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di Leo Giuffrè

Segnalo questo articolo apparso su "La Domenica del Corriere"

IL RELITTO "MALEDETTO" DELLA SECCA DI CAPISTELLO

Nel luglio del 1969, due studiosi tedeschi persero la vita a Lipari durante un'immersione su un relitto romano carico di anfore e vasellame.
Un reportage della "Domenica del Corriere" raccontò la tragedia e le gesta di un gruppo di cacciatori clandestini dei reperti eoliani
Un gruppo di anfore sui fondali delle Eolie. La scoperta di un sito archeologico fra Lipari e Vulcano nel 1966 diede il via ad una tragica vicenda di depredazione ed incidenti mortali.

Quello più grave, tre anni dopo, avrebbe coinvolto un'equipe dell'Istituto Archeologico Germanico di Roma.
ReportageSicilia ripropone un articolo e le fotografie pubblicate il 7 ottobre del 1969 dal settimanale "Domenica del Corriere"
Una verità non certificata indica nel 1966 l'anno della scoperta di una nave naufragata intorno al 300 avanti Cristo sul versante orientale dell'isola di Lipari. 

Fu quello un rinvenimento destinato a scrivere una delle pagine più ambigue nella storia dell'archeologia sottomarina siciliana, ancor oggi fonte di scoperte di eccezionale valore storico-artistico.
Sparso su un fondale sabbioso ed inclinato sino alla profondità di 108 metri, su un'area stimata in 1200 mq, venne allora individuato il carico di anfore e ceramiche a vernice nera di un'imbarcazione colata a picco dopo avere urtato sulla Secca di Capistello. 

La scoperta - attribuita ai sub Giovanni e Beppe Michelini, Enzo Sole e Santo Vinciguerra, in quegli anni cacciatori più o meno ufficiali di corallo e di reperti nei mari siciliani - avrebbe dato inizio ad una lunga serie di depredazioni ed a tragiche vicende di morte, tali da attribuire a quel relitto la qualifica di "maledetto".

Inizialmente, la definizione prese corpo dopo la morte di due sub: il tedesco Pit Uwe Nungerhofer ed il milanese Giancarlo Pravettoni.
Il gruppo di sub eoliano che avrebbe scoperto per primo il relitto romano della Secca di Capistello. Ne fecero parte Santo Vinciguerra, Giovanni e Beppe Michelini ed Enzo Sole. 

Secondo indicazioni mai confermate, alla fine degli anni Sessanta avevano tentato di strappare piatti ed altri oggetti da quel carico finito in fondo al mare delle Eolie.

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Ad assegnare definitivamente la sinistra fama del relitto fu, l'8 luglio del 1969, l'incidente costato la vita a due componenti dell'Istituto Archeologico Germanico di Roma: il professore Helmuth Schlager, 45 anni, vicedirettore dell'Istituto, e il suo assistente Udo Graf, di 27, entrambi di Monaco di Baviera.
Un terzo studioso, Karl Preuss, studente di architettura poi indicato come inconsapevole responsabile della tragedia, sfuggì invece di un soffio alla morte.
L'incidente fu il drammatico epilogo di una caccia a quel prezioso carico, portata avanti in maniera clandestina prima e dopo le immersioni dell'equipe tedesca.
Fasi di un'immersione nei fondali delle Eolie
ed un'immagine di Santo Vinciguerra,
indicato come il sub che guidava all'epoca le attività
del gruppo di sommozzatori
Ad essere indicato come un trafugatore di anfore, piatti ed altro vasellame recuperato dal relitto della Secca di Capistello fu lo stesso capo riconosciuto dei sub locali, Santo Vinciguerra.
Vinciguerra era un personaggio allora assai conosciuto a Vulcano.
Legato sentimentalmente alla marchesa di Campolattaro - un'affascinante signora che aveva a lungo vissuto a Taormina - si occupava ufficialmente della gestione dell'Hotel Sables Noires.
In realtà, era più conosciuto per la sua abilità di cacciatore di cernie e di abile sub nelle profonde acque di Vulcano e di Lipari.
I tre componenti della spedizione tedesca
che l'8 luglio del 1969 furono protagonisti
della tragica immersione sul relitto della Secca di Capistello,
tutti studiosi dell'Istituto Archeologico Germanico di Roma.
Dall'alto in basso, Udo Graf, Helmuth Schlager e Karl Preuss,
unico sopravvissuto all'incidente
La vicenda - una drammatica "spy-story" degli abissi - venne così raccontata dal settimanale "Domenica del Corriere" il 7 ottobre del 1969:
"Il relitto maledetto - scrisse Giorgio Bensi nel reportage intitolato "La maledizione del tesoro sommerso" - è suo e del suo gruppetto di amici, tutti subacquei di un'esperienza da far invidia ai reparti di sommozzatori di qualunque marina del mondo.
A Vulcano, Santo Vinciguerra, che ha sposato una ricca signora della nobiltà palermitana, la marchesa di Campolattaro, ha aperto un albergo ma è più facile trovarlo in acqua - o meglio sott'acqua - che non nell'amministrazione del suo hotel.
Non c'è nessuno che conosca i fondali delle Eolie come li conosce lui.
Il suo hobby, quasi più della pesca subacquea, è il recupero di qualsiasi cosa abbia un certo valore e si trovi sul fondo del mare.
i suoi amici hanno la stessa 'malattia': insieme formano il cosiddetto gruppo dei 'piranha' di Vulcano, noto per vari exploit nel campo dei ritrovamenti.
Il primo periodo della rapida opera di prelievo dal relitto di Capistello è stato da loro fatto senza alcun controllo scientifico e senza nemmeno le più elementari precauzioni legali.
Non avevano fatto sapere nulla per evitare di essere fermati da una qualsiasi autorità, ma contemporaneamente vendevano piatti ed anfore al migliore offerente dopo avere lavato ogni cosa sulla spiaggia, senza nemmeno nascondersi.
Se sono vere le indiscrezioni sono parecchie le autorità e gli uffici che possiedono piatti ed anfore regalo dei sub di Vinciguerra.
Proprio autorità e uffici che avrebbero dovuto intervenire a nome dello Stato per vedere di quale portata scientifica fosse il ritrovamento.
La cartina della "Domenica del Corriere"
con l'indicazione del luogo della scoperta del relitto
carico di anfore e vasellame
Tutto ciò avverrà però soltanto in un secondo tempo quando, nella storia dello sfruttamento della miniera sottomarina, si inserisce un altro gruppo di "piranha", quelli di Lipari.
Il loro servizio di spionaggio piazza alcuni uomini con cannocchiale sulle rocce e alla fine è in grado di sapere dove è il tesoro privato dei sub di Vinciguerra.
Si immergono anche loro, si verificano i primi screzi, poi, come è come non è, un giorno Santo Vinciguerra si trova bloccato dalla Guardia di Finanza mentre sbarca anfore e piatti antichi sul suolo di Milazzo.
Contemporaneamente i finanzieri irrompono, armi in pugno, nell'isola di Vulcano, accerchiano l'albero di Vinciguerra e scoprono un deposito da fare invidia a un museo.
E' la roba, appunto, che oggi colma una delle sale del museo di Lipari.
L'irruzione porta come conseguenza una denuncia: Santo Vinciguerra dovrà affrontare un processo per questo furto ai danni dello Stato.
Con lui è imputato uno dei suoi amici"
La palese prova del traffico di reperti archeologici in corso fra Vulcano e Lipari spinse chi avrebbe dovuto vigiliare sulla razzìa a trovare un rimedio alle depredazioni degli oggetti sui fondali battuti dai "pirahna".
Fu così che il professore Luigi Bernabò Brea, Soprintendente alle Antichità della Sicilia Orientale e studioso della civiltà delle Eolie, decise di promuovere una campagna di ricerca scientifica.
Dopo avere respinto l'offerta spropositata di una ditta americana - 100 milioni di lire per svolgere il lavoro - Bernabò Brea accetta quella del prestigioso Istituto Archeologico Germanico di Roma.
Il suo vicedirettore Schlager è stato pilota di aerei ed è un buon sommozzatore; una certa esperienza hanno anche Graf e Preuss che, con altri, saranno al fianco di Schlager nelle ricerche che l'Istituto Germanico si offre di patrocinare.
"Al gruppo tedesco - scrive ancora Giorgio Bensi - il professore Barnabo Brea affianca i sub di Vulcano.
Insieme italiani e tedeschi costruiscono le attrezzature.
Tutto è pronto per le immersioni quando il relitto maledetto, dopo Pit Nungerhofer, colpisce ancora con una vittima un giovane subacqueo milanese, Giancarlo Pravettoni.
Senza troppa esperienza, tenta anche lui di strappare qualche anfora alla nave sommersa.
Non si accorge che l'ossigeno del respiratore lentamente si esaurisce.
Passa dalla vita alla morte senza avvedersene.
Poi, come una tragica catena, ecco anche Santo in persona, con tutta la sua esperienza, rischiare la morte per embolia.
Lo salvano quando nessuno ci sperava più.
E' un drammatico avviso, quasi un avvertimento.
La leggenda del relitto maledetto lascia però indifferenti i tedeschi.
Schlager è troppo un uomo di scienza per impressionarsi di una superstizione del genere.
Udo Graf meno che mai.
Invece l''avvertimento' tocca anche loro la mattina del 6 luglio, quando Karl Preuss scende e si trova subito a mal partito per un improvviso guasto al suo respiratore.
Riemerge e cerca di capire cosa possa aver causato l'inconveniente.
E' lui il responsabile del materiale; è lui che deve preoccuparsi.
A questo punto una spiegazione su come siano questi respiratori s'impone.
Hanno un tubo che arriva alla bocca e che parte da una valvola, la quale, indossato l'apparecchio, viene a trovarsi sul petto del subacqueo.
A questa valvola arrivano due tubi, uno da ognuna delle bombole.
Questi tubi sono fissati alla valvola con delle fascette metalliche le quali si stringono ognuna con una vite in plastica.
Una di queste viti è saltata nel respiratore di Karl.
Si è spanata, ecco tutto.
Karl controlla gli apparecchi dei suoi compagni e trova le viti lente.
Decide di stringerle al massimo.
Non pensa che la pressione può deformare la plastica della vite.
Non pensa che ormai quelle viti possono cedere.
E' purtroppo quello che succederà l'indomani.
Rilievo dell'area di studio del relitto
realizzato nel 1977 e pubblicata da
"Il mare come museo diffuso", opera citata
Il primo respiratore a guastarsi la mattina dell'8 luglio è quello di Udo graf.
Graf è a 75 metri di profondità.
Helmuth Schlager è a 70 metri, Karl Preuss una decina di metri più su.
Stanno compiendo delle misurazioni sul relitto.
Graf si porta le mani sul boccaglio, dà un colpo di reni, si precipita verso Schlager non appena si rende conto che l'aria non gli arriva più.
Schlager lo vede e gli va incontro per soccorrerlo.
Vuole passargli il suo boccaglio, fare in modo che, in due, possano respirare dalle stesse bombole.
Ma Graf è terrorizzato.
La mancanza di esperienza ad una simile profondità si sta infatti rivelando decisiva.
Quando Graf e Schlager sono l'uno accanto all'altro ormai Graf è un uomo impazzito.
Strappa il tubo dalla bocca del professore e lo guasta irrimediabilmente.
Preuss riemerge, racconta.
Schlager muore in quegli stessi secondi.
Morto Graf, morto Schlager la spedizione tedesca rientra.
Preuss, interrogato dal pretore, mette a verbale quello che sa, ma senza dilungarsi troppo.
Gli altri tedeschi ripartono.
Per ordine della Capitaneria di Porto, la 'base' si chiude e la zona diventa vietata.
Ultimo, parte Preuss: è un uomo distrutto.
A Vulcano intanto i 'piranha' attendono.
Ogni tanto vanno fino alla base nonostante il divieto.
Girano, rientrano.
Ma che non scendano non c'è uno, a Vulcano, disposto a giurarlo.
Nonostante il divieto, nonostante la maledizione"
Un'anfora tratta dal relitto della nave romana
chiusa da un tappo in sughero.
L'immagine è tratta dall'opera "Il mare come museo diffuso",
opera citata
Nel 1976 - sette anni dopo i tragici fatti raccontati dalla "Domenica del Corriere" - una completa esplorazione sul relitto "maledetto" venne compiuta dall'Institute of Nautical Archaeology e dalla Sub Sea Oil Service, con uomini e attrezzature d'eccezione.
La ricerca di vasellame ed anfore e delle strutture lignee del relitto, concluse nel 1978, diede questi risultati:
"Il fasciame - si legge nell'opera "Il mare come museo diffuso", a cura di Alessandra Nobili, Assessorato dei Beni Culturali ed Ambientali Regione Siciliana ( 2004 ) - appariva semplice e non aveva nessun rivestimento protettivo in piombo; i madieri e le ordinate risultavano alternate.
Alcune parti del carico conservavano la posizione di stivaggio, con gruppi di anfore disposte verticalmente e pile di ceramica a vernice nera riposte negli interstizi.
Il carico risultava formato essenzialmente da anfore del tipo cosiddetto greco-italico per il trasporto del vino, contrassegnate da bolli e trattate internamente con resina.
Molte delle anfore erano ancora chiuse da un tappo di sughero sigillato con resina.
I bolli impressi sulle anfore riportano nomi greci come "Eùxenos" e Dìon".
Diverse centinaia i vasi a vernice nera di varie forme.
Per lo più si tratta di piatti, coppe decorate e lucerne su alto piede"
Anfora greco-italica della Secca di Capistello
e particolare del bollo alla base dell'ansa.
Anche questa immagine
è tratta dall'opera "Il mare come museo diffuso",
opera citata
I prelievi clandestini dal relitto portate avanti dal gruppo di Vinciguerra, insomma, non erano riusciti a far sparire dal fondo del mare l'intero carico della nave.
Ancora ai nostri giorni, i fondali della Secca di Capistello restituiscono millenari tesori archeologici, come un braciere commemorativo di epoca romana recuperato nel 2015 dalla Soprintendenza del Mare di Sicilia.
Malgrado i 47 anni trascorsi dalla tragica immersione costata la vita ai due ricercatori tedeschi, quel tratto di mare eoliano continua tuttavia a godere di una fama sinistra tra i sub.
Ne fa fede anche la stessa pubblicazione scientifico-divulgativa di Alessandra Nobili, che ancor oggi ricorda come quel sito archeologico sottomarino sia denominato il "relitto maledetto".

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