviglia». Non sei inadeguato, non sei sbagliato; no, sei figlio di Dio. Sentirsi figlio vuol dire sentire la sua voce che ti sussurra nel cuore: “tu sei una meraviglia”! Figlio diventi quando spingi gli altri alla vita, come fa Dio. E la domanda ultima sarà: dopo di te, dove sei passato, è rimasta più vita o meno vita?

 

Vecchiaia del mondo e giovinezza eterna di Dio .Festa Sacra Famiglia

Portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore.
Una giovanissima coppia e un neonato che portano la povera offerta dei poveri: due tortore, e la più preziosa offerta del mondo: un bambino. Vengono nella casa del Signore e sulla soglia è il Signore che viene loro incontro attraverso due creature intrise di vita e di Spirito, due anziani, Simeone e Anna, occhi stanchi per la vecchiaia e giovani per il desiderio: la vecchiaia del mondo accoglie fra le sue braccia l’eterna giovinezza di Dio.

E la liturgia che si compie, in quel cortile aperto a tutti, è naturale e semplice, naturale e perciò divina: Simeone prende in braccio Gesù e benedice Dio. Compie un gesto sacerdotale, una autentica liturgia, possibile a tutti. Un anziano, diventato onda di speranza, una laica sotto l’ala dello Spirito benedicono Dio e il figlio di Dio: la benedizione non è un ufficio d’élites, ma esubero di gioia che ciascuno può offrire a Dio (R. Virgili).

Anche Maria e Giuseppe sono benedetti, tutta la famiglia viene avvolta da un velo di luce per la benedizione e la profezia di quella coppia di anziani laici, profeti e sacerdoti a un tempo: la benedizione e la profezia non sono riservate ad una categoria sacra, abitano nel cortile aperto a tutti. Lo Spirito aveva rivelato a Simeone che non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia.

Parole che sono per me e per te: io non morirò senza aver visto l’offensiva di Dio, l’offensiva della luce già in atto dovunque, l’offensiva mite e possente del lievito e del granello di senape. Poi Simeone dice tre parole immense su Gesù: egli è qui come caduta, risurrezione, come segno di contraddizione. […]

 

In apertura, un elenco di sette nomi affolla la pagina: Gabriele, Dio, Galilea, Nazaret, Giuseppe, Davide, Maria. Sette, il numero appunto della totalità, perché ciò che sta per accadere coinvolgerà tutta la storia, le profondità del cielo e tutto il brulichio perenne della vita.

Un Vangelo controcorrente: per la prima volta nella Bibbia un angelo si rivolge a una donna; in una casa qualunque e non nel santuario; nella sua cucina e non fra i candelabri d’oro del tempio. In un giorno ordinario, segnato però sul calendario della vita (nel sesto mese…). Gioia è la prima parola: rallegrati! Vangelo nel Vangelo! E subito ecco il perché: Maria, sei piena di grazia.

Sei riempita di cielo, non perché hai risposto “sì” a Dio, ma perché Dio per primo ha detto “sì” a te. E dice “sì” a ciascuno di noi, prima di ogni nostra risposta. Perché la grazia sia grazia e non merito o calcolo. Dio non si merita, si accoglie. L’Altissimo si è innamorato di te e ora il tuo nome è: amata per sempre; come lei anch’io amato per sempre.

Tutti, teneramente, gratuitamente amati per sempre. Amore è passione di unirsi: il Signore è con te. Espressione che avrebbe dovuto mettere in guardia la ragazza, perché quando si esprime così Dio sta affidando un compito bellissimo ma arduo (R. Virgili): chiama Maria a una storia di brividi e di coraggio. Maria, avrai un figlio, tuo e di Dio, un figlio di terra e di cielo. Gli darai nome Gesù (prima volta: solo il padre aveva il potere di dare il nome).

E la ragazza, pronta, intelligente e matura, dopo il primo turbamento non ha paura, dialoga, obietta, argomenta. Sta davanti a Dio con tutta la dignità di donna, con maturità e consapevolezza, pone domande: spiegami, dimmi come avverrà.[…]

 

La misura del perdono è perdonare senza misura

Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 13 Settembre 2020.
«Non fino a sette, ma fino a settanta volte sette», sempre: l’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Gesù non alza l’asticella della morale, porta la bella notizia che l’amore di Dio non ha misura. E lo racconta con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore «allora, gettatosi a terra, lo supplicava…». Il debito, ai tempi di Gesù, era una cosa durissima, chi non riusciva a pagare diventava schiavo per sempre. Quando noi preghiamo: rimetti i nostri debiti, stiamo chiedendo: donaci la libertà, lasciaci per oggi e per domani tutta la libertà di volare, di amare, di generare.

Ma il servo perdonato “appena uscito”: non una settimana, non il giorno dopo, non un’ora dopo, ma “appena uscito”, ancora stordito di gioia, appena liberato «preso per il collo il suo collega, lo strangolava gridando: “Dammi i miei centesimi”», lui condonato di milioni!
Nitida viene l’alternativa evangelica: non dovevi anche tu aver pietà ? Siamo posti davanti alla regola morale assoluta: anche tu come me, io come Dio… non orgoglio, ma massima responsabilità. Perché perdonare? Semplice: perché così fa Dio.

Il perdono è scandaloso perché chiede la conversione non a chi ha commesso il male, ma a chi l’ha subito. Quando, di fronte a un’offesa, penso di riscuotere il mio debito con una contro offesa, non faccio altro che alzare il livello del dolore e della violenza. Anziché liberare dal debito, aggiungo una sbarra alla prigione. Penso di curare una ferita ferendo a mia volta. Come se il male potesse essere riparato, cicatrizzato mediante un altro male. […]

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Due voci, a distanza di secoli, gridano le stesse parole, nell'arsura dello stesso deserto di Giuda. La voce gioiosa di Isaia: «Ecco, il tuo Dio viene! Ditelo al cuore di ogni creatura». La voce drammatica di Giovanni, il Giovanni delle acque e del sole rovente, mangiatore di insetti e di miele, ripete: «Ecco, viene uno, dopo di me, è il più forte e ci immergerà nel turbine santo di Dio!» (Mc 1,7).

Isaia, voce del cuore, dice: «Viene con potenza», e subito spiega: tiene sul petto gli agnelli più piccoli e conduce pian piano le pecore madri. Potenza possibile a ogni uomo e a ogni donna, che è la potenza della tenerezza.

I due profeti usano lo stesso verbo, sempre al presente: «Dio viene». Semplice, diretto, sicuro: viene. Come un seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia che ingoia la notte. Due frasi molto intense aprono e chiudono questo vangelo.

La prima: Inizio del vangelo di Gesù Cristo, della sua buona notizia. Ciò che fa ricominciare a vivere, a progettare, a stringere legami, ciò che fa ripartire la vita è sempre una buona notizia, una fessura di speranza. Inizio del vangelo che è Gesù Cristo. La bella notizia è una persona, il Vangelo è Gesù, un Dio che fiorisce sotto il nostro sole, venuto per far fiorire l'umano. E i suoi occhi che guariscono quando accarezzano, e la sua voce che atterra i demoni tanto è forte, e che incanta i bambini tanto è dolce, e che perdona. E che disegna un altro mondo possibile.

Un altro cuore possibile. Dio si propone come il Dio degli inizi: da là dove tutto sembra fermarsi, ripartire; quando il vento della vita «gira e rigira e torna sui suoi giri e nulla sembra nuovo sotto il sole» (Qo 1,3-9), è possibile aprire futuro, generare cose nuove. Da che cosa ricominciare a vivere, a progettare, a traversare deserti? Non da pessimismo, né da amare constatazioni, neppure dalla realtà esistente e dal suo preteso primato, che non contengono la sapienza del Vangelo, ma da una «buona notizia». In principio a tutto c'è una cosa buona, io lo credo.

A fondamento della vita intera c'è una cosa buona, io lo credo. Perché la Bibbia comincia così: e vide ciò che aveva fatto ed ecco, era cosa buona. Viene dopo di me uno più forte di me. La sua forza? Gesù è il forte perché ha il coraggio di amare fino all'estremo; di non trattenere niente e di dare tutto. Di innalzare speranze così forti che neppure la morte di croce ha potuto far appassire, anzi ha rafforzato. È il più forte perché è l'unico che parla al cuore, anzi, parla «sul cuore», vicino e caldo come il respiro, tenero e forte come un innamorato, bello come il sogno più bello.

E serenità in ogni casa e in ogni cuore.

 

L’Avvento è come un orizzonte che si allarga
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 29 Novembre 2020.
L’Avvento è come una porta che si apre, un orizzonte che si allarga, una breccia nelle mura, un buco nella rete, una fessura nel soffitto, una manciata di luce che la liturgia ci getta in faccia. Non per abbagliarci, ma per svegliarci. Per aiutarci a spingere verso l’alto, con tutte le forze, ogni cielo nero che incontriamo. «Al di là della notte ci aspetterà spero il sapore di un nuovo azzurro» (N. Hikmet).

Il Vangelo oggi racconta di una notte, stende l’elenco faticoso delle sue tappe: «non sapete quando arriverà, se alla sera, a mezzanotte, al canto del gallo, o al mattino» (Mc 13,35). Una cosa è certa: che arriverà. Ma intanto Isaia lotta, a nome nostro, contro il ritardo di Dio: ritorna per amore dei tuoi servi… se tu squarciassi i cieli e discendessi.

Non è l’essere umano che dà la scalata al cielo, è il Signore delle Alleanze che discende, in cammino su tutte le strade, pellegrino senza casa, che cerca casa, e la cerca proprio in me. Isaia capovolge la nostra idea di conversione, che è il girarsi della creatura verso il Creatore. Ha la sfrontatezza di invocare la conversione di Dio, gli chiede di girarsi verso di noi, ritornare, squarciare i cieli, scendere: di convertirsi alle sue creature.Profezia del nome nuovo di Dio. Finisce la ricerca di Dio e inizia il tempo dell’accoglienza: ecco, io sto alla porta e busso…

«Le cose più importanti non vanno cercate, vanno attese» (S. Weil). Anche un essere umano va sempre atteso. Ci sembra poca cosa, perché noi vogliamo essere attivi, fare, costruire, determinare le cose e gli eventi.

Invece Dio non si merita, si accoglie; non si conquista, si attende. Gesù nel Vangelo di questa domenica non si stanca di ripetere il ritornello di due atteggiamenti, nostro equipaggiamento spirituale per il percorso dell’attesa: state attenti e vegliate.

 

La verità ultima del vivere: l’amore

Una scena potente, drammatica, quel “giudizio universale” che in realtà è lo svelamento della verità ultima del vivere, rivelazione di ciò che rimane quando non rimane più niente: l’amore. Il Vangelo risponde alla più seria delle domande: che cosa hai fatto di tuo fratello?

Lo fa elencando sei opere, ma poi sconfina: ciò che avete fatto a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me! Straordinario: Gesù stabilisce un legame così stretto tra sé e gli uomini, da arrivare a identificarsi con loro: l’avete fatto a me! Il povero è come Dio, corpo e carne di Dio. Il cielo dove il Padre abita sono i suoi figli.

Evidenzio tre parole del brano:

Dio è colui che tende la mano, perché gli manca qualcosa. Rivelazione che rovescia ogni precedente idea sul divino. C’è da innamorarsi di questo Dio innamorato e bisognoso, mendicante di pane e di casa, che non cerca venerazione per sé, ma per i suoi amati. Li vuole tutti dissetati, saziati, vestiti, guariti, liberati. E finché uno solo sarà sofferente, lo sarà anche lui. Davanti a questo Dio mi incanto, lo accolgo, entro nel suo mondo.

L’argomento del giudizio non è il male, ma il bene. Misura dell’uomo e di Dio, misura ultima della storia non è il negativo o l’ombra, ma il positivo e la luce. Le bilance di Dio non sono tarate sui peccati, ma sulla bontà; non pesano tutta la mia vita, ma solo la parte buona di essa. Parola di Vangelo: verità dell’uomo non sono le sue debolezze, ma la bellezza del cuore. Giudizio divinamente truccato, sulle cui bilance un po’ di buon grano pesa di più di tutta la zizzania del campo.
Alla sera della vita saremo giudicati solo sull’amore (San Giovanni della Croce), non su devozioni o riti religiosi, ma sul laico addossarci il dolore dell’uomo. Il Signore non guarderà a me, ma attorno a me, a quelli di cui mi son preso cura.[…]

 

C’è un signore orientale, ricchissimo e generoso, che parte in viaggio e affida il suo patrimonio ai servi. Non cerca un consulente finanziario, chiama i suoi di casa, si affida alle loro capacità, crede in loro, ha fede e un progetto, quello di farli salire di condizione: da dipendenti a con-partecipi, da servi a figli. Con due ci riesce.

Con il terzo non ce la fa. Al momento del ritorno e del rendiconto, la sorpresa raddoppia: Bene, servo buono! Bene! Eco del grido gioioso della Genesi, quando per sei volte, «vide ciò che aveva fatto ed esclamò: che bello!».

E la settima volta: ma è bellissimo! I servi vanno per restituire, e Dio rilancia: ti darò potere su molto, entra nella gioia del tuo signore.

In una dimensione nuova, quella di chi partecipa alla energia della creazione, e là dove è passato rimane dietro di lui più vita. L’ho sentito anch’io questo invito: «entra nella gioia».

Quando, scrivendo o predicando il Vangelo, il lampeggiare di uno stupore improvviso, di un brivido nell’anima, l’esperienza di essere incantato io per primo da una grande bellezza, mi faceva star bene, io per primo. Oppure quando ho potuto consegnare a qualcuno una boccata d’ossigeno o di pane, ho sentito che ero io a respirare meglio, più libero, più a fondo.

«Sii egoista, fai del bene! Lo farai prima di tutto a te stesso». E poi è il turno del terzo servo, quello che ha paura. La prima di tutte le paure, la madre di tutte, è la paura di Dio: so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso.......

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Tutto è pronto perché la nostra gente andando in Cattedrale in questi tre giorni possa sentirsi a casa. Un grazie da parte di tutti a Francesco per il meraviglioso addobbo floreale.Grazie a quanti lo avete collaborato.

O Santo Patrono e Custode delle Genti Eoliane in questo tempo di Pandemia stai accanto al tuo popolo e porta le nostre Preci a Gesù. Consola chi soffre e dona speranza e forza a tutti. Amen....

 

Nessuno dei protagonisti della parabola fa una bella figura: lo sposo con il suo ritardo esagerato mette in crisi tutte le ragazze; le cinque stolte non hanno pensato a un po’ d’olio di riserva; le sagge si rifiutano di aiutare le compagne; il padrone chiude la porta di casa, cosa che non si faceva, perché tutto il paese partecipava alle nozze, entrava e usciva dalla casa in festa.

Eppure è bello questo racconto, mi piace l’affermazione che il Regno di Dio è simile a dieci ragazze che sfidano la notte, armate solo di un po’ di luce. Di quasi niente. Per andare incontro a qualcuno. Il Regno dei cieli, il mondo come Dio lo sogna, è simile a chi va incontro, è simile a dieci piccole luci nella notte, a gente coraggiosa che si mette per strada e osa sfidare il buio e il ritardo del sogno; e che ha l’attesa nel cuore, perché aspetta qualcuno, «uno sposo», un po’ d’amore dalla vita, lo splendore di un abbraccio in fondo alla notte.

Ci crede. Ma qui cominciano i problemi. Tutte si addormentarono, le stolte e le sagge. Perché la fatica del vivere, la fatica di bucare le notti, ci ha portato tutti a momenti di abbandono, a sonnolenza, forse a mollare. La parabola allora ci conforta: verrà sempre una voce a risvegliarci, Dio è un risvegliatore di vite.

Non importa se ti addormenti, se sei stanco, se l’attesa è lunga e la fede sembra appassire. Verrà una voce, verrà nel colmo della notte, proprio quando ti parrà di non farcela più, e allora «non temere, perché sarà Lui a varcare l’abisso» (D.M. Turoldo). Il punto di svolta del racconto non è la veglia mancata (si addormentano tutte, tutte ugualmente stanche) ma l’olio delle lampade che finisce.  […]

 

Quel Dio che ha scelto come beati gli ultimi
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 1 Novembre 2020.
[…] Beato l’uomo, prima parola del primo salmo. Cui fa eco la prima parola del primo discorso di Gesù, sulla montagna: Beati i poveri. Cosa significa beato, questo termine un po’ desueto e scolorito? La mente corre subito a sinonimi quali: felice, contento, fortunato. Ma il termine non può essere compresso solo nel mondo delle emozioni, impoverito a uno stato d’animo aleatorio.

Indica invece uno stato di vita, consolida la certezza più umana che abbiamo e che tutti ci compone in unità: l’aspirazione alla gioia, all’amore, alla vita. Beati, ed è come dire: in piedi, in cammino, avanti, voi poveri (A. Chouraqui), Dio cammina con voi; su, a schiena dritta, non arrendetevi, voi non violenti, siete il futuro della terra; coraggio, alzati e getta via il mantello del lutto, tu che piangi; non lasciarti cadere le braccia, tu che produci amore. Profondità alla quale non arriverò mai, Vangelo che continua a stupirmi e a sfuggirmi, eppure da salvare a tutti i costi; nostalgia prepotente di un mondo fatto di pace e sincerità, di giustizia e cuori puri, un tutt’altro modo di essere vivi.

Le beatitudini non sono un precetto in più o un nuovo comandamento, ma la bella notizia che Dio regala gioia a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno, il Padre si farà carico della sua felicità. Vostro è il regno: il Regno è dei poveri perché il Re si è fatto povero. La terra è dei miti perché il potente si è fatto mite e umile.

A questa terra, imbevuta di sangue (il sangue di tuo fratello grida a me dal suolo), pianeta di tombe, chi regala futuro? Chi è più armato, più forte, più spietato? O non invece il tessitore di pace, il non violento, il misericordioso, chi si prende cura? La seconda dice: Beati quelli che sono nel pianto. La beatitudine più paradossale: lacrime e felicità mescolate assieme, ma non perché Dio ami il dolore, ma nel dolore egli è con te […]

Lipari, chiude il Centro Sociale. L'appello

Prima della fine di ottobre chiuderemo la sala che tutti chiamiamo Oratorio Don Bosco che ha accolto,accompagnato e custodito il cammino di tanti ragazzi oggi padri e mamme di famiglia e nonne e nonni.I locali sono fatiscenti ed esigono interventi urgenti.Grazie a quanti in questi anni educatori e genitori avete dato anima e corpo per la crescita dei giovani.Con le lacrime agli occhi ma con tanta fiducia nel nostro Dio che è sempre giovane auguro a tutti i sacerdoti di profumare meno di incenso e un po di più di prossimità sopratutto al pianeta giovani. Io ho imparato tanto da ognuno di voi e sono certo che quando si investe sui ragazzi e sui giovani l'investimento non delude mai.(GS)

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Il comandamento grande si riassume in un verbo: amerai. Un verbo al futuro, a indicare una azione mai conclusa, che durerà quanto il tempo. Amare non è un dovere, ma una necessità per vivere. E vivere sempre. Con queste parole possiamo gettare uno sguardo sulla fede ultima di Gesù: lui crede nell’amore, si fida dell’amore, fonda il mondo su di esso.

«La legge tutta è preceduta da un “sei amato” e seguita da un “amerai”. “Sei amato” è la fondazione della legge; “amerai”, il suo compimento. Chiunque astrae la legge da questo fondamento amerà il contrario della vita» (Paul Beauchamp). Amerà la morte. Cosa devo fare per essere veramente vivo? Tu amerai. Con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente. Appello alla totalità, per noi inarrivabile.

Solo Dio ama con tutto il cuore, lui che è l’amore stesso. La creatura umana ama di tanto in tanto, come a tentoni, e con cento contraddizioni. La Bibbia lo sa bene, infatti il testo ebraico direbbe alla lettera così: amerai Dio con tutti i tuoi cuori. Ama Dio con i tuoi due cuori, con il cuore che crede, e anche con il cuore che dubita. Amalo nei giorni della luce, e come puoi, come riesci, anche nell’ora in cui si fa buio dentro di te. Sapendo che l’amore conosce anche la sofferenza.

E chi più ama, si prepari a soffrire di più (Sant’Agostino). Alla domanda su quale sia il comandamento grande, Gesù risponde offrendo tre oggetti d’amore: Dio, il prossimo, e te stesso. L’amore non veglia solo sulle frontiere dell’eterno, ma presidia anche la soglia di una civiltà dell’amore. È pieno di creature, lì. E lì sta il discepolo. E il secondo è simile al primo. Amerai l’uomo è simile all’amerai Dio.

Vengono da Gesù e gli pongono una domanda cattiva, di quelle che scatenano odi, che creano nemici: è lecito o no pagare le tasse a Roma? Sono partigiani di Erode, il mezzosangue idumeo re fantoccio di Roma; insieme ci sono i farisei, i puri che sognano una teocrazia sotto la legge di Mosè.

Non si sopportano tra loro, ma oggi si alleano contro un nemico comune: il giovane rabbi di cui temono le idee e di cui vogliono stroncare la carriera di predicatore. La trappola è ben congegnata: scegli: o con noi o contro di noi! Pagare o no le tasse all’impero? Gesù risponde con un doppio cambio di prospettiva.

Il primo: sostituisce il verbo pagare con il verbo restituire: restituite, rendete a Cesare ciò che è di Cesare. Restituite, un imperativo forte, che coinvolge ben più di qualche moneta, che deve dare forma all’intera vita: ridate indietro, a Cesare e a Dio, alla società e alla famiglia, agli altri e alla casa comune, qualcosa in cambio di ciò che avete ricevuto. Noi tutti siamo impigliati in un tessuto di doni. Viviamo del dono di una ospitalità cosmica.

Il debito di esistere, il debito grande di vivere si paga solo restituendo molto alla vita. Rendete a Cesare. Ma chi è Cesare? Lo Stato, il potere politico, con il suo pantheon di facce molto note e poco amate? No, Cesare indica molto più di questo. Oso pensare che il vero nome di Cesare oggi, che la mia controparte sia non solo la società, ma il bene comune: terra e poveri, aria e acqua, clima e creature, l’unica arca di Noè su cui tutti siamo imbarcati, e non ce n’è un’altra di riserva. Il più serio problema del pianeta.  […]

L’abito nuziale? Veste il cuore non la pelle
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 11 Ottobre 2020.
Festa grande, in città: si sposa il figlio del re. Succede però che gli invitati, persone serie, piedi per terra, cominciano ad accampare delle scuse: hanno degli impegni, degli affari da concludere, non hanno tempo per cose di poco conto: un banchetto, feste, affetti, volti.

L’idolo della quantità ha chiesto che gli fosse sacrificata la qualità della vita. Perché il succo della parabola è questo: Dio è come uno che organizza una festa, la migliore delle feste, e ti invita, e mette sul piatto le condizioni per una vita buona, bella e gioiosa. Tutto il Vangelo è l’affermazione che la vita è e non può che essere una continua ricerca della felicità, e Gesù ne possiede la chiave. Ma nessuno viene alla festa, la sala è vuota.

La reazione del re è dura, ma anche splendida: invia i servitori a certificare il fallimento dei primi, e poi a cercare per i crocicchi, dietro le siepi, nelle periferie, uomini e donne di nessuna importanza, basta che abbiano fame di vita e di festa. Se i cuori e le case degli invitati si chiudono, il Signore apre incontri altrove. Come ha dato la sua vigna ad altri viticoltori, nella parabola di domenica scorsa, così darà il banchetto ad altri affamati.

I servi partono con un ordine illogico e favoloso: tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze. Tutti, senza badare a meriti o a formalità. Non chiede niente, dona tutto. È bello questo Dio che, quando è rifiutato, anziché abbassare le attese, le innalza: chiamate tutti! Lui apre, allarga, gioca al rilancio, va più lontano. E dai molti invitati passa a tutti invitati, dalle persone importanti della città passa agli ultimi della fila: fateli entrare tutti, cattivi e buoni. […]

Nella vigna del Signore il bene revoca il male

Gesù amava le vigne: le ha raccontate, per sei volte, come parabole del regno; vi ha letto un simbolo forte e dolce (io sono la vite e voi i tralci, Gv 15,5); al Padre ha dato nome e figura di vignaiolo (io sono la vite vera e il Padre è l’agricoltore, Gv 15,1). Ma oggi il Vangelo racconta di una vendemmia di sangue. Una parabola dura, che vorremmo non aver ascoltato, cupa, con personaggi cattivi, feroci quasi, e questo perché la realtà attorno a Gesù si è fatta cattiva: sta parlando a chi prepara la sua morte. L’orizzonte di amarezza e violenza verso cui cammina la parabola è già evidente nelle parole dei vignaioli, insensate e brutali: Costui è l’erede, venite, uccidiamolo e avremo noi l’eredità!

Ma quale manuale di diritto civile hanno mai letto? È chiaro che non è il diritto ad ispirarli, ma quella forza primordiale e brutale, originaria e stupida, che in noi sussurra: devi sopraffare l’altro, occupa il suo posto, e allora avrai il suo campo, la sua casa, la sua donna, i suoi soldi. Quanto è diverso Dio, che ricomincia, dopo ogni tradimento, a mandare ancora servitori, altri profeti, infine suo Figlio; che non è mai a corto di sorprese e di speranza: che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna, che io non abbia fatto?

Io, noi siamo vigna e delusione di Dio, e lui, contadino appassionato, continua a fare per me ciò che nessuno farà mai. Fino alla svolta del racconto: alla fine, che cosa farà il signore della vigna? La soluzione proposta dai capi del popolo è tragica: uccidere ancora, far fuori i vignaioli disonesti, sistemare le cose mettendo in campo un di più di violenza. Vendetta, morte, il fuoco dal cielo. Ma non succederà così. […]

 

 

Malgrado errori e ritardi Dio crede sempre in noi
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 27 Settembre 2020.
Nei due figli, che dicono e subito si contraddicono, vedo raffigurato il mio cuore diviso, le contraddizioni che Paolo lamenta: non mi
capisco più, faccio il male che non vorrei, e il bene che vorrei non riesco a farlo (Rm 7, 15.19), che Goethe riconosce: «ho in me, ah, due anime». A partire da qui, la parabola suggerisce la sua strada per la vita buona: il viaggio verso il cuore unificato. Invocato dal Salmo 86,11: Signore, tieni unito il mio cuore; indicato dalla Sapienza 1,1 come primo passo sulla via della saggezza: cercate il Signore con cuore semplice, un cuore non doppio, che non ha secondi fini. Dono da chiedere sempre: Signore, unifica il mio cuore; che io non abbia in me due cuori, in lotta tra loro, due desideri in guerra.

Se agisci così, assicura Ezechiele nella prima lettura, fai vivere te stesso, sei tu il primo che ne riceve vantaggio. Con ogni cura vigila il tuo cuore, perché da esso sgorga la vita (Prov 4,23).
Il primo figlio si pentì e andò a lavorare. Di che cosa si pente? Di aver detto di no al padre? Letteralmente Matteo dice: si convertì, trasformò il suo modo di vedere le cose. Vede in modo nuovo la vigna, il padre, l’obbedienza. Non è più la vigna di suo padre è la nostra vigna. Il padre non è più il padrone cui sottomettersi o al quale sfuggire, ma il Coltivatore che lo chiama a collaborare per una vendemmia abbondante, per un vino di festa per tutta la casa. Adesso il suo cuore è unificato: per imposizione nessuno potrà mai lavorare bene o amare bene.

Al centro, la domanda di Gesù: chi ha compiuto la volontà del padre? In che cosa consiste la sua volontà? Avere figli rispettosi e obbedienti? No, il suo sogno di padre è una casa abitata non da servi ossequienti, ma da figli liberi e adulti, alleati con lui per la maturazione del mondo, per la fecondità della terra. […]

 

«(...)Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto (...).

La vigna è il campo più amato, quello in cui l'agricoltore investe più lavoro e passione, fatica e poesia. Senza poesia, infatti, anche il sorso di vino è sterile. Vigna di Dio siamo noi, sua coltivazione che non ha prezzo. Lo racconta la parabola del proprietario terriero che esce di casa all'alba, che già dalla prima luce del giorno gira per il villaggio in cerca di braccianti. E vi ritornerà per altre quattro volte, ogni due ore, fino a che c'è luce.

A questo punto però qualcosa non torna: che senso ha per un imprenditore reclutare dei giornalieri quando manca un'ora soltanto al tramonto? Il tempo di arrivare alla vigna, di prendere gli ordini dal fattore, e sarà subito sera. Allora nasce il sospetto che ci sia dell'altro, che quel cercatore di braccia perdute si interessi più degli uomini, e della loro dignità, che della sua vigna, più delle persone che del profitto.

Ma arriviamo al cuore della parabola, la paga.

Primo gesto spiazzante: cominciare da quelli che hanno lavorato di meno. Secondo gesto illogico: pagare un'ora di lavoro quanto dodici ore. E capiamo che non è una paga, ma un regalo. Quelli che hanno portato il peso del caldo e della fatica si aspettano, giustamente, un supplemento alla paga. Come dargli torto? Ed eccoci spiazzati ancora: No, amico, non ti faccio torto. Il padrone non toglie nulla ai primi, aggiunge agli altri. Non è ingiusto, ma generoso. E crea una vertigine dentro il nostro modo mercantile di concepire la vita: mette l'uomo prima del mercato, la dignità della persona prima delle ore lavorate.

E ci lancia tutti in un'avventura sconosciuta: quella di una economia solidale, economia del dono, della solidarietà, della cura dell'anello debole, perché la catena non si spezzi. L'avventura della bontà: il padrone avvolge di carità la giustizia, e la profuma.

Mi commuove il Dio presentato da Gesù, un Dio che con quel denaro, che giunge insperato e benedetto a quattro quinti dei lavoratori intende immettere vita nelle vite dei più precari tra loro. La giustizia umana è dare a ciascuno il suo, quella di Dio è dare a ciascuno il meglio. Nessun imprenditore farebbe così. Ma Dio non lo è; non un imprenditore, non il contabile dei meriti, lui è il Donatore, che non sa far di conto, ma che sa saziarci di sorprese.

Nessun vantaggio, allora, a essere operai della prima ora? Solo più fatica? Un vanto c'è, umile e potente, quello di aver reso più bella la vigna della storia, di aver lasciato più vita dietro di te.

Ti dispiace che io sia buono? No, Signore, non mi dispiace, perché sono l'ultimo bracciante, perché so che verrai a cercarmi ancora, anche quando si sarà fatto molto buio.

 

La misura del perdono è perdonare senza misura
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 13 Settembre 2020.
«Non fino a sette, ma fino a settanta volte sette», sempre: l’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Gesù non alza l’asticella della morale, porta la bella notizia che l’amore di Dio non ha misura. E lo racconta con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore «allora, gettatosi a terra, lo supplicava…». Il debito, ai tempi di Gesù, era una cosa durissima, chi non riusciva a pagare diventava schiavo per sempre. Quando noi preghiamo: rimetti i nostri debiti, stiamo chiedendo: donaci la libertà, lasciaci per oggi e per domani tutta la libertà di volare, di amare, di generare.

Ma il servo perdonato “appena uscito”: non una settimana, non il giorno dopo, non un’ora dopo, ma “appena uscito”, ancora stordito di gioia, appena liberato «preso per il collo il suo collega, lo strangolava gridando: “Dammi i miei centesimi”», lui condonato di milioni!
Nitida viene l’alternativa evangelica: non dovevi anche tu aver pietà ? Siamo posti davanti alla regola morale assoluta: anche tu come me, io come Dio… non orgoglio, ma massima responsabilità. Perché perdonare? Semplice: perché così fa Dio.

Il perdono è scandaloso perché chiede la conversione non a chi ha commesso il male, ma a chi l’ha subito. Quando, di fronte a un’offesa, penso di riscuotere il mio debito con una contro offesa, non faccio altro che alzare il livello del dolore e della violenza. Anziché liberare dal debito, aggiungo una sbarra alla prigione. Penso di curare una ferita ferendo a mia volta. Come se il male potesse essere riparato, cicatrizzato mediante un altro male. […]

 

Se amiamo siamo capaci di correggere senza ferire
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 6 Settembre 2020.
Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro. In mezzo a loro, come collante delle vite. Essere riuniti nel suo nome è parola che scavalca la liturgia, sconfina nella vita, Quando due o tre si guardano con verità, lì c’è Dio. Quando gli amanti si dichiarano: tu sei la mia vita, osso delle mie ossa, lì c’è Dio, nodo dell’amore, legame saldo e incandescente. Quando l’amico paga all’amico il debito dell’affetto, lì c’è Cristo, uomo perfetto, fine ultimo della storia, energia per ripartire verso il fratello, che se commette una colpa, tu vai, esci, prendi il sentiero e bussi alla sua porta. Forte della tua pienezza.

Ciò che legherete sulla terra, ciò che scioglierete… Legare non è il potere giuridico di imprigionare con giudizi o sentenze; sciogliere non significa assolvere da qualche colpa o rimorso. Indica molto di più: il potere di creare comunione e di liberare. Come mostra Gesù, alle volte mano forte che afferra Pietro quando affonda e lo stringe a sé; alle volte gesto tenero che scioglie la lingua al muto, disfa i nodi che tenevano curva una donna da diciotto anni (Luca 13,11) e la restituisce a una vita verticale. Ogni volta che fai germogliare comunione o liberi qualcuno da qualche patibolo interiore, lì sta lo Spirito di Gesù. In mezzo: non semplicemente nell’io, non soltanto nel tu, ma nel legame, nel “tra-i-due”. Non in un luogo statico, ma nel cammino da percorrere per l’incontro. […]

 

Se qualcuno vuole venire dietro a me... Vivere una storia con lui, ha un avvio così leggero e liberante: se qualcuno vuole. Se vuoi. Tu andrai o non andrai con Lui, scegli, nessuna imposizione; con lui «maestro degli uomini liberi», «fonte di libere vite» Se vuoi.. Ma le condizioni sono da vertigine.

La prima: rinnegare se stessi. Un verbo pericoloso se capito male. Rinnegarsi non significa annullarsi, appiattirsi, mortificare quelle cose che ti fanno unico. Vuol dire: smettila di pensare sempre solo a te stesso, di girarti attorno. Il nostro segreto non è in noi, è oltre noi. Martin Buber riassume così il cammino dell'uomo: «a partire da te, ma non per te». Perché chi guarda solo a se stesso non si illumina mai.

La seconda condizione: prendere la propria croce, e accompagnarlo fino alla fine. Una delle frasi più celebri, più citate e più fraintese del Vangelo. La croce, questo segno semplicissimo, due sole linee, lo vedi in un uccello in volo, in un uomo a braccia aperte, nell'aratro che incide il grembo di madre terra. Immagine che abita gli occhi di tutti, che pende al collo di molti, che segna vette di monti, incroci, campanili, ambulanze, che abita i discorsi come sinonimo di disgrazie e di morte. Ma il suo senso profondo è altrove. La croce è una follia. Un «suicidio per amore», sosteneva Alain Resnais. Gesù parla di una croce che ormai si profila all'orizzonte e lui sa che a quell'esito lo conduce la sua passione per Dio e per l'uomo, passioni che non può tradire: sarebbe per lui più mortale della morte stessa.

Prendi la tua croce, scegli per te qualcosa della mia vita. Di lui, il coraggioso che osa toccare i lebbrosi e sfidare i boia pronti a uccidere l'adultera; il forte che caccia dal tempio buoi e mercanti; il molto tenero che si commuove per due passeri; il rabbi che ama i banchetti e le albe nel deserto; il povero che mai è entrato nei palazzi dei potenti se non da prigioniero; il libero che non si è fatto comprare da nessuno; senza nessun servo, eppure chiamato Signore; il mite che non ha vinto nessuna battaglia e ha conquistato il mondo. Con la croce, con la passione, che è appassionarsi e patire insieme. Perché «dove metti il tuo cuore là troverai anche le tue ferite» (F. Fiorillo).
Se vuoi venire dietro a me...

Ma perché seguirlo? Perché andargli dietro? È il dramma di Geremia: basta con Dio, ho chiuso con lui, è troppo. Chi non l'ha patito? Beato però chi continua, come il profeta: nel mio cuore c'era come un fuoco, mi sforzavo di contenerlo ma non potevo. Senza questo fuoco (roveto ardente, lampada, o semplice cerino nella notte), posso anche guadagnare il mondo ma perderei me stesso.

 

---Ogni anno, verso la fine dell’estate, la liturgia ripropone la bellissima domanda di Gesù, ogni anno con un evangelista diverso: ma voi chi dite che io sia? Inizia con un «ma», una avversativa, quasi in opposizione a ciò che dice la gente, perché non si crede per sentito dire, né per tradizione o per allinearsi alla maggioranza.

Come un amo da pesca (la forma del punto di domanda ricorda quella di un amo), che scende in noi per agganciare la risposta vera: ma voi, voi dalle barche abbandonate, voi che camminate con me da anni, voi amici che ho scelto a uno a uno, che cosa sono io per voi?

Gesù non cerca parole, cerca rapporti (io per te); non vuole definizioni esatte ma coinvolgimenti: che cosa ti è successo, quando mi hai incontrato? La sua domanda assomiglia a quelle degli innamorati: quanto conto per te? Che posto ho, che importanza ho nella tua vita? Gesù non ha bisogno della risposta dei dodici, e della mia, per sapere se è più bravo degli altri profeti, ma per sapere se sono innamorato, se gli ho aperto il cuore.

Cristo non è nelle mie parole, ma in ciò che di Lui arde in me. Il nostro cuore può essere la culla o la tomba di Dio. La risposta di Pietro ha due tempi: Tu sei il Messia, sei la mano di Dio, la sua carezza, il suo progetto di libertà. Poi aggiunge: sei il figlio del Dio vivente. Colui che fa viva la vita, il miracolo che la fa fiorire, grembo gravido, fontana da cui la vita sgorga potente, inesauribile e illimitata.  […]

 

VIDEODICHIARAZIONE

Grazie San Bartolomeo. Solo Grazie e sempre Grazie 

Gaetano Sardella

 

La donna delle briciole, la cananea pagana, sorprende e converte Gesù: lo fa passare da maestro d'Israele a pastore di tutto il dolore del mondo.

La prima delle sue tre parole è una preghiera, la più evangelica, un grido: Kyrie eleyson, pietà, Signore, di me e della mia bambina.

E Gesù non le rivolge neppure una parola.

Ma la madre non si arrende, si accoda al gruppo, dice e ridice il suo dolore. Fino a che provoca una risposta, ma scostante e brusca: sono venuto per quelli di Israele, e non per voi.

Fragile ma indomita, lei non molla; come ogni vera madre pensa alla sua bambina, e rilancia. Si butta a terra, sbarra il passo a Gesù, e dal cuore le erompe la seconda preghiera: aiutami! E Gesù, ruvido:

Non si toglie il pane ai figli per gettarlo ai cani.

Ed ecco l'intelligenza delle madri, la fantasia del loro amore:
è vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Fai una briciola di miracolo, per noi, i cagnolini del mondo!

È la svolta del racconto. Dolcemente, la donna confessa di essere là a cercare solo briciole, solo avanzi, pane perduto. Potentemente, la madre crede con tutta se stessa, che per il Dio di Gesù non ci sono figli e no, uomini e cagnolini. Ma solo fame e creature da saziare; che il Dio di Gesù è più attento al dolore dei figli che al loro credo, che preferisce la loro felicità alla fedeltà.

Gesù ne è come folgorato, si commuove: Donna, grande è la tua fede! Lei che non va al tempio, che non legge le Scritture, che prega gli idoli cananei, è proclamata donna di grande fede.

Non conosce il catechismo, eppure mostra di conoscere Dio dal di dentro, lo sente pulsare nel profondo delle ferite del suo cuore di madre. Lei sa che «fa piaga nel cuore di Dio la somma del dolore del mondo» (G. Ungaretti).

Il dolore è sacro, c'è dell'oro nelle lacrime, c'è tutta la compassione di Dio. Può sembrare una briciola, può sembrare poca cosa la tenerezza di Dio, ma le briciole di Dio sono grandi come Dio stesso. Grande è la tua fede!.

E ancora oggi è così, c'è molta fede sulla terra, dentro e fuori le chiese, sotto il cielo del Libano come sotto il cielo di Nazaret, perché grande è il numero delle madri del mondo che non sanno il Credo ma sanno che Dio ha un cuore di madre, e che misteriosamente loro ne hanno catturato e custodito un frammento. Sanno che per Lui la persona viene prima della sua fede.

Avvenga per te come desideri. Gesù ribalta la domanda della madre, gliela restituisce: sei tu e il tuo desiderio che comandate. La tua fede e il tuo desiderio di madre, una scheggia di Dio, infuocata (cfr. Cantico 8,6), sono davvero un grembo che partorisce miracoli.

 

---Il Signore ci salva oltre ogni nostro dubbio

Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 9 Agosto 2020.
«Subito dopo», dopo i pani che traboccavano dalle mani e dalle ceste, «costrinse i discepoli», che vorrebbero star lì a godersi il successo, «a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva». Li deve costringere, non vogliono andarci sull’altra riva, è terra pagana, c’è il rischio di essere rifiutati, è già successo. Infatti: la barca era sbattuta dalle onde, perché il vento era contrario. Un vento che non soffia da fuori, ma da dentro i Dodici, come resistenza a quel viaggio verso gli stranieri.

«Sul finire della notte egli andò verso di loro, camminando sul mare». Non ha fretta Gesù: tre giorni ha atteso per Lazzaro, attende quasi una notte intera di tempesta, tre giorni aspetterà per risorgere. Ha sempre fretta invece quando in vista c’è una esaltazione, una ovazione. Fretta di andarsene e di portar via i discepoli. Perché il posto vero dei credenti non è nei successi e nei risultati trionfali, ma in una barca in mare, mare aperto, dove prima o poi, durante la navigazione della vita, verranno acque agitate e vento contrario. Ma non saranno lasciati soli.

«Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». All’invito di Gesù, Pietro, coraggioso fino all’incoscienza, abbandona ogni riparo e cammina nel vento e sulle onde. Sì, ma verso dove? Pietro non vuole tanto andare da Gesù, quanto metterne alla prova la potenza. Andrà davvero verso Gesù, quando lo seguirà, non sedotto dal suo camminare sul mare, bensì dal suo camminare verso lo scandalo e la follia della croce. […]

---È un dono il pane del Signore e va donato
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 2 Agosto 2020.
Vangelo del pane che trabocca dalle mani, dalle ceste. Segno da custodire con particolare cura, raccontato per ben sei volte dai Vangeli, carico di promesse e profezia.

Gesù vide la grande folla, sentì compassione di loro e curò i loro malati. Tre verbi rivelatori (vide, sentì, curò) che aprono finestre sui sentimenti di Gesù, sul suo mondo interiore. Vide una grande folla, il suo sguardo non scivola via sopra le persone, ma si posa sui singoli, li vede ad uno ad uno. Per lui guardare e amare sono la stessa cosa. E la prima cosa che vede alzarsi da tutta quella gente e che lo raggiunge al cuore è la loro sofferenza: e sentì compassione per loro.

Gesù prova dolore per il dolore dell’uomo, è ferito dalle ferite di chi ha davanti, ed è questo che gli fa cambiare i programmi: voleva andarsene in un luogo deserto, ma ora chi detta l’agenda è il dolore dell’uomo, e Gesù si immerge nel tumulto della folla, risucchiato dal vortice della vita dolente. Primo viene il dolore. Il più importante è chi patisce: nella carne, nello spirito, nel cuore. E dalla compassione fioriscono miracoli: guarì i loro malati. Il nostro tesoro più grande è un Dio appassionato che patisce per noi.

Il luogo è deserto, è ormai tardi, questa gente deve mangiare… I discepoli alla scuola di Gesù sono diventati sensibili e attenti, si prendono a cuore le persone. Gesù però fa di più: mostra l’immagine materna di Dio che raccoglie, nutre e alimenta ogni vita, e incalza i suoi: Voi stessi date loro…[…]

---Nessun viaggio è lungo per chi ama

Gesù, con due parabole simili, brevi e lampeggianti, dipinge come su un fondo d’oro il dittico lucente della fede. Evoca tesori e perle, termini bellissimi e inusuali nel nostro rapporto con Dio.

Lo diresti un linguaggio da romanzi, da pirati e da avventure, da favole o da innamorati, non certo da teologi o da liturgie, che però racconta la fede come una forza vitale che trasforma la vita, che la fa incamminare, correre e perfino volare. Annuncia che credere fa bene! Perché la realtà non è solo questo che si vede: c’è un di più raccontato come tesoro, ed è accrescimento, incremento, intensità, eternità, addizione e non sottrazione .

«La religione in fondo equivale a dilatazione» Siamo da forze buone misteriosamente avvolti: Qualcuno interra tesori per noi, semina perle nel mare dell’esistenza, «il Cielo prepara oasi ai nomadi d’amore» (G. Ungaretti). Trovato il tesoro, l’uomo va, pieno di gioia, vende tutto e compra quel campo. Si mette in moto la vita, ma sotto una spinta che più bella non c’è per l’uomo, la gioia.

Che muove, mette fretta, fa decidere, è la chiave di volta. La visione di un cristianesimo triste, che si innesca nei momenti di crisi, che ha per nervatura un senso di dovere e di colpa, che prosciuga vita invece di aggiungerne, quella religiosità immatura e grigia è lontanissima dalla fede solare di Gesù. Dio ha scelto di parlarci con il linguaggio della gioia, per questo seduce ancora.

Viene con doni di luce avvolti in bende di luce . Vale per il povero bracciante e per l’esperto mercante, intenditore appassionato e ostinato che gira il mondo dietro il suo sogno. Ma nessun viaggio è lungo per chi ama.  […]

Canneto, festeggiato San Cristoforo anche dall'Arcivescovo Giovanni Accolla 

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Basilica San Cristoforo

 

Il bene e il male, buon seme ed erbe cattive si sono radicati nella mia zolla di terra: il mite padrone della vita e il nemico dell’uomo si disputano, in una contesa infinita, il mio cuore. E allora il Signore Gesù inventa una delle sue parabole più belle per guidarmi nel cammino interiore, con lo stile di Dio.

La mia prima reazione di fronte alle male erbe è sempre: vuoi che andiamo a raccogliere la zizzania? L’istinto mi suggerisce di agire così: strappa via, sradica subito ciò che in te è puerile, sbagliato, immaturo. Strappa e starai bene e produrrai frutto.

Ma in me c’è anche uno sguardo consapevole e adulto, più sereno, seminato dal Dio dalla pazienza contadina: non strappare le erbacce, rischi di sradicare anche il buon grano. La tua maturità non dipende da grandi reazioni immediate, ma da grandi pensieri positivi, da grandi valori buoni.

Che cosa cerca in me il Signore? La presenza di quella profezia di pane che sono le spighe, e non l’assenza, irraggiungibile, di difetti o di problemi. Ancora una volta il mite Signore delle coltivazioni abbraccia l’imperfezione del suo campo. Nel suo sguardo traspare la prospettiva serena di un Dio seminatore, che guarda non alla fragilità presente ma al buon grano futuro, anche solo possibile.

Lo sguardo liberante di un Dio che ci fa coincidere non con i peccati, ma con bontà e grazia, pur se in frammenti, con generosità e bellezza, almeno in germogli. Io non sono i miei difetti, ma le mie maturazioni; non sono creato ad immagine del Nemico e della sua notte, ma a somiglianza del Padre e del suo pane buono...

PARROCCHIA SAN PIETRO Orario Sante Messe nel Mese di Luglio. Sabato Ore 19,00 Domenica Ore 9,00 19,00 Da Lunedi al Venerdi S.Messa al Pozzo ore 9,00

IL RICORDO DI SAVERIO CAMPOREALE

di Michele Giacomantonio

Domenica 19 luglio alle ore 9 a S. Pietro S. Messa di suffragio per Saverio Camporeale nell’11 anniversario del suo transito.

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Egli parlò loro di molte cose con parabole. Le parabole sono uscite così dalla viva voce del Maestro. Ascoltarle è come ascoltare il mormorio della sorgente, il momento iniziale, fresco, sorgivo del Vangelo. Le parabole non sono un ripiego o un'eccezione, ma la punta più alta e geniale, la più rifinita del linguaggio di Gesù. Egli amava il lago, i campi di grano, le distese di spighe e di papaveri, i passeri in volo, il fico. Osservava la vita e nascevano parabole. Prendeva storie di vita e ne faceva storie di Dio, svelava che «in ogni cosa è seminata una sillaba della Parola di Dio» (Laudato si').

Il seminatore uscì a seminare. Gesù immagina la storia, il creato, il regno come una grande semina: è tutto un seminare, un volare di grano nel vento, nella terra, nel cuore. È tutto un germinare, un accestire, un maturare. Ogni vita è raccontata come un albeggiare continuo, una primavera tenace. Il seminatore uscì, ed il mondo è già gravido. Ed ecco che il seminatore, che può sembrare sprovveduto perché parte del seme cade su sassi e rovi e strada, è invece colui che abbraccia l'imperfezione del campo del mondo, e nessuno è discriminato, nessuno escluso dalla semina divina. Siamo tutti duri, spinosi, feriti, opachi, eppure la nostra umanità imperfetta è anche una zolla di terra buona, sempre adatta a dare vita ai semi di Dio.

Ci sono nel campo del mondo, e in quello del mio cuore, forze che contrastano la vita e le nascite. La parabola non spiega perché questo accada. E non spiega neppure come strappare infestanti, togliere sassi, cacciare uccelli. Ma ci racconta di un seminatore fiducioso, la cui fiducia alla fine non viene tradita: nel mondo e nel mio cuore sta crescendo grano, sta maturando una profezia di pane e di fame saziata. Lo spiega il verbo più importante della parabola: e diede frutto. Fino al cento per uno. E non è una pia esagerazione. Vai in un campo di frumento e vedi che talvolta da un chicco solo possono accestire diversi steli, ognuno con la sua spiga. L'etica evangelica non cerca campi perfetti, ma fecondi. Lo sguardo del Signore non si posa sui miei difetti, su sassi o rovi, ma sulla potenza della Parola che rovescia le zolle sassose, si cura dei germogli nuovi e si ribella a tutte le sterilità.

E farà di me terra buona, terra madre, culla accogliente di germi divini. Gesù racconta la bellezza di un Dio che non viene come mietitore delle nostre poche messi, ma come il seminatore infaticabile delle nostre lande e sterpaglie. E imparerò da lui a non aver bisogno di raccolti, ma di grandi campi da seminare insieme, e di un cuore non derubato; ho bisogno del Dio seminatore, che le mie aridità non stancano mai.

 

 

Due braccia aperte, non un dito accusatore.

Quello che mi incanta è Gesù che si stupisce del Padre. Una cosa bellissima: il Maestro di Nazaret che è sorpreso da un Dio sempre più fantasioso e inventivo nelle sue trovate, che spiazza tutti, perfino suo Figlio.

Cosa è accaduto? Il Vangelo ha appena riferito un periodo di insuccessi, tira una brutta aria: Giovanni è arrestato, Gesù è contestato duramente dai rappresentanti del tempio, i villaggi attorno al lago, dopo la prima ondata di entusiasmo e di miracoli, si sono allontanati. Ed ecco che, in quell’aria di sconfitta, si apre davanti a Gesù uno squarcio inatteso, un capovolgimento improvviso che lo riempie di gioia: Padre, ti benedico, ti rendo lode, ti ringrazio, perché ti sei rivelato ai piccoli.

Il posto vuoto dei grandi lo riempiono i piccoli: pescatori, poveri, malati, vedove, bambini, pubblicani, i preferiti da Dio. Gesù non se l’aspettava e si stupisce della novità; la meraviglia lo invade e lo senti felice. Scopre l’agire di Dio, come prima sapeva scoprire, nel fondo di ogni persona, angosce e speranze, e per loro sapeva inventare come risposta parole e gesti di vita, quelli che l’amore ci fa chiamare “miracoli”.

Hai rivelato queste cose ai piccoli… di quali cose si tratta? Un piccolo, un bambino capisce subito l’essenziale: se gli vuoi bene o no. In fondo è questo il segreto semplice della vita. 

 

 

---Chi dona con il cuore rende ricca la sua vita
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 28 Giugno 2020.
Chi ama padre o madre, figlio o figlia più di me, non è degno di me. Una pretesa che sembra disumana, a cozzare con la bellezza e la forza degli affetti, che sono la prima felicità di questa vita, la cosa più vicina all’assoluto, quaggiù tra noi. Gesù non illude mai, vuole risposte meditate, mature e libere. Non insegna né il disamore, né una nuova gerarchia di emozioni. Non sottrae amori al cuore affamato dell’uomo, aggiunge invece un “di più”, non limitazione ma potenziamento. Ci nutre di sconfinamenti. Come se dicesse: Tu sai quanto è bello dare e ricevere amore, quanto contano gli affetti dei tuoi cari per poter star bene, ebbene io posso offrirti qualcosa di ancora più bello.

Ci ricorda che per creare la nuova architettura del mondo occorre una passione forte almeno quanto quella della famiglia. È in gioco l’umanità nuova. E così è stato fin dal principio: per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna (Gen 2,24). Abbandono, per la fecondità. Padre e madre “amati di meno”, lasciati per un’altra esistenza, è la legge della vita che cresce, si moltiplica e nulla arresta. Seconda esigenza: chi non prende la propria croce e non mi segue. Prima di tutto non identifichiamo, non confondiamo croce con sofferenza. Gesù non vuole che passiamo la vita a soffrire, non desidera crocifissi al suo seguito: uomini, donne, bambini, anziani, tutti inchiodati alle proprie croci. Vuole che seguiamo le sue orme, andando come lui di casa in casa, di volto in volto, di accoglienza in accoglienza, toccando piaghe e spezzando pane. Gente che sappia voler bene, senza mezze misure, senza contare, fino in fondo.

----Non temete, non abbiate paura, non abbiate timore. Per tre volte Gesù si oppone alla paura, in questo tempo di paura che mangia la vita, «che non passa per decreto-legge» (C.M. Martini), che come suo contrario non ha il coraggio ma la fede.

Lo assicura il Maestro, una notte di tempesta: perché avete paura, non avete ancora fede? (Mc 4,40). Noi non siamo eroi, noi siamo credenti e ciò che opponiamo alla paura è la fede. E Gesù che oggi inanella per noi bellissime immagini di fede: neppure un passero cadrà a terra senza il volere del Padre.

Ma allora i passeri cadono per volontà di Dio?
È lui che spezza il volo delle creature, di mia madre o di mio figlio?

Il Vangelo non dice questo, in verità è scritto altro: neppure un uccellino cadrà “senza il Padre”, al di fuori della sua presenza, e non come superficialmente abbiamo letto “senza che Dio lo voglia”.

Nessuno muore fuori dalle mani di Dio, senza che il Padre non sia coinvolto. Al punto che nel fratello crocifisso è Cristo a essere ancora inchiodato alla stessa croce. Al punto che lo Spirito, alito divino, intreccia il suo respiro con il nostro; e quando un uomo non può respirare perché un altro uomo gli preme il ginocchio sul collo, è lo Spirito, il respiro di Dio, che non può respirare.

Dio non spezza ali, le guarisce, le rafforza, le allunga. E noi vorremmo non cadere mai, e voli lunghissimi e sicuri. Ma ci soccorre una buona notizia, come un grido da rilanciare dai tetti: non abbiate paura, voi valete più di molti passeri, voi avete il nido nelle mani di Dio.

Voi valete: che bello questo verbo! Per Dio, io valgo. Valgo più di molti passeri, di più di tutti i fiori del campo, di più di quanto osavo sperare. Finita la paura di non contare, di dover sempre dimostrare qualcosa. Non temere, tu vali di più. E poi segue la tenerezza di immagini delicate come carezze, che raccontano l'impensato di Dio che fa per me ciò che nessuno ha mai fatto, ciò che nessuno farà mai: ti conta tutti i capelli in capo.

Il niente dei capelli: qualcuno mi vuole bene frammento su frammento, fibra su fibra, cellula per cellula. Per chi ama niente dell'amato è insignificante, nessun dettaglio è senza emozione. Anche se la tua vita fosse leggera come quella di un passero, fragile come un capello, tu vali.

Perché vivi, sorridi, ami, crei. Non perché produci o hai successo, ma perché esisti, amato nella gratuità come i passeri, amato nella fragilità come i capelli. Non abbiate paura. Dalle mani di Dio ogni giorno spicchiamo il volo, nelle sue mani il nostro volo terminerà ogni volta; perché niente accade fuori di Lui, perché là dove tu credevi di finire, proprio là inizia il Signore.

 

---Nella sinagoga di Cafarnao, il discorso più dirompente di Gesù: mangiate la mia carne e bevete il mio sangue. Un invito che sconcerta amici e avversari, che Gesù ostinatamente ribadisce per otto volte, incidendone la motivazione sempre più chiara: per vivere, semplicemente vivere, per vivere davvero. È l'incalzante convinzione di Gesù di possedere qualcosa che cambia la direzione della vita. Mentre la nostra esperienza attesta che la vita scivola inesorabile verso la7 morte, Gesù capovolge questo piano inclinato mostrando che la nostra vita scivola verso Dio. Anzi, che è la vita di Dio a scorrere, a entrare, a perdersi dentro la nostra.

Qui è racchiusa la genialità del cristianesimo: Dio viene dentro le sue creature, come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo, come corpo dentro l'abbraccio. Dentro l'amore. Il nostro pensiero corre all'Eucaristia. È lì la risposta? Ma a Cafarnao Gesù non sta indicando un rito liturgico; lui non è venuto nel mondo per inventare liturgie, ma fratelli liberi e amanti. Gesù sta parlando della grande liturgia dell'esistenza, di persona, realtà e storia.

Le parole «carne», «sangue», «pane di cielo» indicano l'intera sua esistenza, la sua vicenda umana e divina, le sue mani di carpentiere con il profumo del legno, le sue lacrime, le sue passioni, la polvere delle strade, i piedi intrisi di nardo, e la casa che si riempie di profumo e di amicizia. E Dio in ogni fibra. E poi come accoglieva, come liberava, come piangeva, come abbracciava. Libero come nessuno mai, capace di amare come nessuno prima.

Allora il suo invito incalzante significa: mangia e bevi ogni goccia e ogni fibra di me. Prendi la mia vita come misura alta del vivere, come lievito del tuo pane, seme della tua spiga, sangue delle tue vene, allora conoscerai cos'è vivere davvero.

Cristo vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo della sua vita, che nel cuore metta radici il suo coraggio, perché ci incamminiamo a vivere l'esistenza come l'ha vissuta lui. Dio si è fatto uomo perché ogni uomo si faccia come Dio. E allora vivi due vite, la tua e quella di Cristo, è lui che ti fa capace di cose che non pensavi, cose che meritano di non morire, gesti capaci di attraversare il tempo, la morte e l'eternità: una vita che non va perduta mai e che non finisce mai.

Mangiate di me! Parole che mi sorprendono ogni volta, come una dichiarazione d'amore. «Voglio stare nelle tue mani come dono, nella tua bocca come pane, nell'intimo tuo come sangue; farmi cellula, respiro, pensiero di te. Tua vita». Qui è il miracolo, il batticuore, lo stupore: Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una sola cosa.

 

---In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

Memoria emozionante della Trinità, dove il racconto di Dio diventa racconto dell'uomo. Dio non è in se stesso solitudine: esistere è coesistere, per Dio prima, e poi anche per l'essere umano. Vivere è convivere, nei cieli prima, e poi sulla terra. I dogmi allora fioriscono in un concentrato d'indicazioni vitali, di sapienza del vivere. Quando Gesù ha raccontato il mistero di Dio, ha scelto nomi di casa, di famiglia: abbà, padre... figlio, nomi che abbracciano, che si abbracciano. Spirito, ruhà, è un termine che avvolge e lega insieme ogni cosa come libero respiro di Dio, e mi assicura che ogni vita prende a respirare bene, allarga le sue ali, vive quando si sa accolta, presa in carico, abbracciata da altre vite. Abbà, Figlio e Spirito ci consegnano il segreto per ritornare pienamente umani: in principio a tutto c'è un legame, ed è un legame d'amore.

Allora capisco che il grande progetto della Genesi: «facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza», significa «facciamolo a immagine della Trinità», a immagine di un legame d'amore, a somiglianza della comunione. La Trinità non è una dottrina esterna, è al di qua, è dentro, non al di là di me. Allora spirituale e reale coincidono, verità ed esistenza corrispondono. E questo mi regala un senso di armoniosa pace, di radice santa che unifica e fa respirare tutto ciò che vive. In principio c'è la relazione (G. Bachelard). «Quando verrà lo Spirito di verità, vi guiderà... parlerà... dirà... prenderà... annunzierà». Gesù impiega tutti verbi al futuro, a indicare l'energia di una strada che si apre, orizzonti inesplorati, un trascinamento in avanti della storia. Vi guiderà alla verità tutta intera: la verità è in-finita, «interminati spazi» (Leopardi), l'interezza della vita. E allora su questo sterminato esercito umano di incompiuti, di fragili, di incompresi, di innamorati delusi, di licenziati all'improvviso, di migranti in fuga, di sognatori che siamo noi, di questa immensa carovana, incamminata verso la vita, fa parte Uno che ci guida e che conosce la strada.

Conosce anche le ferite interiori, che esistono in tutti e per sempre, e insegna a costruirci sopra anziché a nasconderle, perché possono marcire o fiorire, seppellire la persona o spingerla in avanti. La verità tutta intera di cui parla Gesù non consiste in concetti più precisi, ma in una sapienza del vivere custodita nell'umanità di Gesù, volto del Padre, respiro dello Spirito: una sapienza sulla nascita e sulla morte, sulla vita e sugli affetti, su me e sugli altri, sul dolore e sulla infinita pazienza di ricominciare, che ci viene consegnata come un presente, inciso di fessure, di feritoie di futuro.

XXXIII Domenica Tempo ordinario – Anno C

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». [...]

Dov'è la buona notizia su Dio e sull'uomo in questo Vangelo di catastrofi, in questo balenare di spade e di pianeti che cadono? Se ascoltiamo con attenzione, ci accorgiamo però di un ritmo profondo: ad ogni immagine della fine si sovrappone il germoglio della speranza. Lc 21,9: quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, non è la fine; ai vv.16-17: sarete imprigionati, traditi, uccideranno alcuni, sarete odiati, ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto; e ancora ai vv.25-28: vi saranno segni nel sole, nella luna, nelle stelle, e sulla terra angoscia e paura: ma voi risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.

Ad ogni descrizione di dolore, segue un punto di rottura, dove tutto cambia, un tornante che apre l'orizzonte, la breccia della speranza: non vi spaventate, non è la fine; neanche un capello...; risollevatevi.... Al di là di profeti ingannatori, al di là di guerre e tradimenti, anche quando l'odio dovesse dilagare dovunque, ecco quella espressione struggente: Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto; raddoppiata da Matteo 10,30: i capelli del vostro capo sono tutti contati, non abbiate paura. Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra. Non c'è nessuna cosa che sia eterna. Ma l'uomo sì, è eterno. Si spegneranno le stelle prima che tu ti spenga.

Saranno distrutte le pietre, ma tu ancora sarai al sicuro nel palmo della mano di Dio. Non resterà pietra su pietra delle nostre magnifiche costruzioni, ma l'uomo resterà, frammento su frammento, e nemmeno un capello andrà perduto; l'uomo resterà, nella sua interezza, dettaglio su dettaglio. Perché Dio come un innamorato ha cura di ogni dettaglio del suo amato. Ciò che deve restare scolpito nel cuore è l'ultima riga del Vangelo: risollevatevi, alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. In piedi, a testa alta, occhi liberi e luminosi: così vede noi discepoli il Vangelo. Sollevate il capo, guardate oltre: la realtà non è solo questo che si vede, viene un Liberatore, esperto di vita.

Il Signore che è «delle cose l'attesa e il gemito, che viene e vive nel cuore dell'uomo» (Turoldo), sta alla porta, è qui, con le mani impigliate nel folto della vita, porta luce nel cuore dell'universo, porta il dono del coraggio, che è la virtù degli inizi e del primo passo; porta il dono della pazienza, che è la virtù di vivere l'incompiuto in noi e nel mondo. Cadono molti punti di riferimento, nel mondo, ma si annunciano anche sentori di primavera. Questo mondo porta un altro mondo nel grembo. Ogni giorno c'è un mondo che muore, ma ogni giorno c'è anche un mondo che nasce.

 

VI Domenica Tempo ordinario Anno C

In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone. Ed egli, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. [...]».

L'essere umano è un mendicante di felicità, ad essa soltanto vorrebbe obbedire. Gesù lo sa, incontra il nostro desiderio più profondo e risponde. Per quattro volte annuncia: beati voi, e significa: in piedi voi che piangete, avanti, in cammino, non lasciatevi cadere le braccia, siete la carovana di Dio. Nella Bibbia Dio conosce solo uomini in cammino: verso terra nuova e cieli nuovi, verso un altro modo di essere liberi, cittadini di un regno che viene. Gli uomini e le donne delle beatitudini sono le feritoie per cui passa il mondo nuovo. Beati voi, poveri! Certo, il pensiero dubita. Beati voi che avete fame, ma nessuna garanzia ci è data. Beati voi che ora piangete, e non sono lacrime di gioia, ma gocce di dolore. Beati quelli che sentono come ferita il disamore del mondo. Beati, perché? Perché povero è bello, perché è buona cosa soffrire? No, ma per un altro motivo, per la risposta di Dio. La bella notizia è che Dio ha un debole per i deboli, li raccoglie dal fossato della vita, si prende cura di loro, fa avanzare la storia non con la forza, la ricchezza, la sazietà, ma per seminagioni di giustizia e condivisione, per raccolti di pace e lacrime asciugate. E ci saremmo aspettati: beati perché ci sarà un capovolgimento, una alternanza, perché i poveri diventeranno ricchi. No. Il progetto di Dio è più profondo e più delicato. Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno, qui e adesso, perché avete più spazio per Dio, perché avete il cuore libero, al di là delle cose, affamato di un oltre, perché c'è più futuro in voi. I poveri sono il grembo dove è in gestazione il Regno di Dio, non una categoria assistenziale, ma il laboratorio dove si plasma una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani, una categoria generativa e rivelativa. Beati i poveri, che di nulla sono proprietari se non del cuore, che non avendo cose da donare hanno se stessi da dare, che sono al tempo stesso mano protesa che chiede, e mano tesa che dona, che tutto ricevono e tutto donano. Ci sorprende forse il guai. Ma Dio non maledice, Dio è incapace di augurare il male o di desiderarlo. Si tratta non di una minaccia, ma di un avvertimento: se ti riempi di cose, se sazi tutti gli appetiti, se cerchi applausi e il consenso, non sarai mai felice. I guai sono un lamento, anzi il compianto di Gesù su quelli che confondono superfluo ed essenziale, che sono pieni di sé, che si aggrappano alle cose, e non c'è spazio per l'eterno e per l'infinito, non hanno strade nel cuore, come fossero già morti. Le beatitudini sono la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità.

XXVIII Domenica -Tempo ordinario - Anno B

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. [...]

Gesù uscito sulla strada, e vuol dire: Gesù libero maestro, aperto a tutti gli incontri, a chiunque incroci il suo cammino o lo attenda alla svolta del sentiero. Maestro che insegna l'arte dell'incontro.
Ed ecco un tale, uno senza nome, gli corre incontro: come uno che ha fretta, fretta di vivere. Come faccio per ricevere la vita eterna? Termine che non indica la vita senza fine, ma la vita stessa dell'Eterno. Gesù risponde elencando cinque comandamenti e un precetto (non frodare) che non riguardano Dio, ma le persone; non come hai creduto, ma come hai amato. Questi trasmettono vita, la vita di Dio che è amore.
Maestro, però tutto questo io l'ho già fatto, da sempre. E non mi ha riempito la vita. Vive quella beatitudine dimenticata e generativa che dice: “Beati gli insoddisfatti, perché diventeranno cercatori di tesori”.
Ora fa anche una esperienza da brivido, sente su di sé lo sguardo di Gesù, incrocia i suoi occhi amanti, può naufragarvi dentro: Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò. E se io dovessi continuare il racconto direi: adesso gli va dietro, adesso subisce l'incantamento del Signore, non resiste a quegli occhi... Invece la conclusione del racconto va nella direzione che non ti aspetti: Una cosa ti manca, va', vendi, dona ai poveri... Sarai felice se farai felice qualcuno; fai felici altri se vuoi essere felice. 
E poi segui me: capovolgere la vita. Le bilance della felicità pesano sui loro piatti la valuta più pregiata dell'esistenza, che sta nel dare e nel ricevere amore. Il maestro buono non ha come obiettivo inculcare la povertà in quell'uomo ricco e senza nome, ma riempire la sua vita di volti e di nomi.
E se ne andò triste perché aveva molti beni.
Nel Vangelo molti altri ricchi si sono incontrati con Gesù: Zaccheo, Levi, Lazzaro, Susanna, Giovanna. Che cosa hanno di diverso questi ricchi che Gesù amava, sui quali con il suo gruppo si appoggiava? Hanno saputo creare comunione: Zaccheo e Levi riempiono le loro case di commensali; Susanna e Giovanna assistono i dodici con i loro beni (Luca 8,3). Le regole del Vangelo sul denaro si possono ridurre a due soltanto: a) non accumulare, b) quello che hai, ce l'hai per condividerlo. Non porre la tua sicurezza nell'accumulo.

 

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