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Dettagli...

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di Carlo D'Arrigo*

Il quotidiano "Il Giorno" del 14 ottobre pubblica una sentenza che presto sarà storia e che qui, fedelmente, si riporta.
"Brescia, 13 ottobre 2017 - Il Comune di Brescia dovrà versare 50 mila euro a due cittadini come risarcimento per i danni biologici e patrimoniali dovuti alla movida". La decisione arriva con la sentenza del tribunale civile di Brescia che ha condannato il Comune in sede civile al risarcimento per i danni provocati dalla movida notturna. All'origine della vicenda c'è la causa fatta da due residenti all'Amministrazione Comunale. Le sentenza obbliga Palazzo della Loggia a risarcire i due ricorrenti... A causa del rumore antropico degli avventori di alcuni locali che stazionano nei pressi dei plateatici - scrive il giudice del tribunale civile di Brescia Chiara D'Ambrosio nella sentenza - è innegabile che l'ente proprietario della strada da cui provengono le immissioni denunciate debba provvedere ad adottare le misure idonee a far cessare dette immissioni. Deve quindi essere ordinata al comune convenuto la cessazione immediata delle emissioni rumorose denunciate mediante l'adozione dei provvedimenti opportuni più idonei allo scopo. Vi è stata una carenza di diligenza da parte del comune convenuto, prosegue il giudice intimando al Comune di "riportare dette immissioni entro la soglia di tollerabilità".

Senza dover commentare la sentenza, mi sembra opportuno rievocare quanto accade nelle nostre Eolie dove, nonostante i passati controlli, non si è riusciti a calmierare le forti immissioni sonore che si "sprigionano" da alcuni pubblici locali. Livelli di pressione sonora oltre ogni logica decenza e, sovente nel periodo centrale dell'estate, schiamazzi prodotti da giovani che tardano ad andare a dormire. Le immissioni sonore, ben superiori ai limiti di accettabilità, invadono la sfera privata, sia abitativa sia ricettiva di altre attività commerciali. Compito del Comune è infatti imporre, con verifiche ed eventuali sanzioni, che il livello di intensità sonora sul suolo pubblico rientri nei limiti di accettabilità dettato dal piano di Classificazione Acustica del Territorio di cui l'Ente locale deve corredarsi. Unica mia osservazione da porre al pezzo di cronaca riportato è che nel Territorio comunale si applicano i limiti di normale accettabilità in rispetto al documento di Classificazione Acustica citato e alla Legge Quadro sull'Inquinamento Acustico prodotta nell'ormai lontano 1995. La "soglia di tollerabilità" vale all'interno delle abitazioni, prevede limiti più severi e può essere invocata dal privato nei riguardi dell'autore del rumore e non dell'Amministrazione. Il tutto in onore all'articolo 844 del Codice Civile che regola le immissioni fra fondi limitrofi e che nelle nostre Isole è totalmente sconosciuto.

*Fisico, Consulente di Acustica del Comune di Lipari

carlodarrigo47@gmail.com

I COMMENTI

di Aldo Natoli

Vi è un solo modo per evitare la "movida" notturna per le strade del centro storico dell'isola: utilizzare strumenti non amplificati ( come avviene in tutte le rinomate località turistiche,;
e smettere di suonare alle ore 24. Ovviamente consentendo alla Polizia Municipale di effettuare i necessari controlli in orario straordinario!

di Maurizio Pagliaro

A proposito di musica assordante, inqualificabile, inascoltabile e rompitimpani, ho scritto spesso per le orchestrine non amplificate, come giustamente ricordato dal dott. Aldo Natoli, ma non dimentichiamoci quella propinateci nei cosiddetti ""Lido". La sabbia trema sotto come dei sismi e succede in pieno giorno.

LE INTERVISTE DE "IL NOTIZIARIO". Eolie, controlli a tappeto sui locali che organizzano "concertini musicali" serali. E arrivano le prime multe. Parla Carlo D'Arrigo. Il commento

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L'enorme sorgente energetica del mare

 

Ho sognato che un giorno le onde marine potranno riscattare le sette isole dal fabbisogno energetico. Poi mi son ricordato che non si è ancora capaci di ricavare acqua domestica dal mare, perché burocrazia e miseria "europeistica" impediscono di mandare avanti dei semplici dissalatori. Ma, chiaramente, il mio interesse è solo tecnico-scientifico.
Fonte inesauribile di energia, da tanti anni si studia di sfruttare il "moto ondoso" per produrre elettricità. L'idea di sfruttare il moto ondoso nasce dalla contezza dell'enorme potenziale energetico di questo come fonte di energia rinnovabile che varia dai 20 kW/m nell'Europa del sud fino ai 70 kW/m delle Coste irlandesi. La vera e propria centrale di produzione è realizzata da un gruppo giroscopico posato all'interno di un galleggiante ormeggiato sul fondo del mare. L'interazione tra le onde marine e il sistema giroscopico permette la rotazione di un generatore di elettricità da immettere in rete. Caratteristica delle onde è che sono disponibili, in quantità, da tutte le parti e su tutte le coste.

 

Al contrario l'energia del vento o quella radiante del sole si può sfruttare solo in dati periodi dell'anno. Le "onde" presentano diversi vantaggi. Basso impatto ambientale, bassa variabilità oraria e giornaliera e una variazione stagionale favorevole, considerato che il potenziale dell'energia dalle onde è più alto in inverno quando i consumi energetici sono maggiori.
Con i suoi 8.000 km di coste l'Italia possiede un potenziale energetico enorme, confrontabile a quello presente nei mari del nord. L'energia delle onde, pur presente in quantità enormi, non è di facile conversione in energia "nobile" o elettrica. Nobile perché di facile trasporto e facile trasformazione in altre forme energetiche.

 

Negli anni '70, quando partirono le politiche a favore delle energie rinnovabili, le onde del mare erano nella fase sperimentale come, tutto sommato, lo erano l'eolico, il solare, il fotovoltaico ed altre ancora. Oggi le onde rappresentano l'unica tecnologia che, purtroppo, ha deluso per i suoi alti costi e per la difficile implementazione fattiva. Un tecnologia rimasta in disparte, mentre le altre hanno conosciuto crescite enormi, come il fotovoltaico e l'eolico. Alle isole il mare, oltre che attrazione turistica potrebbe rappresentare il totale riscatto dal fabbisogno energetico. Ma al momento cerchiamo di far funzionare almeno i dissalatori. Non ci vuole poi tanto.

 

 

Alla gente piace la musica. L'intervento

 

Perché la musica piace? Ciascuno di noi, almeno una volta, si è posto questa domanda mentre ascoltava musica. Con molta probabilità non gli è stato facile darsi una risposta. La musica, come il canto che di essa è componente sinergico, esprime ed evoca emozioni. L'ascolto della musica stimola a livello cerebrale il rilascio della dopamina che gratifica il soggetto come può fare il cibo e il sesso. Nei piccoli la musica è percepita con piacere sin dai primi istanti di vita e, sovente, è usata per tranquillizzare i neonati. Secondo Darwin la musica, nei tempi, accompagnava il corteggiamento che avrebbe poi condotto alle giuste parole amorose.

 

Non possiamo non condividere il fatto che, con gli effetti più diversi, la musica piace proprio a tutti. Da Verdi ai Beatles da Carlo Buti a Rabagliati, a Mina e Atzei non c'è persona che non gradisca ascoltare una melodia. E poi quanti "dubbi" dei ricercatori sugli effetti formativi della musica: secondo i fisici americani Gordon Shaw e Frances Rauscher l'ascolto della musica di Wagner produce un temporaneo aumento delle capacità cognitive dell'ascoltatore e, sempre secondo loro, una migliore capacità cerebrale. Ma sarà poi vero? Adolf Hitler predileggeva la musica di Wagner riconoscendo in essa la capacità di esprimere tutta la forza del "barbaro" regime nazista. Non credo che Hitler amasse veramente la musica, per il dittatore questa era solo una delle icone plateali rappresentative del regime totalitario. Anche Mussolini amava ascoltare musica ma era più canzonettaro.

 

Al contrario di Hitler il Duce sapeva amare e sicuramente amava, non la musica ma le donne. Tutte, grandi e piccole, nubili e sposate. Alfred Tomatis, studioso francese di foniatria, dichiara che insieme all'orecchio tutto il corpo ascolta. Tomatis ha studiato le molte funzioni dell'orecchio umano, scoprendo che primariamente esso è un sistema per produrre la ricarica corticale e favorire il potenziale elettrico del cervello. Le persone che hanno tendenza ad essere stanche o depresse, hanno spesso una voce poco espressiva, priva di dinamica e ricca di frequenze basse o medio basse tanto da ritenere che una musica contenente frequenze acute possa essere di forte aiuto alle persone con danni neurologici.
Ma quali motivi portano le persone ad apprezzare la musica nei pubblici esercizi? Sicuramente la capacità rilassante e l'atmosfera di coesione e intimità che questa crea.

 

Tuttavia son tanti che vivono la musica come un fastidio, soprattutto quando il volume alto limita il parlare e il socializzare. Nei pubblici esercizi la musica migliora la piacevolezza del luogo purché non sia essa stessa attività predominante del locale stesso e non semplice accompagnamento della sua degustativa attività primaria.

 

 

 

L'INTERVENTO

 

di Aldo Natoli

 

Condivido quanto sostenuto dal Dott. Carlo D'Arrigo, quale Consulente acustico del Comune di Lipari. La musica, sopratutto per uno come il sottoscritto che ha fatto parte di tanti complessi, è sicuramente piacevole, rilassante ed interessante! Ma non condivido che i concertini serali nei locali pubblici debbano sulle strade superare determinati orari e diventare assordanti. Per questo tipo di intrattenimento ci sono le discoteche! Ricordo al Dott. D'Arrigo che il nostro è un Paese a vocazione turistica e quindi bisogna porre dei limiti! A tale proposito richiamo al Consulente D'Arrigo le Ordinanze del Comune di Capri e del Comune di Taormina.

 

Non sono avvezzo alle lamentele, il mio interesse è rivolto a "pezzi" di carattere tecnico-scientifico ma, oggi, sento di esternare questi pochi fatti. Domenica sera, per recarmi alla festa di San Cristoforo a Canneto, ho preferito evitare l'uso dell'auto optando per il pullman della Ditta Urso. Una scelta "logica" per snellire l'affollamento delle auto private e, tutto sommato, per far prima. Salgo quindi sul pullman al suo capolinea, all'inizio di via Cappuccini. Nell'acquistare i titoli di viaggio l'autista mi consiglia di farli con soluzione andata/ritorno. Trovo giusto il consiglio e così faccio. A Canneto, in piazza San Cristoforo, un vero putiferio. Non degno di una festa religiosa, sembrava di esser caduti in un giro dantesco. Alle voci gridate e inconsulte della gente si accompagnava un rimbombo senza soluzione di continuità, provocato da un gruppo musicale. Incomprensibile la voce del cantante, un vibrare ridondante e risonante di un coacervo di toni bassi cui un "fonico", a fronte del palco, non era in grado di far fronte. Incapace di dare un suono gradevole partecipava, anche lui, alla creazione di questa infernale bolgia dantesca. Forse un miracolo di San Cristoforo avrebbe potuto liberare la piazza da tanta invasione rumorosa. Un'idea peregrina mi ha portato a sedermi in un bar che frequento spesso quando sono a Canneto. Lontano 100 metri dai generatori del fracasso (sul palco) speravo di poter scambiare qualche parola con la mia compagna, ma era impossibile. Ho fatto in fretta per raggiungere il capolinea del pullman della Ditta Urso, ma impossibile accapararsi un mezzo. Arrivavano già pieni e non si poteva salirci su. Mi è stato detto che i pullman erano solo due, insufficienti per servire il gran numero di persone che erano in piazza. Incapace di organizzarsi la Ditta offriva un servizio caotico e pressochè inesistente. Dopo mezz'ora di attesa chiamo un taxi che, prontamente, mi riporta nel mondo civile all'inizio del

 

----Caro Sindaco ascoltami, piccole parole al primo cittadino che verrà

Caro Sindaco ascoltami, piccole parole al primo cittadino che verràCaro sindaco, non so se manterrai gli impegni presi con i tuoi cittadini durante i tuoi numerosi discorsi. Hai raccontato, insieme ad altro, che il tuo è un sacrificio dato senza chiedere; spirito di servizio puro. D'altra parte sono consapevole che i tuoi spazi di manovra sono limitati perché l'Europa, lo Stato centrale e la Regione Te li hanno limitati. Mi hai fatto capire che è facile criticare e difficile è fare le cose, in un clima di continua emergenza e in un insieme di disparate richieste. Lo dico convinto, pur sapendo che pochi la pensano come me.

Ciò che il cittadino comune può chiederTi è di impegnarti in ogni cosa che fai come se fosse la più importante, soprattutto quando si tratta di cose che chiede la gente comune. Se necessario lasciati fermare anche per strada, soprattutto se intuisci che l'argomento è di urgente e umano interesse per la persona che ti tira la giacca. Il quotidiano, la sommatoria dei fatti piccoli come piccole sono le persone, costituiscono i progetti e le grandi opere di cui dovrai interessarti.

Prendi a cuore chi non ha voce, chi non può raggiungerTi perché non conosce il tuo segretario o l'assessore della tua Giunta. Dai voce a chi non c'è l'ha. E soprattutto lascia aperta la tua porta. Oggi tanta gente ha bisogno di parlare, di chiedere e, sovente, persino di supplicare. L'ascolto e l'umiltà è il potere dei forti. Auguri Signor Sindaco, chiunque Tu sia.

AL VOTO AL VOTO!

La Grecia è considerata la culla della democrazia, è qui che nacque nel VI secolo avanti cristo nella città di Atene. Nella "polis", infatti, il potere politico era distribuito fra tutti coloro i quali erano considerati cittadini, maschi liberi e nati da cittadini ateniesi. Nessuna donna o schiavo poteva votare. La forma di governo di Atene era quella che oggi si definisce democrazia diretta, cioè in cui tutti i cittadini possono prender parte alle decisioni attraverso organi assembleari. Per molti secoli il concetto di democrazia scomparve per tornare all'alba dell'età contemporanea con le rivoluzioni del settecento in America e in Francia. A differenza di quella Greca oggi si parla di democrazia rappresentativa che risponde all'esigenza di rappresentare un gran numero di cittadini. Tutto il popolo, attraverso il voto, sceglie i suoi rappresentanti che andranno a comporre gli organi di governo. Il voto è un diritto e anche un dovere. E' la frase che si sente dire sempre prima di qualunque elezione, eppure non l'abbiamo ancora capito nonostante la libertà di voto abbia appena settant'anni. Era il primo febbraio del 1945, qualche mese prima della fine della seconda guerra, che il secondo governo Bonomi (precursore del Governo repubblicano di Enrico De Nicola) introduceva in Italia il suffragio universale con l'estensione alle donne del diritto di voto. Sono passati settant'anni e ci troviamo ancora una volta a confrontare i dati dell'affluenza alle urne e il vincitore è sempre l'astensionismo. Molte persone sono presi dalla frenesia quotidiana, gli impegni sono molti e si dimentica che in una provincia e anche in un comune la politica decide per te. Non importa per chi si voti, ciò che conta è che non si voti per un semplice favore personale. Si va a votare perché si crede in qualcosa. Nelle interviste realizzate da questo giornale ho avvertito che ognuno chiede, quasi sempre, qualcosa di personale che riguarda la sua attività, la tassa sul suolo pubblico o il contributo per l'acqua o la spazzatura. Purtroppo non è possibile sempre chiedere all'eleggendo organo amministrativo, sindaco con tutta la sua coorte, cose legate alla disponibilità economica quando questa, di fatto, non c'è. Ricordiamoci che i finanziamenti arrivano dai cittadini, con le c.d. tasse, e con i contributi regionali o di stato. Riporre la propria ira sul primo cittadino per una "sua" mancanza è, spesso, inutile. Infatti, sovente, il sindaco non ha avuto, o non è riuscito ad avere, la disponibilità economica per fare quella cosa che tanto ci interessava. E allora un sindaco vale l'altro? Non proprio, perché un primo cittadino, con i suoi collaboratori, deve avere un grande potere contrattuale che gli organi finanziatori (stato/regione) e deve dare la corretta priorità alle spese. Non dimentichiamo che da alcuni anni vige un grande disegno europeo che penalizza i popoli del sud Europa e di cui ognuno ne sta facendo le spese. Qualcuno la chiama crisi, ma il mio pensiero è ben espresso da quanto scritto. E' una "crisi" voluta. Ma di questo dovremo ricordarcene alle elezioni politiche. Al momento ricordiamoci solo che il voto è un nostro inestimabile diritto, oltre che un dovere.

PENSIERI SULLE CARATTERISTICHE DELL'ELEGGENDO PRIMO CITTADINOEro docente di Fisica, acustica in specie, e la politica amministrata non è stata mai di mio grande interesse, al di là dell'indispensabile "conoscenza dei fatti". Sto seguendo l'appassionato pluralismo che si è creato a Lipari in attesa delle elezioni dell'11 giugno e mi sono chiesto "come dovrebbe essere un Sindaco". Credo, ma son pronto a rivisitare il mio pensiero se errato, che prima cosa per un buon sindaco sia la capacità di saper ascoltare la voce della gente e di migliorarne le condizioni di vita, del singolo e della collettività. Questo vuol dire garantire i servizi, l'assistenza domiciliare ove è necessario, il trasporto pubblico, i servizi educativi sol per fare pochi esempi. Ma vorrei evidenziare "ascoltare la gente". Il buon sindaco deve governare pensando di proteggere il singolo e il bene comune e non la compattezza della sua maggioranza.

Allo stesso tempo deve mostrare il coraggio di attuare decisioni impopolari per il "bene" della sua gente. Il primo cittadino dove pertanto essere decisionista, trasparente, concreto, con grande capacità di ascolto e di coinvolgimento. Tenendo sempre aperta, entro i limiti del possibile, la porta del suo ufficio. Dicevo che deve coinvolgere le persone. Vorrei rievocare (per quanto confrontabile e conscio che il paragone è pressoché impossibile) il primo presidente della Repubblica Italiana Enrico De Nicola, eletto tale il 28 giugno 1946 in via provvisoria e presidente definitivo della neonata Repubblica Italiana il 1° gennaio 1948 e passato alla storia per la sua profonda onestà. De Nicola, appena insediatosi a capo dello Stato rinuncia immediatamente all'assegno di 12 milioni di lire al quale aveva diritto e, anche nelle occasioni solenni, continua a usare un vecchio cappotto rivoltato. Ma restando nell'ambito della funzione di Sindaco si può spostare il pensiero a Giorgio La Pira, sindaco di Firenze negli anni '60 e dal profondo impegno sociale e politico.

Queste sono alcune sue parole: "Non si dica la solita frase: la politica è una cosa brutta. No! L'impegno politico è impegno di umanità che deve convogliare a se gli sforzi di una vita tessuta di onestà, giustizia e carità." Un esempio fra tanti del Sindaco La Pira è che risolse il problema degli sfrattati facendo affittare al Comune un dato numero di abitazioni. E quando i suoi detrattori lo contestavano in Consiglio, Lui in difesa del suo operato così si esprimeva: "Voi avete nei miei confronti il diritto di negarmi la fiducia, ma non ditemi di disinteressarmi di chi è senza lavoro o senza casa o senza assistenza, perché quella sofferenza va diminuita e, possibilmente, eliminata". Sarà così anche per i nostri Sindaci? Difficile crederci. Certo so perfettamente che i tempi sono ben diversi ma l'umanità fa parte dell'intimo di ognuno di noi e, se c'è, non può che affiorare durante il suo operato.

NESSUNO SA CHE IL PRIMO PERSONAL COMPUTER E’ NATO IN ITALIA

Ero ragazzo, negli anni sessanta, quando la gente comune chiamava cervello elettronico qualunque marchingegno destinato a “fare i conti” e che si poteva vedere nei film di fantascienza e in televisione. La parola calcolatore non era stata coniata, e tanto meno quella di computer e di personal computer PC. Si conosceva solo la calcolatrice, meccanica e con tanto di manovella e tanto rumore durante il suo girare. Il concetto stesso di Personal Computer non era stato inventato e le prime macchine da calcolo si presentavano come enormi armadi con tanto di bobine di nastro magnetico che ruotavano per memorizzare i dati. Erano immagini da Star Trek e da film 007 che stimolavano la fantasia, più verso la stupidità che il progresso scientifico. I primi computer erano enormi, costosissimi e gestiti da pochi super specialisti. A dominare tanto desertico scenario erano le poche fondazioni americane come IBM (International Business Machines) e HP (Hewlett-Packard). In questo clima, a fine anni ’50, l’italiana Olivetti si innesta e imprime la storica svolta creando macchine di piccole dimensioni, utilizzabili da tutti e dal costo accessibile.

Un gruppo di giovani ricercatori, pionieri di un mondo ancora sconosciuto, si fanno artefici di qualcosa mai pensato prima. A guidare il team è uno sconosciuto (fin ad allora) ingegner Pier Giorgio Perotto, titolare di due lauree in elettronica e in aeronautica. Suoi collaboratori sono Giovanni De Sandre e Gastone Garziera. E’ dall’immaginario di questo improvvisato gruppo che nasce la Programma 101, la prima macchina al mondo da tavolo e che dà la possibilità di inserire programmi e dati anche a chi non ha mai avuto a che fare con queste emergenti diavolerie. Nel 1965 la Programma 101 è presentata alla fiera dell’automazione di New York riscuotendo un successo senza pari sulla Stampa statunitense. “The first desktop computer of the World”, Il primo computer da tavolo. Bill Gates, fondatore di Microsoft, e Steve Jobs, l’inventore della Apple, arriveranno ben quindici anni dopo quando l’era della digitalizzazione era già nata grazie alla genialità tutta italiana. Di Programma 101 ne furono prodotti ben 43000 pezzi e persino la Nasa ne comprò dieci per pianificare lo sbarco sulla Luna dell’Apollo 11.

L’Ing. Perotto nel 1991 ricevette a Milano il Premio internazionale Leonardo da Vinci per aver realizzato il primo Personal Computer al mondo. Grazie al lavoro di un gruppo di Italiani, inventori della moderna informatica, i giovani di oggi si formano per andare altrove, fuori dai confini della Terra che li ha fatti nascere. Vanno dove non servono le raccomandazioni e il voto di scambio ma solo la propria preparazione e genialità, tutta italica. Il Personal Computer, il PC, nasce quindi in Italia, Paese del sole, del mare e del mandolino. Ma soprattutto della voglia di fare, già esplosa nel dopo guerra e oggi spenta da un manipolo di politicanti miopi, ignoranti e, conseguentemente, inetti. Un’ultima orgogliosa nota, negli anni ’70 anche chi scrive ha usato una Programma 101. Un ricordo indelebile, chiaramente umano e non tecnologico.

ANESTETIZZARE PER FAR CREDERE CIO’ CHE FA COMODO

Dall’avvento della televisione, ormai più di sessant’anni, possiamo notare che quanto viene scandito dai programmi televisivi, pubblicitari e talk-show, è recepito per vero, con una capacità persuasiva che la radio, prima, non aveva raggiunto. Tutto è memorizzato e accettato in modo passivo, senza verificare se “è vero o non lo è, l’ha detto la televisione e basta”. E questo, purtroppo, accade per tutte le informazioni che il grande mezzo ci passa, dal detersivo ai dibattiti politici, o pseudo tali, alle informazioni economiche. L’hanno detto in tv e non si discute. In televisione si svolgono veri processi, persino penali, si colpevolizza e, in rari casi, si assolve. Dare la colpa a qualcuno apporta, di solito, più piacere che considerarlo innocente. Da sempre si crocifigge per sentirsi puliti. Si fa tutto inconsciamente, certi di sapere la verità. Al supermercato si compra l’acqua che fa digerire, anche se costa il doppio: la salute viene prima di tutto. Ma perché c’è un’acqua che fa digerire? Si è tanto certi che qualcuno, leggendomi, mi starà considerando un gran somaro. Come non sai che c’è l’acqua che fa digerire?!!

Quando un giornalista o un conduttore televisivo parla sembra proprio che parli “personalmente” con chi sta a casa dando a noi, ignoranti dell’argomento che sta trattando, la posizione di giudici. Spesso nemmeno lo speaker conosce bene l’argomento e lo tratta per pura necessità, è il suo lavoro e basta. Diventa un discorso fra sordi, anzi fra ignoranti. Così ci convinciamo (o ci convincono) che un “politicante” è più bravo di un altro e che risolverà la crisi regalando lavoro e benessere. Pensate che son stati tanto bravi che ci hanno convinto che c’è la crisi e che, per risolverla, dobbiamo abbandonarci anima, corpo e soldi all’UE. Ma non mi permetto di andare avanti sull’argomento, preferisco tornare alla tipicità del messaggio televisivo.

La tv monopolizza l’attenzione dello spettatore orientandolo a seguire una notizia effimera distogliendolo da una più importante e che non si vuole evidenziare. Basta insistere più volte sulla stessa informazione, essere ripetitivi, perché questa acquisti lo smalto della verità. Così ci hanno convinto che la pubblica amministrazione non funziona perché ci sono i “furbetti del cartellino” senza dire che all’interno di qualunque ufficio pubblico il dipendente non lavora, anche se arriva in perfetto orario. Anzi è felice di comportarsi da assenteista-presente o, che è la stessa cosa, da presente-assenteista. Così è facile che un procedimento si blocchi perché l’impiegato ha scoperto che manca la firma del dirigente di un altro ufficio o che manca un documento senza preoccuparsi di portare il documento a firmarlo o a chiedere, via ufficio, la documentazione che manca. E ancora tralascia di comunicare all’interessato i necessari adempimenti per completare la cosiddetta “pratica”. E tutto dorme in un angolo della sua scrivania. Ma è arrivato in perfetto orario! Questa non è burocrazia, è assenteismo. Esattamente come, e ancor peggio di quello orario. Ma nessuno pone rimedio a tale sfascio, perché tale e tanta lentezza fa comodo a tutti, anche a chi ha piazzato quel dipendente a quel posto. E’ tutto organizzato perché nulla funzioni.

E allora anestetizziamo la gente attraverso apocalittici proclami di assenteismo. Come si sa la massa è credulona e si convince che chiudendo in scatola l’impiegato tutto funziona. Tullio De Mauro, insigne linguista scomparso ai primi del corrente 2017, aveva stimato in ventiquattro milioni gli analfabeti, i semi-analfabeti e gli incapaci che vivono in Italia. La pubblica amministrazione, sommando dirigenti impiegati d’ordine e factotum, ne occupa poco più di tre milioni. Cercherò di capire dove sono gli altri ventuno milioni.

LA VOCE MAGICA DEL MARE

Dei benefici del mare si parla tanto, l’acqua è utilizzata per svariate terapie e per cosmesi a fini di bellezza, ma del suono del mare si parla solo di recente, nonostante abbia sempre agito su di noi con benefici effetti positivi. Il rumore dell’acqua di mare che si infrange sul bagnasciuga, con il suo andirivieni di onde, produce un sibilo leggero, uno speciale suono, il quale è stato scoperto essere ben curativoper le persone. E’ questo il “rumore bianco”, chiamato così perché prodotto dalla somma di tutte le frequenze udibili in analogia alla luce bianca, ottica, prodotta dalla somma di tutti i colori dell’iride. Il rumore bianco è simile al suono, al fruscio, del vento tra gli alberi, allo scroscio di una cascata. E’ simile al rumore della pioggia e a quello di un ventilatore e persino il rumore presente all’interno di un aereo di linea durante il volo è un rumore bianco. Certo non quello all’interno di un aliscafo che, al contrario è forte, disturba e rende irascibili.

Unico nelle sue caratteristiche, il suono del mare fa rilassare edona all’uomo equilibrio psico-fisico. Il corpo riposa, si rilassa, ponendosi come in presenza di un potente antidepressivo. Il rumore bianco può avere effetto antidolorifico e rasserenante piuttosto efficace nel caso di dolori come la cefalea e il mal di denti. Con il rumore bianco le emozioni si calmano e la mente comincia a produrre onde cerebrali estremamente benefiche misurabili, tra l’altro, con l’elettroencefalografo: sono le onde alfa e le onde theta. In queste situazioni ci capita persino di fantasticare, costruendo quel mondo che esiste solo nell’inconscio e nei desideri.

Questo suono della natura è il sottofondo ideale per lo studio e le sessioni di convalescenza.

Il rumore bianco è perfetto per mascherare i rumori del traffico o il pub sotto casa. In altre parole permette al cervello di non sentire più i suoni provenienti dall’esterno, cancellandoli e sostituendosi ad essi. E il cervello, da parte sua, non registra il rumore bianco come fonte di disturbo perché si adatta a tutti i suoni ripetitivi e ritmici, arrivando persino ad ignorarli.

Il ritmo dell’attività celebrale rallentapassando da una frequenza alta con onde celebrali piccole, brevi e frequenti, caratteristiche tipiche dell’attività frenetica (le cosiddette onde encefalografiche beta) a frequenze più basse, ampie e lente denominate onde alfa. E’ la caratteristica fase del dormiveglia. Proprio queste onde celebrali, basse e lente stimolate dal rumore bianco del mare, ci avvolgono in una perfusa sensazione di benessere. Oggi si son create nuove discipline, come lo yoga,  che mirano a portare la mente a forme frequenti di rilassamenti vari inducendo la mente al sereno allontanamento del vivere frenetico. In queste si inserisce sicuramente l’esposizione al lento e riposante sciabordio delle onde marine. Il rilassamento non riduce le facoltà intellettive ma le espande donando più memoria, creatività e voglia di fare. Non resta che dormire vicino la battigia.

L'INTERVENTO

di Maurizio Pagliaro

Rumore bianco

Caro Carlo, in tanto grazie e penso di dirlo a nome di tanti, per i tuoi articoli  comprensibili a tutti. Purtroppo le battigie non ci sono piu', si parla solo di " portoni ". Progettiamo  le case con piscina , sara' l'unico modo per fare un bagno.

PERCHE’ L’ATOMICA AMERICANA ANTICIPO’ QUELLA DI HITLER

La minaccia di una bomba atomica nelle mani del regime nazista del Terzo Reich fu uno dei motivi principali che portarono alla creazione del progetto britannico Tube Alloys (tubi in lega, nome in codice del progetto atomico), che venne ampliato con l’attuazione del Progetto Manhattan, il programma americano di ricerca militareche condusse alla realizzazione delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Vennero assoldati parecchi rifugiati europei provenienti dalla Germania, dall’Italia e dall’Ungheria, contribuendo in modo significativo allo sforzo nucleare alleato. Il governo di Hitler, invece, non finanziò mai un programma di ricerca per le armi nucleari, dato che il Führer riteneva di essere già prossimo alla “immancabile vittoria” con le armi tradizionali. Così il programma tedesco fu ben più limitato, sia nel numero di scienziati sia nei finanziamenti, se posto a confronto con il progetto americano Manhattan. Un differente dibattito storico si è soffermato sulla possibilità che gli scienziati tedeschi abbiano sabotato volutamente il progetto, sottostimando le loro possibilità di successo di fronte ai responsabili nazisti, o se invece le loro errate valutazioni si basarono su errori concettuali o sulla loro incapacità.

Nei tempi sono state tante le spiegazioni del fallimento del programma nucleare tedesco. Una di queste, platealmente attendibile, è che le politiche repressive di Hitler incoraggiarono molti grandi scienziati a fuggire dall’Europa, tra cui tanti che poi lavorarono al progetto Alleato Manhattan. Persino Werner Heisenberg, scienziato di riferimento tedesco per la ricerca sul nucleare, fu bersaglio della propagandanazista e tenuto d’occhio dalla terribile polizia Gestapo. Chiaramente l’opprimente atmosfera politica totalitaria influì negativamente sulla qualità del lavoro scientifico svolto. Non dimentichiamo che in Italia, alleata ai Nazisti, lo stesso Enrico Fermi, padre della fissione nucleare, fu costretto a fuggire in America ‘semplicemente’ perché sua moglie, Laura Capon, era ebrea. Ma, forse, questo è stato un segno divino che ha evitato che “l’atomica” cadesse in mano Italo-Tedesca. I principali storici statunitensi hanno sempre negato che la Germania fosse vicina al successo nel produrre una vera arma atomica, sebbene abbiano citato una quantità di prove che indicano il contrario.

Nel 1933, quando Hitler assunse il potere in Germania, Albert Einstein diede le dimissioni dall’Accademia prussiana (con sede a Berlino) per stabilirsi nel New Jersey, a causa dell’antisemitismo creato dall’intolleranza nazista. Nel 1939, all’esordio del secondo conflitto, anche il fisico danese Niels Bohr giungeva in America annunciando che a Berlino gli scienziati avevano scoperto la fissione nucleare. Fu allora che Einstein, temendo che Hitler avrebbe potuto usare la bomba per mettere il mondo ai suoi piedi, scrisse una lettera al presidente Roosevelt per indurre il governo americano ad avviare un programma di ricerche nucleari. Roosevelt dette vita a una serie di iniziative che portarono al famoso Progetto Manhattan che riunì a Los Alamos, nel nuovo Messico, un gruppo di scienziati guidati dal fisico americano Robert Oppenheimer per giungere “all’atomica”. Einstein, però, non aderì mai al progetto e, secondo voci, si sarebbe addirittura pentito di aver firmato quella lettera.

Avrebbe firmato, invece, un appello indirizzato al presidente Truman che il 12 aprile ‘45 era succeduto a Roosevelt, allora deceduto, dove si deprecava l’uso della bomba. Quando il 6 agosto del 1945 la sua segretaria gli comunicò la notizia appresa per radio della bomba atomica sganciata su Hiroshima, Einstein si lasciò sfuggire un “Oh weh”, ahimè, che riassumeva tutta la sua preoccupazione. Quella bomba, insieme a quella sganciata su Nagasaki, aveva ucciso oltre centomila uomini ma ne aveva salvato milioni con l’accorciarsi della guerra. Probabilmente se gli Americani fossero arrivati in tempo per usare l’atomica in Europa avrebbero ucciso un gran numero di persone, ma se ne sarebbe salvato sicuramente un numero maggiore.

Secondo Einstein, quella bomba, aveva distrutto ben più della città di Hiroshima. Aveva piegato il desiderio di vivere dell’umanità, “Si è conquistata la vittoria, ma non la pace”, scrisse. E battendosi in nome della pace, Einstein era convinto che il genere umano poteva essere salvato dagli orrori della guerra solo da un governo internazionale ispirato alla non violenza teorizzata da Mahatma Gandhi. “Se sarete capaci di farlo si aprirà la via del Paradiso, altrimenti sarà davanti a voi il rischio della morte universale”. Così terminava il “testamento” di Albert Einstein, uno dei più grandi geni dell’umanità.

ALLE ORIGINI DELL’HACKERAGGIO.

 

seconda parte di due  

 

     I Nazisti, in realtà, scambiarono informazioni in maniera segreta e indecifrabile solo nella primissima parte della guerra, illudendosi che la codificazione di Enigma fosse sempre e sicuramente inviolabile.

 

I genieri tedeschi erano convinti che per decifrare uno dei 15.600 codici, era necessario almeno un mese di tempo e un gruppo di matematici altamente esperti. Enigma rappresentò per i tecnici tedeschi un elemento di orgogliosa potenza e di ingenua arroganza.

 

Per “sconfiggere” Enigma Churchill incarico Turing di organizzare il centro sulla comunicazione cifrata di Bletchley Park, nel Buchinghamshire, formato da un gruppo scelto fra le migliori menti del paese.

 

Nel 1944 la squadra di Turing contava ben seimila persone, ed era composta da civili e militari, linguisti e geni della matematica, crittografi ed enigmisti, esperti e illuminati docenti di Oxford e Cambridge. Per svelare i segreti di Enigma, Turing e collaboratori, realizzarono Colossus, il primo calcolatore britannico completamente elettromeccanico impiegato per provare a enorme velocità tutte le possibili combinazioni dei codici della macchina crittografica nazista.

 

La decodifica del codice di Enigma costò alla Marina italiana tre incrociatori pesanti e due caccia torpedinieri nella battaglia di Capo Matapan del 28 marzo 1941. Questo perché gli Inglesi seppero fin dall’inizio le strategie e i movimenti della nostra flotta.

 

Quando i tedeschi capirono che troppo spesso le loro intenzioni erano anticipate dallo Stato Maggiore britannico, decisero di rendere più complesso il sistema di codifica della loro macchina crittografica. Fu allora che Turing e i suoi collaboratori furono indotti a rischiare il grande passo, sostituire ai componenti elettromeccanici la valvola termoionica inventata da Fleming e dall’americano De Forest e usata fino ad allora solo nei sistemi di telecomunicazione.

 

L’incognita stava soprattutto nell’affidabilità di queste valvole, usate fino a quel momento come amplificatori di segnali, che ora invece avrebbero dovuto svolgere la funzione di contatore di stato e cioè di bit, di 0 e 1, con un’operatività ben più gravosa. Colossus pesava più di una tonnellata ed era in assoluto il primo elaboratore elettronico della storia.

 

Pur non avendo memoria e programma interno, era dotato di una potenza di elaborazione equivalente al più piccolo microchip degli anni ’90. Era in grado di trattare oltre 4.600 caratteri al secondo e di decifrare ogni giorno, dopo avere scardinato il sistema crittografato di Enigma, più di 1000 messaggi segreti tedeschi e altrettanti giapponesi e italiani.

 

La Battaglia delle Midway del giugno ’42, combattuta fra Stati Uniti e Giapponeper il predominio nell’area dell’Oceano Pacifico, vide la schiacciante vittoria dei primi e il declino del secondo, il quale fino a quel momento era passato di vittoria in vittoria. I giapponesi stavano cercando di infliggere la "spallata" decisiva agli americani e avevano individuato nel caposaldo dell’Atollo di Midway il punto debole dello schieramento avversario.

 

Gli Americani, però, avevano decrittato i codici militari giapponesi ed erano informati che l’obiettivo principale sarebbe stato Midway, per cui tesero un tranello ai nipponici diramando la falsa notizia che Midway fosse senza riserve d'acqua potabile per un guasto al dissalatore di acqua marina. Il messaggio venne trasmesso in un codice cifrato di cui era segretamente nota la violazione da parte dei Giapponesi i quali, nei successivi comunicati, iniziarono a parlare del "problema" della sete che affliggeva l’isola.

 

Quando furono note le date dell’attacco, i giapponesi constatarono, con grande loro sorpresa, di aver di fronte l’intera forza navale statunitense. E ancora, durante il conflitto del Pacifico grazie alla decodifica dei messaggi cifrati, gli Americani decisero di eliminare definitivamente la mente strategica del nemico: abbattere l'aereo che trasportava l'ammiraglio Isoruko Yamamoto che puntualmente avvenne il 18 aprile 1943 sulla verticale delle Isole Salomone.

 

Le forze dell’Asse scopriranno di essere stati craccati, come si direbbe adesso, solo alla fine del conflitto! Gli anni del dopoguerra fecero registrare un forte avanzamento nella progettazione dei calcolatori. Furono gli anni in cui dominarono i giganti

 

dell’elettronica da calcolo, chiamati giganti per via del loro peso e delle loro dimensioni. Come nel caso dell’Eniac, il calcolatore realizzato nei laboratori IBM con la collaborazione dei ricercatori dell’Università di Harvard. L’Eniac, occupando diversi piani di un grande edificio, effettuava le operazioni che oggi possono essere eseguite da un computer da taschino.

 

Dopo il periodo bellico, nel 1952, Turing fu arrestato per violazione delle severissime leggi britanniche contro l’omosessualità e sottoposto a cure distruttive che lo condussero al suicidio. Le sue idee però continuarono a vivere e a svilupparsi, e il Pc che teniamo sul nostro scrittoio deve anche a Turing la sua esistenza.

 

I suoi sistemi permettono di “mettere in piazza” le idee di tutti, a disposizione di chi ha un po di dimestichezza con queste “semplici” macchine. Intercettare è ormai un gioco alla portata, quasi, di tutti. La gente comune si sorprende solo perché ignora come funzionano i sistemi di comunicazione. Ciò che fa la differenza fra una intercettazione e un’altra è solo l’interesse reale che si ha fra la prima e l’altra. Intercettare tutto e tutti è impossibile, oltre che inutile.

 

Mutuando la frase che avrebbe detto Napoleone durante la campagna di Russia “il Generale Inverno decimerà l’Armée” possiamo dire che le intercettazioni sono limitate dal “Generale tempo” e, quindi, dal rapporto interesse-tempo che si ha per effettuarle. La gente “normale” può continuare a vivere e parlare tranquillamente, nessuno avrà il tempo per interessarsi di loro.

 

 

 

ALLE ORIGINI DELL’HACKERAGGIO.

                                                         prima parte di due                          

Alle origini dell’hackeraggiodei fratelli Occhionero, la coppia che si introduceva nei sistemi informatici dei “grandi”, c’è la storia dell’intelligence che affonda le sue radici nella notte dei tempi.

Da sempre l’uomo ha sentito la necessità di sapere ciò che fa il suo “amico o nemico”, per prevederne le mosse, per sconfiggerlo economicamente o, comunque, per carpirgli i segreti della sua vita. In altre parole per star meglio lui e depredare l’altro.

L'attività non riguarda solo lo spionaggio di Stato svolto dai servizi segreti a fini militari ma è estesa alla conoscenza illecita di informazioni industriali, commerciali ed economico-finanziarie.

Quello militare è la forma più antica di spionaggio, essendo stato praticato fin dall’epoca dei Sumeri dal 4000 a.c. con lo scopo di conoscere in anticipo le intenzioni degli avversari e identificare i nodi vitali del nemico per pianificare le offensive di attacco.

Come ebbe a dichiarare Napoleone Bonaparte (1769-1821) "Chi colpisce prima colpisce due volte". Nel corso della storia, molte battaglie e complesse decisioni politiche e militari sono dipese dall’attività di spionaggio.

In tempi recenti si può dire che la seconda guerra mondiale abbia dato il via alla decrittografia come la intendiamo oggi, dato che già allora i sistemi di cifratura-decifratura avevano raggiunto livelli di complessità ben elevati.

La battaglia tecnologica che coincise con questo conflitto diede lo spunto all’ottimizzazione dei processi matematici, prima meccanici e poi con l’introduzione dei dispositivi elettronici e delle valvole, di calcolo rapido e preciso, creando gli antenati dei moderni computer. Potrà risultare inverosimile ma i “personal computer” che utilizziamo quotidianamente sono frutto di un processo iniziato nel 1642 con il filosofo francese Blaise Pascal.

Questo costruì la prima calcolatrice meccanica capace di eseguire le quattro operazioni e la radice quadrata. Si trattava di esemplari artigianali, unici, che servivano soltanto a dimostrare la possibilità di effettuare calcoli senza l’ausilio della mente umana.

Ma è con Pascal e, pochi anni dopo, con il matematico tedesco Gottfried von Leibniz, ideatore di una calcolatrice in grado di eseguire operazioni più complesse, che prende avvio quel filone scientifico e tecnologico che porterà alla nascita e allo sviluppo di quella che oggi chiamiamo “informatica”, la scienza che studia l’elaborazione e il trattamento automatico delle informazioni.

Una scienza giovane, il cui termine è stato formulato per la prima volta nel 1962 dall’ingegnere francese Philippe Dreyfus contraendo le parole ‘information’ e ‘automatique’.

I primi passi, di quella che possiamo definire la storia del computer, si possono datare al 1925, quando il professor Vannevar Bush e altri docenti del Massachusetts Institute of Technology (il prestigioso Mit) progettarono il “Differential Ana1yzer”, il primo calcolatore meccanico dall’uso facile e accessibile in grado di risolvere equazioni differenziali con ben diciotto variabili indipendenti. Fu indubbiamente questa la prima macchina che poteva vantare, sebbene in modo ancora improprio, il termine di computer.

Ma arriviamo al 1939. La seconda Guerra mondiale è alle porte e accanto a soldati e comandanti di truppe, anche i matematici entrano in guerra, soprattutto per quello che riguarda la battaglia di intelligence. Questa sorta di guerra invisibile venne combattuta da ingegneri, fisici, matematici e linguisti sia degli Angloamericani sia delle forze dell’Asse Italiano-Tedesco-Giapponese.

Combatterono silenziosamente, fra equazioni e cifrari, codici e sistemi di permutazione alfabetica. Erano gli scienziati che, da una parte e dall’altra, si occupavano di decodificare i messaggi cifrati dell’avversario e criptare i propri.

Come Einstein fu uomo simbolo della fisica e Fermi scienziato di riferimento dell’era atomica, Turing fu il matematico inglese che, in pieno tempo di guerra, diede il via alla scienza informatica. Nato nel 1912 e morto suicida nel 1954, Turing nel 1936 presentò un suo studio riguardante una macchina calcolatrice di uso generale per la soluzione di tutti i problemi matematici. La teoria del matematico inglese era di costruire una macchina in grado di leggere un nastro continuo suddiviso in più parti.

Il calcolatore avrebbe dovuto leggere le istruzioni della prima parte, le avrebbe eseguite, e poi sarebbe passato a una successiva parte del nastro per ripetere lo stesso processo. Questo metodo di impostazione della macchina di Turing, convinse gli specialisti dell’epoca sulla possibilità di creare una sorta di intelligenza artificiale.

Durante il conflitto Winston Churchill incaricò Turing di decrittare i messaggi tedeschi codificati con “Enigma”, la macchina crittografica realizzata nel 1925 dal berlinese Arthur Scherbius e utilizzata dall’Esercito del Reich per codificare i messaggi.

L’Enigma, mediante un insieme di commutatori elettrici e tamburi rotanti più simili a un orologio che a un computer, permetteva di permutare la composizione delle lettere e delle parole secondo codici prestabiliti e conosciuti solo dal destinatario del messaggio.

 

ASSOLUTAMENTE, SI - NO?

Posso iniziare questo pezzo con Vergogna? Il Direttore me lo permette? Assolutamente no! Vergogna per chi? Voglio essere franco fin dalla prima riga: per chi usa continuamente l’avverbio assolutamente.

Dopo l’unificazione d’Italia la lingua non era univoca, anzi era facile che un Piemontese non comprendesse un Siciliano. E ciò si protrasse fino ai primi del 900 quando, durante la prima guerra, i soldati non comprendevano gli ordini dei superiori di…lassù. Una realtà, già allora, di lontana origine se si pensa che Alessandro Manzoni nel 1806, prima dell’unificazione, riconosceva che l’Italiano non era parlato dal più della popolazione che, a questo, preferiva dialetti locali intrisi di francesismi. Il primo passo per unificare la lingua e a fare il cosiddetto “Italiano” fu dato da una alfabetizzazione capillare lungo tutta la penisola, un processo che, di fatto, portò alla creazione di tanti dialetti “italianizzati” che ancor oggi si avvertono comunemente nelle cadenze foniche della lingua parlata.

Già a metà del diciannovesimo secolo (1860) con la “Coscrizione scolastica”, come era chiamato l’obbligo scolastico, si prendeva contezza dell’istruzione di massa, sebbene non tutte le famiglie avessero la possibilità di mandare i figli a scuola. La vera obbligatorietà del percorso scolastico fino ad almeno il quattordicesimo anno di età, si ha nel 1923 in epoca fascista per mano dell’allora ministro Gentile. Ma superato l’insegnamento scolastico, supposto che questo sia stato sufficiente, da dove apprende il cittadino medio? E qui subentrano i mezzi di informazione di massa e i quotidiani rapporti sociali con il “prossimo”. La stampa, a dir vero, è ancor oggi letta solo da una élite e a fare la parte del leone nell’informazione è la radio, fin dal lontano 1924, e la televisione dal ’53 in poi. Anzi “assolutamente” la televisione. Ma perché “assolutamente”, non bastava dire “anche la televisione”? L’uso frequente di “assolutamente si” e “assolutamente no” è divenuto un fenomeno sociolinguistico di genesi mediatica e, allo stesso tempo, un tormentone cacofonico. L’ha detto la Televisione, e quindi è norma! È come dire che più bianco non si può. E così l’audio televisivo rimbomba frequentemente di assolutamente si – no.

L’influenza sull’italiano popolare dei modelli linguistici televisivi è preponderante su quella dei modelli letterari. Secondo le statistiche, infatti, la lettura in Italia è un fatto marginale. L’abuso dell’espressione assolutamente, mai giustificata da esigenze semantiche, testimonia l’influenza sulla lingua italiana del lessico televisivo piuttosto che del racconto scritto, della lettura. Ma è anche indice, come dottrina l’insigne linguista Tullio De Mauro morto il cinque di questo mese, di un linguaggio “aggressivo e perentorio” che non ammette repliche. Di chi parla in modalità “assoluta”, dittatoriale. Una sorta

di trasferimento sul linguaggio della violenza sociale cui assistiamo ogni giorno. Forse anche l’avverbio assolutamente va ad uniformarsi a quella forma di sudditanza, di assoluta sottomissione, impostaci dai governi europei e non. Per piacere evitiamo di ripetere assolutamente, è assolutamente inutile. Grazie.

 

CORSA AL DISORDINE E CIVILTA' DEL BENESSERE

Accanto alla liberazione di minerali che la Terra custodiva nella loro forma chimica più stabile, si è aggiunta una infinità di composti creati dall'uomo e incompatibili con la fisiologia delle specie animali e vegetali. Al progressivo impoverimento naturale si associa una continua produzione di scarti, procedendo verso uno stato di disordine o di "entropia" dell'ecosistema.

Si sa che l'energia non può essere creata nè distrutta, si conserva, e la sua quantità totale nell'universo è costante. Bruciando un litro di carburante per muovere un'automobile, l'energia potenziale del combustibile si trasforma in energia di movimento, in calore e in residui di combustione. Una quota di energia del carburante va persa in calore e in residui vari. Ben sanno gli esperti che se tutto il carburante fosse convertito in energia di movimento nell'auto non avremmo bisogno del radiatore (di calore), della pompa dell'acqua, della ventola e di tutti quei tubicini che ingombrano il vano motore. Sono questi accessori che non fanno parte del "vero" motore ma che sono indispensabili per non far andare... in fumo la macchina. Tutti i processi di trasformazione di questo mondo battono il tempo della degradazione.

Una volta trasformata, l'energia di quel litro di carburante non potrà più essere recuperata ma si trasforma (secondo le sue componenti di movimento, di calore ecc.) in uno stato stabile e irreversibile. Entropia è la grandezza che esprime la tendenza di un sistema a portarsi verso uno stato di equilibrio in cui non sarà possibile alcuna ulteriore trasformazione. In termini di probabilità, l'entropia, è la tendenza di un sistema a raggiungere lo stato di "massima probabilità" della meta finale. E' più facile che un edificio abbandonato per millenni ritorni allo stato di polvere che un mucchio di mattoni si ristrutturi da solo per ricomporlo. Il disordine è più probabile di ciò che chiamiamo ordine. E' l'informazione adatta che manca ai mattoni per ricomporsi. Informazione come conoscenza organizzata, come aumento di "ordine".

Traspare quindi come in un edificio l'informazione sia maggiore che non in un ammasso di terra. La Terra vive una corsa verso il disordine. Questo processo a senso unico, sebbene compreso da oltre un secolo, non ha mai attratto l'attenzione se non di una piccola élite di esperti. Oggi fra crisi energetica e non, fra inquinanti chimici e fall-out nucleari l'entropia si ripropone all'attenzione. Malati di produttivismo, di incalzante immediato benessere, consideriamo solo gli aspetti economici del problema.

L'esaurimento delle materie prime e il bisogno energetico ci sembrano gli unici limiti allo sviluppo; il vero limite all'ingigantimento industriale sta nella degradazione della materia. Più energia impieghiamo per estrarre, produrre e consumare, più l'entropia della materia aumenta. Ogni organismo biologico è un sistema dissipativo; riceve energia dall’esterno e la consuma. Per continuare la sua vita e conservare il suo ordine interno deve ricevere entropia negativa dall‘ambiente trasferendo, a questo, quella generata dai suoi processi metabolici. Spesso accertamenti di laboratorio riduzionistici, uniti a una ricerca microbiologica impari alla enorme struttura degli edifici microscopici, tentano di decifrare lo scatenarsi di malattie degenerative.

Ci illudiamo così di contrapporre la tecno-chimica alla ribelle proliferazione neoplastica, all’insensibilità acquisita dalle cellule ai meccanismi regolatori. Tentiamo poi di curare, con sostanze certo non fisiologiche, la stessa alterazione del flusso in entrata all’organismo o dell’anzidetta entropia negativa. Comincia a essere chiaro che le malattie degenerative sono il degrado introdotto dall’esterno all’essere biologico. Disordine, mancanza di informazione, diminuito rifornimento di entropia negativa dall’esterno.

Rimane sempre il sogno di poter inventare l’anticorpo selettivo. La cultura tecnologica ci porta a studiare l’organismo vivente come una macchina, distruggendo e sostituendo l’organo difettoso. La realtà è che per certe patologie, come il cancro, il rapporto con l’ambiente è certo. Le statistiche demografiche indicano che nel 1880 una persona su cinquanta moriva di cancro; oggi una su quattro è destinata a tale fine. Le zone industrializzate denunciano una ascesa della patologia oncologica in ogni fascia di età. La stessa diagnosi precoce non è profilassi. E’ illusorio pubblicizzarla come rimedio; eliminare le prime "'degenerazioni” può solo spostare temporalmente il problema donando anni di vita in più. Non è questo il rimedio che ripristina la norma del flusso in entrata all’organismo. Fino a qualche secolo addietro il problema del rendimento di una trasformazione fisica non aveva attratto l’attenzione della scienza. Il concetto di entropia è oggi largamente acquisito e l’entità degli effetti non visibili è superiore a quella degli effetti apparenti.

Sono le trasformazioni industriali che conducono a sbilanciare il rifornimento di entropia necessaria a mantenere l’ordine biologico interno. La stabilità degli ordinamenti imposti dall’uomo è apparente perché limitata è la visuale con cui li costruisce. Dopo quattro miliardi di anni l’evoluzione biologica inverte in una tendenza involutiva; accanto ad una diminuzione delle varietà delle specie si generalizza una decadenza della loro qualità istochimica, del loro ordine interiore, della loro informazione. Negli ultimi tempi, con grande superficialità e attraverso l’ingegneria genetica e manipolando il DNA, si pretende di assumere la direzione tecnocratica della biogenesi. Probabilmente l’uomo è andato al di là del suo mandato terrestre. Il viaggio dell’umanità non sta nello scoprire nuove terre ma nel guardare con nuovi occhi.

LA SPIA DEI CIELI HA OTTANT’ANNI

La notte del 26 maggio 1937 nel campo militare di Fort Monmouth, nel New Jersey, si respirava un’aria di ansiosa attesa, come se si stesse aspettando un evento grande e unico. Un gruppo di quasi trenta persone operava attorno ad enormi e complesse apparecchiature elettroniche attraverso le quali il Signal Corps - il reparto delle telecomunicazioni delle Forze Armate americane - stava dimostrando di poter rilevare gli aeroplani in volo anche a grande distanza.

Sul posto si trovava il Personale militare di Fort Monmouth al completo, insieme al Segretario del Ministero della difesa Harry Woodring accompagnato dai generali di stato maggiore della marina e dell’aeronautica che, fino a quel momento, avevano solo una vaga conoscenza di ciò che i servizi ingegneristici della difesa avevano preparato. Ma la dimostrazione non era riservata soltanto agli alti gradi del genio militare; tra gli ospiti presenti vi erano i membri del Congresso con il compito di decidere, per conto della Casa Bianca, i piani strategici più importanti e gli investimenti più immediati per dotare le forze militari delle Nazioni Unite delle armi più sofisticate. Ciò che bisognava decidere era se finanziare o meno il Signal Corps nella realizzazione di questo miracoloso strumento elettronico capace di rivelare aerei in volo prima che questi giungessero sull’obiettivo. La Luftwaffe, l’aviazione tedesca comandata da Goering, minacciava di oscurare i cieli di Europa e il bisogno di uno strumento di tal genere era particolarmente sentito dalle democrazie di tutto il mondo.

Quel giorno si stava dimostrando che era possibile rilevare a ben duecento chilometri di distanza gli aerei nemici mediante un’apparecchiatura assolutamente originale, il radar. I visitatori erano sparsi attorno ad intrigate matasse di fili, cassoni e antenne gigantesche puntate verso il cielo. Al centro del campo una radio trasmittente era pronta per inviare un fascio di onde verso l’alto, in direzione dell’aereo da intercettare; due sensibili antenne riceventi erano dislocate ai lati del campo per raccogliere l’eco delle onde riflesse e stabilire l’altezza e l’angolo di inclinazione del velivolo. Fort Monmouth rappresentava il traguardo prescelto per la prova dagli aeroplani che dovevano simulare l’attacco nemico. Gli aerei erano dei bombardieri B-10 partiti dal vicino Mitchell Field e in volo a luci spente verso il campo; il pilota di uno di questi stava compiendo un giro a 30 miglia a nord di Fort Monmouth.

Gli ufficiali a terra osservavano uno schermo per individuare la rotta dell’aereo e, ad un ordine prestabilito, un proiettore luminoso centrava in pieno con i suoi raggi l’aeroplano in volo. Fù la vittoria. L’esperimento venne ripetuto più e più volte ottenendo sempre risultati assolutamente precisi. Gli ospiti erano entusiasti e tornarono a Washington certi di essere stati testimoni di un evento storico. Pochi giorni dopo il segretario alla difesa scrivevaformalmente al Generale Allison, Comandante del Signal Corps, queste parole: “La dimostrazione da voi effettuata ha dato tangibile evidenza del forte stato di avanzamento tecnico-scientifico nel campo delle apparecchiature di osservazione aerea; allo scopo di accelerare lo sviluppo dell’invenzione, ritengo giusto destinare, per il prosieguo dell’impresa, un primo budget di 40.000 dollari”, una somma fantastica per quei tempi. Il sette dicembre de1’41 1’impianto radar dal codice Scr 270 rivelò a 150 km di distanza aerei non identificati che si dirigevano su Pearl Harbor ma i suoi segnali non furono presi sul serio, e fu la tragedia.

L’Inghilterra, che sentiva più acuto il pericolo bellico, già nel 1938 aveva iniziato la costruzione di impianti radar su tutte le sue maggiori navi da guerra e costituito la Chain Home, una catena di stazioni di avvistamento a protezione dell’estuario del Tamigi. Grazie proprio a tale preparazione di difesa antiaerea l’Inghilterra potè sostenere l’attacco e sopravvivere all’offensiva scatenata contro di essa dall’aviazione tedesca all’inizio della seconda guerra mondiale, nell’agosto del 1940. La felice riuscita della battaglia d’Inghilterra ebbe grande risonanza militare per questa nazione che riuscì, grazie al radar, a sventare il piano di invasione nazista. In Germania il Comandante del Corpo Aereo Maresciallo Hermann Goering ritenne inutile inserire il radar nei piani militari dell’aviazione germanica; solo successivamente, a guerra avanzata, quando il radar dimostrò tutta la sua forza bellica per mano del “nemico”, Hitler diede il via al suo sviluppo e alle applicazioni nelle centrali di tiro. Ma il ritardo era ormai incolmabile. In Italia, all’inizio della seconda guerra, i sistemi di avvistamento aereo si limitavano agli aerofoni, apparecchiature simili a megafoni a tromba puntati verso il cielo e pronti a raccogliere il brontolio dell’aviazione nemica. Solo a guerra avanzata, grazie al fisico Vallauri, presso l’Accademia Navale di Livorno, si cominciò a realizzare il primo radar italiano rendendolo operativo sulle navi più importanti.

L’efficienza e l’importanza del radar aumentarono sino a renderlo di valenza bellica decisiva quando la tecnica potè dominare il campo delle microonde. Il traguardo venne raggiunto dalla collaborazione tra Usa e Gran Bretagna che, insieme, condussero all’invenzione di due speciali valvole o tubi a vuoto, i Magnetron e i Klystron, capaci di generare onde micrometriche di grande potenza. Al termine della seconda guerra mondiale il radar aveva dato vita ad un nuovo settore industriale di vastissimo interesse. Nato come ausilio agli strumenti di difesa e di distruzione del genere umano, il radar ha individuato oggi, nelle applicazioni pacifiche, il suo più importante impiego.

LA PREVENZIONE DAL DANNO UDITIVO DURANTE IL LAVORO: UNA NECESSITA’ SOCIALE

                 (seconda parte di due)

   L’ipoacusia acquisita per esposizione a strumenti rumorosi durante il lavoro può essere temporanea, e cioè durare alcuni minuti come quella che si ha in discoteca, oppure durare ore o giorni dopo la sospensione dell’esposizione al rumore. Può però diventare permanente e persistere per il resto della vita. La perdita uditiva acquisita durante le ore lavorative, solitamente 8 ore, può recuperarsi nel tempo, ed è considerata temporanea se si risolve nell’arco di 16 ore, oppure può essere persistente, se perdura per sette giorni dal momento della stimolazione sonora. Il perdurare di tali condizioni, anche per pochi mesi, può creare, come detto, un danno permanente alle cellule della coclea.

Nell’ipoacusia da rumore la diagnostica audiometrica è la prima indagine che deve esser fatta per procedere ai successivi passi “preventivi”. Lo scopo di un programma di conservazione dell’udito é quello di prevenire l’insorgenza e lo sviluppo dell’ipoacusia da rumore nei prestatori d’opera durante il lavoro.

Nel nostro Paese le disposizioni giuridiche in tema di assicurazione obbligatoria sulla malattia professionale da rumore, sono contenute nel DPR (Decreto del Presidente della Repubblica) del giugno 1965. Tale argomento, trattato più volte nelle direttive CEE, è stato recepito in Italia con il Decreto Legislativo n° 277 del 27 agosto 1991. L’attuazione di questo responsabilizza i Datori di Lavoro obbligandoli alla valutazione dei livelli sonori ambientali nelle varie postazioni di lavoro al fine di identificare i Prestatori d’opera e le zone di lavoro ove si rende necessario attuare le misure di protezione dal rumore. Gli elementi più innovativi del decreto sono il netto passaggio da una fase di rischio presunto, come riportava la norma n° 303 del 1956, alla valutazione del rischio che vincola tre diversi soggetti che sono tutti, a seconda dei ruoli, comunque responsabili e cioè il datore di lavoro, i prestatori d’opera e il medico competente. Successivamente, con il Decreto Legislativo n° 81 del 09 aprile 2008, si sono armonizzate, in Italia, le norme destinate a prevenire la sordità dei lavoratori obbligando, ulteriormente, datori di lavoro, audiologi e medici competenti ad individuare i rischi uditivi e ad attuare le misure per prevenire tale danno, adattandole secondo i casi. Queste sono, nel più comune dei casi, l’obbligo di indossare i Dispositivi Individuali di Protezione (DPI) adeguati al livello di intensità di rumore cui si è esposti. Nei casi di esposizione a livelli modesti di rumore può essere sufficiente l’inserto auricolare (i “tappi” nelle orecchie) ma per livelli elevati vanno usate le cuffie che garantiscono una protezione ben superiore. A ciò si aggiunge l’impiego di strumenti intrinsecamente silenziosi e, ove possibile, il trattamento “fonoassorbente” dei luoghi di lavoro.

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

A conclusione di quanto discusso sul dettato della imposizione normativa, lo scrivente sente doveroso esprimere alcune considerazioni personali cosi riassumibili:

-la sordità da rumore non è curabile, tuttavia può essere sicuramente prevenuta con poche e semplici attenzioni.

-nessuna legge nè sanzione può recuperare la normale funzionalità di questo mirabile organo di cui il buon Dio ci ha dotato, le nostre orecchie.

-godere dei suoni della natura, delle emozioni della musica e delle voci dei nostri cari, è un bene inestimabile; é quindi un nostro diritto-dovere proteggerci da qualunque rischio durante le ore di lavoro al fine di salvaguardare, nel miglior modo possibile, la nostra integrità fisica.

LA PREVENZIONE DAL DANNO UDITIVO DURANTE IL LAVORO: UNA NECESSITA’ SOCIALE

 (prima parte di due)

Il senso dell’udito, insieme alla parola, ci consente di comunicare con gli altri, scambiando idee ed esperienze. I moderni mass-media - radio, televisione e telecomunicazioni - conferiscono all’udito importanza sempre crescente. Per contro il comune vivere sociale e, soprattutto, l’ambiente di lavoro presentano rumori lesivi per l’apparato uditivo. La perdita dell’udito, per qualunque causa o genesi, riduce la qualità della vita interferendo nelle capacita di comunicazione e limitando conseguentemente i rapporti umani e sociali dell’individuo. Il rumore forte e continuo, presente in luoghi di lavoro come le falegnamerie o il martellare con mazze o strumenti pneumatici, danneggia questo delicato organo di senso tanto da isolare la persona dal suo ambiente. In passato ci si adattava al rumore accettandolo come uno degli inconvenienti per doversi guadagnare da vivere. Tipica, nei secoli scorsi, era l’attività dei calderai che mediante continue percussioni modellavano i loro manufatti metallici, producendo impulsi sonori cosi intensi da ledere permanentemente l’organo dell’udito. Oggi non si é più costretti a subire questa sorta di “mortificazione”; i mezzi per evitare o attenuare il rumore sono tanti, ma è necessario diffondere la consapevolezza del rischio e la conoscenza dei mezzi di prevenzione per avviare una concreta lotta a tale patologia.

La perdita dell’udito ha raggiunto il primo posto tra le malattie professionali. E’ un costo che paga il singolo con una vera lesione personale ma che, eticamente ed economicamente, interessa tutti. La sordità da rumore è la malattia con la più elevata incidenza tra le malattie professionali.

LA PATOLOGIA DA RUMORE

Il danno uditivo da sovraccarico acustico, secondo quanto emerge da una vasta serie di ricerche scientifiche, é la fase terminale di progressive perdite delle capacita audio-sensorie. Secondo la bibliografia più accreditata, l’ipoacusia da trauma acustico é legata alla distruzione delle cellule “ciliate" della “coclea”. E’ questa una parte dell’orecchio interno deputata alla trasduzione della vibrazione della membrana timpanica, in segnali elettro-neurologici inviati, mediante il nervo acustico, alle aree uditive cerebrali. E’ qui che si manifesta l’ipoacusia. Solamente esposizioni a livelli elevatissimi di rumore (oltre 145 decibel), quali le esplosioni, possono lesionare la membrana timpanica per il notevole spostamento d’aria. Ma, in questi casi, il danno è veramente minore considerata la facilità dell’intervento chirurgico, la timpanoplastica per la ricostruzione del timpano, che si risolve in pochi minuti. Al contrario, il danno da rumore è irreversibile; nessuna terapia, farmacologica o chirurgica, può recuperare la primitiva funzione di questo delicato organo del nostro corpo.

L'enigmatico tempo, fantasia e realtà

Il tempo è per l’uomo molto più di una grandezza fisica perché la sua entità non può essere dissociata dalla stessa genesi del mondo e dalla sua evoluzione. Qualunque organismo è relazionato allo spazio che lo circonda e al tempo che lo ha condotto ad essere ciò che è, conferendogli una quarta dimensione. Il tempo rappresenta un argomento di riflessione filosofica ma anche un’entità di esperienza e coinvolgimento quotidiano da parte di ognuno. Il concetto di tempo stabilisce un’entità strana al di fuori di noi, già esistente all’atto della creazione e destinata a restare alla fine dell’universo. Il tempo non accetta un “contrapposto”. Il buio è la negatività della luce, il suono si contrappone al silenzio come la vita alla morte. Il tempo non ha un anti-tempo. Il proseguire del tempo appare come qualcosa di drammatico, come una forza suprema che conduce inesorabilmente l’essere verso la sua eliminazione.

Solitamente l’atto della misura presuppone la possibilità di sovrapporre “l’unita di misura" alla grandezza da misurare. Le dimensioni di uno spazio sono quantizzabili perché è possibile sovrapporre a queste l’unita del Sistema Internazionale, il metro. Per il tempo è impossibile operare allo stesso modo.

Accanto alla macchina a vapore del diciottesimo secolo, l’orologio è l’invenzione che ha avuto maggiore penetrazione nell’era industriale. E’ questo lo strumento che, in ogni istante dello sviluppo, ne segna il passo. Oggi nessuna macchina è così largamente diffusa come l’orologio. Fino a pochi decenni addietro la grandezza tempo veniva traslata in grandezza ‘spazio’, osservando l’ombra di un’asta illuminata dal sole. La fisica ha imparato ad amministrare il tempo a suo piacimento. Già l’invenzione di uno strumento capace di battere il secondo era sembrata una conquista; oggi appare ben poca cosa di fronte a strumenti che permettono di discriminare il nanosecondo, e non vi sono difficolta per misure ancora più piccole. Ma se l’uomo ha imparato a “contare” il tempo in maniera cosi suprema, certamente in malo modo lo ha gestito sotto l’aspetto qualitativo. Il successo tecnologico fornisce mezzi di comunicazione e di trasporto sempre più rapidi che dovrebbero far risparmiare tempo da dedicare ad attività cosiddette “libere”. Ciò è stato sempre illusorio. La stessa tecnologia ci arricchisce di strumenti che fanno perdere tempo. Scivoliamo nel tecnicismo; il tempo dell’uomo è rapito dallo stesso progresso, dall’abuso e dal cattivo impiego dei mezzi che la stessa tecnologia ci propone. E’ infatti assurdo che col crescere degli agi e dei mezzi di svago cresca anche la fatica fisica e psichica. Gli ultimi anni hanno imposto un “gap” sempre più grande fra velocita di evoluzione e velocita di adattamento; oggi tutto e in “tempo reale”, tutto si costruisce e immediatamente dopo si distrugge. Siamo prigionieri e nello stesso tempo emarginati dal correre del tempo.

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Beethoven oggi non sarebbe stato sordo 2' puntata

Uno studio accurato condotto nel 1970 da due medici statunitensi sulla sordità di Ludwig van Beethoven, Stevens e Hemenway, porterebbe alla diagnosi di otosclérosi che provoca la perdita dei movimenti degli ossicini dell’orecchio medio. L’interessamento otosclérotico, dicono i due studiosi, spiega bene la perdita progressiva dell’udito. Questa tesi è tuttavia contestata da più parti. L’otosclerosi si presenta, per molto tempo, come danno prevalente sulle note gravi mentre permette di sentire bene le note acute. Ciò non avveniva nel musicista. E’ presumibile che Beethoven, accusando una sordità di questo tipo a 31 anni, dovesse aver raggiunto una sensibile perdita dell’udito e non fosse in una fase iniziale della malattia.

Del resto Lui stesso afferma che da tre anni il suo udito è peggiorato. Il fatto che il musicista non sentiva le note acute sta a dimostrare che c’èra un danno prevalente su gli organi di percezione, sull’orecchio interno. Si toglierebbe così ogni credibilità alla diagnosi di otosclérosi, attribuendo la sua sordità a un’affezione dell’orecchio interno e cioè all’organo cocleare. Ma esistono anche altre ipotesi, forse più attendibili, sulla sordità del musicista. Si tende infatti a far risalire la sordità di Beethoven a uno stato catarrale cronico delle prime vie respiratorie. A indicarlo sarebbe lo stesso musicista quando riferisce di “sentire la testa in fiamme” e, mentre suona, ha l’abitudine di immergere la testa nell’acqua fredda “così rinfrescato e malamente asciugato si rimette al piano”. Il tenore Rökel, suo amico, lo trova nello studio mentre compone l’Eroica chino su un grande bacile, intento a rovesciarsi sul capo getti d’acqua gelata.

Dopo aver riportato quanti illustri scienziati hanno ipotizzato sulla sordità di Beethoven, è parere dell’estensore di questo manoscritto che la sordità del musicista sia stata la semplice evoluzione di una otite male o per nulla curata. Una di quelle semplici patologie che frequentemente sono sotto gli occhi degli specialisti otoiatri e audiologi e che hanno origini da banali fatti infettivi oggi facilmente curabili ma, due secoli fa, di difficile risoluzione. Come già detto, Beethoven riesce a sentire il suono del piano forte con una bacchetta attaccata ai denti e poggiata sulla superficie del piano stesso. Usa un pianoforte dalla “sonorità più robusta e con cinque tasti in più verso i gravi e verso gli acuti”. Una soluzione del genere può essere vantaggiosa nei primi anni di affezione della sordità quando ancora questa interessa solo gli organi di trasmissione, l’orecchio esterno e l’orecchio medio, quella parte cava posta dopo il timpano e che contiene gli ossicini più piccoli del corpo umano, il martello l’incudine e la staffa.

Ma successivamente il musicista dichiara…”non odo le note acute degli strumenti e delle voci…posso udire i toni di una conversazione, ma non le parole…se qualcuno grida non lo posso sopportare”. La sordità di Beethoven si è “coclearizzata”, ha superato cioè il semplice stato infettivo dell’orecchio medio e della cassa del timpano. La patologia interessa ormai l’orecchio interno, la coclea, la parte più delicata dell’orecchio. Ci sono vari indizi che propongono per una iniziale sordità trasmissiva dovuta, ripeto, a una semplice patologia dell’orecchio medio. Una otite che, come più volte cennato, è oggi facilmente terapizzabile con i farmaci di cui si dispone e, soprattutto, con le inalazioni “termali”. Una patologia, questa, semplice ma che va curata in tempo perché non si cronicizzi e non vada a intaccare l’orecchio interno e gli organi superiori dell’udito come, probabilmente, è avvenuto in Beethoven. Due secoli fa una malattia ancor semplice, come è oggi questa, distruggeva le mirabili capacità uditive di un grande compositore. Ai nostri giorni, forse, avremmo un Beethoven perfettamente in grado di udire, comporre e comunicare il pathos dei suoi magici suoni all’umanità.

   fine                                                             

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----TAM TAM TAM---TAAM: Quattro colpi di timpano che identificavano le prime quattro note, sol-sol-sol-mi della Quinta Sinfonia di Ludwig van Beethoven. Ma Beethoven la sua “quinta” non l’ha mai sentita. Nel 1809, quando l’ha composta, tra lui e il mondo si era già alzato il muro del silenzio. Beethoven non percepisce né voci né suoni e riesce, appena, a udire ciò che suona stringendo tra i denti una bacchetta di legno poggiata sulla cassa del pianoforte. La sordità di Beethoven è una di quelle malattie di “pazienti illustri” che, più di altre, sono state sudiate da storici e medici senza mai giungere a conclusioni definitive.

Fin quando è stato possibile, Beethoven ha cercato di tenere nascosta la sordità. Ha 31 anni nel 1801 quando scrive all’amico Franz Gerhard Wegeler…”devo confessarti che conduco una vita infelice…sono due anni che evito qualsiasi compagnia, perché non posso dire alla gente che sono sordo… il dr. Franck mi ha curato con olio di mandorle, ma senza alcun effetto…e sento un brusio giorno e notte…la mia vita si trascina miseramente; se avessi un’altra professione la mia infermità non sarebbe grave, ma nel mio caso è una menomazione terribile! Delle voci posso udire i toni ma non le parole, e se qualcuno grida non lo possosopportare”. I suoni forti gli danno fastidio! Soffre già di un fenomeno caratteristico della sordità, il “recruitment” che, per ironia della sorte, non fa sentire i suoni di normale intensità ma provoca un fastidio oltre norma per i suoni forti. La perdita dell’udito sarà progressiva, sino alla sordità completa. Le cure cui verrà sottoposto saranno le più diverse, ma tutte inutili: suffumigi, diuretici, sudoripari. Beethoven ricorre invano anche all’omeopatia e al galvanismo: si tratta di una cura con la corrente elettrica continua che il dottor Schmidt, suo amico, gli praticherà sino alla morte. Sembra che la sordità del compositore sia cominciata all’età di 27 anni. Poco risolvono i cornetti acustici. Tra il 1812 e il 1814 Johann Mälzi, un artigiano di fiducia, costruisce per il musicista vari cornetti e il più lungo misura 50 cm.

Nel marzo 1818 è portato nell’appartamento del musicista uno speciale pianoforte costruito dalla casa britannica Broadwood: ha la sonorità più robusta e penetrante di quella dei pianoforti viennesi usati a quel momento; per di più la tastiera è arricchita di quattro tasti verso i gravi, e di uno verso le frequenze alte. Con il nuovo strumento Beethoven può comporre le ultime tre Sonate e la IX Sinfonia.

L’esame post-mortem dell’apparato uditivo del musicista effettuato dal professor Johann Wagner, direttore del Museo di Anatomia Patologica di Vienna, chiamato a praticare l’autopsia, così riporta…”il padiglione auricolare è grande, irregolare, e metà più ampio del normale e le sue salienze sono molto rilevate, il meato acustico esterno si mostra vicino al timpano, ricoperto di scaglie epiteliali lucide. La tuba di Eustachio ispessita, la sua mucosa sporgente e vicino all’orecchio è un po’ stenotica…” Un’analisi che non aggiunge nulla di nuovo alla conoscenza della sordità del musicista. Anzi Wagner attiverà altri dubbi cui, ancor oggi, medici e storici non hanno saputo dare risposta. (prima di due)

Finchè  c’è  guerra  c’è  turismo

Siamo a settembre e nelle nostre Isole il pienone non è finito, anzi adesso arrivano da ‘oltre confine’ e anche da fuori Europa. Non credo che i Gestori siano rimasti scontenti; certo all’estero si “spara”, c’è la guerra, e fin quando continua quest’umana follia la gente continuerà a scoprire i luoghi della sua stessa terra. Luoghi fantastici, che spesso sono trascurati per quella forma di esterofilia che alligna in ognuno di noi. Fuori è più bello! È come dire che l’erba del vicino è più verde. E invece quest’anno (ma anche nel 2015) abbiamo assistito, e assistiamo, alla grande presenza di “noi Italiani”. Tutte le attività recettive hanno fatto l’en-plein, non c’è da lamentarsi, ma guai a dormire su questo ‘picco’ di occasionali presenze. Si, le chiamo occasionali perché dettate dal timore di andare all’estero e non da un profondo stravolgimento migliorativo delle strutture di accoglienza. Richiamo che vale per gli alberghi e i residence, ma anche per i bar e i luoghi di ristorazione. E proprio riferendomi ai ristoranti e ai bar desidero fare qualche nota. Anch’io nel periodo luglio-agosto, quale eoliano acquisito, son solito ricevere amici a Lipari e andar fuori a cena. E’ il piacere di parlare, scambiare idee e spensierate esperienze e, allora, si va a scegliere il Locale. Quali sono i dettagli che ispirano fiducia estimolano i sensi di chi entra in un luogo di ristorazione? Chiaramente l’impatto visivo esterno del locale è determinante, anche se spesso sottovalutato dal Gestore. L’insegna, cioè il biglietto da visita del locale, ha il compito di prendere il cliente per mano e condurlo all’interno. Ma il primo impatto deve, soprattutto, esprimere l’atmosfera che si respira nel locale: c’è differenza tra una trattoria e un locale chic, tra il locale rockettaro e l’intimo. L’ingresso o, meglio, le vetrate devono garantire la visione dell’interno, magari per capire che tipo di pubblico è presente, per non trovarci seduti accanto a personaggi…sgraditi. È un parametro rassicurante. Senza trascurare la toilette, che non solo deve essere pulita e completa di ogni accessorio ma anche elegante. E poi il gran maestro del posto che abbiamo scelto, il menù. Se l’insegna è il biglietto da visita, il menù è senza dubbio la carta d’identità che comunica al cliente il tipo di cucina che dovrà aspettarsi. Tradizionale, rivisitata o casareccia. Il menù dovrebbe essere sempre esposto all’esterno e riportare i prezzi, compresi gli accessori del “coperto”. La trasparenza paga e trasmette libertà di scelta. Ma superata questa fase il locale deve coinvolgere chi entra in quell’atmosfera che lo ha fatto preferire alla “sempre sicura” cucina di casa propria. E allora ciò che vale è “l’atmosfera”, e cioè l’arredo, i colori, le luci e l’onnipresente musica di sottofondo che non sempre sta sul .…fondo, anzi spesso è invadente. Se vado fuori con amici la prima cosa che desidero è parlare con loro e il suono ad alto o altissimo volume non mi interessa, altrimenti vado in discoteca e ci vado per scelta! E ciò ha ancor maggiore valenza se vado con mia moglie, la mia compagna o la ragazza appena conosciuta. Le Isole, si sa, sono afrodisiache. Solitamente, poi, le signore si lamentano della scarsa capacità di ascolto degli uomini, certo non ascolto in senso fisico ma ascolto con il significato di capacità di comprendere e far parte dei loro problemi e delle loro emozioni. E’ necessario che si crei quella forma di empatia non sempre possibile fra le mura di casa. Ma se passo con Lei una serata è necessario che ci sia anche l’ascolto…fisico con Lei, altrimenti resteremo soli per tutta la serata, magari con il telefonino in mano.

Il cliente va accolto quindi con calore, dalle luci, al sorriso e alla musica che può essere anche anni ’60 o ’70 senza tema di sbagliare. E suonata o, meglio, riprodotta perché in questo caso è più “gestibile”, con quei toni caldi e mai invadenti tipici degli altoparlanti che ci hanno accompagnato nei passati decenni. Ascoltare un pezzo jazz di Gleen Miller o the voice di Frank Sinatra può, persino, farci trascurare l‘insufficiente cottura del fumante piatto alla norma. Certo c’è anche il menù, che deve essere ‘relativamente’ ricco, ma non necessariamente chilometrico. Pochi piatti, originali e stimolanti e con quel tocco di unicità non riproducibile nella cucina di casa. In fondo sono fuori a cena sì per mangiare ma anche, e soprattutto, per trascorrere una serata con gli amici, con i miei cari, in un luogo semplice, carino, coinvolgente e mai invadente.

Attenzione ai tuffi le otiti sono in agguato

Tempo d’estate e di tuffi in mare o in piscina, ma attenzione alle orecchie: una patologia comune è infatti l’otite o infiammazione dell’orecchio. Questa è sempre causata da batteri, virus o funghi presenti nelle acque con cui entriamo in contatto, complici anche foruncoli e piccole ferite. Esiste un’otite esterna, che consiste nell’infiammazione dell’epitelio che riveste il condotto uditivo esterno, e un’otite media dove l’infiammazione interessa l’orecchio medio costituito dal timpano, dalla catena degli ossicini (martello, incudine e staffa) e dalla tuba di Eustachio. I germi dal faringe (tratto fra gola ed esofago) penetrano infatti nell’orecchio attraverso la tuba di Eustachio e raggiungono l’orecchio medio. Una complicanza è l’otite media catarrale, caratterizzata dalla presenza nella cassa timpanica di versamento che può essere da acquoso a vischioso. L’otite può colpire a tutte le età, sebbene i soggetti in età infantile siano i più esposti alla patologia. La prima prevenzione è data dal proteggere il condotto uditivo con della garza prima di tuffarsi e asciugare bene le orecchie dopo averle risciacquate con acqua dolce.

L’otite esterna si manifesta con dolore all’orecchio e con lieve diminuzione dell’udito. In certi casi può essere presente prurito e lievi secrezioni dal condotto uditivo. Nell’otite media invece, è presente dolore intenso associato a una sensazione di pienezza dell’orecchio, e perdita rilevante della capacità uditiva. In specie si sentono meno le note basse o ‘basse frequenze’, come i suoni emessi dal tamburo o la stessa voce, soprattutto quella maschile. Nei casi più gravi l’otite media si presenta ‘purulenta’, con fuoriuscita dall’orecchio di pus giallo-verdastro. In quest’ultimo caso il dolore è intenso e, sovente, accompagnato da febbre e persino dalla perforazione della membrana timpanica. Ma in questi casi siamo già…. dall’otoiatra perché ci dia la giusta cura. L’otite catarrale dà la sensazione di orecchio tappato, un profondo abbassamento della sensazione uditiva e fa sentire la propria voce rimbombante. E’ questo il caso in cui non bisogna perder tempo. Infatti una patologia così avanzata può trasferirsi all’orecchio interno provocando stati infettivi importanti e perdite di udito irreversibili. In questi casi non resta che correre dallo specialista.

Di solito la prima terapia, spesso fai da te, è ricorrere alle goccine con proprietà antibatteriche e/o analgesiche, mentre nelle forme più severe è bene passare agli antibiotici per via sistemica, consigliate sempre dall’otorino. Ma una volta stabilizzata l’affezione, la migliore terapia è rappresentata dalle cure termali inalatorie con acqua sulfurea. Queste sono efficaci, naturali e non invasive, e veramente ideali per trattare le patologie otorinolaringoiatriche come le otiti. E visto che parliamo di otiti sul giornali di Lipari non posso non ricordare che proprio sull’Isola abbiamo un’importante Stabilimento Termale che, se fosse operativo, risolverebbe brillantemente queste patologie senza ricorrere a costose e snervanti passeggiate verso gli Stabilimenti Termali della terra ferma.

L'afa è in arrivo non resta che "condizionarci"

Lo stato di benessere termico é avvertito ogni volta che gli scambi di calore tra il nostro corpo e l’ambiente raggiungono un livello di equilibrio e, cioè, di neutralità termica. In queste condizioni l’organismo non attiva più le difese contro il caldo o il freddo mancando la sudorazione (per il caldo) o i brividi (per il freddo) e le reazioni di vasocostrizione o vasodilatazione. L’uomo, sin dai primordi, per mantenere lo stato di neutralità termica, riducendo al minimo le reazioni termofisiologiche di cui è dotato, ha costruito le abitazioni completandole con i sistemi di climatizzazione essenziali come finestre e coperture. Un ambiente è climaticamente omogeneo se in ogni istante la temperatura, l’umidita, la velocita dell’aria e l’energia radiante sono uniformi attorno alla persona. Nella realtà queste condizioni non si verificano mai allo stesso tempo, ma possono rappresentare uno stato confortevole se i loro valori si mantengono all’interno di una ristretta variabilità. L’effetto sull’organismo delle temperature estive, spesso superiori ai trenta gradi, inducono malessere e caduta dello stato di attenzione mentale. E ciò avviene sia in riva al mare sia in collina o in montagna.

Al contrario dei Paesi più ricchi ed evoluti, come quelli americani, da noi i sistemi di condizionamento dell’aria (o climatizzazione) sono ancora poco diffusi e, da tanti, visti persino con diffidenza. Il raffreddamento dell’aria, o condizionamento, opera in maniera simile a quanto fa un frigorifero domestico, abbassa la temperatura dell’aria e riduce il tasso di umidita. E’ un processo che avviene senza immissione di elementi estranei o nocivi. L’aria trattata è quella già presente nella nostra stanza. Inoltre i sistemi di raffreddamento, per legge fisica, fanno precipitare il vapore acqueo presente nell’aria riducendo cosi il tasso di umidità e contribuendo a ricreare le condizioni di benessere. Gli effetti del condizionamento dell’aria, pertanto, non possono che essere benefici e, al di là delle dicerie dei mali informati, restituiscono lo stato di benessere e attenzione. I fastidi genericamente manifestati da chi utilizza l’aria condizionata nascono, di solito, da una errata circolazione dell’aria fredda in ristrette parti del corpo; tali inconvenienti si superano, banalmente, con una impostazione equilibrata del sistema di ventilazione. Purtroppo, il più delle volte, l’arroganza del non sapere fa rinunciare ad una vita più confortevole. Ma come avviene il raffreddamento dell’aria? Si sfrutta la proprietà di alcuni gas, derivati da idrocarburi o anidride carbonica, di assorbire calore nel passare dalla fase liquida alla fase gassosa. Il gas è infatti portato ad alta pressione (fase liquida) da un compressore per poi essere fatto espandere (fase gassosa). Il tutto in un circuito chiuso e sigillato. L’energia necessaria al suo funzionamento fa lievitare, di poco, i costi elettrici, ma il benessere che se ne trae è impagabile. Da sempre sono convinto che l’aria condizionata fa male solo a chi non ce l'ha'.

----L'alternativa per il Giappone é la distruzione immediata e totale

Nel 1942 la corsa alla bomba atomica prende ufficialmente il via. I fisici rifugiatisi negli Stati Uniti, con Leo Szilard ed Enrico Fermi in testa, decidono di autocensurarsi per impedire che i frutti delle loro ricerche sulle reazioni nucleari cadano in mano agli scienziati di Hitler. Prima ancora che il Dipartimento di Stato americano si renda conto del pericolo cui il mondo libero va incontro, Leo Szilard e il suo maestro Albert Einstein, nell’ottobre del 1939, si fanno promotori presso la Casa Bianca di una lettera con la quale chiedono al governo di impedire la vendita alla Germania dell’uranio e di appoggiare finanziariamente gli studi sull’energia nucleare.

Per fortuna i vertici nazisti non comprendono in tempo l’uso dell’energia atomica a fini bellici. La gara per la ‘bomba’ parte quindi a favore per gli alleati. Il progetto americano, dopo l’avallo di Roosevelt e Churchill, prende il via nel 1942 con il nome di Progetto Manhattan. Nella città laboratorio di Los Alamos, nel New Mexico, scienziati e militari si mettono al lavoro per giungere al più presto alla costruzione della ‘bomba atomica’. La mattina del 2 dicembre 1942, a Chicago, Enrico Fermi riesce a ottenere la prima reazione a catena costruita e controllata dall’uomo. Ormai l’ordigno più distruttivo del mondo é inevitabile e nasce il prototipo finale, quello che può segnare definitivamente non solo la fine del conflitto in corso ma anche la fine della civiltà. I dubbi degli scienziati non sono solo di ordine tecnico ma investono anche le coscienze. La realtà che stava dietro l’angolo era venuta alla luce: la bomba atomica poteva essere il primo passo verso la distruzione completa del genere umano.

Hiroshima, primo obiettivo designato dalle forze alleate, stava poco a poco creando nel fantastico collettivo l’idea dell’onnipotenza dell’uomo: un’onnipotenza negativa, alla quale si erano sacrificati i migliori ingegni e le migliori facoltà umane. Alle otto e quindici del 6 agosto1945 il B-29 americano Enola Gay sganciava il suo carico di morte distruggendo uomini e cose e facendo tremare gli esseri umani del pianeta Terra. Leo Szilard, il fisico che forse per primo aveva intuito la portata militare e politica della scoperta del neutrone, disse poche ore dopo il bombardamento di Hiroshima “l’uso delle bombe atomiche contro il Giappone é una delle più grandi bestialità della storia”. Qualche giorno dopo Hiroshima la stessa “bestialità” sarà rivissuta a Nagasaki.

Purtroppo, ancor oggi, a guerra fredda conclusa da anni, l’umanità non è ancora riuscita a liberarsi dell’incubo atomico. Nel mondo sono conservati oltre 50.000 ordigni nucleari che attendono di essere smantellati. Quintali di residui radioattivi aspettano di essere smaltiti non si sa come e dove. La convivenza con i più terribili strumenti di morte che l’uomo abbia mai inventato non é destinata a finire. L’uomo, ubriaco della sua lucida follia, continuerà a costruire strumenti capaci di sterminare la sua stessa razza.

fine

Il B-29 che sganciò l’atomica a Hiroshima. Al centro il pilota Paul Tibbets

Nel maggio del ’38 il Cnr respinge definitivamente le richieste di Fermi per l’Istituto nazionale di radioattività per indisponibilità di fondi e gli assegna un contributo che Fermi giudica ridicolo per proseguire il progetto. Anche in condizioni di ristrettezze, in via Panisperna si continua a lavorare. Fermi e il suo gruppo sono i primi a scindere l’atomo dell’uranio, l’elemento che sarebbe entrato come ingrediente base nella bomba atomica. L’avvento del nazismo segna accelerazione negli studi. L’app1icazione dell’energia dell’atomo fa presagire grandi e nuovi mezzi bellici di offesa. L’antisemitismo e il militarismo della dittatura hitleriana mettono, infatti, in subbuglio la comunità scientifica che intuisce quali possono essere gli impieghi nefasti di questa nuova scienza. Nel frattempo la situazione politica precipita. Nel luglio 1938 inizia anche in Italia la campagna antisemita con la pubblicazione del Manifesto della Razza. Nei mesi successivi vengono promulgate le leggi razziali: comincia 1’espulsione degli ebrei da tutti gli impieghi statali, dalle Università e dalle Accademie.

Nel novembre del 1938 Fermi è designato al conferimento del premio Nobel e il 10 dicembre e già a Stoccolma per ricevere il Nobel per la Fisica. Come ricorda il fisico Amaldi “il comportamento di Fermi fece scalpore” : non indossava l’uniforme fascista e invece del saluto romano strinse “normalmente” la mano al sovrano svedese. Un profondo affronto al regime mussoliniano che fondava la sua potenza su retoriche apparenze. Ma per Fermi è l’occasione per lasciare l’Italia dove la pubblicazione delle leggi razziali colpisce anche sua moglie, Laura Capon, di origine ebraica. Con Fermi lasciano l’Italia altri eminenti scienziati come Edoardo Amaldi, Emilio Segre, Bruno Pontecorvo, Ettore Maiorana e altri ricercatori del gruppo di via Panisperna.

I migliori ingegni, tra i quali molti di origine ebraica, abbandonano le Università tedesche per raggiungere la Francia, 1’Inghilterra e gli Stati Uniti. Appare loro evidente che i progetti germanici per l’uranio, cui avevano fino a poco prima lavorato, se messi a disposizione di Hitler, rappresentano un pericolo mortale per l’umanità intera. A partire dal 1939 il Terzo Reich aveva già occupato l’Austria e si apprestava a inglobare in un solo colpo la Polonia. Nel mondo scientifico occidentale si scatena la psicosi della bomba atomica hitleriana. Il 1941 finisce con l’attacco dei giapponesi su Pearl Harbor e l’entrata in guerra degli Stati Uniti del 7 dicembre di quell’anno, determina la decisione di accelerare gli sforzi per realizzare un ordigno nucleare. Fermi si trasferisce a Chicago presso il Metallurgical Laboratory dove inizia la costruzione di un reattore nucleare, a uranio naturale e grafite, di cui Fermi assume la direzione scientifica.

                                                        continua (seconda di tre)

I ragazzi di via Panisperna. Il primo a destra è Enrico Fermi

The alternative for Japan is prompt and utter destruction...», l’alternativa per il Giappone é la distruzione immediata e totale. E’ questo l’ultimatum che le forze alleate inviano al Giappone il ventisei luglio 1945. Un’intimazione di resa che non lascia spazio ad alcuna trattativa. E cosi avvenne. Alle otto e un quarto di quel 6 agosto 1945 il B-29 Enola Gay sgancia su Hiroshima la prima bomba atomica della storia, mai utilizzata in altre operazioni di guerra. Il B-29 alle ore 8,15 minuti e 15 secondi si alleggerisce del suo carico di morte di 4000 chili. E dopo altri 45 secondi una luce fortissima riempie l’aeroplano. La prima onda d’urto ci colpì….ricorda i1 comandante Paul Tibbets. Eravamo a diciotto chilometri dall’esplosione atomica, ma tutto l’aereo scricchiolo per il colpo. Hiroshima era nascosta da una orribile nuvola, ribollente, a forma di fungo, terribile e incredibilmente alta. Nella zona la temperatura balzò in meno di un decimo di secondo a oltre 3000°C. Ogni forma di vita svanì e tutte le abitazioni vennero rase al suolo da una tempesta di fuoco fino a 5 chilometri dal luogo dello scoppio. In quel solo giorno le vittime sono più di 100.000. A cinque anni dallo scoppio i morti ricollegabili all’esplosione saranno ben 500.000. Tre giorni dopo, il 9 agosto 1945, una bomba al plutonio, più potente di quella di Hiroshima, ricrea la stessa tragedia su Nagasaki.

Al tragico epilogo si giunse dopo anni di ricerche e di studi internazionali sulla fissione nucleare. Il neutrone, una piccola particella capace di scindere ciò che fino ad allora era stato ritenuto indivisibile, l’atomo, era stato scoperto fin dai primi anni trenta. L’energia che si poteva liberare attraverso il bombardamento e la scissione dell’atomo era potenzialmente grandissima. In quell’epoca nessuno era consapevole di ciò che stava venendo alla luce. Schiere di giovani studiosi si stavano cimentando nella ricerca atomica. Leo Szilard, il fisico teorico di origini ungheresi e allievo di Einstein all’Università di Berlino, fu il primo a intuire che la liberazione di energia dall’atomo era solo questione di tempo.

Tra gli appassionati della scienza dell’infinitamente piccolo c’era anche Enrico Fermi, giovane prodigio della fisica italiana. Fermi, docente di fisica teorica all’Università di Roma, dal 1934 aveva iniziato gli esperimenti di bombardamento con i neutroni per indurre la radioattività negli elementi. Con lui lavorava un team composto di Edoardo Amaldi, Emilio Segre, Bruno Pontecorvo ed Ettore Maiorana. Mussolini non è tanto interessato alle scoperte scientifiche quanto, invece, all’immagine che 1’Italia, grazie a questi studi, può trarre all’estero. Il fascismo promuove quindi la ricerca scientifica, con il fine più politico che conoscitivo.

L’istituzione italiana più importante è quella della Scuola romana di via Panisperna, dov’é ospitato l’Istituto di fisica. Questa viene creata proprio da Enrico Fermi e ruota attorno alla sua presenza. Quando, nel 1938, il fascismo inizia il suo lento declino, anche gli aiuti economici alla scuola di via Panisperna vengono negati. Ecco come rispondeva il Duce, già nel 1934, a una richiesta di contributi di Fermi: “Le rimetto questa doglianza consegnatami da S. E. Marconi, Presidente del Cnr (n.d.r.-Consiglio Nazionale Ricerche) e dell’Accademia d’Italia. Credo che gli si possono dare 570.000 lire dal fondo delle spese impreviste e non un soldo di più. Supposto che questo Consiglio debba ancora funzionare”.

                                                         continua (prima di tre)

La brillante e curiosa voce de grande Caruso

Nessuna nota emessa da un altro cantante - ricorda Campagnola, tenore amico di Caruso e spesso suo sostituto - può far dimenticare la bellezza della sua Voce. I fonogrammi di Caruso, ovvero le riproduzioni della sua voce, ottenute sul monitor di un analizzatore che spazia dalle frequenze dei gravi verso quelle degli acuti, mettono in risalto la fascia dei suoni medio-alti.

Negli spettrogrammi di Caruso è ben distinta la zona delle alte frequenze da quella dei suoni fondamentali, gravi, con una assenza costante di frequenze fra i 500 e i 2000 hertz, cioè l’area della comune voce parlata. Le note più acute presentano persino 20 o 25 decibel in più di quelle gravi dimostrando una dinamica mai trovata in altri cantanti. Dunque, solo l’orecchio controllava il canto. Ma la straordinaria conclusione dello studioso è che Caruso era sordo dall’orecchio destro riguardo alla trasmissione dei suoni gravi.

Era questo il motivo che stimolava Caruso a modellare la sua tessitura vocale verso le frequenze più alte. Verso, cioè, quel settore di suoni che sentiva meglio. Nell’analisi della bibliografia sul grande cantante, alla ricerca di una spiegazione, non si sa nulla della vita personale di Caruso al di fuori del suo itinerario artistico. Alla fine del 1902, aveva subito in Spagna un intervento chirurgico al lato destro della faccia. Di cosa si trattava? Una tromba di Eustachio ostruita? Qualcosa che riguardava il naso?

Mistero. Eppure, proprio da quel momento, compare nel suo canto quella coloritura cosi maestosa. In lui questa particolarità era diventata una cosa naturale. Ciò non significa che basta farsi operare all’orecchio, alterandolo, per cantare bene: si tratta solo di educarlo alla maniera in cui Caruso ascoltava se stesso mentre cantava. Sicuramente la voce di Caruso dipende da vari fattori anatomici.

Il particoIare, forse singolare, autoascolto ha partecipato a costruire la sua voce d’oro ma, certamente, non fu il suo unico motivo. Alla vocalità artistica, Caruso associava la capacita di saper concentrare tutta la pienezza delle sue emozioni in una espressione musicale. Il suo animo si riverbera nel suo canto, come una divina ispirazione. Ma, dicevo, Caruso come Toto, napoletanp come Lui, sfortunato e fortunato come Lui, era amato da donne bellissime come Lui.

Dopo la separazione, avvenuta a pochi anni dal primo matrimonio, una fu la donna che accompagno Caruso in tutte le sue vittorie. Dorothy Benjamin, la moglie americana di Caruso, si era innamorata del grande tenore senza conoscerlo bene, conquistata dal divo dalla sua celebrità e non dall’uomo. Era ricca di famiglia, suo padre era un magnate e grande amico di Edison, l’inventore del grammofono.

Lo aveva visto da lontano, in scena, nei trionfi al Metropolitan di New York. Non era bello ma era ricco di talento, di leggenda e, naturalmente, di dollari. Lei non aveva certo bisogno di soldi, ma fu sedotta dalle altre due qualità. Dorothy Benjamin, da quel momento, non si sarebbe più staccata da Caruso e gli starà vicina in ogni tappa artistica.

Per il tenore, Dorothy fu un’ancora di serenità. Se e vero che accanto a un grande uomo si nasconde una grande donna, Dorothy rappresentò per Caruso la compagna ideale. Forse anche a Lei si deve il miracolo della sua voce d ’oro.

                                                                     fine

Seconda parte    

     A New York Caruso restò per circa vent’anni, suscitando veri fanatismi e accumulando grandi ricchezze. A Lui si deve la diffusione all’estero di Torna a Surriento, di Marechiaro, di ’O Sole mio e di tanti canti celebri. Sicuramente Caruso era un superdotato della voce. Nel libro L’orecchio e la voce pubblicato nel 1950 dal francese Alfred Tomatis, studioso di foniatria, l’autore definisce un “enigma” la voce d’oro di Caruso. E’ la sua voce che desta stupore e stimola a studiare quello che viene chiamato “il fenomeno Caruso”. Per Tomatis la voce d’oro è un fatto unico, e si limita a considerarlo un superdotato del suo genere. E lo fù senz’altro, perché seppe sfruttare brillantemente l’eccezionale dinamica e la coloritura della sua espressione vocale. Caruso aveva un talento affinato e un intuito spiccato per l’arte del canto. Sapeva stare nella linea melodica senza eccessi, con una estensione timbrica che riusciva a modellare come nessuno. Ricco di una particolare padronanza della voce, riuscì a eccellere per oltre vent’anni. Come giunse Caruso a questa espressione vocale cosi' caratteristica? “L’emissione carusiana - scrive Tomatis - é una tecnica in sé, connessa alla morfologia del cantante, alla solida ampiezza facciale e al suo torace incredibilmente sviluppato. Ma questi richiami sono fattori ausiliari della qualita vocale che non debbono mettere in ombra il fatto che era dotato di un ascolto, più precisamente di un autoascolto, eccezionale”. Dopo aver dimostrato che la laringe non emette con fedeltà e con continuità se non ciò che l’orecchio è in grado di controllare, Tomatis approda a quello che definisce “circuito cibernetico” il cui funzionamento è oggi verificabile nei laboratori di ricerca foniatrica.

“Questo circuito - spiega l’Autore - accerta fedelmente un fenomeno che é chiamato controreazione dell’udito sulla formazione della voce. Ogni emissione di voce deve necessariamente essere controllata uditivamente dall’individuo che la emette”. Era dunque facile stabilire quale fosse l’udito di un cantante, bastava essere in grado di analizzare la sua voce nelle componenti di intensità e frequenza. Tra il 1946 e il 1947 Tomatis, grazie alla collaborazione di un fisico, realizzò un analizzatore spettrale della voce, capace di analizzare l’intensità e la frequenza dell’emissione fonatoria. Niente di simile per l’epoca. “Disponendo della riproduzione delle note emesse dalla voce di Caruso – continua l’autore - fui in grado di ricostruire la sua maniera di cogliere i suoni proprio come faceva lui attraverso l’udito, con il suo personale modo di sentire. Avevo molte tracce registrate, così arrivai a conoscere, giorno dopo giorno, l’udito del grande cantante e a capire come, nel corso del tempo, fosse riuscito ad alterarne la curva' di risposta nel momento in cui, per la controreazione uditiva, la qualità della voce cambiava”. Tomatis riusci a cogliere elementi di ricerca molto interessanti dell’emissione Vocale, che lasciavano trasparire le splendide qualità della voce di Caruso e la morbidezza dei suoi timbri.

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L'11 marzo del 1902, Enrico Caruso è alla Scala di Milano per la prima della Germania di Fianchetti, un musicista dell'800. E' già il terzo anno che il Teatro Milanese lo accoglie, dopo il debutto avvenuto nel 1900 con la Bohème diretta da Arturo Toscanini. La serata è di grande significato sia per Enrico Caruso sia per il grammofono. Un membro del pubblico, Fred Gaisberg, era il rappresentante della Gramophone and Typewriter Company, e stava andando in giro per l'Europa in cerca di artisti per incidere dischi. Rimase molto colpito dalla voce di Caruso e gli chiese se era disposto a incidere dieci dischi, e quanto sarebbe stato il suo onorario.

Caruso accettò l'offerta e il suo compenso sarebbe stato di cento sterline. Gaisberg trasmise la proposta ai suoi dirigenti a Londra ma, per risposta, ebbe un telegramma con la famosa frase, "tariffa esorbitante, ti vietiamo di incidere". Ma, fortunatamente, per Caruso, per l'industria musicale e per la Compagnia discografica, Gaisberg ignorò il telegramma e i dischi vennero realizzati l'11 aprile del 1902 nella suite del Grand Hotel di Milano, dove l'impresario alloggiava. L'iniziativa azzardata di Gaisberg fece guadagnare alla sua compagnia 15.000 sterline soltanto per le vendite dei dischi, e all'improvviso, chiunque doveva possedere la strana macchina parlante. Che sia il grammofono che fece Caruso o Caruso il grammofono, non è facile dirlo.

L'uscita dei dischi coincise con il suo debutto alla Royal Opera House di London e contribuì fortemente ad assicurargli una recitazione internazionale. La maggior parte dei grandi cantanti dell'epoca era stata riluttante a sottomettersi alle incertezze dello strano attrezzo col corno, ma i dischi di Caruso ebbero enorme successo donando all'industria una immagine di grande rispetto, e convincendo i cantanti ad affidare la loro arte ai dischi. Senza farsi intimorire dall'incognita delle incisioni musicali allora agli albori, Caruso si tuffò nel nuovo, cantando nel rudimentale imbuto delle sale di registrazione in un momento in cui i suoi colleghi avevano paura che le voci uscissero sformate da quelle diavolerie tecnologiche.

Caruso non si limitò a quest'avventura, ma raddoppio l'azzardo, investendo nell'industria del disco, moltiplicando cosi incassi e glorie. E continuerà a incidere fino al 1920 con un successo sempre crescente. Nel 1903 fece il suo ingresso trionfale al Metropolitan di New York, ma non dimentico mai di essere napoletano. Allegro, simpatico, generoso, pretendeva fior di dollari per cantare nei salotti dei ricchi americani, ma era capace di cantare, gratis, le Canzoni napoletane per allietare gli emigranti. Napoletano come Toto, imitò il grande comico che, ormai ricco, infilava di nascosto i soldi sotto l'uscio dei poveri.

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Alle origini del personal computer. seconda parte

Nel 1947 al computer Eniac il suo costruttore, von Neumann (Budapest 1903-Washington 1957), fece seguire l’Edvac, una macchina che operava con l’aritmetica binaria e dava la possibilità di caricare il programma nella memoria elettronica, cosi come avviene nelle macchine di oggi. I primi computer occupavano intere stanze: grandi locali pieni di valvole, circuiti, ventilatori e, ovviamente, tante persone. Queste spostavano continuamente nastri, pulsanti e leve di comando ed erano altrettanto importanti quanto gli stessi circuiti e le valvole. Il potenziale operativo era affidato a questi sommi sacerdoti che ne sviluppavano i programmi. Uno di questi era Claude Shannon (Stati Uniti 1916-2001) del Mit, Massachusetts lnstitute of Technology. A Shannon si devono tante idee chiavi nella teoria delle comunicazioni; queste idee rappresentarono contributi importanti alla Teoria dell’informatica e dei controlli programmati che, successivamente, prese il nome di “cibernetica”. Shannon fu il primo a sostenere che i computer sarebbero stati in grado di giocare a scacchi o a dama ad alto livello studiando un gran numero di mosse e scegliendo poi la migliore. Negli anni cinquanta lo statunitense Arthur Samuel (1901-1990) dell’americana IBM, International Business Machines, sviluppò un programma di dama capace di imparare dall’esperienza. Il programma di Samuel, come quello di Shannon, era in grado di valutare le mosse e le risposte probabili dell’avversario, cosi come farebbe qualunque giocatore. Il programma teneva in memoria le partite antecedenti cosi, se si imbatteva in una posizione della scacchiera che aveva già esaminato, poteva scegliere la mossa successiva ricordando che cosa era successo l’ultima volta che si era trovato in quella posizione. Questa forma di programmazione primordiale oggi fa sorridere, negli anni cinquanta, invece, rievocava nei più il fascino del mistero inducendo nella fantasia popolare l’idea che la macchina avesse qualcosa di umano, quel “cervello elettronico” con cui per tanti anni venne chiamata la semplice macchina da calcolo. Un computer che cinquant’anni addietro riempiva un appartamento sta oggi sulla testa di un chiodo e costa un milione di volte meno. La prepotente e veloce rivoluzione industriale che ha preso il via con i microchip integrati della Silicon Valley, un’area geografica a sud di San Francisco, ha creato un modo nuovo di concepire i suoi stessi prodotti rivoluzionando se stessa e negandoci ogni previsione per il futuro.

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Alle origini del personal computer

Sebbene anticipato a metà degli anni Trenta dagli studi di un gruppo di ricercatori tedeschi il computer, come lo conosciamo oggi, deriva da progetti del tempo di guerra sviluppati in Inghilterra e negli Stati Uniti.

Questi ebbero inizio nel ’37 quando il matematico britannico Alan Turing pubblicò l’articolo “on Computable Numbers” sulla prestigiosa rivista London Mathematical Society, una sorta di considerazioni sulle macchine manuali da calcolo.

Nel ’39 scoppiò la guerra e, con l’aiuto di agenti infiltrati in Polonia, il servizio segreto britannico riuscì a impadronirsi dell’Enigma, la famosa macchina di cui erano dotate le forze tedesche del Terzo Reich per codificare e scambiare messaggi segreti fra i reparti operativi.

Se fossero riusciti a decifrare il codice dei messaggi tedeschi gli Inglesi avrebbero potuto anticipare la strategia. Fu Turing che, nell’intento di comprendere i messaggi segreti, costruì il Colossus, un computer “velocissimo” a valvole elettroniche che leggeva dati da un nastro perforato con la velocita di cinquemila caratteri al secondo.

In un centro di ascolto vicino Londra i servizi inglesi poterono cosi scoprire le chiavi di lettura delle radiotrasmissioni provenienti dai vari teatri di guerra, prevedendo in anticipo le mosse del nemico. Certo non fu Turing a farci vincere la guerra, disse uno dei suoi collaboratori, ma senza di lui avremmo potuto perderla. Il Colossus di Turing fece segnare un grande progresso, ma sapeva fare una cosa sola: decifrare i codici Enigma.

In America il primo grande computer fu l’Eniac, Electronic Numerical Integrator and Calculator. Progettato da Eckart e Mauchly all’Università di Pennsylvania, l’Eniac fu completato nell’aprile del 1946, occupando un intero edificio. Costruito con la tipica dispendiosità americana, conteneva diciottomila valvole per svolgere un complesso di funzioni che, se confrontato con il più piccolo calcolatore tascabile odierno risulterebbe assolutamente ridicolo.

Sono due i caratteri essenziali che differenziano l’Eniac dalle macchine nate successivamente; innanzitutto questo lavorava col sistema decimale anziché binario, come avviene oggi. Il sistema decimale deriva dalla possibilità di contare con le dita della mano, e questa limitazione umana fu imposta all’Eniac, facendo si che le cifre venissero immagazzinate in «anelli» di dieci valvole elettroniche.

Per contro il sistema binario è particolarmente adatto ai sistemi elettronici che possono lavorare definendo solo due stati essenziali: presenza o assenza di una corrente elettrica. Una cifra binaria o bit (da binary digit) può quindi essere immagazzinata in uno solo di tali stati. Il secondo carattere era più importante, l’Eniac poteva essere programmato stabilendo manualmente i collegamenti elettrici sul pannello di controllo. In questo modo si stabilivano i percorsi elettrici attraverso i quali la macchina avrebbe eseguito i suoi calcoli. Una volta programmata la macchina rimaneva rigida nei suoi percorsi obbligati.

Fu il matematico Princeton von Neumann a intuire che un computer doveva caricare il suo programma usando lo stesso codice elettronico che veniva usato per i dati da elaborare. Il programma stesso doveva equivalere a una sorta di informazione da elaborare. Anziché possedere una sequenza fissa di passi, un programma per computer doveva comprendere un iter di esperienze possibili e le sue operazioni potevano anche non essere prevedibili in anticipo.

Il computer doveva essere quindi capace di eseguire un calcolo, confrontare il risultato di questi con altri numeri e poi usare il risultato del confronto per scegliere i passi successivi.

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La rivoluzione del 20' secolo è elettronica.

Il nome transistor venne coniato come abbreviazione della frase: TRANSferring current across a resISTOR che descrive sinteticamente la funzione del dispositivo, quella cioè di trasferire un’informazione (elettrica) attraverso gli elementi resistivi costituiti dalle scagliette di silicio o di germanio costituenti il dispositivo stesso. Grazie al particolare fenomeno scoperto, è possibile pilotare con una debole corrente di entrata (segnale da amplificare) una forte corrente di uscita, di ampiezza notevolmente maggiore di quella presentata all’ingresso del dispositivo.

E’ il principio su cui poggia la teoria dell’amplificazione che fa del Transistor l’erede naturale del tubo elettronico. Ma una definizione più stimolante del transistor sta nella constatazione che si tratta del dispositivo che ha dato inizio alla terza rivoluzione industriale. I chips contenuti in un personal computer o in un diffusissimo telefonino sono realizzati da decine di migliaia di transistors.

I nomi dei ricercatori che hanno dato vita al transistor sono ai più sconosciuti; eppure, siamo cosi dipendenti da questo minuscolo oggetto di cui non riusciremmo a farne a meno se non rinunciando a carte di credito, reti informatiche e tante altre comodità. L’anonimato che circonda gli inventori dei semiconduttori, dei transistors, è un fenomeno che stimola la curiosità di chi scrive.

Nella fantasia popolare il prestigio sociale spetta ai presentatori televisivi, ai politici corrotti e alle attrici formose. Chi fa vera scienza non ama mettersi in mostra e lavora all’ombra di quell’intimo piacere che lo isola dal mondo delle apparenze. Difficilmente ricordiamo i nomi di ricercatori e scienziati; a questa realtà siamo cosi abituati da non soffermarci più di tanto, anche se si tratta di gente che ha sconvolto il modo di vivere dell’umanità. Probabilmente riteniamo che ogni cosa ci spetta di diritto. Ogni novità é un fatto acquisito, quasi faccia parte di quel patrimonio di benessere che il mondo riserva solo, e solamente, a un quinto della popolazione che lo abita.

Immersi nell’universo tecnologico, delle comunicazioni satellitari e del consumismo di gadget elettronici, troviamo naturale sconoscere i padri di tanta evoluzione. Consumismo e progresso tecnologico vorticoso hanno saturato l’immaginario collettivo che non riesce più a meravigliarsi né dell’invenzione né dell’inventore.

                                                               fine

La rivoluzione del 20' secolo è elettronica

L’invenzione del transistor scaturiva da nuove conoscenze fisiche sui semiconduttori. Nel novembre 1874 Ferdinando Braun, professore di fisica sperimentale presso l’Università di Strasburgo, pubblicava una relazione “sulla conduzione di corrente nei cristalli di solfuro”, attirando l’attenzione degli specialisti sul fenomeno scoperto: l’intensità della corrente che passa nel cristallo dipende dal verso della corrente.

Lo stesso Braun non seppe dare una spiegazione del fenomeno. Nel 1876 Werner Von Siemens, nel corso di un esperimento sulla sensibilità luminosa del selenio notò un fenomeno analogo descrivendolo come un contraddittorio sulla conducibilità elettrica. Solo 25 anni dopo Braun impiegava il cristallo di solfuro (la galena) per la ricezione delle onde radio. Negli anni venti i primi radioascoltatori si ponevano con le loro cuffie davanti al “detector”, o cristallo di Galena, e armeggiavano per ottenere il migliore ascolto.

Oggi gli studi di fisica sono ricchi di contributi sulla “fisica dello stato solido” ma nell’era antecedente all’invenzione del transistor questo filone scientifico era pressoché ignorato. Il direttore dei laboratori della Bell Telephone, William Shockley e i suoi collaboratori Walter Brattain e John Bardeen, prima dell’evento bellico del 1940, avevano avviato studi sui semiconduttori a ossidi di rame e di selenio già allora utilizzati negli apparati di telecomunicazione del Siganl Corps, il reparto per le telecomunicazioni dell’Esercito americano.

Alla fine del conflitto il gruppo concentrò la propria attenzione sui semiconduttori al germanio. Questi erano cristalli tipicamente isolanti, contenenti piccole impurità artificiali (drogaggio elettronico) capaci di far scorrere una corrente elettrica solo in un verso. Nel 1946 i loro sforzi erano concentrati nello studio dei cristalli di germanio e di silicio, gli elementi chimici di cui si avvarrà la costruzione di tutti i futuri transistors e i circuiti integrati, quei minuscoli chips che hanno trasformato il nostro modo di vivere. Shockley, più che interessato allo sviluppo degli elementi chimici, fu attratto dall’idea di poter sfruttare i semiconduttori per amplificare segnali elettrici.

Si doveva attendere il 1948 perché gli sforzi di Bardeen e Brattain trovassero riscontro nella costruzione di un dispositivo che funzionasse veramente. Shockley nel gennaio del 1949 pubblicava i principi teorici del transistor, dispositivo a semiconduttori o a stato solido come oggi lo conosciamo. Negli anni successivi un rapidissimo progresso tecnologico stimolava la creazione e la produzione su vasta scala di un’estesa gamma di transistors per le più svariate applicazioni da quelle radiotelefoniche e televisive a quelle dell’ingegneria biomedica, fornendo un forte esempio dell’immediatezza con cui i risultati della ricerca possono essere applicati al progresso tecnologico. Nel 1956 Shockley sarà insignito del Nobel per l’invenzione del transistor.

seconda parte, continua

 

---La relazione tra scienza e tecnologia è molto stretta e nessuna delle due avrebbe raggiunto l’attuale livello senza aiuto dell’altra. Ma l’aspetto tecnologico è quello che conosciamo meglio perché ci coinvolge da vicino nella vita di ogni giorno. Alcune delle più grandi innovazioni, come le scoperte astronomiche e le teorie dell’evoluzione, hanno avuto scarsa influenza sulla nostra esistenza. Persino la teoria sulle onde elettromagnetiche e la teoria atomica, sebbene abbiano modificato profondamente la qualità della vita, non hanno avuto significativo impatto sociale finché non sono nate le applicazioni tecniche.

Che valenza ha un’innovazione tecnologica? Un’innovazione, per essere socialmente utile, deve godere di largo impatto sociale e, soprattutto, deve migliorare la qualità della vita. Spesso una scoperta rappresenta il miglioramento di qualcosa che già si conosce, in altri casi può essere la diversa interpretazione di una legge fisica o naturale. E’ proprio questo che avveniva sessant’anni addietro quando, sulla scorta di conoscenze già acquisite sui “semiconduttori”, era scoperta la funzione del Transistor, quel piccolo dispositivo elettronico capace di amplificare un segnale elettrico, un’onda elettromagnetica, un’informazione telegrafica o telefonica, senza ricorrere ai fragili e ingombranti tubi elettronici (valvole) fino a quel tempo largamente impiegati. Per capire il momento dell’invenzione basti pensare che in appena cinque decenni la valvola termoionica (inventata dall’americano Lee De Forest nel 1904) aveva permesso lo sviluppo della radio e della televisione, avviando la realizzazione di quella rete telegrafica e telefonica mondiale che avrebbe superato limiti fisici e ideologici.

Già durante la seconda guerra mondiale Ralph Bown, direttore scientifico della Bell Telephone Company, aveva individuato i lati deboli dei tubi elettronici. Erano intrinsecamente fragili e presentavano un basso rendimento, consumando tanta più energia di quanto era quella del segnale da amplificare. Il loro ingombro era spesso proibitivo impedendo di ridurre le dimensioni e la trasportabilità degli apparati. E’ in questo scenario tecnologico che il transistor si presenta con tutti i suoi vantaggi. E’ piccolo, leggero, resiste a tutte le vibrazioni, non é soggetto a invecchiamento e necessita di pochissima energia per il suo funzionamento.

 

prima parte, continua

Meucci, inventore del telefono  Suo figlio, ambulante a Tindari 

A Carlo Meucci, in qualche rara occasione, arrivò qualche dono, qualche piccola somma di denaro, ma mai Carlo fu riconosciuto come il figlio di Antonio Meucci, l’inventore del telefono vissuto nel 1800. Viveva solo, coperto di abiti che segnavano il tempo; viveva di piccole cose vendendo souvenir e statuine della Madonna di Tindari, nel paesino che porta questo nome. Mai un riconoscimento ufficiale nemmeno dalle società telefoniche che, certamente, devono a suo padre Antonio le loro fortune. O meglio, per essere giusti, una volta le Autorità si occuparono di Carlo Meucci, fu il giorno in cui a Tindari si inaugurò il “posto del telefono”, un antico e ingombrante telefono di legno attaccato alla parete della rivendita dei tabacchi. “Lei è figlio dell’inventore del telefono?”, chiese sua Eccellenza. Poi, senza nemmeno attendere una risposta, gli mise in tasca una piccola somma. Racconta il vecchio: “il cuore mi saltava in gola, mi sentivo fuori da quella farsa…”. “Carlo Meucci parlava lentamente, quasi a fatica, aveva gli occhi buoni, teneri, e mi teneva sulle sue ginocchia a raccontarmi storie che non sapevo, non capivo e che a fatica oggi ricordo. Erano sempre parole tristi, troppo grandi per me che avevo solo pochi anni”. A riferire è Pietro Procopio, marittimo messinese, che a distanza di settant’anni rievoca spontaneamente questo suo scorcio di infanzia vissuta a Tindari. Una storia forse come tante, che oltrepassa i limiti del calore umano, frutto della società del finto benessere, dell’egoismo e della violenza del vivere. Eppure Carlo Meucci era figlio di Antonio Meucci, il “padre” del telefono.

Dopo vari contenziosi giudiziari con Alexander Graham Bell, scozzese di nascita ma americano acquisito, che rivendicava l’invenzione del telefono, la giustizia americana riconobbe ad Antonio Meucci la straordinaria invenzione solo nel 2002. Meucci, pur avendo dimostrato già a suo tempo nei tribunali d’America di essere stato il primo a trasmettere la voce attraverso un conduttore elettrico, non venne riconosciuto mai come primo e unico inventore del telefono. Antonio Meucci fu lasciato morire in totale povertà nel 1889 senza aver appreso di aver trasformato, con la sua invenzione, il modo di vivere del genere umano.

 

Ma Meucci non aveva lasciato sulla Terra solo il Telefono ma qualcosa di più importante, suo figlio Carlo. Carlo arrivò in Italia dall’America nel 1915 e visse da nomade per vent’anni vendendo per la strada rocchetti di cotone per cucire e piccole cianfrusaglie. Si trovò a Tindari per puro caso, nel suo girovagare, tra gente semplice che gli somigliava, che non conosceva la sua storia né quella di suo padre e tanto meno quella del telefono. “Non ha mai avuto una casa fissa né un luogo dove legare conoscenze e amici, viveva solo con se stesso” ricorda Procopio. Ma a Pasqua, ogni anno, raccoglieva quelli della piazza di Tindari, quelli che come Lui vendevano statuine della Madonna Nera e, attorno a un grande tavolo, li invitava a pranzo con lui. I pellegrini erano tanti e i suoi piccoli affari, lontani dalla mafia industriale americana che aveva schiacciato la sua famiglia, gli permettevano, all’età di quasi novant’anni, questo squarcio di notorietà. La piazza, una volta l’anno, gli donava poche ore di allegria e faceva ricordare l’importanza del suo nome, ma solo a se stesso perché ne alla gente comune ne alle autorità “preposte” interessava nulla di Carlo Meucci, figlio di Antonio Meucci l’inventore del telefono.

 

----Meucci, nel contenzioso con Alexander Graham Bell, ne fece una questione di dignità e di principio, conducendo Bell in una lunga causa. Nel luglio del 1887, ribaltando ogni verità, il giudice William James Wallace emetterà una sentenza storica dando la paternità della rivoluzionaria invenzione alla società Bell e concludendo un contenzioso iniziato nel lontano 1871.

Ma la Globe Company assiste ancora Meucci ricorrendo in appello e nel 1888 arriva il provvedimento finale che restituisce al «povero» italiano la paternità dell’invenzione. La giustizia americana, però, non riconobbe a Meucci alcun risarcimento lasciandolo angosciare nella miseria e morire in totale povertà l’anno successivo. Si dovrà aspettare la meticolosa ricerca di un italiano, l’ingegnere Basilio Catania, per dimostrare con indiscutibile documentazione la priorità di Meucci. L’opera dell’ingegner Catania, unitamente a quella di Dominic Massaro, giudice della Corte Suprema di New York, ha trascinato la questione al Congresso degli Stati Uniti. E’ lì, a Washington, nella sessione della Camera dei Rappresentanti l’11 giugno 2002, che la risoluzione 269 ripercorre la vicenda di Meucci, riconoscendo definitivamente al genio italiano la priorità dell’invenzione. Il nome di Bell però resterà nei tempi, costituendo la grandezza fisica con cui oggi si misura il livello sonoro, il decibel (dB).

 

La nebbia che avvolge i misteri della storia copre tante vicende dell’umanità e, come tutti gli eventi che passano attraverso le maglie della giustizia degli uomini, anche quello del telefono non finisce qui. La paternità del telefono è sicuramente italiana, ma appartiene solo a Meucci? Sembra proprio di no se già nel 1865 l’Eco d’Italia di New York, un giornale edito per gli italiani in America, riporta la scoperta fatta da un certo Innocenzo Manzetti di Aosta che, attraverso un apparato elettrico da lui ideato, è in grado di trasmettere la parola a distanza. Lo stesso giornale riserva altrettanto spazio ad Antonio Meucci concludendo che ambedue gli italiani erano arrivati a inventare qualcosa di simile. L’Eco d'Italia così si esprime: “Innocenzo Manzetti trasmette le parole a mezzo di un filo telegrafico e dagli esperimenti già fatti i risultati son tanto positivi da intravedere già le pratiche applicazioni della scoperta e la possibilità di trasmettere le parole, pel mezzo dell'elettricità, è già realtà”.

 

Meucci, investito della conoscenza di questi fatti antecedenti i suoi studi non nega l’invenzione del Manzetti dichiarando, in buonafede, che non ne era a conoscenza sino a quel momento. L’invenzione di Manzetti resterà solo una primordiale esperimentazione e il suo nome non avrà mai la possibilità di imporsi nella storia delle telecomunicazioni.

 

Nasceva così con data imprecisa, ma circa 150 anni addietro, la scoperta, l’invenzione e l’applicazione tecnologica che, per eccellenza e inconfutabilmente, avrebbe riscritto il modo di vivere della società, inventando un “dialogo sociale” sino ad allora sconosciuto al mondo intero. Gli effetti positivi di questa comunicazione globale sono sotto gli occhi di tutti. Riusciremmo, oggi, a pensare un mondo senza telefono?

 

fine

Il telefono, un'invenzione con tanti inventori. 1' puntata

A centocinquant’anni dalla sua nascita, il telefono non ha un solo inventore ma tanti. Come spesso avviene ai nostri giorni, l’invenzione si deve a un clima di generalizzato progresso e alle numerose piccole scoperte che danno, via via, corpo all’idea.

In un certo senso il telefono è figlio del telegrafo di Samuel Morse che nel 1837, per la prima volta, aveva inviato messaggi lungo una linea elettrica utilizzando il suo famoso codice a punti e linee. Dopo le clamorose applicazioni di Morse, il fiorentino Antonio Meucci intuì la possibilità di inviare, lungo una medesima linea elettrica, la voce umana, dopo averla trasformata in un analogo segnale elettrico. Meucci descrive così la sua esperienza: con un diaframma vibrante pel la mia voce, altero la corrente di un magnete che trasmetto all’altro capo del filo, imprimendo le medesime vibrazioni a un diaframma che ricrea la parola.

Nato a Firenze nel 1808 Meucci, a soli 23 anni, è costretto a emigrare in America con la moglie Ester e, per poter vivere, fa tanti mestieri. Il telefono si presenta come una delle tante applicazioni dei fenomeni elettrici allora studiati. Meucci, privo di mezzi per poter sfruttare commercialmente l’invenzione, il 28 dicembre 1871 deposita il brevetto per il suo telefono parlante, ideato addirittura ben diciannove anni prima nel 1852. Ma la mancanza di soldi non permette all’inventore italiano di rinnovare la copertura del brevetto dopo il secondo anno. E così, come insegna la vita, si fanno avanti i profittatori. È il momento dello scozzese Alexander Graham Bell, un facoltoso professore di scuola superiore che realizza praticamente l’invenzione di Meucci proteggendola sapientemente, nel 1876, con diversi brevetti industriali. Bell presenta la "sua” invenzione all’esposizione mondiale di Filadelfìa, stupendo i giornalisti che già intravedono nella sua applicazione lo stravolgimento del modo di vivere dell’umanità. I titoli, fantasiosi e sensazionali, coprono le testate di tutto il mondo. I riconoscimenti pubblici per Alexander Graham Bell non si contano e nel 1877, sull'onda dell’entusiasmo, nasce la Bell Telephone Company, una società che dovrà curare gli interessi della nascente telefonia.

Grazie alla grande disponibilità di denaro, Bell è scienziato e imprenditore allo stesso tempo e, accanto allo studio e alla ricerca, assiste allo sviluppo industriale della sua Bell Telephone Company. Da questa ebbe origine l’attuale AT&T, American Telephone and Telegraph, il colosso multinazionale delle telecomunicazioni. Bell, ancora, nel 1873, fu fondatore di Scienze, la rivista che sarebbe diventata l’organo di stampa ufficiale dell’American Association for thè advancement of Science e che rappresenta oggi una delle pubblicazioni scientifiche più prestigiose. E Meucci, il vero inventore, che fine fa? Beh, lo sfortunato emigrante italiano non si da per vinto. Sponsorizzato dalla Globe Company intenta giudizio a Bell e fa conoscere, attraverso i giornali, la frode perpetrata da questo ai suoi danni. Le inchieste giornalistiche diedero il via a una indagine che portò alla scoperta della verità, ma fù tutto inutile. Meucci rifiutò orgogliosamente un indennizzo di 350 mila dollari che la Bell Telephone Company gli aveva offerto in cambio di un silenzio senza limiti.

                                                          prima di due

Alicudi, per ascoltare il silenzio 

Un mio collega, anche lui appassionato di suoni come me, amava dire: “capirò l’acustica quando qualcuno potrà spiegarmi perché il rumore del mare mi fa dormire e il passaggio di un’automobile mi sveglia”. Son passati oltre trent’anni da quel momento, e ne Lui ne io abbiamo saputo dare una risposta a questo dubbio.

E allora potremmo dire che il rumore del mare non è sgradevole mentre quello dell’auto è fastidioso? potremmo misurare con un fonometro (lo strumento che valuta l’intensità dei suoni) la lenta risacca delle onde marine, direbbe il sapiente di acustica di turno, ma forse scopriremmo che il “brontolio del mare” è più forte del passaggio …dell’automobile. E allora andiamo a vedere come variano i vari livelli di intensità, in quanto tempo cambiano questi fastidiosi decibel, e forse potremmo tirar fuori … qualche altra sciocchezza che solo i “sapienti sanno”. Ma allora dove sta la differenza? Come tutti i processi che usiamo per conoscere il mondo che ci ospita non possiamo che fare una sorta di approccio fantasioso, tentando di cogliere le differenze fra i due suoni che ho citato. Naturalmente vedo ancora l’esperto (?) che viene a dirmi: “ma va il rumore della macchina è più forte, il suono del clacson è acuto…anzi no…è grave…anzi..”, e ancora altro. Sarebbe il caso dire chi più ne ha più ne metta, i sapienti sono sempre pronti e disponibili. Somigliano tanto ai personaggi della politica. Ma allora dove sta la differenza? I tre grandi suoni elementari in natura sono il rumore della pioggia, il rumore del vento in un bosco e il suono del mare che si frange sulla spiaggia. Questi suoni influiscono favorevolmente sullo stato d’animo e sul sonno imminente.

Li ho sentiti e, delle tre voci elementari, quella del mare è la più incredibile, bella, stimolante e sensuale. Volendo fare il fisico (…mi si consenta, direbbe qualcuno) potrei dire che il rumore del mare è un rumore bianco, (gergo tecnico) cioè a largo spettro, che copre tutte le frequenze udibili dall’uomo, da 20 Hertz a 20.000 Hertz, dai toni più gravi a quelli più acuti. Il livello di intensità (...i famosi decibel) del rumore del mare cresce e diminuisce dolcemente, non è mai impulsivo, lasciandoci lentamente cullare in questa lento andazzo sonoro. Ma non ho aggiunto nulla di nuovo al fascino e alla maestosità di questo suono unico e mai interpretabile. Io mi permetterò fare solo qualche timida ipotesi, conscio di trattare un argomento di impossibile soluzione. Vedo ancora l’esperto pronto a leggermi e a fare i suoi commenti. Anzi, ha già le orecchie aperte immaginando or uno or l’altro dei suoni citati.

Non credo di sbagliarmi ma per ascoltare il suono del mare è opportuno ascoltare il silenzio e, per far questo, visto che siamo sul Notiziario delle Eolie, l’ideale sarebbe portarsi nella più emblematica delle nostre sette isole, Alicudi. Un’Isola lontana dalle Isole, dove manca qualunque forma di attività produttiva, minimo-industriale. Un’Isola dove manca il traffico veicolare e qualunque altra sorgente di rumore se non quello naturale dell’acqua del mare. Potrà sembrare una presunzione, ma solo vivendo quest’isola per qualche notte ci si potrà rendere conto cosa sia il silenzio e questo misterioso rumore dovuto allo sciabordio delle onde del mare. Naturalmente a patto che non arrivi il “fracassone di turno”, la radio del vicino o il natante a “tutto giri” a rompere questa autentica magia. L’acqua sulla battigia, sulla sabbia e sulle pietre che fanno da confine alla terra dell’Isola e che producono questo misterioso rumore che, assicuro, fa solo piacere.

 

Spendiamo un terzo del nostro tempo lavorando facendo sì che il nostro organismo subisca lenti e inesorabili processi di degrado. E’ una fetta della nostra vita che va via per “guadagnarci da vivere”. Già studiosi come Ippocrate avevano evidenziato, oltre duemila anni fa, patologie legate alla tipicità lavorativa. Si deve arrivare al 1700 perché il primo medico del lavoro, l’italiano Bernardino Ramazzini, dedichi un manoscritto alle patologie professionali.

Padre della medicina del lavoro, Ramazzini, nato a Carpi (nel Modenese) nell’ottobre del 1633 e divenuto medico a Parma nel 1670, era egli stesso conscio di aver dato inizio a una nuova specialità della medicina. Scrivani, soldati, becchini, pescatori, lavandaie, contadini e medici, diversamente da quanto si pensa nel suo tempo, Ramazzini li considera tutti “lavoratori”. Sebbene la ricerca sulle patologie da lavoro sia rimasta il suo primo interesse, Ramazzini studiò anche le relazioni tra clima e benessere dell’uomo e, anche per questo, può essere considerato un precursore dell’igiene pubblica. Ramazzini, oggi e ben a ragione, é considerato il fondatore della medicina del lavoro. Nel 1700 pubblica, in latino, il suo celebre De Morbis Artificum Diatriba, (Discorso sulle malattie dei lavoratori) nel quale prende in considerazione le malattie collegate al lavoro fisico e intellettuale. Per quarantanove categorie delle professioni più importanti di quel tempo, vengono indicate le misure profilattiche e terapeutiche da adottare. Per anni Ramazzini ha studiato queste affezioni non sui libri ma nella vita di ogni giorno, andando tra la gente, nelle botteghe e nelle misere case dei contadini. E’ l’esperienza diretta che gli dà contezza delle difficoltà sociali che si incontrano per curare un contadino o un operaio: “Costoro temono le lunghe cure, temono di lasciare per molto tempo il lavoro, unico loro sostentamento, o di essere licenziati, sono quindi restii a denunciare i propri malanni”. A quel tempo non esistevano ne previdenze sociali né cassa integrazione.

 

Il medico modenese si occupa anche delle malattie polmonari che colpiscono i minatori e i marmisti per l’aspirazione di polveri. “I minatori, che nelle cave della terra mantengono un contatto quotidiano con le infernali polveri…hanno i polmoni che assorbono le esalazioni dei minerali e subiscono l’assalto dei gas velenosi”. E’ implacabile accusatore dei danni dovuti al fumo del tabacco, del cui uso vagheggia l’abolizione in un periodo storico in cui gli effetti lesivi erano meno terrificanti di oggi. Altri, nei secoli, raccoglieranno le sue idee.

 

Una società sempre più organizzata porterà a una codificazione vera e propria delle patologie, acquisterà la concezione di una medicina del lavoro intesa come presa di coscienza delle malattie che possono colpire le singole categorie. Vanno via via cancellate situazioni di lavoro disumane e costruite misure che tutelano la dignità del lavoratore e la sua salute fisica e mentale. I primi approcci sistematici delle malattie da lavoro sono stati affrontati in Inghilterra nel 1850, in una delle tante rivoluzioni industriali. Questo paese era allora fra i più industrializzati del mondo per le ricche miniere di carbone ed era quindi consequenziale che il personale addetto rimanesse vittima di patologie polmonari. In Italia il medico del lavoro nasce come medico internista che al capezzale del malato osserva la patologia cercando di individuare negli agenti chimici, fisici e biologici cui il lavoratore é esposto, la genesi della malattia. Nell’ultimo mezzo secolo il medico del lavoro ha operato per evitare la comparsa della patologia, piuttosto che curarla dopo. Egli ha osservato le alterazioni della salute dei vari organi senza approfondire la competenza delle differenti specialità, ma ponendosi quale consulente dei vari colleghi specialisti e chiedendo via via il loro contributo.

 

Un tempo il rischio da lavoro era considerato ineluttabile, legato al lavoro stesso e, quindi, ineliminabile. Una sorta di fatalismo produttivo. Bisogna arrivare al 1899 per trovare un regolamento per la prevenzione dei rischi alla salute dei lavoratori delle cave e delle miniere. Nel 1927 le leggi fasciste cominciano a regolamentare l’igiene sul lavoro e il codice penale del 1930 introduce, per la prima volta in Italia, la sanzionabilità dell’inosservanza degli obblighi di prevenzione. Sarà la Carta Costituzionale nel 1948 a definire i principi per una completa tutela del lavoro. La legislazione di prevenzione e sicurezza sul lavoro nasce in Italia tra il 1955 e il ’56 con due pilastri storici, il Decreto del Presidente della Repubblica, DPR 547/55 e il DPR 308/56, che affondano le loro radici nello spirito di uguaglianza ed equità dettato dalla Costituzione. Lo studio del binomio uomo-ambiente e i provvedimenti di ordine preventivo (abbattimento dei rischi ambientali e degli agenti lesivi) ha ridotto le malattie professionali. Se un tempo vi erano malattie come l’abestosi, la silicosi, il saturnismo e l’ipoacusia, le azioni di bonifica hanno ridotto fortemente i contatti e le possibilità di danno. Purtroppo il rischio è insito nella vita stessa e il suo azzeramento è impossibile.

 

Oltre tre secoli fa Ramazzini preconizzava leggi e misure divenute solo oggi conquiste dei prestatori d’opera: orari di lavoro più umani, condizioni ambientali più salubri, tutela delle lavoratrici madri, prevenzione degli infortuni sul lavoro. A lui va il merito della nascita dell’odierna Medicina del Lavoro. In Italia si dovrà arrivare al 1994 con l’emanazione del Decreto Legislativo 626, che recepisce le numerose direttive della Comunità Europea in tema di prevenzione dei rischi dei lavoratori. Con il D. Lgs. 626, e successivamente con il Testo Unico n° 81 del 2008, l’Italia, madre di chi ha dato il via a questa scienza, sottolinea il vero significato di lavoro, sinonimo di essere e operare nel rispetto della dignità umana.

L’AVVENTURA DELLA RADIO, LA TV. 20’ puntata

 

                                                                                                                 

 

     Il passo fra la radio e la televisione è breve, ambedue promettono informazione ed evasione, parte seria e divertimento come se ognuna di questa non fosse che l’evoluzione dell’altra. Non può esserci impegno se non c’è il godimento che distoglie dall’attività seria. Negli anni sessanta, per tanti ancor oggi indimenticabili, arriveranno programmi di pura evasione e il sorriso entrerà in ogni casa. Per tutti il ballo serale sarà il Dada Umpa con Alice ed Ellen Kessler e Il Musichiere di Mario Riva, farà sorridere tutti i sabati grandi e piccini promettendo, nel cartellone di chiusura, che “Il Musichiere tornerà a voi sabato prossimo”. Nasce Non è mai Troppo Tardi con il mitico maestro Alberto Manzi, un corso per insegnare a leggere e scrivere agli analfabeti che in Italia sono ancora numerosi. Il pomeriggio appartiene al Professor Cutolo che, con dolcezza e precisione da MinCulPop (Ministero della Cultura Popolare) di evocazione fascista, insegnerà a tutti i telespettatori la stessa lingua, quella italiana. Azzardando una mia opinione, e come tale discutibile, si può dire che in certi sobborghi più isolati negli anni '50 e ‘60 la televisione è arrivata prima dell’alfabeto. Non dimentichiamo che fino a pochi decenni addietro un Piemontese aveva difficoltà a comprendere…un Siciliano! 

 

 

La Tv racconta l’Italia, canzoni e tragedie, varietà e lacrime, governi a termine e governi “balneari” saranno portati alla conoscenza di tutti i cittadini. Il Festival di Sanremo va in diretta e nascono i nuovi idoli della sera. Modugno da Volare passa al cinema, e anche dal grande schermo il personaggio televisivo riesce a strappare qualche lacrima. Rita Pavone insegna agli italiani che si può cantare anche urlando, con grande soddisfazione dei giovani di allora e con tanta nostalgia degli attempati di oggi. Il vento degli anni 60 investirà poi come un ciclone la nostra estate avvalendosi della televisione per fissare date, immagini e amori appena nati.

 

Il 28 luglio 1976, grazie a una sentenza della Corte Costituzionale, la RadioTelevisione di Stato non ha più il monopolio delle trasmissioni. Si fanno avanti i privati e, con logica commerciale e sulla scorta di quanto avviene in altri Paesi, si fa battaglia per recuperare più audience possibile. Fortemente diversificati, i programmi televisivi non sono più voce di Governo in nessuna parte del mondo democratico. Il mezzo televisivo è informazione, dialogo e coinvolgimento totale. Per i giovani la televisione è sempre esistita; chi l’ha vista nascere la considera un fatto acquisito e ormai integrato nella vita d’ogni giorno. E’ il “medium” che nasce e ci pervade, sia solo sonoro come la radio sia anche visivo, diventando un messaggio che produce effetti profondi, persuasivi, sull’immaginario collettivo. La radio, in particolare, per il sociologo canadese Marshall McLuhan è un “mezzo caldo che permette di visualizzare senza vedere, di essere protagonista senza stare sulla scena”.

 

Lo scenario complessivo delle telecomunicazioni future ci consentirà, sempre di più, di aprire dalle nostre case una finestra sul mondo. Si avrà una rete d’accesso totale in ogni momento e in ogni luogo che permetterà di scambiare suoni e immagini fra ogni essere umano e i suoi simili e fra ogni paese e il resto del mondo. E, accanto a suoni e immagini anche “cose”, la rivoluzione 3D (a tre dimensioni) è appena cominciata, potremo riprodurre oggetti a distanza trasmettendo e ricomponendo semplici dati informatici. Come in tutte le cose è difficile prevedere il futuro ma nel caso della diffusione delle idee, come fanno radio e televisione, possiamo aspettarci un futuro cablato. Non più quindi parabole e selve di antenne terrestri ma un’unica maglia a fibra ottica che avvolgerà tutto il mondo, tutti i cittadini del Villaggio Terra. Già oggi le connessioni a fibra ottica permettono un flusso di informazioni migliaia di volte superiore alla connessione a doppino metallico (il piccolo cavo telefonico che entra in casa) fra poco, forse mesi ma non anni, attraverso la connessione ottica potranno raggiungerci in casa migliaia e migliaia di programmi televisivi, informazioni di ogni tipo e non solo telefoniche, con il vantaggio di essere interattivi. Ogni essere umano sarà passivo spettatore e attivo interlocutore di chi entra nei nostri sensi. Ma sistemi cablati e senza filo o wireless conviveranno. La telecomunicazione radio, anche chiamata ad alta frequenza, sarà indispensabile nelle connessioni mobili, come già avviene, mentre il sistema cablato servirà le postazioni fisse. Non è una semplice innovazione ma un cambiamento di stile, una rivoluzione culturale che potremmo metaforicamente definire copernicana.

 

La globalizzazione è un processo inarrestabile che non può fermarsi né davanti ai confini politici né davanti alle remore ideologiche di pochi e ignari contestatori. Superando gli ostacoli del tempo e dello spazio, alla radio spetta il merito di aver associato tutte le razze umane riunendo i popoli della terra in un solo villaggio, in una sola lingua universale quella della fratellanza fra gli uomini.

 

20’, fine

 

*Carlo D'Arrigo, fisico, Consulente di Acustica del Comune di Lipari

 

 

 

L’AVVENTURA DELLA RADIO, LA TV. 19’ puntata

                                                                                                            

     Già presente nelle case dei Paesi industrializzati e nelle terre di oltre oceano, il tre gennaio 1954 anche in Italia arriva la Televisione. E’ domenica il 3 gennaio quando alle 11 del mattino Fulvia Colombo, dallo studio Rai di Milano, fa un annuncio che avvierà il più profondo cambiamento dell’Italia del dopo guerra “La Rai, radiotelevisione Italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive”. Sembra di sentire le parole di Ines Viviani Donarelli del 6 ottobre 1924 quando dava l’annuncio dell’inizio delle trasmissioni radiofoniche. Allora solo in voce ora, dopo appena trent’anni, anche in video. Il mezzo televisivo in Italia ha oggi superato i sessant’anni, un’età rispettabile ma ancora una bambina se osserviamo la velocità con cui si trasforma la società. Sessant’anni ben portati, sicuramente non dimostrati. Una storia iniziata e non finita, e che non finirà ma si trasformerà sempre più velocemente.

Per un lungo periodo gli osservatori profetizzano un rapido declino della radio, ma questo declino in realtà non c’è mai stato, soprattutto per gli avanzamenti tecnologici che la radio ha guadagnato nel tempo. Fra la radio e la televisione si stabilisce una vera e propria divisione dei compiti. La TV diventa il mezzo di caroselloinformazione e intrattenimento delle ore serali intorno al quale si riunisce tutta la famiglia, la radio diverrà compagna dell’ascoltatore nei vari momenti della giornata, a casa, in auto e sul lavoro. Non è facile catalogare le immagini e i ricordi che la televisione evoca. La televisione vive in diretta, non ha un passato da mettere in ordine, ogni notizia e ogni immagine è consumata nel momento in cui va nell’etere. La televisione ha acquistato un valore culturale essenziale per la comprensione dell’Italia di oggi. Anche la pubblicità, lo spettacolo leggero e la musica sono chiamati a sperimentare un nuovo modo di comunicazione. Il messaggio televisivo è sempre coinvolgente, multisensoriale e dà comunque l’impressione della trasparenza, anche quando racconta bugie. Nascono “Arrivi e Partenze” e “Lascia o Raddoppia”, programmi condotti da Mike Buongiorno appena tornato dall’America e con addosso una propria esperienza televisiva acquisita oltre oceano. Il 2 marzo 1956 sul Corriere della Sera appare questa inserzione Cinema Odeon ore 21: Lascia o Raddoppia. Per la prima volta viene allestita nel grande schermo del Cinema la proiezione televisiva, segno dell’incontrastato successo della trasmissione di Mike Bongiorno. TV Sorrisi e Canzoni, termometro degli avvenimenti dello spettacolo, dedica ampio spazio alla trasmissione e la storia dei campioni di Lascia o Raddoppia farà raddoppiare la tiratura del settimanale. Persino Totò diviene emulo di Mike Bongiorno interpretando il film Totò Lascia o Raddoppia dove l’indimenticabile comico veste i panni di un nobile e Concorrente incallito scommettitore di cavalli. “Lascia o Raddoppia” è la Televisione italiana che nasce in un paese “giovane”, carico di sogni e di speranze in quell’Italia ancora bambina. Passata la tragedia della guerra la voglia di fare, di divertirsi, sorridere e di dimenticare, è forte in tutti gli Italiani. La televisione si fa interprete di questa realtà e accompagna per mano tanta evoluzione. Un Due e Tre con Tognazzi e Vianello, Telematch e l’Oggetto Misterioso condotti da Silvio Noto e Enzo Tortora. Tutti programmi che oggi qualcuno potrebbe definire nazional-popolari ma che allora, evocando un semplice sorriso, riunivano gli Italiani dal nord al sud dello stivale. Questi programmi saranno la dannazione dei cinema e dei teatri che il sabato sera sono vuoti perché gli Italiani si ritrovano nelle case degli amici, fortunati possessori del Televisore, a commentare gli idoli catodici. I programmi teletrasmessi faranno, invece, la fortuna dei venditori di elettrodomestici che vedranno impennare le vendite. Nel 1957 inizia Carosello con i suoi indimenticabili spot. Non c'era la computer grafica, ma l’effetto era assicurato e le sue scenette erano più viste dei tanti telefilm di oggi. Vedere il mitico Carosello e poi andare a nanna, molti "ragazzi di allora” lo ricordano così. Si presentano i tormentoni pubblicitari: OMO lava più bianco che più bianco non si può, un elegante Ernesto Calindri invita i Telespettatori a bere Cynar contro il logorio della vita moderna e, ancora, la testa rasata di un impettito Cesare Polacco….invita a usare la Brillantina Linetti per non commettere lo stesso errore di diventare calvo.

19, continua

 

L’AVVENTURA DELLA RADIO, LA TV. 18’ puntata

 

                                                                                                                   

 

     Nei primi decenni del 1900 il mezzo radiofonico sta acquisendo la sua maturità e mostra che senza l’ausilio di un conduttore metallico, come avviene per il telegrafo, è possibile trasferire informazioni a grande distanza. Radio “suono” e “radio-visione” camminano quindi insieme, e infatti i primi esperimenti di Televisione sono chiamati di “radiovisione”.

 

Dal 1920 si assiste a molteplici tentativi di trasmissione dell’immagine e nel ’25 la Telefunken di Berlino propone il primo apparato sperimentale televisivo con il quale si effettuano trasmissioni fra Berlino e Lipsia. Nel 1928 in Inghilterra, Germania e Stati Uniti, si parla persino di televisione a colori. Nel ’31 il tubo di Braun (con schermo rotondo) viene quasi universalmente impiegato nei vari esperimenti televisivi come ricevitore di immagini. E’ il 1936 quando la società Marconi-Emi costruisce la prima telecamera mobile e in Germania la televisione fa la sua apparizione alle Olimpiadi di Berlino, un vero trionfo per il regime di Hitler che fa entrare in uno sparuto numero di case berlinesi le gesta degli invincibili ginnasti tedeschi. Si trattò di un evento immediatamente sfruttato dal governo nazista che intravedeva nella televisione, oltre che nel cinema e nella radio, un potenziale grande mezzo di propaganda. A ricordo di questi fatti, primordiali telecamere sono visibili nei filmati storici dell’Istituto Luce che sono oggi proposti in vari programmi tematici.

 

In Italia l’EIAR, antenata della Rai, nel 1929 costituisce a Torino il Laboratorio Ricerche avviando i primi carosioesperimenti di trasmissioni televisive. Questi utilizzavano sistemi elettromeccanici (disco di Nipkow, descritto nella precedente puntata), al passo con quanto facevano nello stesso periodo l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Con il perfezionamento del tubo catodico di Braun anche da noi ha l’inizio l’era della Televisione elettronica e, analogamente a quanto fatto da inglesi e americani, si da l’avvio a regolari trasmissioni televisive con il nuovo sistema. Gli esperimenti interessano solo le zone di Milano e di Roma, e le trasmissioni sono ricevibili in un raggio di non più di 15-20 Km dal trasmettitore. Le aziende proponenti sono tre: la Radiomarelli, che usava il sistema americano RCA di cui era licenziataria, l’Allocchio Bacchini che si avvaleva del sistema tedesco Telefunken e la Safar, industria fondata da un gruppo di Gerarchi fascisti e quindi molto vicina al Regime mussoliniano, che proponeva un sistema derivato dal germanico Telefunken.

 

Nel 1939 le prove vennero rese ufficiali e proseguite soltanto con i sistemi proposti da Radiomarelli, per la zona di Milano, e Safar per la zona di Roma. Le aziende costruttrici furono autorizzate a iniziare la regolare produzione di apparecchi riceventi che vennero presentati a Milano alla fiera della Radio del settembre 1939. Dei televisori sperimentali ne sopravvissero pochissimi esemplari oggi custoditi presso il Museo della Scienza e della Tecnica di Milano e presso le Teche Rai di Torino. La 2a Guerra Mondiale blocca drasticamente lo sviluppo della televisione di cui si tornerà a parlare alla fine del conflitto. E’ nel ’46 che la Rai, Radio Audizioni Italiane, riprende in esame il progetto della televisione. La voglia di fare che pervade gli Italiani nel post bellico li coinvolge anche nella costruzione della Televisione nazionale. Il Governo De Gasperi, primo Governo repubblicano nato dalle ceneri della guerra, nomina una Commissione di esperti presieduta dal fisico professor Vallauri, esperto di telecomunicazioni, per la scelta dello standard da adottare. I lavori di questa permettono alla Rai, nell’autunno del 1950, di iniziare da Torino le trasmissioni sperimentali. La Gazzetta Ufficiale del 1951 sancisce le norme tecniche cui deve uniformarsi la rete televisiva nazionale. Al trasmettitore di Torino segue quello di Milano e, successivamente, tutta la penisola sarà avvolta da una rete di teleripetitori costruiti dall’italiana Magneti Marelli. In Italia il tre gennaio 1954 iniziano le trasmissioni regolari di programmi televisivi. Sergio Pugliese, drammaturgo, é alla direzione del nascente servizio della Rai, mentre il telegiornale è affidato a Vittorio Veltroni, già capo redattore del Giornale radio fascista e padre dell’odierno politico Walter Veltroni.

 

A vanto dell’Italia va detto che, nel tormentato dopoguerra, è stata la prima nazione europea ad avviare un servizio regolare di telediffusione. Appena sessanta anni fa l’Italia aveva tante cose di cui vantarsi, e non solo di televisione.

 

18, continua

L’AVVENTURA DELLA RADIO, LA TV. 17’ puntata

                                                                                                         

     Nell’immaginario delle persone di cultura di fine 1800 la storia della televisione é cominciata prima dell’invenzione della radio, ben più di un secolo fa. L’idea di poter trasmettere immagini risale proprio alla fine dell’800, ma ci son voluti cinquant’anni per arrivare agli esperimenti che ci hanno portato alla televisione di oggi. E’ la prima parte, la preistoria di una vicenda difficile da ricostruire perché tocca, tutti insieme, tanti diversi aspetti della nostra vita. E’ una storia globale fin dalle origini, come globali sono tutti i cambiamenti della società di oggi ma é diversa da un paese all’altro. Chi ha inventato la televisione? E’ curioso, ma credo che nessuno possa dare un nome all’inventore di questa potente alleata del nostro tempo, supposto che di invenzione si tratti. Certamente non è una scoperta, forse la potremmo individuare come una invenzione con tanti padri, perché si è trattato di un’innovazione complessa e frutto della somma di tante piccole e grandi intuizioni, una storia poco nota ma sicuramente appassionante. La parola televisione é uno dei tanti vocaboli che si sono formati in età moderna, in tutte le lingue d’Europa, sulla base dell’elemento di origine greca tele. In greco antico tele era un avverbio e significava “da lontano”. Come il telescopiotvdiscoGalileiano serve per guardare da lontano, il telegrafo e il telefono ottocenteschi per scrivere e parlare da lontano, cosi la televisione é la tecnologia che permette di vedere da lontano. Agli albori della presentazione al mondo di questo mezzo “visivo” non era certo importante il ‘programma’, la commedia o il film, (non si pensava nemmeno) ma importante era il vedere a distanza un’immagine, un disegno, una foto magari e, se possibile, in movimento. L’importanza della televisione di oggi nel tessuto della società può essere compresa attraverso un sottile indizio linguistico. Fino agli anni quaranta tele significava solo da lontano, mentre oggi esiste un altro ‘tele’ con cui si indica tutto ciò che ha a che fare con la televisione: i telespettatori, il teleschermo, il telegiornale e le teleconferenze. Prima che si affermassero le trasmissioni televisive, la parola televisione poteva essere usata con significati generici come quello, ripeto, di visione a distanza, non necessariamente ottenuta con strumenti elettronici, o come quello di telepatia che in fondo è un altro modo di vedere cose distanti nello spazio e nel tempo. A partire dagli anni trenta del 1900 i significati di televisione iniziano a riferirsi tutti allo stesso ambito. Già nel 1909 la parola appare in italiano, come traduzione dell’inglese television, per indicare la trasmissione e ricezione a distanza di immagini in movimento e di suoni, per mezzo di onde elettromagnetiche. Avevamo importato la parola ma non ancora l’oggetto. Alla base dell’emissione delle immagini televisive sta l’effetto fotoelettrico, già oggetto di ricerche nel 1880-87 da parte del fisici Heinrich Hertz e Antoine Becquerel che pensavano di creare un sistema di rilevamento dell’immagine simulando la retina dell’occhio mediante un gran numero di fotocellule al selenio. Una data di nascita della televisione può associarsi al brevetto del tedesco Nipkow del 1884 e al suo disco provvisto di una serie di fori disposti a spirale che, posto di fronte a un’immagine e fatto ruotare, lasciava passare uno solo per volta i raggi luminosi provenienti da ciascuno dei punti dell’immagine stessa, scomponendola in una successione di punti luminosi, operando pertanto un’analisi dell’immagine. Con l’impiego del disco di Nipkow e di una serie di fotocellule, vi furono tentativi di trasmissione di immagini da parte di diversi ricercatori come i francesi Marcel Brillouin nel 1891 e Pontois nel 1894.

Braun nel 1897 inventa il tubo elettronico a radiazione catodica, che sarà la base dei moderni cinescopi, e cioè gli schermi con cui abbiamo guardato la televisione fino all’arrivo dei televisori a schermo piatto. Nel 1905 grazie agli studi di Fleming (inventore della valvola termoionica) si perfeziona il tubo di Braun introducendo il catodo incandescente a emissione elettronica e si avanza l’idea del cinescopio come lo conosciamo noi. E’ il momento in cui è coniato il termine Televisione. Si comprende che nei primi tempi non era importante il mezzo di trasmissione ma era necessario “mettere a punto” un doppio sistema, uno che potesse raccogliere l’immagine e uno che la potesse ricomporre. Il mezzo fisico della “trasmissione” infatti poteva essere un filo metallico, come quello del telefono cui si pensò nei primissimi tempi o quello “senza fili” della ormai consolidata tecnica radiofonica come avviene oggi.                                        

17, continua

 

 

 

L’AVVENTURA DELLA RADIO. 16’ puntata

 

 

 

La radio, strumento di guerra e strumento di pace.

 

     In Italia dal luglio 1940 con l’inizio delle operazioni belliche la produzione delle radio popolari è sospesa. La radio è relegata solo a strumento di guerra e la sua funzione in Europa è, anche, quella di supplire alla insufficiente rete telegrafica e telefonica. Dal giugno del 1940, anno dell’entrata in guerra, all’anno dell’armistizio del settembre 1943, il fascismo governa il Paese solo per mezzo della radio. Fra il ‘41 ed il ‘44, oltre a quella reale, un’altra temibile guerra si svolge nell’etere è la “guerra delle onde”. Radio Londra, con i rintocchi della quinta Sinfonia di Beethoven, che nell’alfabeto Morse sono tre punti e linea della lettera V di “vittoria” mostrata da Winston Churchill con la mano destra,diffonde dai microfoni della BBC la voce del colonnello Harold Stevens. In verità è la voce di Aldo Cassuto, di origine triestina, che racconta l’evolversi e le sconfitte della guerra dell’Asse. La radio, pur mantenendo una logica di propaganda diviene un luogo di informazione fondamentale per la stessa sopravvivenza e la voce della vecchia propaganda nazi-fascista perde, di giorno in giorno, credibilità. L’ascolto clandestino delle emittenti alleate e nemiche fu una delle cause più evidenti della caduta dello spirito pubblico in Italia nei mesi che precedono la caduta del Fascismo. Le emittenti clandestine e quelle dell’Italia del Sud partecipano al convergente disegno politico di scacciare l’oppressione nazi-fascista, rinnovando lo strumento radio che, per sua natura, è dialogo e liberta.colonnellostevens

 

La storia dell’E.I.A.R. termina, di fatto, l’8 settembre I943 con il comunicato dell’armistizio emanato dal nuovo Capo del Governo Pietro Badoglio. La radio del vecchio regime ha poi nella Repubblica di Salò, nata nel tentativo di risollevare la dittatura fascista, una sopravvivenza priva di storia. Diversa è la vicenda della radio nell’Italia del Sud occupata dagli angloamericani, dove l’apertura democratica da l’avvio al Radio Broadcasting italiano cui siamo oggi abituati. In Italia e in Germania la produzione delle radio popolari è sospesa. In Inghilterra proprio all’inizio delle ostilità viene varata la produzione di un ricevitore a basso costo, dallo stile spartano ma efficiente. Questo tipo di ricevitore, denominato “Wartime civilian receiver o Ricevitore civile del tempo di guerra”, differisce dagli apparecchi popolari tedeschi e italiani per il fatto che fu prodotto non prima ma durante la guerra, con l’intento di fornire uno strumento di svago e tenere la popolazione informata sull’evolversi del conflitto. In America, negli stessi anni quaranta, lontani dai teatri di guerra e con lo stimolo della concorrenza commerciale, la radio va velocemente sviluppandosi. Si moltiplicano le reti trasmittenti, si diversificano i programmi e l’industria propone radio-ricevitori ben più avanzati di quelli disponibili in Italia e in Europa, dove tutta la produzione industriale ha, in quel periodo, solo l’obiettivo bellico.

 

Al termine delle ostilità nel nostro Paese nasce l’attuale R.A.I. (Radio Audizioni Italiane) e insieme con essa ritorna l’espressione di liberta insita nel mezzo di informazione.

 

La R.A.I. opera una profonda innovazione dei programmi e degli impianti, grazie anche alle nuove tecnologie che via via si fanno avanti. Nascono le rubriche dibattito e le rubriche formative. Lello Bersani, da sempre appassionato di spettacoli, da vita al Settimanale Cinematografico. La radio informa, la radio discute e fa politica, per la prima volta oltre che parlare la radio ‘ascolta’ dando consigli alle richieste degli ascoltatori. La radio è una nuova e libera compagna di casa. La radio segue gli aggiornamenti tecnologici e trasmette a modulazione di frequenza con un miglioramento qualitativo fino ad allora imprevedibile. Gli anni ’50 vedono una rapida evoluzione del mondo radiofonico, nasce il transistor che oltre a trasformare radicalmente le apparecchiature stravolgerà il modo di usare la radio. La radio diventa tascabile, personale, e può essere ascoltata in ogni dove. Ma gli anni ’50 vedono nascere un concorrente del mezzo radiofonico, è la Televisione che invece di offuscare la radio si posiziona come un potente e innovativo alleato. Le notizie ascoltate durante il giorno alla radio entrano in serata nelle case con immagini in diretta e ricchi di commenti. Ad essere “offuscati” sono invece i giornali che già da allora iniziano a perdere valenza informativa.

 

16, continua

L’AVVENTURA DELLA RADIO. 15’ puntata

 

     L’incremento del traffico delle radiocomunicazioni aumenta man mano che si perfezionano i vari dispositivi e lo “spazio” è rapidamente ingombrato dalle lingue di tutti i popoli. Negli anni venti si rende già necessaria una cooperazione internazionale per assegnare ad ogni Paese il suo spettro di frequenze, di canali radiofonici, su cui far “risuonare” i propri apparati radio senza interferenze reciproche. Nel 1926, fra Europa e America, si contano più di mille stazioni radio che diverranno quasi millecinquecento nel 1930. La conferenza internazionale di Washington del 1927 stabilisce le regole per l’impiego delle onde elettriche per le comunicazioni di soccorso, i servizi radiotelegrafici e la radiodiffusione in ogni nazione. Le onde di Marconi, superando ogni frontiera materiale e psicologica erano riuscite a riunire tutti i popoli, di ogni razza e religione, in un solo villaggio.

 

Il curioso comportamento della Chiesa di fronte alla nascente radiofonia.

 

Un atteggiamento negativo, e sicuramente curioso, lo tenne la Chiesa che vietò ai sacerdoti ed ai fedeli l’ascolto ed il possesso dell’apparecchio radio. Era considerato un mezzo che allontanava da Dio e rievocava pensieri peccaminosi. Pochi anni più tardi il Vaticano modificherà le sue idee e, nel 193l , con l’aiuto delle industrie Marconi, darà vita ad una emittente tutta propria la Radio Vaticana. Voluta per espressa volontà del Papa pro tempore, la Radio Vaticana fu costruita nel 1930 personalmente da Marconi e dai suoi collaboratori e il 12 febbraio del 1931 Pio XI ne inaugurò la sede. Solenne fu il momento in cui Guglielmomarconigruppo Marconi diede l’annuncio al mondo: “Ho l’altissimo onore di annunciare che fra pochi istanti il sommo pontefice Pio XI inaugurerà la stazione radio dello Stato del Vaticano. Le onde elettriche porteranno, attraverso gli spazi, la sua parola di pace e benedizione…” Dopo un’elevata allocuzione rivolta a tutti i fedeli, il Pontefice impartiva, per la prima volta attraverso l’etere, l’apostolica benedizione. Ancor oggi, con i suoi potenti e sofisticati apparati, la Radio Vaticana è tra le Broadcasting più ascoltate nel mondo. La sua parola di pace “risuona” in ben quaranta lingue diverse, su numerose frequenze di trasmissione contemporaneamente, con diversi tipi di modulazione e con irradiazione sia terrestre sia satellitare, raggiungendo l’ascolto degli uomini di buona volontà negli angoli più sperduti della Terra (la modulazione è il protocollo tecnico con cui il segnale sonoro è impresso sull’onda elettromagnetica per essere trasportato attraverso l’etere).

 

Marconi, all’intuito ed alla fede nel successo delle sue esperienze, aggiungeva una qualità che sovente difetta negli scienziati, l’abilità di curare la scoperta fin nei minimi particolari, di modo che la radiotelegrafia e la radiotelefonia sono uscite quasi perfette dalla sua mente e dalle sue mani. La grandezza dei benefici arrecati all’umanità dall’opera marconiana non ha bisogno di essere esaltata in un mondo che, in modo estremamente più progredito, ne fa uso quotidiano. Marconi ha conseguito oltre quindici lauree ad honoris causa ed è stato nominato socio onorario dei più alti consessi scientifici del mondo. In particolare, in Italia, l’1 gennaio 1928, Marconi era nominato presidente del CNR, Consiglio Nazionale delle Ricerche. Anche dopo l’avvento odierno delle sofisticate tecniche digitali di telecomunicazione e dell’elettronica dei microprocessori, il nome di Guglielmo Marconi ha conservato la sua posizione preminente costruendo quel mito che resterà nei tempi.

 

Marconi, scienziato autodidatta, non sorpasso gli altri nel campo del sapere astratto, ma realizzò ciò che uomini illustri avevano sostenuto essere impossibile. Questa è vera grandezza. Il 20 luglio 1937 a Roma l’opera e la vita di Guglielmo Marconi si concludevano per sempre. Egli saliva al cielo fra gli immortali della stirpe italica, accanto a Leonardo e Galileo. Lo spirito del dominatore degli spazi, dell’animatore dei silenzi, trapassava da questo mondo alla gloria eterna per raggiungere, come le sue leggendarie onde, gli spazi infiniti dell’universo.

 

                                                                 15, continua

L’AVVENTURA DELLA RADIO. 14’ puntata

 

     Sin dai primi anni ‘30 la radio ebbe grande diffusione come mezzo di propaganda in tutti i Paesi, soprattutto quelli europei. Alcuni governi come quello inglese, si preoccuparono di diffondere la radio come mezzo di svago e informazione in tempo reale. Nella Germania nazista la radio, sin dall’inizio, è sfruttata come apparato propagandistico per eccellenza del regime. Lo stesso Hitler, nel suo libro Mein Kampf scrive “…nelle mani di chi sa farne uso la radio è un’arma terribile…” Dopo l’ascesa del Führer, nel gennaio del 1933, le industrie del settore sono chiamate a costruire appositi ricevitori popolari e accessibili alla gran parte della popolazione. Già alla fine del 1933, all’Esposizione Radio di Berlino, è presentato il primo apparecchio radio popolare (Volksemfanger) dalla sigla V 30-1 il cui numero rievoca la data di ascesa del Partito nazista e cioè 30 gennaio 1933. L’operazione è gestita dal ministro Goebbels, teorico e imprenditore della propaganda, che della radio fa un’arma di persuasione dal potere subdolo e sottile. Goebbels dichiara: “La radio é propaganda, le notizie sono un’arma di guerra e non di informazione”.

 

In Italia nel 1932, il regime fonda l’Ente Radio Rurale, presieduto dal fedelissimo al regime Achille Starace, che commercializza apparecchi radio popolari marchiati Radiorurale e venduti al prezzo politico di 600 lire. Un costo ancora elevato se lo stipendio di un impiegato medio non supera le 800 lire al mese. Alla fine del 1937 vengono lanciate le Radio Balilla, modelli ancora più economici e venduti a 430 lire, radiobalillasempre poco accessibili a quel tipo di popolazione che il Fascismo intendeva raggiungere con la propaganda radiofonica. Ma per la radio era già tardi. Le radio popolari che in Germania erano già state vendute per quasi tre milioni di esemplari, in Italia non raggiungevano le ottantamila unità. Il nostro era un Paese essenzialmente agricolo che non aveva raggiunto un livello tecnologico di altri Stati come la Germania o l’Inghilterra. La massa non era abituata all’acquisto dei quotidiani ed anche il cinema era riservato a chi poteva permetterselo. Le scuole e le sedi del Fascio di ogni comune sono dotate di radioricevitori e i maestri preparati appositamente per predisporre gli alunni all’ascolto della dottrina fascista. La Voce del Duce, abilmente filtrata dall’Agenzia giornalistica Stefani (oggi Ansa) diretta dal fedelissimo al regime Manlio Morgagni, unica fonte delle notizie che l’EIAR può trasmettere, entra nelle Case del fascio, nei dopolavoro e nelle abitazioni dei ricchi che possono comprare il nuovo e costoso mezzo di informazione. E’ proprio la liberta di informazione che è limitata in Italia, soprattutto dopo l’assassinio del deputato antifascista Giacomo Matteotti, nel 1924. Infatti, consolidato il regime, Mussolini dà il via ad una pesante censura di tutti gli organi di informazione; non c’è notizia né edizione libraria che non debba passare al vaglio dei fedelissimi del Duce. Nascono le veline, che a differenza del significato oggi attribuito a tale termine, corrispondono alle copie riprodotte con carta carbone e su sottilissima carta riso (giusto veline), di ciò che poteva essere trasmesso o censurato per ordine del MinCulPop. Era questo il Ministero della Cultura Popolare, il cui compito era anche di verificare, e se necessario “tagliare”, le notizie sia della carta stampata sia dell’EIAR. La radio, in Italia, nasce quindi col “bavaglio” di cui si libererà dopo vent’anni, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.

 

E’ curioso sapere che le ragazze di Striscia la Notizia hanno acquisito il nome Veline all’esordio della trasmissione di Mediaset nel 1988 quando due ragazzine, con correre disinvolto, portavano foglietti di carta (veline) con notizie varie ai presentatori. Fu proprio in una delle puntate della trasmissione che uno dei presentatori disse “arrivano le veline”. E veline fu.

 

Con le veline non siamo ancora nell’era della manipolazione dell’informazione, qual è oggi la nostra, con una strategia raffinata per la raccolta del consenso. Siamo nella preistoria quando, tacitato il dissenso, radio e stampa devono contribuire in sinergia per promuovere la politica imperiale. Le brutte notizie, che possono offuscare gli animi degli Italiani sono oscurate, mentre largo spazio è riservato alle vittoriose imprese del regime. Domina una propaganda fatta di proclami di frasi a effetto e voci esplosive cui non sfuggono neppure le radiocronache sportive. Resta il fatto che sebbene sia evidente una pesante coltre politico-ideologica, l’ascolto dell’informazione radiofonica è alto.

 

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All’inizio degli anni ’20 nel mondo irrompe la radio. In quel periodo, agli albori del fascismo, in Italia la radio è una sorta di prolunga dei discorsi che Mussolini tiene a piazza Venezia a Roma e grandi ‘altisonanti’ fanno risuonare la parola del Duce in tutte le piazze d’Italia.Il primo impianto italiano per radiotrasmissioni circolari dell’Unione Radiofonica Italiana (URI), una forma di associazione fra editori e nascenti discografici, è inaugurato il 6 ottobre 1924. La stazione sorge a Roma a S. Filippo ai Parioli ed è costruita sotto la direzione di Marconi. Alle ore 21 del 6 ottobre 1924, con la trasmissione di un concerto, presentato dalla prima annunciatrice della radio Ines Viviani Donarelli, moglie del direttore artistico dell’URI inizia, anche per il nostro Paese, la radiofonia broadcasting. La stazione di Roma trasmette sull’onda media di 425 metri ed ha una potenza di soli mille watt, ma è ricevuta con entusiasmo dai pochi radio dilettanti dell’epoca. A questa seguirà, dopo pochi mesi, la stazione di Milano di maggiore potenza.

Il neonato regime fascista non credeva ancora nella radiodiffusione circolare e Mussolini, all’inizio, usò la radio in poche occasioni preferendo a questa il mezzo del “balcone”. Negli anni che seguono la fondazione dell’URI, il regime utilizza la radio solo per magnificare i discorsi del Duce. In quegli anni il pubblico radiofonico era prevalentemente composto da pochi appassionati, interessati più all’aspetto tecnico che ai programmi. Un episodio scuote l’indifferenza di Mussolini per la radio. Il discorso da lui pronunciato il 9 ottobre 1927 per la premiazione degli agricoltori vincitori della battaglia del grano non riesce a farsi ascoltare che da pochissimi Italiani per insufficienza tecnica dell’U.R.I. L’insoddisfazione inesmanifestata dai responsabili delle Case del fascio e dai Federali richiama l’attenzione del conte Costanzo Ciano, ministro delle Comunicazioni e padre di Galeazzo, genero di Mussolini. Il governo inizia a recepire la valenza popolare del nuovo mezzo di comunicazione alla folla e, con il diretto controllo del Conte Ciano, l’URI è trasformata in EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) operando un rapido ringiovanimento, organizzativo e tecnico dell’Ente. Sono potenziati gli apparati di trasmissione e a Roma, nell’area di Santa Palomba, viene costruita la più moderna e potente stazione radiofonica d’Europa. Inaugurata il 17 gennaio 1930, l’emittente opera sull’onda media di 441 metri e dispone di ben 50 kw, una potenza di ben rispetto per l’epoca. Le perfette emissioni fatte dall’Ente di stato e ascoltate in tutto il mondo, forniscono una convincente prova di efficienza della nostra rete radiofonica e dimostrano tutta la “forza” contenuta nella parola radiodiffusa. Il Giornale radio, nato con molta cautela, diventa negli anni trenta il segreto del successo radiofonico. Alle comunicazioni dell’Agenzia Stefani (oggi ANSA, allora unica Agenzia Giornalistica asservita al regime) si affiancano notizie dall’interno e dall’estero a imitazione di ciò che Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri, aveva visto fare nelle radio straniere. Peraltro era necessario fornire alle folle, che costituivano la massa del consenso, un’immagine efficiente del regime, contro la propaganda contraria che già si poteva ascoltare dalle stazioni radio estere. L’EIAR, successivamente, ottiene dal governo la concessione monopolistica del servizio di radiodiffusione in Italia e nelle Colonie.

 

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L’AVVENTURA DELLA RADIO. 12’ puntata

                                                                                     

     Negli anni che precedono il primo conflitto mondiale l’idea di un servizio radiofonico come lo conosciamo oggi è lontana da una società dedita prevalentemente all’agricoltura e all’industria meccanica. Già a fine 1800, con le prime applicazioni del telefono, erano sperimentate nuove forme di servizio pubblico per la distribuzione di informazioni, notizie e persino programmi teatrali. L’Araldo telefonico a Roma e il Teatrofono a Parigi, che attraverso il telefono trasmettevano notiziari e programmi di intrattenimento, sono esempi del desiderio di trovare un’alternativa al giornale stampato che, peraltro, sottostava ai lenti mezzi di trasporto dell’epoca. Una sorta di filodiffusione. Era quindi prevedibile che non appena la tecnologia avesse reso possibile trasmettere a grande distanza la voce, consentendo di diffondere nello spazio ma non nel tempo notizie e informazioni, i regimi totalitari ne avrebbero approfittato a proprio uso. Ma, al contrario, è presso i governi democratici dove, grazie alla libera iniziativa di cui godono gli imprenditori, si avviano i primi esperimenti di radiodiffusione circolare. Il 15 giugno 1920 la stazione di Chelmford, vicino Londra, trasmette il suo primo concerto radiofonico che viene ricevuto ad oltre mille chilometri di distanza. E’ questo il secondo grande trionfo di Marconi. Dopo pochi mesi la stazione di Pittsburg da inizio alle trasmissioni broadcasting negli Stati Uniti d’America e da quel momento si assiste ad un crescendo di impianti di radiodiffusione. Negli Stati Uniti, a fine 1919, per mano dell’ingegnere Frank Conrad della Westinghouse nasce la KDKA, la prima radiomarellivera rete radiofonica. Già nel ’22 gli Stati Uniti coprono parte del territorio con duecento emittenti che diventano 350 nel 1924. Il pubblico rimane profondamente impressionato e si ha la sensazione che il nuovo mezzo possa cambiare il modo di vivere della gente. In America nasce una vera passione per la radio. Alla cronaca si affiancano le notizie di borsa, le previsioni del tempo e le trasmissioni musicali. Il costo degli apparecchi di ricezione supera il reddito mensile di un dirigente e il primo, grande, strumento di mass-media del mondo è dedicato solo alle persone più facoltose.

Contrariamente agli Stati Uniti in Europa gli organi di governo mantengono, fin dal suo esordio, un rigido controllo nella diffusione della radiofonia. E’ il 1921 quando dalla Torre Eiffel vengono irradiate le prime trasmissioni radio. E’ una società di industriali e tecnici che da vita all’iniziativa, e per diversi anni il segnale orario trasmesso da Parigi sarà considerato l’ora ufficiale degli Stati europei. In Inghilterra, nel 1922, prende il via la BBC, British Broadcasting Company che, oltre alle notizie, diffonde concerti e opere teatrali adattate al semplice messaggio vocale. In Germania nel 1922 è lo Stato che si fa carico dell’iniziativa radiofonica e la prima emissione avviene da Konigswusterhausen. Ma è dopo l’ascesa di Hitler, nel 1933, e sotto la direzione del suo ministro per la propaganda Goebbels, che il mezzo radiofonico diviene strumento di potere.

In Italia, patria di Marconi, le prime disposizioni legislative nazionali sulle comunicazioni

senza fili risalgono al 1910 quando, con la legge 395, si stabilisce che l’esercizio delle radiocomunicazioni è un servizio pubblico. La guerra rallenta gli entusiasmi ma alimenta gli interessi e, al termine del conflitto, nel 1918 gli ambienti finanziari si interrogano sul valore economico e politico della radio. In questo senso alcuni gruppi se ne servono come strumento di pressione sul nascente governo fascista. E’ il 1924 quando il ministro delle comunicazioni Costanzo Ciano intravede, nel nascente mezzo, un potente strumento di pressione ideologica. Nel 1924 Mussolini approva un decreto che riserva allo Stato l’esercizio della radiodiffusione e il 27 agosto dello stesso anno Costanzo Ciano, ministro delle comunicazioni, seguendo un ferreo modello statalista, da vita al Broadcasting italiano. Sorge l’URI, Unione Radiofonica Italiana, che raggruppa anche le prime case editrici della nascente discografia. Il presidente dell’URI è l’ingegnere Marchesi, uomo di chiara fede fascista. Nel 1927, l’URI diventerà EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) e solo dopo il secondo conflitto si chiamerà RAI, Radio Audizioni Italiane.

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L’AVVENTURA DELLA RADIO. 11’ puntata

 

di Carlo D'Arrigo*

 

     La radio salva gli esploratori della Tenda Rossa al Polo Nord, “Ecco un nuovo miracolo della radio” è l’esclamazione di tutto il mondo. La salvezza del gruppo dei naufraghi alla deriva nel mare glaciale Artico è un trionfo che lascia attoniti dalla commozione italiani e stranieri trepidanti per la tragedia del Dirigibile Italia schiantatosi al polo nel 1928. E’ il 23 aprile 1928 quando il Generale Umberto Nobile, con nove componenti di equipaggio, si imbarca sul Dirigibile «Italia» alla volta del Polo Nord. Alle 0.20 del 24 maggio il dirigibile è già sul pack ghiacciato del Polo, e Nobile è orgoglioso dell’impresa che aveva voluto con forza. Era il genio dell’Italia «rinata» che appariva sul Polo con tutta la sua tenacia. Per due ore l’aeronave sorvola il polo e a bordo si è pronti per la discesa, ma tutto è rinviato di momento in momento per le cattive condizioni atmosferiche. Improvvisamente l’aeronave precipita urtando i ghiacci e scatenando la paura del suoi occupanti: sono le 10.30 del 25 maggio 1928. L’equipaggio formato dal generale Nobile, dal radiotelegrafista Giuseppe Biagi e altri otto esploratori si ritrova a terra, abbandonato a se stesso, a diverse miglia da Capo Smith. Altri sei esploratori rimangono prigionieri di una parte dell’involucro del dirigibile che riprende quota e scompare verso fine ignota. Forse per istinto, ma certamente per miracolo, Giuseppe Biagi si trova catapultato a terra con la cassettina della radio stretta fra le braccia, nella confusa coscienza di stringere un inestimabile tesoro. I superstiti hanno subito la sensazione precisa che la loro sopravvivenza è legata alla “cassettina” di Biagi. Dopo vani tentativi Biagi riesce a stabilire il contatto con la nave Città di Milano. E’ l’8 giugno quando la ildirigibileradio della Regia Nave riceve le flebili onde lanciate dal Polo e a mettersi in contatto con Biagi e con i superstiti. «Abbiamo ricevuto vostra nota, dateci le coordinate». Sì era creato uno squarcio di luce! Con l’animo che si può immaginare in un momento simile, Biagi si precipita all’apparecchio trasmittente dando le coordinate richieste, ed ecco la risposta: “Italia, Biagi - Città di Milano ha ricevuto vostra posizione”. Il collegamento era ormai stabilito e la salvezza era vicina.

 

Ai soccorsi collaborarono diverse nazioni. La Russia mise a disposizione il rompighiaccio Krassin, Svezia e Norvegia, Germania e Francia, unitamente all’Italia, organizzarono l’invio di viveri e materiali di soccorso con mezzi aerei. I superstiti avevano provveduto a rendere visibile dall’alto la tenda improvvisata, tingendola di Rosso con l’anilina utilizzata a bordo per le misurazioni di quota. La sera del 24 giugno l’aeroplano pilotato dallo svedese Lundborg appare piccolissimo sull’orizzonte, ingrandendosi pian piano nell’avvicinamento e toccando lentamente la distesa di ghiaccio. L’emozionante salvataggio è stato possibile grazie ad una minuscola radio a onde corte che il radiotelegrafista Giuseppe Biagi, dopo la caduta, riuscì ingegnosamente a mettere in funzione, sino a prendere contatto con la Regia Nave Città di Milano. Nel marzo 1928, durante i preparativi della spedizione, Giuseppe Biagi incaricato di organizzare il servizio telegrafico sulla navicella, si era rivolto a Guglielmo Marconi perché lo consigliasse sulle apparecchiature da usare. Venne esortato in questi termini: “Non dimentichi di avere a bordo del dirigibile e sulla Nave città di Milano degli apparecchi a onde corte”. Oggi rimane l’ammirazione per questi uomini che, anche a costo di sacrificare la propria esistenza e portandosi senza mezzi sicuri nei posti più ostili della Terra, hanno tentato di carpire e raccontare all’umanità i segreti del Polo.

 

Ancora una volta la radio era stata la vera protagonista della tragedia.

 

11, continua

Sulla nave “Elettra” Guglielmo Marconi preconizza il Radar.

 

    

 

     L’Elettra fu la nave-laboratorio su cui Guglielmo Marconi effettuò numerosi esperimenti di radiotelegrafia tra le due guerre mondiali. La nave nasce ai primi anni del novecento per opera della Marina inglese e nel 1919 passa alla proprietà di Marconi, solcando i mari di tutto il mondo.

 

L’Elettra appagò un antico e intimo desiderio di Marconi. La passione per il mare, la serena resistenza nell’infuriare della tempesta, l’attrazione alle prove radiotelegrafiche sugli oceani lo resero un perfetto comandante di marina. «La candida nave di Guglielmo Marconi che naviga nel miracolo e anima i silenzi aerei del mondo», come Gabriele D’Annunzio definì l’Elettra, coronò i suoi sogni di scienziato e di marinaio. “Mi piace l’isolamento del mare perché, quando sono lontano dalle distrazioni della terra, posso concentrarmi meglio... vorrei vivere continuamente sul mare dove posso studiare, pensare, fare esperienze lungi da tutte le false convenzioni e dalle misere lotte che rattristano la vita degli uomini della terraferma”. Marconi si servì dell’Elettra per compiervi le più importanti esperienze sulle onde elettromagnetiche, dalle onde corte per le lunghe distanze alle onde medie per la  radiodiffusione alle microonde dei radar. A proposito di queste va ricordato che lo studio delle microonde, e le loro molteplici possibilità, furono elettraoggetto di particolare interesse proprio negli ultimi anni della sua vita, quando i seguaci delle sue ricerche avevano ormai polarizzato i loro studi sulle onde lunghe e medie. Lo studio delle microonde darà l’avvio ai sistemi di radiolocalizzazione.E’ di Marconi questo dire: Io ritengo che è possibile progettare apparati mediante i quali una nave possa irradiare un fascio di onde in una direzione, le quali onde, ove incontrino un oggetto metallico quale un'altra nave, siano riflesse e diano la presenza dell'altra nave anche nella nebbia”.

 

Già nel 1922 Marconi avanzò l’idea di unradiotelemetroper localizzare a distanza mezzi mobili e nel 1933 ne propose la realizzazione al Ministero della Guerra italiano, tra i quali il colonnello Luigi Sacco, capo delle trasmissioni del Regio Esercito. La proposta fu trascurata e Marconi non ottenne i fondi necessari per arrivare a un sistema radar operativo. Ma lo Scienziato italico dalle parole passa ai fatti e, nel giugno 1934, entra con l’Elettra nel porto di Genova a vetri oscurati e inseguendo un fascio di onde radio. Aveva preconizzato il Radar che sarà sviluppato durante la seconda guerra mondiale. I vertici della Marina non avevano creduto al progetto marconiano del Radar. E’ solo negli anni ’40, dopo alcune disfatte nel corso del secondo conflitto dovute all’uso del radar da parte degli Inglesi, che la ricerca sul “radiotelemetro” ebbe i fondi per realizzare i primi radar italiani. Ma era già tardi. Solo a fine conflitto il radar si diffuse sia in ambito militare sia civile. E’ qui il caso ricordare un’espressione dello Scienziato: “Le mie invenzioni sono per salvare l’umanità, non per distruggerla”. Purtroppo il Radar è stato tante volte applicato per fini di morte e distruzione. Nel 1937, alla morte dello scienziato, la nave Elettra venne acquistata dal Ministero delle Comunicazioni. Allo scoppio della seconda guerra la nave era nel porto di Trieste dove, a seguito alle vicende che seguirono l’armistizio dell’8 settembre 1943, venne requisita dai Tedeschi ed armata con cinque mitragliere. I Tedeschi non avevano capito cosa avevano “rubato” all’Italia, e anche la nave che era stata ‘patrimonio scientifico dell’umanità’ fu adibita a…sparare. Successivamente i “predatori d’oltralpe”, con consapevole e disumana ignoranza del suo intrinseco valore storico scientifico, trasformarono l’Elettra in nave ausiliaria dopo che volenterosi italiani erano riusciti a strappare, agli ignari guerrieri di Germania, i preziosi cimeli marconiani dandoli in custodia al Museo del Mare di Trieste. Riconsegnata all’Italia nel 1960, la nave fu riportata a Trieste in attesa di un mai effettuato restauro. L’Elettra fu infine smembrata in più parti, dislocando queste nei vari musei italiani.

 

10, continua

La tragedia del Titanic, emblema dell’arroganza dell’uomo. (III°)

 

     Il 15 aprile 1912, ad attendere a New York i superstiti del Titanic, era anche Marconi la cui angoscia gli consentì poche parole “vale la pena aver vissuto per aver dato a questa gente la possibilità di essere salvata”. Una commissione di Senatori degli Stati Uniti fece indagini sul disastro, per indagare sulla scarsità delle notizie messe in luce dalla stampa durante il rientro del Carpathia e sul fatto che una nave che transitava vicina al Titanic rimase ignara dell’imminente catastrofe perché non disponeva di radio. Cosi il Corriere della Sera del 19 aprile 1912 titola la notizia: “Il disastro del Titanic - In attesa dei superstiti - Marconi, la radiotelegrafia e i salvataggi in mare”. Il settimanale Domenica del Corriere del 28 aprile 1912, titola: “Terribile disastro: il grande Titanic affonda con 1600 persone nell’oceano spezzato da un iceberg. Grazie alle apparecchiature marconiane si sono salvati 700 dei 2200 passeggeri...”. La radio era stata la vera protagonista della tragedia. Il 4 giugno del 1912 fu convocata a Londra una conferenza internazionale sul contributo che può dare la radiotelegrafia nei disastri marittimi e la necessità, per la sicurezza della vita umana, di rendere obbligatorio l’uso di tale mezzo su ogni natante.

 

Ma perché i compartimenti stagni del Titanic non hanno funzionato? Le commissioni di inchiesta che si sonoilsecolo susseguite hanno accertato i punti deboli dell’inaffondabile Titanic. I compartimenti erano rappresentati da sedici camere con 15 paretie che si estendevano al di sopra della linea di galleggiamento. Non avendo un tetto che le coprisse, le camere, una volta piene, permettevano all’acqua di inondare le unità adiacenti. L’inaffondabilità della nave era stata assicurata per cinque camere allagate, non per tutte! Quando la nave colpi l’iceberg le lastre dello scafo non si limitarono a piegarsi verso l’interno ma si squarciarono. Se il metallo fosse stato di buona qualità lo scafo si sarebbe deformato ma avrebbe retto meglio al taglio. Sicuramente sarebbero saltati i chiodi delle giunture e la nave avrebbe imbarcato acqua ma l’acciaio, con la deformazione, avrebbe assorbito gran parte dell’energia dell’impatto. L’urto avrebbe comunque ferito irreversibilmente la nave ma, probabilmente, sarebbe rimasta a galla per l’arrivo dei soccorsi. Invece l’acciaio del Titanic era fragile e lo diventò ancora di più per la bassissima temperatura dell’acqua dell’oceano. A quei tempi non si comprendeva il concetto di elasticità e fragilità e non si sapeva che una elevata percentuale di zolfo rendeva fragile l’acciaio. Quello del Titanic era ad alto contenuto di zolfo oltre che di fosforo. Concentrazioni elevate di fosforo predispongono a facili fratture l’acciaio, la sintesi fra zolfo e ferro crea il solfuro di ferro che facilità le rotture dello scafo. Le ricerche effettuate negli anni ’90, durante i tentativi di riportare a galla parti della nave, hanno mostrato che l’acciaio del Titanic era profondamente “inquinato” di tali elementi. Ma a quei tempi non solo non si poteva fare di meglio ma mancavano le odierne tecniche diagnostiche dei metalli come i raggi x e gli ultrasuoni. Tutto ciò contribuì all’affondamento del Gigante del mare. Se il metallo fosse stato del tipo con cui oggi si costruiscono le navi, le pareti del Titanic non avrebbero subito uno squarcio lungo novanta metri, ma questo fa parte delle ipotesi.

 

La fine del Titanic rappresentò, anche, la fine di una sorta di fantasia popolare che credeva nell’onnipotenza dell’uomo. Svaniva il sogno della Belle Epoque che aveva fatto sperare in un futuro fatto di ricchezza e di comodità tecnologica. Svaniva la favola di un mondo migliore e più buono che invece, a qualche anno, farà ‘affondare’ ancora una volta umili e potenti nella Grande guerra, evento ancora più disastroso dell’affondamento del Titanic.

 

La tragedia del Re del Mare ha influito sulla coscienza dell’intero pianeta e ha svegliato il genere umano riportandolo alla sua microscopica realtà. Frutto dell’arroganza di un’epoca, da cento anni i resti del Titanic giacciono sui fondali dell’Atlantico, lontani dall’alterigia degli uomini vivi. I suoi ospiti, umili e potenti riuniti ormai in una unica classe, riposano in pace nell’assordante silenzio del fondo dell’oceano.

 

9, continua

La tragedia del Titanic, una storia che appartiene alla radio. (II°)

     Il Titanic viaggiava maestosamente e i passeggeri erano nella più grande euforia, fra balli e musica dell’orchestra di bordo. La Compagnia Marconi aveva fornito al Titanic l’equipaggiamento radio più avanzato del momento e gli stessi operatori, Jack Phillips e Harold Bride, si erano formati sotto la scuola di Marconi. Alle 13.50 del 14 aprile al comandante Smith viene consegnato un messaggio della nave Baltic (della stessa White Star) che lo avvisa di enormi banchi di ghiaccio. Alle 21.30 Phillips riceve un nuovo messaggio di allarme dalla nave Masaba, segnalante una immensa estensione di ghiaccio. Phillips, per nulla preoccupato, ringrazia il collega e riprende a trasmettere i costosissimi e futili telegrammi che i ricchi passeggeri gli chiedono di inviare ad amici e parenti. Il comandante Edward Smith non viene per nulla avvertito. Alle 22.55 Cyril Evans, operatore radio del California, una nave della Cunard Line, avverte il Titanic del pericolo: “siamo fermi e circondati dal ghiaccio….”, ma questa volta Phillips replica con un arrogante “taci!”. Evans saluta il collega Phillips e chiude la cabina radio per la notte. All’epoca il collegamento radio era considerato un mezzo cui ricorrere in caso di necessita, di pericolo, e non uno strumento continuamente interattivo con il ponte di comando come avviene oggi.titanic

Il comandante Smith, che aveva già sottovalutato il pericolo, é all’oscuro dei messaggi successivi e il Titanic prosegue la sua folle corsa. Solo molto più tardi Smith viene avvisato dalle vedette della presenza di una enorme massa ghiacciata, l’ordine di indietro tutta è immediato ma inutile. Alle 23.40 l’urto con la montagna di ghiaccio é inevitabile e dopo una serie di scossoni e strisciate che provocano profondi squarci sullo scafo, il Titanic imbarca acqua nei suoi compartimenti stagni. L’equipaggio si rende conto che la nave é in grave pericolo e che i mezzi di salvataggio sono sufficienti per un terzo delle persone. Cinque minuti dopo la mezzanotte, ben venticinque minuti dopo l’impatto, Phillips e Bride ricevono finalmente l’ordine di chiedere aiuto e il CQD (Come Quick Danger) e l’Sos (Saver Our Soul) vengono disperatamente lanciati nello spazio. Fino all’ultimo si tentò di non far sapere che il grande Titanic era in pericolo, una vera follia. La nave più vicina che poteva prestare soccorso era il California ma, come già detto, il suo operatore aveva chiuso la stazione radio per andare... a dormire. Gli operatori del Titanic continuarono a chiedere aiuto fino a che l’acqua non invase la loro stanza di lavoro. La prima a rispondere all’implorante chiamata fu la nave tedesca Frankfurt distante oltre 200 miglia dal Titanic. Altre navi raccolsero la disperata invocazione che continuò ad essere lanciata fino alle 2.10 del 15 aprile 1912. E’ stata questa l’ora in cui gli apparati radio del Titanic smisero di trasmettere per mancanza di energia necessaria al loro funzionamento. Le caldaie stavano ormai per scoppiare e il fortissimo sibilo dovuto alla fuoriuscita del vapore, trasmetteva tutto il suo terrore di morte ai superstiti aggrappati ai rottami della nave e alle poche scialuppe già in mare.

Il Carphatia, della concorrente Cunard Line, a 58 miglia, era la nave più vicina e il suo operatore radio Cottam avvisò immediatamente il capitano Rostron che diede l’ordine di tutta forza verso il luogo del disastro, ma arrivò sulla scena solo alle prime luci dell’alba, quattro ore dopo. Del Titanic erano rimasti pochi pezzi galleggianti e le scialuppe piene di 740 disperati. Degli altri 1.618, tanti erano i dispersi e tanti i cadaveri affioranti sull’acqua gelida dell’oceano. Il Carpathia fece rotta su New York dove era atteso da una folla di oltre duemila persone. Phillips mori, come tanti altri, per ipotermia dopo che le onde lo avevano catapultato fuori dalla lancia di salvataggio e il suo corpo non fu mai ritrovato. Bride mori in Scozia nel 1956.

8 puntata

La tragedia del Titanic, emblema dell’arroganza dell’uomo. (I°)

 

   Il Titanic doveva rappresentare la nave più imponente e inaffondabile mai creata dall’uomo. Nata dall’ottimismo della Belle Epoque, un’epoca che affidava alla tecnologia la soluzione di tutti i problemi dell’umano, rappresentava lo stato dell’arte della tecnologia marina. Costruito in un momento in cui i collegamenti transoceanici erano considerati una conquista del desiderio di scoprire il mondo, il Titanic rispondeva alle esigenze della classe opulenta, che pretendeva il massimo del lusso e delle comodità, e alla modesta richiesta degli emigranti in cerca di fortuna nel nuovo mondo delle Americhe. Disponeva di tre classi, rispettando rigorosamente le differenze sociali e di denaro. Per andare in America con il Titanic il costo andava dai centomila euro di oggi per la lussuosa suite, ai mille euro per la cuccetta di terza classe.

 

Figlio dell’illuminismo che aveva dato vita al XVIII secolo, e dello sviluppo tecnologico del XIX secolo, il Titanic rappresentava la prima dimostrazione di onnipotenza dell’ultimo scorcio del millennio. Le avevano dato un nome che era una promessa di splendore, di potenza e di tanta ingenua arroganza. La galoppante fantasia popolare lo chiamava il Re del mare, la Citta galleggiante, il Signore dell’Atlantico. Una gloria che sarebbe durata appena quattro giorni. Per la nuova soluzione tecnica del doppio fondo, e dei sedici compartimenti stagni, avrebbe dovuto garantire la massima sicurezza, tanto che la compagnia non provvide la nave di un numero di scialuppe di salvataggio adeguato al numero di passeggeri trasportati. E ciò fu fatto per non deturpare l’elegante linea dello scafo. Una follia!titaniccostruzione

 

Il Titanic, orgoglio della compagnia inglese White Star Line, la mattina del 10 aprile 1912 lascia Southampton (Inghilterra), per il suo viaggio inaugurale diretto a New York ma, nella notte fra il a 14 e il 15 di aprile, il suo viaggio si interrompe per sempre, affondando con 1.618 persone a causa dello scontro con un iceberg. Su 2358, fra passeggeri ed equipaggio, solo 740 riescono a raggiungere vivi la Terra americana. La storia ha stimolato la fantasia di tanti produttori cinematografici che, in tempi diversi, hanno ricostruito il disastro, spesso romanzandolo e arricchendolo con irrilevanti storie d’amore. Ma a cento anni dalla tragedia è difficile, per le nuove generazioni, vivere la drammaticità dell’evento che, pur rispettando la verità dei fatti, va traslato su un terreno più congeniale al pubblico che paga lo spettacolo. Sicuramente affascinante è rivisitare l’evolversi delle ultime ore del viaggio del Titanic, che può considerarsi il più grande fallimento tecnologico di inizio secolo ventesimo. Cosa è accaduto nella notte del 14-15 aprile 1912? Come spesso accade la verità è ben diversa dalla fiction, ma è anche difficile da ricostruire con i mezzi e le memorie limitate che si sono tramandate. I mari, già allora, erano solcati da navi prestigiose e la White Star Line disponeva di un grande numero di navi veloci e confortevoli. Il Titanic avrebbe dovuto rappresentare l’ammiraglia della flotta. Per il suo primo viaggio il Titanic era stato affidato al comandante Edward Smith, vero vecchio lupo di mare e prossimo ad andare in pensione. Per dimostrare le grandi capacita di questa perla del mare, Smith la lancia alla massima velocita possibile, nel tentativo di battere tutti i precedenti traguardi e approdare a New York con 24 ore di anticipo. Ciò avrebbe costituito un forte richiamo pubblicitario e avrebbe imposto la supremazia sulla compagnia rivale, la Cunard Line che, allora, deteneva il record dei collegamenti con il Nuovo Mondo.

 

7, continua

6 puntata

E’ nel mare che la telegrafia senza fili mostra tutto il suo valore. Nel 1909 l’argomento dell’anno ha una immagine tragica e sublime, nella notte del 23 gennaio il lussuoso piroscafo inglese Republic collide, a causa della nebbia, con la nave italiana Florida presso le coste americane. Sono le cinque del mattino del 24 gennaio quando l’appello implorante di aiuto si propaga nell’etere. Allora erano solo 180 le navi al mondo munite di impianto radiotelegrafico; alla ricezione dell’accorato annuncio ben nove navi cambiano rotta per accorrere in aiuto. Tutti i 1800 passeggeri vengono posti in salvo prima che il bastimento affondi, e Marconi viene acclamato benefattore dell’umanità. Fu uno scoppio di ammirazione; il salvataggio ebbe risonanza nel mondo e tutti i governi dichiararono indispensabile il servizio radiomarittimo, soprattutto per le imbarcazioni che varcavano l’oceano. E’ il momento in cui Marconi porta a termine la prima stazione radiotelegrafica italiana sia per l’assistenza in mare sia per i collegamenti transoceanici. Costruita nella piana di Coltano, fra Pisa e Livorno, disponeva degli impianti più potenti del tempo sia ad onde lunghe e medie sia, successivamente, ad onde corte. Con l’impianto di Coltano l’Italia si metteva, finalmente, al passo con gli altri Paesi nella radiotelegrafia a grande distanza.

Il Titanic, una tragedia che appartiene alla radio

 

Nel marzo del 1912 Marconi partecipa a New York ad un ricevimento offerto dal quotidiano Times per celebrare i primi tre mesi del servizio internazionale della stampa a mezzo della radiotelegrafia. Ma tanta gioia prelude a un’altra immane tragedia. Nella notte del 15 aprile 1912, fra le nebbie dei mari della Groenlandia, il più grande piroscafo del mondo, il Titanic, nel suo viaggio inaugurale con 1.712 passeggeri a bordo, a 270 miglia da Terranova, affonda per l’urto contro un iceberg. La maestosa nave, orgoglio della Compagnia di navigazione inglese White Star Line, è inghiottita dagli abissi del mare in appena tre ore. La radio del Titanic aveva lanciato disperati segnali di soccorso che furono ricevuti dalla stazione di Capo Race (Terranova, Canada). Agli albori del mattino le navi Carphatia e Olimpic arrivano sul luogo del disastro prendendo i superstiti e facendo rotta verso New York dove, dei 2.358 passeggeri del Titanic ne giungono solo 740. Ad attenderli, insieme a migliaia di persone in ansia, vi era anche Marconi cui l’angoscia consenti poche parole: “vale la pena aver vissuto per aver dato a questa gente la possibilità di essere salvata”. La popolarità di Marconi raggiunse l’apice. Quando i naufraghi del Titanic seppero che l’inventore era ospite dell’Holland House di New York decisero di tributargli una grande manifestazione di gratitudine davanti all’albergo: “Ti dobbiamo la vita”, gridavano unanimemente. La tragedia del Titanic stimolò una conferenza internazionale sul contributo che può dare la radiotelegrafia nei disastri marittimi e la necessità di rendere obbligatorio l’uso della radiotelegrafia su ogni nave. Il suggerimento non rimase inascoltato da Marconi che, con altri ricercatori, perfezionò una ulteriore tecnica di grande interesse per la navigazione, la radiogoniometria che, anche nella nebbia, permette sicura la navigazione. Marconi perfeziona la radiogoniometria sulla nave “Elettra” che acquista nel 1919 per trasformarla in laboratorio galleggiante.

 

La tragedia del Titanic sarà trattata, in modo più esteso, nelle prossime tre puntate.

 

6, continuaradiotitanic

5 puntata

La campagna di lavoro svolta da Marconi a bordo della nave Carlo Alberto gli serve per ricomporre i rapporti con l’Italia e con la Regia Marina che lo incarica di realizzare le prime stazioni radio per l’assistenza in mare.

                                                                                                            

     Marconi stesso dichiara:

“Su questa nave nel corso della crociera nella Manica, nel Baltico, nel Mediterraneo e nell’Atlantico potei provare che le zone continentali e le montagne interposte fra stazioni radiotelegrafiche non ne impediscono la comunicazione” Si ebbe così prova che non c’è distanza sulla terra che la radiocomunicazione non possa superare.

A bordo della Carlo Alberto, Marconi, avrà sempre al suo fianco un collaboratore affascinato dalle sue scoperte: è il tenente di Vascello Luigi Solari che lo accompagnerà per tutte le sue vicissitudini fino alla morte. Con Solari, (affidatogli dalla Marina Italiana) Marconi dividerà le gioie e le amarezze dei suoi esperimenti, gli onori e le sconfitte con il mondo dei potenti. Durante la campagna sulla Carlo Alberto, il tenente Solari sarà di grande aiuto sia nello sperimentare nuove antenne adatte in navigazione sia nel dividere con Marconi l’ansia e la gioia di leggere in mezzo al mare i messaggi lanciati dalla costa inglese, da Poldhu. Questi esperimenti in mare gli permetteranno di realizzare la prima rete di comunicazione navale per la Regia Marina italiana.

Aiutato dalla serenità che la solitudine del mare sa dare, Marconi, sulla Carlo Alberto, mette a punto vari tipi di ricevitori, la cosiddetta ricezione a ‘galena’ e quella a ‘filo magnetico’. Certo sistemi ancora pioneristici e instabili ma che gli permettono di ricevere i radiotelegrammi da Poldhu. In particolare il rivelatore magnetico, che sarà oggetto di brevetto nel giugno del 1902, presenta ancora una sensibilità insufficiente per rivelare i deboli segnali provenienti da grandi distanze.

Molte sono dopo il 1902 le personalità nel campo della fisica che si interessano al fenomeno delle radiocomunicazioni. E’ possibile dire che nel 1902 la radio entra nel suo secondo periodo di vita, e da questo momento inizia una lotta mondiale per primeggiare in questa nuova arte. Nuove teorie appaiono per spiegare il fenomeno della propagazione delle onde, nell’apparente tentativo di sciogliere i molteplici dubbi sull’irradiazione a distanza. In realtà si tenta ancora di sottolineare l’impossibilita di comunicare a grande distanza. Ma la radio appare talmente attraente che ogni ostacolo è stimolo per raggiungere nuovi orizzonti.

Nel 1904 la ricerca è coronata dal più brillante dei successi con l’introduzione di un geniale dispositivo, la lampada termoionica, conosciuta più tardi come la “valvola termoionica o diodo”. La nuova tecnica stravolge tutti i filoni scientifici del momento. Il problema della ricezione delle onde radio si può dire risolto in questa fase e, allo stesso tempo, si da corso alla produzione. Dalla pionieristica fase delle trasmissioni imprecise e intermittenti, si passa a quella delle onde prodotte in modo stabile e sicuro. Questa innovazione relega nei musei gli strumenti che ebbero il pregio e il valore di appartenere all’infanzia della radiotelegrafia.

La rivoluzione elettronica ha origine proprio dall’oculata utilizzazione della lampada termoionica, che schiude le porte al mondo dell’elettronica e delle comunicazioni in cui siamo immersi. Il nuovo dispositivo si deve al fisico John Ambrose Fleming (Inghilterra 1849-1945). Curiosamente le esperienze di Fleming non suscitano interesse nella stampa di allora, che invece dedica spazio ai raggi X scoperti da Roentgen ed “al telegrafo senza fili” senza rendersi conto che il tubo di Fleming è un importante perfezionamento della tecnica di ricezione della “telegralfia senza fili” e, come si vedrà, anche dei Raggi X. Fleming presentò il suo lavoro al Convegno della Royal Society il 9 febbraio 1905. A Fleming però, della sua invenzione rimase solo la gloria, la Marconi’S Wireless Telegraph Company, di cui Fleming era consulente, si appropriò del brevetto e dei relativi proventi.

L’invenzione del tubo elettronico, perfezionato poi dall’americano Lee De Forest (Hollywood 1873-1961), diede l’avvio alla realizzazione di ricevitori dotati di grande sensibilità con cui poter captare, con sicurezza e continuità, segnali trasmessi da un capo all’altro del mondo, da un Popolo all’altro, da una lingua all’altra.

5, continuavalvole

4 puntata

Il Governo italiano riconosce il valore del nostro scienziato e gli mette a disposizione la Regia Nave Carlo Alberto, un laboratorio natante su cui sperimentare trasmissioni sempre più distanti. Mutuando un'espressione cara ai Governanti di oggi, possiamo dire che si era fatto rientrare sul Suolo italico uno scienziato "migrato" all'estero.

Il lavoro da svolgere è tanto e le aspettative enormi. Significativo è il commento del New York Times dopo la trasmissione attraverso l'Atlantico "Se Marconi riesce nella telegrafia intercontinentale, il suo nome rimane nei secoli come il più grande inventore del mondo"

Una delle maggiori difficoltà che si presenta al Marconi, dopo i primi successi della telegrafia senza fili, è data dalla impossibilita di poter separare, e ricevere in maniera autonoma, le onde emesse dalle diverse stazioni emittenti. Ma il problema trova presto la soluzione: ogni circuito di ricezione deve accordarsi, sintonizzarsi, sulla lunghezza d'onda della stazione che si vuole ricevere e la questione è ridotta ad un fenomeno fisico già allora ben conosciuto e studiato: la risonanza. Sistema trasmittente e sistema ricevente devono vibrare all'unisono, con la stessa frequenza, e cioè con la stessa lunghezza d'onda, devono "risuonare" tra loro come due diapason che emettono la stessa nota. Oggi, comodamente seduti con il telecomando in mano cambiamo canale con disinvoltura, ma appena 120 anni addietro separare un segnale da un altro era un problema ben complesso.

Il 26 aprile 1900 Marconi deposita lo storico brevetto n. 7777 sulla "Sintonia del circuito trasmittente e del circuito ricevente". Il brevetto 7777 ha grande valenza sui futuri successi e assicura l'indipendenza del funzionamento di più stazioni. E' il momento in cui le compagnie delle telecomunicazione via cavi, nel disperato tentativo di conservare la loro priorità nel Servizio telegrafico, scatenano una feroce campagna contro la radiotelegrafia di Marconi. I fautori del telegrafo via filo avevano infatti individuato, in un primo tempo, due aspetti negativi della telegrafia senza fili: l'impossibilità di poter operare con più stazioni contemporaneamente senza poter separare il segnale di una da quella dell'altra e la facilità con cui il segnale radio poteva essere intercettato ed ascoltato in ogni luogo senza poter mantenere il segreto del messaggio. Proprio quest'ultimo aspetto, per contro, evidenzierà nel tempo tutta la sua forza e aprirà le frontiere al sistema di comunicazione senza fili e alla radio trasmissione circolare, l'odierno broadcasting.

Nel 1902 il Governo italiano presieduto da Giovanni Zanardelli (e succeduto da Giolitti) scopre finalmente il valore di Guglielmo Marconi e gli mette a disposizione la Regia Nave Carlo Alberto per fare esperienze di trasmissione a distanze sempre maggiori. La campagna di lavoro svolto da Marconi su questa imbarcazione servirà per ricomporre i buoni rapporti con l'Italia e, in specie, con i servizi di comunicazione della Regia Marina che lo incaricherà di realizzare le prime stazioni radio per l'assistenza in mare. Non dimentichiamo che la prima applicazione che si intravede per la nascente "trasmissione a distanza" è proprio in mare per tenere in contatto uomini e natanti con la terra ferma. Come vedremo è in mare che la "radio" dimostrerà tutta la sua forza. A questo non pensiamo minimamente quando oggi vediamo il personale delle nostre navi conversare a decine di chilometri di distanza parlando in una microscopica scatoletta. E questo ci tranquillizza perché pensiamo che la navigazione è sicura e, in caso di necessità, c'è chi può venire a darci aiuto. Anche questo è la radio nata in quella lontana Pontecchio di Bologna per mano di un Genio italiano.

 

     marconiassistente

4, continua

3' puntata

“Non vi è distanza che la radio comunicazione non possa superare”, così dichiarò Marconi nel 1902. Pensiero che, ad oltre un secolo, continua ad essere di straordinaria attualità. Il 12 dicembre 1901 le onde elettromagnetiche varcano l’atlantico. La lettera “S” è trasmessa, in alfabeto Morse, da Poldhu (Inghilterra) a Terranova (America del nord).

                                                                                                                  

     Marconi ha come obiettivo fondamentale la conquista delle distanze con le sue onde elettriche; dopo i primi tentativi fra luoghi distanti qualche chilometro, egli riesce a comunicare attraverso la Manica, risultato raggiunto nel 1899. Ma dopo questo successo passa a risolvere un problema ancor più arduo: il superamento della grande distanza atlantica. Dinanzi a cotanto obiettivo menti elevatissime si mostrano ancora scettiche sulla possibilità di un risultato positivo dell’impresa per via della curvatura terrestre. Marconi non perde la sua incrollabile fiducia e dimostra che il fenomeno della propagazione delle onde non è limitato all’onda di superficie, prevista e regolata dalla già nota teoria del fisico Arnold Sommerfeld (Germania 1868-1951), ma chiarisce come parte dell’onda emessa dall’antenna si dirige verso l’alta atmosfera ed è questa porzione della radiazione, proiettata verso l’alto, che è riflessa nuovamente a terra da uno specchio invisibile e sconosciuto da cui dipende l’azione a grande distanza delle onde elettromagnetiche.

Già alla fine del 1800 due studiosi, Edwin Kennelly (India 1861-America 1839) e Arthur Heaviside (Londra 1859-1925), danno una brillante interpretazione del fenomeno ammettendo la presenza, nelle quote alte dell’aria, di strati nei quali sono presenti cariche elettriche libere (ioni) che riflettono a terra le onde radio. Si viene così a riconoscere intorno alla terra l’esistenza dello strato ‘ionosferico’, quella fascia alta migliaia di metri che, comportandosi come uno specchio per le onde elettromagnetiche, permette che queste possano essere captate da un capo all’altro del globo. Lo studio della ‘ionosfera’ impegnerà Marconi in tanti anni di fatiche. Uno dei suoi innumerevoli lavori dal titolo “I fenomeni della ionosfera accompagnanti le radiotrasmissioni”, sarà da lui presentato a Trento, nel 1930, al XIV congresso della Società Italiana per il Progresso delle Scienze.

Ciò che diede maggiore soddisfazione a Marconi fu la ricezione, in codice telegrafico, della lettera “S” ottenuta nell’isola di Terranova (America del nord) nel 1901 e trasmessa dalla stazione sperimentale inglese di Poldhu (Inghilterra). In quella occasione egli ebbe la prima vera prova sulla propagazione delle onde elettromagnetiche a grande distanza. Per riuscire in tale intento installò a Poldhu il più potente impianto radiotelegrafico allora costruito, per la corrispondente stazione di ricezione, al di la dell’oceano, scelse l’isola di Terranova (Canada) che era la parte dell’emisfero occidentale più vicina alla costa inglese. Alle dodici e trenta del 10 dicembre 1901, Marconi percepisce i deboli crepitii telegrafici trasmessi dalla costa inglese per mano di un suo collaboratore. “Udite nulla signor Kempt?” disse Marconi stendendo il ricevitore telefonico al suo assistente George Kempt. Kempt udì il medesimo crepitio della stazione a scintilla di Poldhu ripetuto tre volte che, nell’alfabeto morse, significa la lettera S. “Allora mi persuasi che non mi ero ingannato”, le onde elettromagnetiche avevano varcato l’Atlantico, senza preoccuparsi della curvatura della Terra. George Stevens Kempt, Ufficiale della Marina inglese gli fu messo accanto da William Preece, direttore dei telegrafi londinesi, che ebbe grande fiducia nelle ricerche marconiane.

2' puntata

Per leggere questa pagina stiamo usando internet, una delle tante evoluzioni che ebbe ‘l’invenzione della radio’. Il web, infatti, appartiene al grande disegno della trasmissione a distanza creata da Marconi a fine 1800. Ma nel 1896 Marconi dovette andare a Londra per essere preso sul serio, il Governo italiano e gli Accademici non avevano dato credito ai suoi esperimenti.

 

La diffidenza dei dotti e dei capitalisti verso gli esperimenti di Marconi

 

Marconi ideò quel semplice dispositivo denominato ‘antenna’ e costituito da un filo che parte dalle apparecchiature generatrici del segnale e, innalzato nell’aria fra due punti giustamente distanti, produce quelle “perturbazioni elettromagnetiche dell’etere che si propagano per ogni dove”. L’antenna va considerata come 1’insieme di tanti piccoli elementi di corrente la cui sommatoria crea quel campo elettrico globale e presente in ogni punto dello spazio di propagazione.

 

Ed é basandosi su queste esperienze che le teorie matematiche formulate da studiosi dell’epoca (come Hertz e Clark Maxwell, Inghilterra 1831-1879) possono trovare giusta applicazione. L’antenna, parte essenziale di qualunque stazione trasmittente e ricevente, è oggi divenuto un elemento che possiamo realizzare e plasmare come a noi fa comodo. I moderni dispositivi “persona1i” di comunicazione a microonde (i telefonini) dispongono di antenne di piccolissime dimensioni, da potersi portare in tasca. 

 

Grandi e imprevisti furono gli ostacoli che si opposero allo sviluppo dell’idea marconiana nell’evoluzione della telegrafia senza fili. La curvatura della Terra, le interferenze e le scariche atmosferiche costituirono argomenti per giustificare la freddezza di alcuni Governi (tra cui quello italiano), lo scetticismo dei tecnici e la diffidenza dei capitalisti di fronte all’invenzione.

 

Marconi, con l’intuito e la fede che si ritrovano nei grandi uomini, superò gli ostacoli oppostigli dalla natura e dagli uomini. La propagazione dell’onda elettromagnetica presentava un duplice problema: in primo luogo andava studiata la possibilità che i segnali si propagassero da un punto all’altro dell’etere per stabilire “la comunicazione a distanza”, dopo era necessario conoscere quali erano gli elementi che ne influenzavano il fenomeno.

 

Le onde elettromagnetiche avevano un comportamento tipicamente ottico e una delle cause che faceva sembrare impossibile la trasmissione di segnali a grande distanza era data dalla rotondità della Terra. Marconi ebbe fede di poter “piegare” le onde hertziane tanto da far seguire la superficie terrestre; tento l’esperimento tra lo scetticismo del mondo scientifico e vinse. antennemarconiane

 

Il successo rivelò un fenomeno ancora poco conosciuto: le onde hertziane venivano riflesse e piegate dagli alti strati dell’atmosfera potendo così propagarsi anche al di la dell’orizzonte visivo. La scoperta di questo fenomeno, che lascio incredulo lo stesso Marconi, aprì alla Fisica nuove teorie e nuovi obiettivi che, ancor oggi, sono oggetto di studio. Nel 1895 Marconi è nel vivo delle sue esperienze e i tentativi si trasformano in rapidi successi. La realizzazione marconiana del collegamento, dell’apparato trasmittente e di quello ricevente sia all’antenna che alla terra, fu l’innovazione che schiuse le possibilità della telecomunicazione senza fili.

 

Marconi, dopo i primi successi nella radiotelegrafia attraverso l’etere ottenuti nella sua tenuta di campagna (a Pontecchio, vedi puntata n°1), con lettera semplice e modesta, illustrò questo primo traguardo al ministro delle Poste e telegrafi italiano ma la sua offerta non fu presa in considerazione. L’Inventore non si perse d’animo e, accompagnato dalla madre, si reco in Inghilterra dove potè dimostrare i risultati ottenuti al direttore dei Telegrafi e delle Poste londinesi Sir William Preece.

 

E’ in Inghilterra che Marconi inizierà ad avere i primi riconoscimenti ufficiali. Il 2 giugno 1896 Marconi deposita all’ufficio brevetti di Londra la prima domanda dal titolo “Perfezionamento nelle trasmissioni degli impulsi e dei segnali elettrici negli apparecchi corrispondenti”. Marconi intuisce che la sua realizzazione può avere un futuro commerciale. Dopo la buona impressione destata presso le Poste inglesi, egli costituisce la Compagnia Wireless Telegraph and Signal Company avvalendosi, anche, di studiosi e ricercatori volenterosi.

 

                                                                    2, continua

L'avventura della Radio 1' puntata

Inizia, con questa prima parte, il racconto dell’invenzione della radio, intesa come “strumento di comunicazione a distanza” e che ha creato tante applicazioni che, ancor oggi, non cennano a concludersi. Riteniamo scontate e, forse, sempre esistite la televisione, il telefonino, il cordless di casa, il gps, il wi-fi, le comunicazioni satellitari e tutto l’universo tecnologico che la nostra fantasia può evocare, ma tutto questo ha avuto origine solo centoventi anni fa. Il racconto “dell’avventura” è coinvolgente e reso volutamente discorsivo. Questo si svolgerà in una serie di puntate che saranno pubblicate con frequenza settimanale.

Profondamente appassionato, forse da sempre, di questi argomenti sono disponibile, se si desidera, alla mia e-mail. Grazie per la lettura.

 

I primi esperimenti di Guglielmo Marconi

Alla fine del 1800 i fisici negavano la possibilità di utilizzare le onde elettromagnetiche per la trasmissione di segnali a grande distanza ed i tecnici delle comunicazioni telegrafiche su filo confermavano l’asserto escludendo, a causa della presunta impossibilità del segreto della comunicazione e delle inevitabili interferenze, qualunque pratica applicazione di quelle onde. A conferma di questo corale scetticismo non mancava l’arma delle dimostrazioni matematiche che, nei primi tempi, negò a Guglielmo Marconi (Bologna 1874-1937) ogni consenso per l’applicazione delle sue intuizioni. Ma l’idea di servirsi delle onde elettriche per trasmettere a distanza il pensiero, la parola, era viva nella mente del giovane ricercatore centoventi anni fa.

Il luogo in cui si è dato avvio alla storia della telegrafia senza fili, alla radiocomunicazione, è oggi conosciuto come Villa Griffone, una grande casa di campagna a Pontecchio, vicino Bologna, dove trovavano posto la parte abitativa della Famiglia Marconi, la stalla, il fienile e, all’ultimo piano, la “stanza dei bachi”, un ampio locale dove erano allevati bachi da seta. Proprio nella stanza dei bachi il giovane Marconi, attratto dalle scienze elettriche, organizza il suo primo laboratorio. Nell’inverno tra il 1894 ed il 1895 Marconi lavora con l’intento di tradurre in pratica le conoscenze che aveva acquisito da altri studiosi. Nella conferenza tenuta alla Reale Accademia delle Scienze di Stoccolma, nel 1909, in occasione del conferimento del Premio Nobel, Marconi afferma “Nel tracciare la storia delle mie applicazioni per giungere alla telegrafia senza fili, debbo dire che non ho mai studiato in modo regolare la Fisica e l’Elettrotecnica per quanto, fin da ragazzo, abbia nutrito interesse per questi argomenti. Ho tuttavia seguito le lezioni dei professori Rosa e Righi a Livorno e mi sono tenuto al corrente degli studi di Hertz e di altri studiosi”.

Il 1894 é l’anno natalizio delle aspettative del giovane Marconi. Lo studio dei fenomeni elettrici atmosferici (le cariche elettriche dei fulmini) mette nella sua mente la certezza di scoprire quel tesoro di elementi, di leggi antiche come le origini delle cose che in un secolo hanno sconvolto il modo di vivere dell’Umanità. Fin da allora Marconi imposta i giusti rapporti tra scienza e tecnica. Per lui scienza teorica e sperimentale si integrano a vicenda; una sua affermazione recita: “Senza 1’ausilio della scienza pura e della ricerca sperimentale la civiltà non avrebbe mai raggiunto l’attuale suo alto livello”. La dimostrazione dell’esistenza di onde elettromagnetiche dello stesso tipo delle onde luminose, create da correnti elettriche variabili di elevatissima frequenza è dovuta al fisico Heinrich Hertz (Germania, 1857-1894), ma l’idea di poterle sfruttare per trasmettere voci e segnali, si deve al giovane genio di Pontecchio. Grazie ad Hertz, delle onde elettromagnetiche si conoscevano già alcune proprietà come il carattere ottico, la velocita di propagazione simile a quella delle onde luminose, il comportarsi nei fenomeni della riflessione, rifrazione, diffrazione, in modo ancora simile alle onde citate. Le esperienze di Hertz rimangono ancor oggi, dopo che abbiamo apprezzato le eccezionali applicazioni nel mondo dell’infinitamente piccolo, tra le più grandi genialità che la storia della Fisica enumeri. La dimostrazione dell’esistenza delle onde elettromagnetiche apre la via al Marconi per la sua grande impresa, capace di generare tante applicazioni che, a oltre un secolo delle sue prime esperienze, non cennano a concludersi.

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Guglielmo Marconi 1901 wireless signal

Caro vecchio juke-box che 90 anni fa hai inaugurato un'epoca tutta nuova

Internet, mp3 e masterizzatori hanno cancellato il vecchio juke-box dalla memoria dei giovani, ma chi ha superato gli "anta" non dimentica il fascino di queste macchine sonore. Luci colorate e forme accattivanti hanno inciso nei ricordi le canzoni e il richiamo spensierato di questi strumenti che, a gran voce, proponevano i motivi che hanno accompagnato il ritorno della voglia di vivere nei difficili anni del dopo guerra. Ma la macchina musicale automatica nasce ben prima di quei tempi.

E della fine dell'800 il "Music Box Polyphon", una sorta di grande carillon che, caricato a manovella, funzionava introducendo una moneta. Antenati dei juke-box sono anche i "Musical Piano" di produzione tedesca, veri pianoforti funzionanti a moneta dove un improvvisato pianista poteva rallegrare gli avventori di un ritrovo. Nel 1920 le case produttrici di macchine che suonano a pagamento sono tre: Copehart, Seeburg e la Ami e, solo successivamente, la Wurlitzer che dominerà negli anni successivi. Proprio quest'ultima, nel 1933 e superata la crisi economica del 1929, presenterà il suo primo apparecchio, incidendo un solco tecnico-commerciale che continuerà fino ai giorni nostri. Anche la Wurlitzer costruiva pianoforti a moneta, ma la diffusione che ebbe in quegli anni la radio mise in crisi il settore. I pianoforti a gettone, un tempo troneggianti in tutti i boxluoghi di ritrovo, furono rapidamente sostituiti dal nuovo, stupefacente, "compagno sonoro". L'accoglienza della nuova macchina musicale ebbe dell'incredibile: nel solo 1936 la Wurlitzer vendette più di quarantamila juke-boxes. Neanche la seconda guerra li fermò, benché la produzione fosse fortemente ridotta perchè i materiali erano destinati tutti all'industria bellica.

Il juke-box divenne il simbolo degli anni '50 e, tra tutti i modelli, il Wurlitzer a forma cupolare, con tanti tubi fluorescenti di luce colorata, fu simbolo della voglia di divertirsi che contagiava, come una febbre, gli americani reduci dai campi di battaglia. Il battage pubblicitario fu talmente forte che la frequentazione di un locale poteva crollare drasticamente se non si possedeva un Wurlitzer. Riviste e giornali pubblicavano intere pagine con fotografie di giovani che si scatenavano ballando attorno a questa macchina. Gli americani attribuirono a questo apparecchio un trionfo che vede, ancor oggi, nel "modello a cupola" un pezzo ricercato dai collezionisti. Ne furono costruiti più di 60.000 esemplari e molti di questi apparecchi, funzionanti in origine con dischi a 78 giri, furono convertiti per poter alloggiare anche i 45 giri prodotti a fine anni cinquanta. In Italia le calde voci di Mina, di Frank Sinatra, di Gianni Morandi, e di tutti quelli che ancor oggi fanno ricordare gli anni '60, si fecero sentire prepotentemente in tutti i ritrovi del nostro Paese.

Ma da dove nasce la parola juke-box? Le teorie sono molteplici, la più accreditata é quella dell'unione tra la parola "juke", sinonimo di balera nell'inglese-americano, e "box", scatola, e quindi 'scatola musicale per balere o sale da ballo'.

Fra gli anni '60 e gli anni '70, ultimo periodo di gloria del juke-box, lo styling venne mutato, i mobili resi spigolosi e si utilizzarono materiali freddi come il metallo. Il decennio '70 decretò il declino di questo strumento musicale. L'avvento di nuovi macchinari, più sofisticati e meno ingombranti, lasciò ben poco spazio a questi piccoli gioielli che hanno contribuito a scrivere un'epoca ricordata, ancor oggi, con tanta nostalgia. Un'ultima curiosità, la potenza elettroacustica di queste fantastiche macchine non superava i dieci o quindici watt, e la loro voce calda e accattivante partecipava sempre, con discrezione, all'approccio romantico della serata. Un particolare, un suono, che non potrà mai essere dimenticato da chi scrive questo pezzo.

 

---Alla fine del secondo conflitto nasce negli italiani la voglia di evadere e recuperare quel desiderio di vita che la guerra aveva cancellato. La gente sente la necessità di spostarsi e accedere ai nuovi mezzi di locomozione, già tanto comuni oltreoceano. In America le auto private erano assai diffuse, anche nella fascia medio bassa della popolazione. Al contrario gli italiani uscivano impoveriti da una guerra che li aveva piegati. Era il momento in cui si sentiva la necessità di un mezzo di locomozione leggero, veloce e soprattutto economico per produrre, per fare e tornare a vivere. Nell'aprile 1946 la Piaggio di Pontedera, vicino Pisa, brevetta il progetto per "motocicletta a complesso razionale di organi ed elementi con telaio combinato con parafanghi e cofano ricoprenti tutta la parte meccanica". Il progetto nasce da un'idea dell'ingegnere Corradino D'Ascanio, generale dell'Aeronautica, cui Enrico Piaggio si eravespa affidato. Al contrario dei mezzi a due ruote d'allora, D'Ascanio immagina un mezzo con scocca portante e con una carrozzeria capace di proteggere il guidatore e di impedirgli di sporcarsi o scomporsi nell'abbigliamento. La posizione di guida del nuovo mezzo era pensata per stare comodamente seduti, anziché pericolosamente in bilico su una motocicletta a ruote alte. Il nome del veicolo fu coniato dallo stesso Enrico Piaggio che davanti al prototipo, dalla parte centrale ampia per accogliere il guidatore e dalla "vita" stretta, esclamò: «Sembra una vespa». E Vespa rimase.

Le iniziali difficoltà convincono Enrico Piaggio ad offrire la diffusione della Vespa al conte Parodi, produttore della Moto Guzzi, al fine di inserirla nella rete commerciale del più affermato marchio. Il conte Parodi rifiuta ogni collaborazione, ritenendo la Vespa un prodotto di scarso successo, ed Enrico Piaggio non esita a dare il via alla produzione con mille esemplari del primo modello da 98 cc. Il debutto in società del veicolo si tiene al prestigioso Circolo del Golf di Roma, alla presenza del generale americano Stone, rappresentante del governo militare alleato.

Nei primi mesi del 1947 la produzione inizia a decollare, e l'anno successivo esce dagli stabilimenti Piaggio la "Vespa 125", modello superiore che si afferma come successore della Vespa 98. Il "miracolo" Vespa è ormai realtà. I mercati esteri guardano con interesse la nascita dello scooter. Il Times parla di «un prodotto italiano come non se ne vedevano da secoli dopo la biga romana». Il successo è tale che, pochi anni dopo la sua nascita, la Vespa viene costruita su licenza in Francia in Spagna e in Inghilterra. Il prezzo? Circa centomila lire. Il mezzo poteva persino essere corredato di un radioricevitore costruito, su specifiche della Piaggio, dalla Altar di Livorno e denominato modello Radio Moto Scooter.

Nel 1948, con motore della Vespa, nasce il primo modello di Ape, mantenendo molti componenti del veicolo madre come lo scudo anteriore, il manubrio e il motore 125 cc. La novità era data dalla coppia di ruote con sopra un pianale capace di trasportare ben 200 kg di carico. Allora 'Ape' rivoluzionò la mobilità cittadina presentandosi come un veicolo dal costo contenuto, manovrabile nel traffico ma, soprattutto, nelle campagne dove questo innovativo veicolo dava il suo meglio in resistenza ed economicità. Negli anni a seguire l'Ape sottolinea ulteriormente il suo fascino, legando la propria immagine anche ai fotogrammi dei divi di Hollywood in vacanza nelle isole del Mediterraneo e, in specie, nelle Eolie. E' ormai moda e l'Ape Calesse, con tanto di divanetto posteriore, è il mezzo preferito da attori e personaggi famosi tra i vicoli delle Isole campane e, com'è ancor oggi sotto i nostri occhi, nell'Arcipelago Eoliano nella silenziosa edizione "elettrica".

Lo scooter si trasforma in un fenomeno che caratterizza un'epoca: nel cinema, nella letteratura e nelle immagini pubblicitarie Vespa compare infinite volte. Era nato un mito. Negli anni della "Dolce vita" Vespa diventa sinonimo di scooter e i reportage dei corrispondenti stranieri descrivono l'Italia come "il Paese della Vespa", che compare in centinaia di film. Audrey Hepburn e Gregory Peck in "Vacanze Romane" sono i primi di una lunga serie di attrici e attori ripresi in sella allo scooter più famoso del mondo, in film che vanno da "American Graffiti" fino a "Caro Diario", dove Nanni Moretti scopre in Vespa le Isole Eolie. Nelle foto, nei film e sui set, Vespa è stata compagna di viaggio di Raquel Welch, Ursula Andress, Joan Collins, Jayne Mansfield, Virna Lisi, Marcello Mastroianni, John Wayne, Gary Cooper e tanti altri ancora.

La Vespa fu copiata e imitata in mille modi, ma l'unicità del veicolo assicurò a Piaggio un successo che ancora continua.

---Lo scambio di idee e di informazioni fra gli individui si attua, essenzialmente, attraverso il sistema verbo-acustico: parola parlata e ascoltata. La voce ci avvicina ai familiari e alle persone care. L'inflessione vocale, la sua modulazione, trasmette sentimenti, paure, approvazione e dissenso, amore e affetto. Senza l'uso della voce saremmo isolati con il nostro io.

Il cervello umano dell'adulto, che nell'infanzia non ha avuto problemi di udito, possiede un personale sistema di codificazione dei segni sonori, vocali, ascoltati. Questo è costruito su precisi rapporti fra le intensità delle varie frequenze, o "componenti armoniche", che permettono il confronto tra il segnale sonoro percepito e quello immagazzinato in memoria. La mancanza, o la ridotta, capacità uditiva inficia la costruzione di questi meccanismi naturali limitando la decodifica dei messaggi sonori e, allo stesso tempo, i rapporti sociali del soggetto. E' il caso di rievocare un vecchio detto, "la cecità allontana le persone dalle cose, la sordità isola le persone dalle persone".bambino

Ma quali sono le cause della sordità? Nel caso del bambino questa può derivare da fatti ereditari o da eventi infettivi contratti dalla mamma durante la gravidanza, come la rosolia, o da concepimenti fra consanguinei. Nel caso dell'adulto la perdita uditiva può scaturire dal sovraccarico sonoro, come l'esposizione al rumore durante l'attività lavorativa, o dalla 'naturale' presbiacusia che ci accompagna nell'inesorabile trascorrere degli anni. In ogni caso il deficit sensoriale, quando è presente, va trattato subito perché il soggetto continui i legami con il mondo che lo circonda e il sistema centrale (cervello) mantenga la sua plastica elasticità .

Nel bambino l'ipoacusia, oltre a problemi di carattere psicologico di emarginazione sociale, inficia le capacita di controllare i suoni emessi, limitando la possibilità di esprimersi con il linguaggio e di interfacciarsi con il mondo che lo circonda. Se il piccolo ascolta la voce della madre o sente il rumore dei suoi passi che si avvicinano ne recepisce la presenza pur non vedendola. Il rumore dei passi o il suono della voce diventano quindi rappresentativi dell'arrivo della madre. Le informazioni uditive permettono di stabilire la direzione da cui proviene la madre e la distanza che la separa da lui. In tal modo il piccolo può valutare il significato delle attese, più o meno lunghe, correlando la distanza temporale fra gli eventi. In presenza di un deficit uditivo il piccolo non recepisce tali messaggi e vivrà con ansia l'attesa della madre di cui potrà percepire l'esistenza solo quando sarà presente.

Quando il tempo scorre senza scandire il succedersi dei suoi istanti, non esiste coscienza dell'evoluzione; da ciò nasce l'atteggiamento caotico che spesso i bambini sordi manifestano. Il bambino non cadenza il succedersi degli eventi e, in questa sorta di atemporalità, le elaborazioni evolutive risultano distorte.

La mancata conoscenza del meccanismo che lega udito e fonazione della parola, ha portato la società a inventare il termine "sordomuto", come se sordità e mutismo fossero due patologie esistenti contemporaneamente. Questa visione è oggi ampiamente superata, e si sa che il cosiddetto sordomuto sarebbe perfettamente in grado, dal punto di vista organico, di parlare correttamente se riuscisse a sentire. L'autoascolto, o biofeedback uditivo, è infatti indispensabile per la corretta fonazione. Naturalmente la funzione del biofeedback non si limita alla fase di creazione del linguaggio ma continua nel tempo e permette di mantenere l'emissione verbale all'interno delle corrette forme, conosciute e acquisite. Per l'adulto già normoudente, dal momento in cui diviene ipoacusico, cominciano i problemi alla fonoarticolazione. Tipica è l'espressione verbale dell'anziano che ha perso l'udito e che in tante occasioni abbiamo avuto modo di sentire. La parola è "piatta", priva di coloritura spettrale e di dinamica e, anche se in certi casi viene 'quasi gridata', non sempre è ben comprensibile.

I primi studi effettuati sulla sordità e sulla rieducazione dei bambini ipoacusici risalgono all'inizio dell'800, prima di tale epoca i sordi venivano considerati soggetti non educabili, intellettivamente ipodotati, con processi psichici diversi e quindi privi di qualunque capacita giuridica ed incapaci di affermarsi nella società. Poichè la parola era considerata manifestazione del pensiero, la mancanza del linguaggio era associata a ridotta intelligenza. Da ciò ne derivava il conseguente isolamento di tali soggetti. Proprio a metà 800 alcuni studiosi iniziano ad interessarsi del problema e, a Parigi e a Lipsia, nascono le prime scuole per sordi. L'evoluzione storica del problema vede sorgere una specifica disciplina, con agorà di incontri e convegni specifici. Probabilmente il primo convegno su questo tema è il "Congresso Internazionale per il miglioramento della sorte dei Sordomuti", riunitosi a Milano il 6 settembre 1880. In questa sede, per la prima volta, si approva una risoluzione che esalta il nascente metodo Logopedico, oggi ampiamente adottato nei Centri di Riabilitazione. Una vera svolta nella storia dell'educazione dei sordi. La Logopedia è un'attività terapeutica per la rieducazione delle disabilità comunicative e cognitive che utilizza terapie riabilitative della comunicazione e del linguaggio.

A distanza di oltre un secolo le metodiche e i processi rieducativi si sono affinati. Oggi il bambino affetto da sordità congenita e profonda può godere di interventi specifici come la precoce audio-protesizzazione e la citata riabilitazione Logopedica che stimola il bambino a riprodurre suoni e parole. Riabilitazione logopedia sia come aiuto al piccolo sia come istruzione a chi vive accanto al piccolo. La terapista deve infatti prestare attenzione perché il piccolo audioleso senta gli stimoli sonori e le parole che possono suscitare la sua attenzione ma, allo stesso tempo, deve stimolare e istruire la mamma e chi vive con il piccolo audioleso a completare l'opera riabilitatrice. Soprattutto la mamma deve operare in prima persona, impegnandosi in quella missione naturale che non accetta deleghe.

Da Eoliano acquisito mi sento di richiamare l'attenzione sulla indispensabilità del Centro di Riabilitazione di Lipari-Canneto che, nato 1998, ha donato a tanti bimbi, oggi adulti, il piacere dei suoni della vita ripristinando quel dono sensoriale che la natura aveva loro negato.

---Il pianoforte compie trecento anni e la sua nascita, nel 1700, da l'avvio a una nuova epoca di suoni e di musica. Concepito nel mondo dei cembalisti, cosi affine a quello della liuteria e degli strumenti sonori pizzicati, il pianoforte segna l'inizio della rivoluzione industriale nel mondo degli strumenti musicali. Diverso è il modo con cui sono eccitate le corde: nel clavicembalo sono pizzicate da una penna, nel piano sono percosse da martelletti e questo rende completamente differenti i timbri dei suoni emessi dai due strumenti. Sono i primi del '700 quando il costruttore fiorentino Bartolomeo Cristofori installa dei martelletti in sostituzione dei plettri, rendendo lo strumento capace di emettere suoni dal timbro controllabile. Accanto ai martelletti, altri elementi dell'invenzione sono lo scappamento e lo smorzo. L'applicazione dei martelli permette di graduare l'intensità del suono in rapporto alla forza e alla dolcezza del proprio tatto, scappamento e smorzo fanno sì che la corda vibri fin quando il tasto resta premuto, ubbidendo all'estro del pianista. Il pianoforte diventa il più versatile strumento a percussione la cui emissione sonora spazia in un range di sette ottave, dalla nota piu bassa di soli 25 vibrazioni il secondo all'armonica più alta di 4200 vibrazioni e in un intervallo di intensità sonore altrettanto ampio.
Le attuali indagini nel campo dell'acustica del pianoforte tendono allo studio di strumenti che non solo generino suoni piacevoli ma anche, e piano1soprattutto, facilmente controllabili dall'esecutore. Tuttavia i fenomeni fisici coinvolti sono talmente vari e dipendenti da una serie così estesa di parametri, da far credere che una comprensione completa dei legami fra le emissioni sonore e le influenze psico-somatiche e le sensazioni emotive che questo evoca non é, al momento, facilmente raggiungibile.
Negli anni successivi al 18° secolo l'invenzione di Cristofori viene ripresa e perfezionata dal tedesco Silbermann e, successivamente, da altre importanti fabbriche europee come Stein e Broadwood. I primi pianoforti sono a coda, ma nel corso del 19° secolo Hawkins di Philadelphia e Wornum di Londra propongono il pianoforte verticale. Per quanto quest'ultimo sia oggi uno strumento assai diffuso, per l'economicità e le dimensioni contenute, esso presenta delle potenzialità sonore compromesse rispetto al piano a coda. E' soprattutto il limite minimo di altezza, cioè la nota più bassa, e il livello di intensità sonora che risultano sacrificate nel piano verticale.
Nel corso della sua evoluzione le caratteristiche costruttive del pianoforte si sono perfezionate con l'applicazione dei pedali e del telaio metallico. Lo sviluppo del pianoforte dopo il 1750 segue due differenti filosofie costruttive. In Inghilterra la meccanica interna si costruisce pesante e complessa. In Germania, sviluppata da Johann Stein, la macchina é costruita leggera e semplice, pur rispettando lo stesso standard di qualità acustiche. Sono questi i primi pianoforti sui quali Mozart e Beethoven compongono e si esibiscono. Lo sviluppo del pianoforte pare concluso alla fine del 19° secolo, indicando che la tipologia costruttiva dello strumento è da considerarsi a un livello di perfezione non più migliorabile in futuro.
Già dopo qualche decennio dalla sua invenzione il pianoforte assume una specifica fisionomia, caratterizzandosi come vero prodotto industriale, al contrario degli altri strumenti musicali costruiti, fino a quel momento, in improvvisati laboratori artigianali. Il pianoforte è costruito in vere e proprie fabbriche, luoghi di produzione di massa, dove allo sforzo di ricerca di nuove soluzioni si coniuga la cura artigianale per ogni singolo pezzo. L'accompagnarsi della produzione alla trasformazione che percorre l'Europa é evidente: non è certo un caso che il cuore della produzione sia prima in Inghilterra, paese ricco di possedimenti e di miniere di carbone e, quindi, culla della rivoluzione industriale. Successivamente in Germania, il paese europeo protagonista della scena economica negli ultimi decenni dell'ottocento. L'industrializzazione apre lo scrigno della musica a una nuova classe borghese che rappresenta l'utenza di élite di questo nuovo strumento. Il pianoforte si fa simbolo della musica romantica e dello spirito del secolo. Il pianoforte diviene status symbol, mezzo di seduzione, strumento mito e oggetto d'arredamento del salotto dei ricchi. L'approccio con le classi medie arriverà nel nuovo secolo, quando avanzate forme di costruzione permetteranno di produrre lo strumento a minor costo. Da bene di lusso il pianoforte diventa accessibile anche alla borghesia medio-piccola. Elemento di decoro borghese già quando troneggiava nei salotti buoni, a garanzia di solidità economica e di una raggiunta elevazione culturale, il pianoforte diviene l'immagine perfetta dello stato di benessere raggiunto dalla famiglia. E questo un secondo periodo d'oro del pianoforte, dopo quello che a metà XIX secolo lo aveva eletto il re degli strumenti musicali.
Ma tanta gloria inizia a sbiadirsi nel novecento, all'alba degli anni '30 quando un nuovo strumento di musica fa crollare l'enorme valenza che il pianoforte aveva acquisito nelle case dei benestanti. Con la radio, più ancora che con il grammofono, la musica entra a basso prezzo in tutte le case, e per di più eseguita da professionisti e non da dilettanti come avveniva nei pur lussuosi saloni. La pessima qualità sonora della nascente radiofonia non scoraggia un pubblico sempre più coinvolto e poco avvezzo alle raffinate riproduzioni del post Hi-Fi. Molto più del pianoforte, la radio si fà oggetto di consumo voluttuario, aprendo la strada a una lunga serie di successive evoluzioni economiche. Ma la radio, ovviamente, non ha fatto sparire il pianoforte dai salotti, come la televisione non ha oscurato il cinema. Semmai si sono definiti i ruoli. All'inizio del '900 il pianoforte diventa un forte alleato del cinema, soprattutto all'epoca del muto, quando un piano verticale era d'obbligo sotto lo schermo per commentare i fotogrammi in movimento.
ll pianoforte diviene anche attore galeotto. Comparso nel '55 in "Quando la moglie é in vacanza" di Billy Wilder, fa la sua prepotente parte in "Casablanca" con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, ma lo si trova in "Lezioni di piano" del '93 e, ancora, nel film di Tornatore del '98 "La leggenda del pianista sull'oceano". Dopo tanti anni il pianoforte fa ancora la parte del primo attore e di strumento di seduzione.
Negli anni settanta si assiste a un vero e proprio boom, il terzo periodo d'oro del pianoforte. I produttori giapponesi, e successivamente anche i sud-coreani, conquistano i primi posti nella classifica. Ma gli anni ottanta segnano la crisi dei mercati. La domanda si fa debole e chitarre elettroniche e sintetizzatori digitali si affermano come concorrenti dell'educazione musicale. Le trasformazioni sociali accelerano il passo. Perde centralità quel modello di famiglia ricca, o pseudo ricca, che aveva fatto dell'avviamento al pianoforte, e alla musica, una caratteristica dell'educazione dei figli. A ciò contribuisce la diminuita pueri-centricità della coppia. Oggi l'acquisto del pianoforte non è più fatto da genitori con bambini da crescere, ma dall'adulto che vuole fare della musica un'attività commerciale o un piacevole complemento della sua esistenza.
Sarebbe bello ascoltare il caldo vibrare delle corde del pianoforte negli angolini vacanzieri delle nostre Isole al posto di quel prepotente tambureggiare di colpi dal tono pseudo basso. E' proprio in questi luoghi che il pianoforte potrebbe ritrovare la sua veste di galeotto mezzo di seduzione.

---L'11 ottobre 1860 il Consiglio civico di Lipari è convocato dal Comandante del presidio dei Carabinieri con l'ordine del giorno avente per oggetto "costruzione dell'impianto per l'illuminazione notturna con lumi ad olio". A metà del 1800, mettendosi al passo con i tempi, anche Lipari vantava le sue piccole e rossastre fiammelle ad olio.

Ma il funzionamento dei lumi era limitato, mancavano infatti i fondi necessari per approvvigionarsi dell'olio illuminante e il materiale utilizzato nell'impianto non resisteva sempre alle intemperie, richiedendo continue ulteriori spese di manutenzione. Le 'lumere' potevano quindi erogare luce secondo criteri di rigida economia e solo nelle notti senza luna, mentre quando questa rischiarava le tenebre con la sua luce riflessa, era proibito accendere le flebili fiammelle.

Non c'èrano i folli tagli finanziari di oggi, non esistevano i patti di stabilità, c'èra semplicemente una grande povertà.
Sebbene nel 19° secolo l'elettricità e i suoi fenomeni fossero già ben studiati e conosciuti, mancava ancora l'elemento che potesse trasformare in luce questa nascente forma di energia. E, naturalmente, non solo alle Isole Eolie ma in tutto il mondo della luminascente Belle Epoque che, con un rapido miglioramento della qualità della vita, stava stravolgendo il modo di vivere in tutta Europa. Ma a Lipari, e non solo a Lipari, la luce era ancora quella dei lumi ad olio e delle micce a petrolio.
Nessun Eoliano può ricordare quell'epoca, ma chi ha qualche anno in più e abitava a Pianoconte, Acquacalda o Quattropani può rievocare un sentimento di nostalgia ricordando la luce irraggiata (si fa per dire) dalla 'miccia' dei lumi. In queste frazioni la luce elettrica è arrivata solo nel 1960 e, fino ad allora, la vita era segnata dal sorgere e dal tramonto del sole, secondo il corso lento e salutare della civiltà contadina.
E' sul finire del 1800 che, con l'invenzione della lampada elettrica di Alessandro Cruto (Torino 1847-1908) e di Thomas Alva Edison (Stati Uniti 1847-1931), si mandano veramente in soffitta lumi a olio, micce a petrolio e becchi a gas illuminante.

La lampada a filamento incandescente è opera di Alessandro Cruto, un ricercatore torinese che dopo aver assistito ad una serie di conferenze di Galileo Ferraris (Livorno 1847-1897) sui progressi dell'elettricità si dedicò alla realizzazione di un filamento di uso pratico per le lampadine elettriche ad incandescenza fino a produrne uno, nel 1879, che, unico fra quelli ottenuti da altri sperimentatori, riusciva a "dar luce" per svariati giorni senza bruciarsi.

Ma Cruto, pur avendo realizzato per primo un filamento superiore a quello dell'americano Edison, non ebbe la possibilità di depositare il brevetto su scala mondiale per mancanza di finanziatori, cosa che invece fece Edison che si appropriò dell'invenzione. Di Cruto, purtroppo, ci rimane ben poco mentre di Edison sono tanti i reperti storici. E quindi, per la storia e solo per questo, diamo a Edison la priorità del racconto.
In America, si sa, le cose vere o false si fanno sempre in grande.

E' proprio il 21 ottobre 1879 (guarda caso la stessa data dell'invenzione di Cruto) che in America si segna la data ufficiale del passaggio fra la flebile e rossastra fiammella a gas e la brillante e pratica lampada elettrica. La lampada a incandescenza rappresenta la più famosa invenzione, o copia, dello statunitense Edison che potesse sostituire il romantico lume dei nostri nonni. Edison dedicò anni di lavoro e migliaia di esperimenti al perfezionamento del pratico bulbo luminoso.

Thomas Alva Edison visse all'ombra delle più grandi scoperte della prima metà del 1800 e non nascondeva la sua vocazione di scienziato da laboratorio. Edison affermava di differire dagli altri inventori perché, contrariamente a loro, possedeva il senso degli affari e del valore monetario dell'invenzione. Una prerogativa, questa, che troveremo in Guglielmo Marconi (Bologna 1874-Roma 1937), inventore della trasmissione senza fili, a partire dal 1895. Marconi si definiva scienziato-imprenditore;

Lui stesso aveva fondato la Marconi Wireless Telegraph, la società che avrebbe commercializzato i primi apparati di telegrafia senza fili.
Coadiuvato dai suoi assistenti Edison sperimentò centinaia di filamenti che percorsi dalla corrente elettrica potessero donare luce a volontà. Nel mondo della scienza i risultati sono raggiunti solo con pazienza e perseveranza, ed Edison era dotato di entrambe queste doti.

Gli esperimenti si susseguirono solo per essere scritti nel catalogo degli insuccessi fino a quando, l'inventore dalle mille trovate, scoprì un filamento che durava ore e ore brillando di vivida luce. Il 21 ottobre 1879, nel laboratorio di Menlo Park, nel New Jersey, l'ansia era salita al cielo; i minuti e le ore passavano e il filamento di cotone carbonizzato continuava a irraggiare luce. Solo dopo due giorni la lampada si spense ma il miracolo della luce senza gas e senza olio era compiuto. Era nata la sorgente di luce che avrebbe cambiato il modo di vivere dell'umanità.
Nei laboratori di Edison gli esperimenti si fecero sempre più serrati fin quando lo Scienziato annunciò una dimostrazione pubblica della nuova luce per l'ultimo giorno dell'anno. Fu il momento in cui i suoi assistenti pensarono che fosse ammattito. C'erano ancora tanti perfezionamenti da apportare ma la notte del 31 dicembre 1879 quaranta lampade illuminarono di vivida luce il viale di Menlo Park, la sua cittadina.

La dimostrazione ebbe un grosso successo mediatico, ma certi "studiosi" dell'epoca si dissero scettici sul nuovo sistema di illuminazione. Il New York Times del 4 gennaio 1880 incoraggiava "le persone sensate a non gettar via il loro impianto a olio o a gas e a non cascare nella speculazione dell'illuminazione elettrica". Ma la prova spettacolare della nuova luce stimolò i potenti della finanza che diedero vita alla "Edison Electric Light Company".
Nel Vecchio Continente la luce elettrica fece il suo debutto alla fiera di Parigi del 1881. Le richieste dei visitatori di accendere e spegnere la nuova sorgente di luce furono infinite. Fù il miracolo del secolo e diversi uomini d'affari si accinsero alla produzione di lampade elettriche. In Europa si ebbero imprenditori come Bergmann, van Siemens e Gerard Philips.

Quest'ultimo vide la lampada elettrica per la prima volta in un caffè di Amsterdam. Con l'aiuto di suo fratello Gerard Philips iniziò la produzione di lampadine ad incandescenza a Eindhoven, in Olanda, dove ancor oggi sorge la Casa madre che porta il suo nome.

La nuova avventura tecnologica alimentava la fantasia degli industriali che vedevano nella luce elettrica l'allargarsi dei loro orizzonti economici. Gli esperimenti continuavano di pari passo con la produzione e Philips ebbe una notevole parte nello sviluppo dei differenti tipi di lampade che spaziavano dal filamento di carbone al filamento di metallo (tungsteno) a lampade ad incandescenza riempite con gas rari per aumentarne la luminosità.

Per ogni uomo, in ogni strada del mondo, il termine elettricità era ed è sinonimo di luce. Per gli industriali essa significa energia, energia che tiene in movimento le ruote del commercio.
Tutto ormai girava attorno allo sfruttamento dell'elettricità.

L'affermazione di questa nobile forma di energia, facilmente trasportabile e trasformabile, rivoluzionava ritmi e abitudini nati con l'uomo. I suoi effetti nel sociale furono decisivi; l'invasione della luce elettrica nella sfera domestica risolse tutte le idee preconcette di lusso ed economia.

Sarebbe impossibile pensare un mondo senza la complessa rete di illuminazione elettrica. La piccola lampada che brillò due giorni in uno sconosciuto laboratorio di Menlo Park ha privato la notte della sua più grande prerogativa, il buio.

Ma, per fortuna, il New York Times del 4 gennaio 1880 non era letto alle Eolie e il 26 settembre 1926, grazie alla lungimiranza dell'imprenditore alicudaro Bartolo Zagami, fù possibile far brillare anche a Lipari la luce elettrica, illuminando strade e case isolane buie dalla notte dei tempi e mandando definitivamente in soffitta le lumere ad olio.

Bartolo Zagami aveva costruito a Lipari in quell'anno la prima centrale elettrica azionata a gasolio, l'attuale Società Elettrica Liparese "SEL". Due motori, nel 1926, di appena 220 KW permettevano a 346 lampade di illuminare vie e piazze del centro di Lipari e della frazione di Canneto.

Si dava così continuità al progresso sociale già avviato, a fine diciannovesimo secolo, nelle altre province del Paese Italia.
Oggi la lampada a filamento sta per arricchire il museo della tecnologia; la prepotente e valida diffusione delle luci a Led sta rivoluzionando il modo di fare luce. Ma ci sono "applicazioni" dove sia le lampade a filamento sia a led sono fuori posto: vuoi mettere una cena a lume di candela?

Lipari, e le altre Terre Eoliane, ospitano tanti accattivanti Localini dove la luce elettrica è proprio....di troppo, anzi fuori posto!
Per fissarLa negli occhi basta la flebile luce riflessa dalla Luna.

*fisico, Consulente di acustica del Comune di Lipari
darrigo@unime.it 

Altri articoli del prof. D'arrigo

NON PREOCCUPIAMOCI DELLE ANTENNE DI MONTE S. ANGELO DI LIPARI e nemmeno sulle altre Isole sorelle.

Siamo immersi in una eterea e invisibile rete elettromagnetica, in parte naturale come i1 magnetismo terrestre e la radiazione solare e in parte artificiale come ripetitori televisivi, antenne radio, telefoniche e linee di trasporto dell'energia elettrica.

L'inquinamento elettromagnetico oggi presente é certamente più significativo rispetto a quello naturale e di origine antropica. Il timore di essere immersi in una sorta di elettrosmog lesivo alla salute ha stimolato la fantasia popolare rendendo la gente intollerante a qualunque potenziale fonte di energia irradiata nello spazio, sia essa un'onda radio, televisiva o telefonica.

Col termine "radiazione" definiamo l'energia emessa da un sistema fisico (trasmettitore radio o tv, ad es.) che si propaga nello spazio sotto forma di onde elettromagnetiche. L'inquinamento dovuto alle radiofrequenze e alle linee elettriche (di trasporto dell'energia) è definito Radiazione non Ionizzante (NIR) in contrapposizione a quello delle Radiazioni Ionizzanti (IR), peraltro a frequenza assai più elevata, in cui rientrano i raggi X, alfa, beta e gamma che, per loro intrinseca caratteristica, interagiscono con la materia vivente.

La differenza fra ionizzanti e non ionizzanti sta nel fatto che i primi sono in grado di spezzare i legami chimici della molecola, generando atomi caratterizzati dall'avere un elettrone spaiato e, dunque, i temutissimi i radicali liberi, capaci di creare legami "non naturali". I radicali liberi sono i principali responsabili del danno biologico da radiazioni ionizzanti, e forieri della creazione di eventi tumorali.

Alcune indagini hanno mostrato interazioni con la materia vivente da parte delle basse frequenze (ELF) e, cioè, dai Campi magnetici delle linee elettriche (elettrodotti) che, comunque, sono NIR e quindi non ionizzanti. E' noto da tempo che bassi valori di campi magnetici indirizzano piccoli animali come i piccioni o gli insetti. Gli effetti biologici dei campi magnetici a bassa frequenza, come quelli generati dagli elettrodotti, sono da tempo utilizzati in medicina per scopi terapeutici. Queste radiazioni, ripeto non ionizzanti, sono infatti in grado di modificare il trasporto di ioni attraverso la membrana cellulare, in particolare lo ione calcio, e indurre mortilità cellulare.

Le popolazioni residenti in prossimità di linee elettriche "potrebbero" essere sottoposte al campo magnetico generato da queste. I valori sono fortemente dipendenti dal carico e quindi dalla corrente (non dal potenziale, o tensione, come erroneamente si crede) che circola nella linea in ogni istante. L'otto luglio 2003 è stato emanato il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) con cui si è fissato a 10 microtesla (μT) il valore massimo di esposizione ai campi magnetici della popolazione. Da numerose indagini si è osservato che solo in qualche sporadico caso l'esposizione al campo magnetico può raggiungere qualche microtesla (μT), cioè 1 (μT), per rilievi effettuati all'esterno delle abitazioni. Nell'ambiente domestico è prevalente il contributo dovuto alla frequenza di rete e cioè ai comuni fili dell'impianto elettrico e agli elettrodomestici.Qui i livelli sono veramente irrisori e molto al di sotto dei limiti oggi considerati pericolosi.

Delle NIR a radiofrequenza (e cioè onde televisive, telefoniche ecc.) ad oggi non sono noti effetti nocivi certi se non quelli basati sul riscaldamento dei tessuti e che mostrano la loro efficacia nei forni a microonde da cucina. Ma questi effetti sul nostro corpo (peraltro non nocivi) si hanno per applicazione diretta di elevate potenze, sicuramente decine di migliaia di volte più alte di quelle in cui siamo comunemente immersi. Possibi1i effetti a lungo termine dell'esposizione a radiofrequenze sono stati ipotizzati da alcuni ricercatori epidemiologici senza che sia stato fin oggi provato con certezza il nesso di causalita.

Sovente 1'attenzione è concentrata su sorgenti con emissioni elettromagnetiche basse ma dal forte impatto visivo, mentre vengono tralasciate sorgenti meno visibili ma di gran lunga più significative. L'impossibilità di reperire dai media informazioni coerenti sui contributi dell'esposizione alle varie sorgenti di onde radio ed elettromagnetiche in genere, fa si che il rischio venga percepito in maniera del tutto soggettiva. I mezzi di informazione pongono in risalto singole e sporadiche ricerche, non sempre ampiamente testate, creando allarmismo ingiustificato.

I vistosi pannelli delle Stazioni Radio Base (SRB) dei telefonini irradiano una potenza estremamente bassa ma, per contro, le stesse sono sovente citate nei palazzi di giustizia a rispondere delle loro "nefaste" radiazioni. Considerata la diffusione dei cellulari é naturale che la gente chieda risposte univoque sulla loro innocuità. Attualmente non esistono studi che dimostrano con certezza che le radiazioni elettromagnetiche emesse dalle SRB e dai telefonini possano alterare l'equilibrio cellulare e indurre l'insorgere di stati patologici. I risultati fin oggi ottenuti non sono coerenti. Probabilmente per avere dati certi bisognerà ancora attendere ancora decine di anni. Gli studiosi sono, spesso, concordi nell'affermare che i1 telefonino provoca un aumento della temperatura della pelle nella zona de1l'orecchio, ma ciò é provocato più alla mancanza di circolazione d'aria dovuta al telefonino appoggiato al volto che a possibili effetti delle radiazioni. D'altra parte l'energia emessa da telefonino è estremamente modesta. Non dimentichiamo che il cellulare è alimentato da una batteria che non potrà mai fornire tanta energia quanta necessaria per creare il....riscaldamento dei tessuti.

Già ne1 1996 1'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dato corso ad un progetto internazionale finalizzato a valutare gli effetti sanitari e ambientali dell'esposizione ai campi elettromagnetici. Ad oggi, secondo l'OMS, non è stato dimostrato alcun effetto sanitario avverso causato dall'uso dei telefoni cellulari, e le evidenze scientifiche disponibili tendono a deporre contro l'ipotesi che l'uso dei telefoni cellulari comporti un incremento del rischio di tumori intracranici o in altri distretti del corpo. Le evidenze di effetti cancerogeni, di qualsiasi genere, restano sempre molto controverse. E' chiaro che se i campi elettromagnetici avessero effettivamente un effetto sul cancro l'aumento di rischio, di qualunque tipo, sarebbe estremamente basso. I risultati ad oggi ottenuti presentano molte incongruenze, e non si è trovato nessun aumento di rischio per nessuna forma di cancro, né nei bambini né negli adulti.

A1 momento l'attenzione é rivolta a verificare se le esposizioni a bassi livelli di radiazioni non ionizzanti é in grado di provocare o favorire patologie a lungo termine come il cancro. L'Ita1ia é uno dei primi Paesi ad aver tradotto in misure pratiche un principio di cautela per i possibili effetti a lungo termine dei campi elettromagnetici. I1 10 settembre 1998 i1 ministero de11'Ambiente, di concerto con i Ministeri delle Comunicazioni e della Sanità, ha emesso il decreto 381, indicando i "tetti di radiofrequenza compatibili con 1a salute umana".

Il decreto fissa in 6 volt/metro il valore massimo di campo elettrico immesso nell'area esposta alla popolazione e, quindi, oltre il confine di installazione delle antenne. E sufficiente fare un confronto fra i livelli dei campi elettromagnetici emessi dalle SRB e dai telefonini con quelli riportati sulla normativa per accorgersi che si è largamente al di sotto, in certi casi di qualche ordine di grandezza, dai valori di "possibi1e attenzione" citati. Da rilievi effettuati dallo scrivente, unitamente a colleghi della disciplina, si è osservato che in prossimità delle SRB ben difficilmente si raggiunge il valore di 1 volt/metro.
Non esiste ancora, perché impossibile, una normativa per la prevenzione degli effetti acuti a breve termine così come non si possono dare oggi riferimenti precisi per prevenire eventuali fenomeni lesivi, sia acuti sia a lungo termine, nei luoghi di lavoro. Ciò è uno stimolo al prosieguo della ricerca, ma conferma la necessita di disporre di una informazione corretta e non allarmistica. La diffusione di dati certi e responsabili può evitare speculazioni commerciali (per fortuna in diminuzione) come la vendita di inutili dispositivi antiradiazioni da applicare ai telefoni cellulari e 1'avviarsi di controversie giudiziarie mancanti di obiettivi certi del contendere.

Un'opinione personale: continuerò a usare il mio telefonino, certo di non alterare l'equilibrio "atomico molecolare" del mio corpo. Personalmente mi preoccupo di più perché il cibo sia genuino e non artefatto da manipolazioni industriali, a respirare aria pura e non venefica come è nei centri urbani per opera dei motori a scoppio e a non stare al "sole" nelle ore calde. Anche quella è radiazione elettromagnetica, e non proprio NIR! Lasciamo quindi che si installino serenamente e senza timore le antenne delle SRB, altrimenti i cellulari alle isole....non funzionano. Il telefonino fa male alla tasca, non alla salute.

*Fisico, consulente di Acustica del Comune di Lipari

GLI ARTICOLI PUBBLICATI DAL NOTIZIARIO DELLE EOLIE ONLINE.

Lipari. Monte Sant’Angelo l’antenneria eoliana

Posted on 7 giugno 2013
 

antenne.jpgChissà quanto incassa il Comune di Lipari per la concessione delle circa 30 mega abitato.jpgantenne dall’aspetto spaziale che si trovano in cima al monte più alto di Lipari, fra i antenne1.jpgpannelli solari sparpagliati nel fu centro di raccolta d’acqua sangelo1.jpgsangelo.jpgpiovana ed uno sangelo3.jpgspettacolo mozzafiato abitato1.jpgper il panorama a 360 gradi. Qui la natura cresce selvaggia, il abitato2.jpgverde profuma e i sangelo2.jpgmoscerini volano tranquilli. Non volano le farfalle, non si vedono lucertole, non antenne2.jpgscappano i conigli e di uccelli, uccellini ed uccellacci neanche l’ombra. gleone1.jpg

Ci dicono che temono le radiazioni o rischi similari per l’alta concentrazione dei ripetitori. E’ accertato che le radiazioni elettromagnetiche hanno affetti biologici negativi per l’uomo. Chissà che tipo di permesso é stato concesso – e se tutte sono state autorizzate – ai proprietari di questegleonesalvatore.jpg antenne che con le loro antenne4.jpgcasupole e casette complete di impianti d’aria condizionata antenne5.jpgantenne6.jpgvivono in una contrada fantasma dove non si capisce chi sono gli utilizzatori finali, visto che accanto ai campanelli non c’é nessun nome, mentre lungo la viuzza una fila di cartelli avverte che i cavi bleone4.jpgelettrici sono interrati sotto un manto stradale costruito da madre natura con terriccio, tufo, sabbia e polvere di vento che trasporta anche i segnali che radiano e irradiano. antenne7.jpgantenne8.jpgPer la cassa di chi? Anche questo é un segnale o un segno dei nostri tempi.

Panarea, quel ripetitore che deturpa il paesaggio ... - Eolie

www.notiziarioeolie.it/.../1709-panarea-quel-ripetitore-che-deturpa-il-pa...

27 lug 2014 - Infatti maschera un'antenna della telefonia mobile Vodafone. ... Monte Sant'Angelo di Lipari ha la più alta concentrazione di antenne regolari e ...

Da Canneto in linea Marco Manni. Domenica ... - Eolie

www.notiziarioeolie.it/...eolie-lipari/2291-da-canneto-in-linea-marco-ma...

06 nov 2014 - Incontro a Canneto sul tema delle installazioni selvagge di antenne cellulari. La SRB di .... Lipari, Monte Sant'Angelo l'antenneria eoliana.

---Le sette Perle del Mediterraneo, una Discoteca a cielo aperto.

Much ado about nothing, Molto rumore per nulla scriveva Shakespeare in una tragicommedia del 1599. E' curioso ricordare che la commedia è ambientata a Messina, per fortuna non proprio alle Isole Eolie perché in tal caso avremmo dovuto dare ragione ai tanti locali, bar, pub che con il loro fracasso sonoro rendono invivibili le sette Perle del Mediterraneo. Vivendo le Isole d'estate non ci siamo certo sottratti alle passeggiate sul Corso di Lipari o sulla spiaggia di Vulcano o, ancora, al fronte mare di Panarea: un vero fracasso musicale prodotto per le vie principali delle Isole, sulla battigia del mare e, persino, sulle terrazze di certi residence. In nome di un'attività che interessa sì i giovani ma che impedisce a più attempati di godere della bellezza di angoli unici e invidiati nel mondo. Certo la musica piace a tutti ma, chiaramente, con moderazione. Anche perché c'è gente, e tanta, che vuole riposare nella propria casa o che al bar desidera parlare con la persona che gli sta accanto o, ancora, che seduta in un locale intende approcciare la ragazza che osserva da un'ora. E allora non gli resta che 'gridare' anche lui, anzi gridarle in faccia sperando che vada bene lo stesso. Ma dopo l'ironia, cui chi scrive non riesce a sottrarsi, passiamo alla parte più seria della realtà rumorosa.
E allora silenzio o rumore? In termini assoluti meglio il primo, sebbene il concetto di vita si identifichi con l'evolversi, con la vibrazione e, quindi, con il rumore. Il silenzio ha un profondo significato di staticità e rievoca le fasi depressive dell'uomo.Al contrario il rumore è vita, allegria, gioia di essere. I giovani vogliono il rumore. Il rumore stimola la reattività e predispone 'l'intelligenza'. La bibliografia scientifica novella i contributi di studi che evidenziano i rapporti tra stimoli ambientali e struttura anatomica e biochimica cerebrale. E' il concetto antico, e ormai acquisito, che lega l'uso allo sviluppo dell'organo e della funzione. Già 2400 anni fa Ippocrate affermava "nella perpetua uniformità si ingenera indolenza, nei mutamenti invece si temprano corpo e anima". Il vero problema non è quindi l'esistenza del rumore, della musica, ma l'eccesso, l'impertinenza, e le caratteristiche biofisiche del rumore. L'eccesso di rumore ha sempre dato fastidio. Nel 45 a.c. nella Roma di Cesare fu emanata una legge che proibiva il movimento dei carri nelle strade dall'alba all'ora decima.
Ma che differenza c'è fra suono e rumore? La risposta corretta è 'nessuna', almeno sotto l'aspetto fisico, ambedue sono vibrazioni che evocano la sensazione centrale (cioè cerebrale) cui attribuiamo il nome di suono. Per la psicoacustica la differenza c'è: il suono è una vibrazione gradita, il rumore no. E quindi finiamo per definire rumore tutto ciò che non ci piace, come la musica ad alto volume.
Significativi sono gli effetti psico-sociali delle immissioni rumorose. Questi inducono un'azione di disturbo soggettivo sui rapporti tra il singolo e la collettività. Per disturbo intendo i tanti svantaggi che l'uomo esposto al rumore subisce, come irritazione, difficoltà di concentrazione, stanchezza, insonnia e 'annoyance'. Il rumore eccessivo e protratto sovraccarica anche il sistema neurovegetativo: cosi, ad accusare malesseri sono anche l'apparato digerente e persino il sistema ormonale e immunitario. Ogni persona percepisce il disturbo a suo modo. Per non turbare il riposo, notturno o diurno che sia, il livello di intensità sonora non dovrebbe superare la soglia dei 50 decibel, oltre tale valore cominciano i guai e aumenta la possibilità di scomparsa della fase IV (sonno profondo) e Rem (sogno), che danno il maggior ristoro fisico. Ma andiamo alle soluzioni possibili, quelle impossibili al momento le mettiamo da parte.
La legge quadro sull'Inquinamento Acustico n. 447/1995, unitamente ai suoi decreti attuativi, permette di controllare i livelli di emissione e di immissioni delle vibrazioni sonore sia nell'ambiente esterno, di competenza comunale, sia nei luoghi privati come le abitazioni. Il Controllo Comunale è espletato dal Settore Territoriale della Polizia Municipale che, con l'ausilio dello specialista di Acustica, può verificare, la rispondenza delle apparecchiature elettroacustiche alle Leggi in vigore. E questo preventivamente, e cioè prima che l'attività produttiva del locale pubblico si avvii e, tal fine, c'è anche una nota Prefettizia emanata ogni anno ad inizio estate che sollecita tale opera. Per la norma, infatti, tutti gli strumenti sonori presenti nei locali pubblici devono rispondere a specifici requisiti e devono essere tarati in modo che l'emissione non superi i livelli di pressione sonora statuiti da questa. In specie le apparecchiature elettroacustiche di amplificazione 'devono' essere corredati di un modulo di limitazione che impedisca il superamento del livello sonoro impostato, come da Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) n.215/1999. Solitamente questo lo si tara ad un livello sonoro che tenga conto del rumore già presente sui luoghi, dovuto al rumore antropico e al chiacchierio delle persone, facendo si che l'immissione sonora non superi il livello di intensità già presente sui luoghi. E allora perché il fracasso è sempre in agguato? Le verifiche sono si espletate, le apparecchiature risultano normate ma, sovente, i signori gestori ricorrono al trucco e, a quel punto, si va a giocare a 'guardia e ladri'. Certo non è un'infrazione dell'altro mondo....ma la gente non può riposare e svolgere la vita come vorrebbe. E allora si va a controllare il dispositivo di limitazione che, il più delle volte, risulta in ordine (o almeno sembra tale) ma, all'improvviso e quasi nel cuore della notte, quando i controlli risultano più difficili, il Gestore aggiunge una cassa acustica ad alto volume, "non normata", e il fracasso si diffonde nelle Isole. Naturalmente i mezzi per contrastare tale modo di fare ci sono, magari richiamando la sensibilità e la buona creanza di chi opera in tale delicato e importante settore commerciale. Non dimentichiamo che le Isole devono la loro vita ai pochi mesi estivi, e la musica, come cennavo nelle prime righe di questo pezzo, "è vita" ed è vitale per le nostre Sette Perle, ma con moderazione. Ma non dimentichiamo ancora che le immissioni sonore oltre limite disturbano anche alberghi, residence e attività recettive di ogni genere, e anche queste realtà commerciali devono lavorare proprio nei pochi mesi estivi di attività. Un sano principio di democrazia recita "la libertà di ognuno finisce dove inizia quella dell'altro". E allora i controlli da parte delle Autorità preposte continueranno sempre, quando possibile con il sorriso sulla bocca, cercando di far comprendere dove finisce la propria libertà e inizia quella dell'altro. Le stesse però hanno il diritto-dovere di effettuare asetticamente le verifiche degli impianti elettroacustici, la loro rispondenza legale e, in caso di irregolarità, devono ammonire e se necessario sanzionare.

LE OPINIONI.

di Aldo Natoli

Ho letto con molta attenzione quanto scritto dal Dott. Carlo D'Arrigo in merito al sorgere delle improvvisate discoteche a cielo aperto nel nostro Comune.
Purtroppo le nostre isole sono ben lontane da quando il Sindaco Vitale ordinò il divieto di camminare per le strade con gli zoccoli per non arrecare disturbo ai turisti. Oggi la politica turistica è cambiata notevolmente, e mi permetto dire "in peggio". Le Eolie, "isole dalla bellezza colta" sono fatte per un turismo raccolto e non chiassoso. Non a caso a Palermo, proprio nella giornata di l'altro ieri, si è svolta una manifestazione di protesta dei cittadini contro la "movida" nelle strade della città. Allora cosa fare? Basterebbe fare tesoro di quanto succede nell'isola di Capri. Nella famosa piazzetta i concertini si debbono tenere con strumenti non amplificati. Ho avuto modo di organizzare dei congressi ed ascoltare la viva voce di Peppino di Capri, di Murolo, di D 'Alessio, e di tanti altri cantanti noti. In questo modo si risolverebbe anche quanto prospettato dal Dott. D'Arrigo sulla difficoltà dei controlli.

di Silvano Saltalamacchia

Perche non si tarano i dispositivi acustici. Se il Comune di Lipari ha uno dei responsabili per fare osservare i relativi decibel, perche la sera quasi tutti i locali adottano il sistema delle discoteche a cielo aperto? E' mai possibile?

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