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di Massimo Ristuccia

Le eruzioni dell'Isola Vulcano Mercalli, Giuseppe Firenze, 1889, 1 parte con allegate immagini attinenti tratte da Raccolta fotografica Eruzioni degli anni 1888-1889 all'Isola Vulcano, 1888-1891. Provenienza: Museo Galileo, GABINNETTO DI FISICO-CHIMICA TERRESTRE
DELLA R. UNIVERSITA’ DI CATANIA DIRETTO DAL PROF. O. SILVESTRI 

Vulcano, la più meridionale delle isole Eolie, posta tra l’isola Lipari ed il Capo Milazzo, dista dalla prima poco più di un chilometro, e dal secondo 22 chilometri circa. È un’ isoletta di 7 chilometri di lunghezza per 2 a 3 di larghezza, coperta di vegetazione ed abitata nella sua parte meridionale, disabitata e costituita da balze scoscese ed aride sabbie nella parte settentrionale dove un
vasto cratere, detto la Fossa di Vulcano, da tempo immemorabile manda fumo e boati.

Tutta l’isola è un antico gran cratere vulcanico, squarciato ed aperto verso nord e nord- est, e quivi nel suo interno sorsero due altri coni vulcanici più recenti e più piccoli, che sono la Fossa di Vulcano e Vulcanello. Infatti , la parte periferica dell’isola è formata da un gran recinto montuoso, tutto costituito da antiche lave da scorie, lapilli e ceneri vulcaniche, il quale circonda ad occidente, mezzodì e levante la Fossa ossia il cratere attivo, come il Monte Somma circonda
l’attuale cono del Vesuvio. Anche qui una squallida valle, corrispondente all’Atrio del Cavallo del Vesuvio, divide la Fossa dal recinto, il quale dirupato verso l’interno e, ad occidente, anche
verso l’esterno, altrove scende al mare con dolce pendio, specialmente a sud, verso il Capo Bandiera. In questa parte dell’isola, che è pure la più lontana dal cratere attivo, vi sono circa 250 abitanti, sparsi in piccole casette rurali ed occupati nella coltivazione del suolo
ferace come tutti i terreni risultanti dalla decomposizione di antiche
rocce vulcaniche.

le foto riguardano:
1. 14 FEBB 1888 casa di abitazione del sig. narlian.
2. Veduta settentrionale dell'Isola di Vulcano come si presenta dallo stretto di mare che la separa dall'Isola di Lipari 20.08.1888.
3. VULCANO 26 MARZO 1891

14 FEBB 1888 casa di abitazione del sig. narlian.jpg

Veduta settentrionale dell'Isola di Vulcano come si presenta dallo stretto di mare che la separa dall'Isola di Lipari  20.08.1888.jpg

VULCANO 26 MARZO 1891.jpg

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Nella parte nord-orientale dell’isola, dove sorge il cratere attivo,
si è sempre cavato, sun dai tempi dei Romani zolfo ed allume, e nel
nostro secolo si è estratto anche una discreta quantità di acido
borico. Una sola casa ed alcuni piccoli magazzini esistono in questa
parte dell’isola sempre squallida e deserta. Essa attualmente è
proprietà di una società inglese, rappresentata a Vulcano dal signor
Narlian direttore dei lavori, il quale da alcuni anni limitò la
produzione mineraria al solo zolfo, non trovando più il tornaconto
nell’estrazione dell’allume e dell’acido borico, e rivolse invece le
sue cure al dissodamento dei terreni circostanti al cratere ,
coltivando vigneti c boschi di ginestre. Ma non ha tenuto calcolo che
aveva a che fare con un vulcano attivo, il quale nell’attuale eruzione
bruciò per metà i boschi di ginestre, coperse di un grosso strato di
cenere ed arene i vigneti e danneggiò notevolmente anche la casa ed i
magazzini ; poiché qualche masso incandescente cadde sopra di essi e,
sprofondando il tetto, incendiò le materie che ivi erano raccolte.
Appena scoppiata l’eruzione, il signor Narlian (alcuni si
domanderebbero ma non era Stevenson il proprietario? In realtà A.E.
Narlian era comproprietario e direttore della fabbrica dei prodotti di
Vulcano situata presso la Fossa di Vulcano ricostruita dopo le
devastazioni dovute all'eruzione del 1888. Narlian aveva costruito
presso il porto di Levante una fabbrica migliorando l'industria
fondata dal Nunziante. Questa era finalizzata a raccogliere e
preparare allume, acido borico e sale ammoniaco e andò totalmente
distrutta durante l'eruzione) e gli operai e contadini addetti ai suoi
lavori (20 o 30 circa) fuggirono spaventati dall’isola.

Nelle altre parti dell’isola, e precisamente nella parte meridionale,
che, come dissi sopra, è quella più coltivata ed abitata, non vi
furono danni di rilievo e nessuno fuggì. Sono quindi esagerate, per
non dire totalmente immaginarie, le notizie a questo riguardo
riferite, copiandosi come al solito l’un l’altro, dai giornali
quotidiani nei primi giorni dello scorso agosto. Certamente che le
perdite subite dalla Società inglese, proprietaria della Fossa di
Vulcano, sono gravi, ma limitate ad una piccola arca (3 o 4 km. q. al
più) ; pel rimanente dell’isola non credo ci sia nulla a temere
neppure se Vulcano aumentasse l’intensità delle esplosioni. Poiché gli
abitanti della parte meridionale dell’isola si trovano, rispetto al
cratere attivo di Vulcano, nelle stesse condizioni topografiche in cui
sono, rispetto al Vesuvio, i paesi di Ottaiano e di Somma, i quali non
«ebbero a soffrire danni serii neppure nelle più grandi eruzioni
vesuviane.

L’eruzione, che ancora attualmente continua all’isola Vulcano,
cominciò con esplosioni non molto forti nella notte 2 al 3 agosto, le
quali replicarono con maggiore violenza nel giorno 3 al 5. La più
forte di tutte avvenne verso le 3 e 40 a. del 4. Ad momento in cui
essa scoppiò, una sensibile vibrazione da suolo si percepì non solo a
Vulcano, ma anche in tutta l’isola Lipari, dove si sentì pure
distintamente il fortissimo rombo che la precedette. Un immenso numero
di massi incandescenti vennero lanciati fino a grande distanza ; basti
dire che uno di 3 o 6 metri cubici almeno di volume, (e quindi di
oltre 13 tonnellate di peso) cadde ad un chilometro circa di
lontananza sprofondandosi per alcuni metri nel suolo.

Fino al giorno 3 continuarono a ripetersi le eruzioni, poi cessarono
totalmente dal 6 al 17, per ricominciare di nuovo il 18 agosto, e da
quel giorno seguitarono fino al presente, in generale, più deboli ma
più frequenti che nel primo periodo 3-5 agosto (1).

In questo secondo periodo il ritmo delle esplosioni è simile a quello
dello Stromboli, ma l’intensità incomparabilmente maggiore.

In generale, si succedono le eruzioni minori ad intervalli di pochi
minuti, e talvolta di pochi secondi quando escono da bocche diverse
esistenti nel fondo del cratere, e le maggiori con grossi e numerosi
proietti, a distanza quasi mai minore di 13 a 30 minuti, e spesso di
qualche ora. Alternano anche giornate di maggiore attività, in cui le
forti esplosioni sono molto frequenti con giorni di

(((1) Dal 18 agosto fino al presente(15 Dicembre) le esplosioni
continuarono sempre, sebbene ora più ora meno intense. Invece stando
ai giornali di Messina, e a tutti gli altri che prendono da essi le
notizie, parrebbe che molte volte l’eruzione del Vulcano sia cessala e
poi abbia ripreso di nuovo, ma ciò è inesatto e dipende da questo che
i giornali di Messina si ricordano di Vulcano, e pubblicano che esso
ritorna attivo tutte le volte che il vento porta un po’ di cenere fino
alla loro città.))

calma relativa in cui queste mancano, non cessando però mai le piccole
eruzioni di vapori e di cenere.

Raramente mancano i boati al momento delle eruzioni, ma non c’è nessun
rapporto costante di tempo, nè di intensità tra i due fenomeni, i
rumori talvolta rassomigliano al tuono, ovvero allo sbattere di
numerose masse metalliche, spesso sono veri muggiti, ovvero molto
simili ai colpi di cannone, ma più brevi e più secchi, e tanto forti
da sentirsi distintamente fino a 45 chilometri di distanza. A
Stromboli dove io mi trovavo nei primi di settembre, erano più
sensibili i boati di Vulcano che non quelli del vicino cratere che
pure era nel suo solito stato di attività.

Il pino vulcanico (1), nelle esplosioni più forti, s’innalza fino a 2
chilometri e più di altezza, grigio-oscuro e quasi nerastro, per la
grande quantità di cenere, di lapillo e di grossi proietti che
contiene. Nelle esplosioni minori ha colore più chiaro, grigio
biancastro, ma sempre denso per l’abbondanza della cenere, ed ha
l’apparenza di un’ immensa massa di bambagia che lentamente si svolga
dalla gola del vulcano, mantenendosi unita e compatta fino a notevole
altezza, e poi disperdendosi nell’aria più o meno rapidamente ed in
diverse direzioni, a seconda della forza e della direzione del vento
dominante. Spesso nel pino vulcanico guizzano lampi come in una nube
temporalesca.

Lo spettacolo di queste eruzioni è imponente specialmente di notte.
Allora il pino vulcanico al basso pare una colonna di fuoco, all’alto
un immensa girandola da cui si staccano a migliaia i massi ed i
detriti incandescenti, formando una vera pioggia di fuoco.

Talvolta per un certo tempo la parte superiore della Fossa appare

((1)) Così si chiamata colonna di vapori che esce dai vulcani al
momento di una esplosione. Plinio descrivendo l’eruzione vesuviana del
79, per la quale vennero distrutte Pompei ed Ercolano, usò per il
primo questo nome di pino vulcanico e così lo descrive: Una nube
sorgea di tal formae sembianza che nessun albero l'avrebhe meglio
espressa di un pino. Giacché rialzandosi come sur un tronco altissimo,
s’allargava in una specie di rami... ». (C. Plinii Secun. Epist Libri
decem))

rossa, come tutta infuocata, per il gran numero di massi incandescenti
di cui è seminata ; i quali però dopo pochi minuti si spengono e tutto
ritorna oscuro, a meno che qualcuno dei proietti, spinto più lontano
degli altri, non abbia incendiato qualche arbusto, che allora si vede
per un certo tempo la fiamma ed il fumo innalzarsi dal punto colpito.

Io feci tre gite all’isola Vulcano nello scorso settembre, per
osservare più davvicino le eruzioni, ed una volta ebbi l’emozione di
assistere ad una delle più forti, mentre mi trovavo sul fianco stesso
del cratere, entro una valletta o meglio una angusta spaccatura , per
osservare una serie di forti fumaioli che davano vapore acqueo con
acido solfidrico a 100°C. di temperatura. Prima che mi accorgessi che
fosse cominciata una eruzione (giacché non venne preceduta da boato),
rimasi meravigliato, e confesso francamente un po’ anche spaventato,
da ciò che improvvisamente i fumaiuoli diedero vapore più abbondante e
con sibilo più forte, e contemporaneamente sentii vibrare
sensibilmente non solo il terreno sotto i piedi, ma anche i fianchi
della valletta dai quali esciva il vapore. Dopo pochi secondi, un
rumore, che più che un vero boato, mi parve prodotto dall’urtarsi dei
massi nella bocca del Vulcano, mi avvertì che era avvenuta
un’esplosione. Allora tanto io come il Liparotto che, non senza
qualche renitenza, mi aveva accompagnato fin là, ci tirammo più che
fosse possibile sotto l’appicco a monte della valletta per schivare i
massi che già sentivamo rotolare sui fianchi del monte proprio dalla
nostra parte, tanto che ne vedemmo parecchi volarci sopra la testa e
cadere più in basso alla base del vulcano. Andammo subito in cerca del
più grosso di questi proietti, e dopo pochi minuti di ricerca lo
trovammo ancora caldissimo tanto che fondeva i fili di zinco, non però
quelli di ottone, doveva quindi avere una temperatura superiore a 423
gradi centigradi.

Se queste eruzioni di Vulcano rassomigliano per il ritmo e per la
parte fenomenale alle eruzioni stromboliane, ne differiscono però
assai per la natura dei prodotti. Infatti, lo Stromboli nelle sue
eruzioni ordinarie emette bombe, scorie, lapillo, arene, ceneri, e
queste materie tutte non sono altro che strappi della lava fluida che
ribolle e si agita nella sua gola, e solo in via secondaria, ed in
piccol numero lancia anche pezzi di antiche lave già solidificate od
altre rocce strappate dalla parete del camino vulcanico.

Lo stesso accade al Vesuvio, all’Etna e negli altri vulcani quando si
trovano in quello stato di ritmica e moderata attività che si suole
chiamare stromboliana. Questi vulcani poi emettono pure non raramente
lava in corrente cioè in massa, fluida, incandescente, la quale
mineralogicamentee chimicamente è della stessa natura delle scorie e
de’ lapilli del vulcano che si considera. Il cratere dell’isola
Vulcano invece nell’attuale periodo eruttivo non emise, almeno fino al
presente, se non proietti, cioè massi più o meno voluminosi, di lave
antiche di diversa natura sempre incandescenti, e talvolta
parzialmente rifusi, insieme a moltissime arene e cenere vulcaniche,
le quali evidentemente non sono che il prodotto del trituramento più o
meno minuto dei proietti stessi. I veri lapilli e le vere scorie
strappate dalla lava fluida, che ordinariamente esiste nei focolari
vulcanici, finora non vennero alia luce, ovvero vennero lanciate in sì
piccol numero, che rimane dubbia la loro presenza tra i prodotti
dell’eruzione (1).

Siccome però in passato anche il cratere dell’isola Vulcano, emise
lava in corrente, e pare che ciò si sia verificato in tempi non molto
antichi (2), non è a meravigliarsi se da Vulcano avesse

((1) Fra centinaia di massi eruttati da me osservati nell’isola
Vulcano ne ho visto solamente due o tre che per il loro aspetto
perfettamente scoriaceo pareva probabile fossero stati tolti da una
lava fluida esistente nelle viscere del vulcano. Ma, appunto perchè
pochi, mentre le vere scorie vengono lanciate dai vulcani sempre in
gran quantità, anche nelle piccole eruzioni, dubito che anche esse
siano pezzi di antiche lave più o meno completamente rifuse. Insomma
io penso che nell’interno del focolare di Vulcano attualmente non
esista un magma lavico fluido, ma un grande accumulamento di pezzi di
antiche lave in parte rifuse, in parte no, i qualicostituirebbero una
di quelle che si chiamano lave di massi o lave a rottami.)

((2) Sul fianco N O della Fossa di Vulcano si vede una corrente di
lava vitrea certamente molto recente e che ritengo eruttata nel 1771,
per le rase a sgorgare lava in corrente; ma, finora, non pare che ci
siano indizi che accennino alla probabilità di questo avvenimento. La
sola previsione che a me sembra si possa fare a tale proposito, è
questa, che se la lava in corrente escirà in questa od in una futura
eruzione dalla Fossa di Vulcano, essa si farà strada attraverso il
fianco settentrionale presso la Forgia Vecchia dove il cratere
presenta la sua parte più debole e più bassa. A meno che trovasse un
punto pure debole ancora più basso cioè nella parte sommersa
dell’isola ed avvenisse un’ eruzione sottomarina (1).

(1) Avevo già scritte queste righe, quando il mio amico sig. A. I'
icone di Lipari, mi scrisse che nel giorno il dello scorso novembre,
verso le 3 pom. la barca Gennarino , mentre si trovava in mare, un
chilometro circa ad est di Vulcano verso la sua parte settentrionale,
dov’è il cratere attivo, tutto ad un tratto fu sul punto di
naufragare, perchè il mare, che era in perfetta calma, si agitò
fortemente come bollisse, e nello stesso tempo metteva a galla delle
pomici. L’agitazione si estendeva in uno spazio di 300 metri,
rimanendo il mare in bonaccia fuori di quest’area. Contemporaneamente
il cratere di Vulcano fece una forte eruzione con pietre e molli
lampi.)

La Fossa di Vulcano è un cratere attivo da tempo immemorabile, e pare
che nei secoli anteriori all’èra volgare la forza e la frequenza delle
sue eruzioni sia stata anche maggiore che attualmente, tanto da dare
origine presso gli antichi alla favola che ivi avesse sede e fucina il
dio del fuoco onde chiamarono l’isola stessa leva ossia sacra a
Vulcano. Ed è perciò che Virgilio fa discendere nelle fornaci di
quest’isola misteriosa il dio Vulcano,

Huc tinc ignopotens coelo descendit ab alto,

quando per far piacere a Venere si risolse a fabbricare le armi pel prode Enea.

E nel medio evo era tanto ferma la credenza, che la Fossa di gioni che
già addussi in altro mio lavoro. (G. Mercalli, Vulcani e fenomeni
vulcanici in Italia, pag. 150).

Vulcano fosse una delle bocche spalancate dell’inferno, che talune
cronache del secolo VI ricordano seriamente come ivi fosse precipitata
l’anima dannata di Teodorico.

lo penso che questo superstizioso spavento che incuteva agli antichi
la Bocca di Vulcano dipendesse non tanto dalla violenza delle sue
eruzioni, le quali erano certamente inferiori a quelle pure frequenti
dell’Etna, ma piuttosto alla vastità del suo cratere, al fumo che
continuamente esala, spesso illuminato da vere fiamme (1: Questo fatto
di dare fiamme cioè gaz accesi anche quando il cratere si dice in
calma, perchè non emette ceneri e lapillo, è una specialità di
Vulcano, mentre negli altri vulcani si osservano raramente vere
fiamme, ed in ogni modo, sempre quando sono in eruzione)

anche nei periodi di calma, e specialmente ai boati e muggiti che
talvolta manda a brevi intervalli, per mesi e per anni interi (2:
Vulcano non presenta quei periodi di lunga e perfetta quiete come si
verificano all’Etna e specialmente al Vesuvio, d’altronde non è in
continua attività come lo Stromboli. Insomma, anche sotto questo
rapporto, è un vulcano sui generis che tiene il mezzo tra lo Stromboli
ed i Vulcani simili all’Etna ed al Vesuvio).

Pochi sono i ricordi di forti eruzioni dell’isola Vulcano tramandatici
dalla storia ; il che forse dipende da ciò che esse talvolta sono
brevissime, consistendo in una sola o poche esplosioni e facilmente
passarono inosservate in un’ isola che rimase per molti secoli
disabitata.

Le più antiche notizie di quest’isola rimontano al V secolo av.Cr. e
le abbiamo da Tucidide il quale racconta che Vulcano ai suoi tempi
appariva considerevolmente fiammeggiante di notte e fumante di giorno.

Circa un secolo dopo, Aristotile nel Libro delle Meteore menziona una
forte eruzione avvenuta a Vulcano, per la quale Lipari venne ricoperta
interamente di cenere.

Callia, contemporaneo di Agatocle (317- 289 av. Cr.), racconta che in
un colle elevato di Vulcano, esistevano due crateri, l’uno de’ quali
aveva il giro di 3 stadi tutto splendente per la gran luce che
spandeva dattorno, e che da quella bocca venivano lanciate pietre
incandescenti d’immensa grandezza e con tanto strepito che si udiva il
suono fino a 500 stadii.

Nel 183 av. Cr. presso la Sicilia avvenne una spaventosa eruzione per
la quale si formò un isola nuova che con tutta probabilità è
Vulcanello.

Poco più di 50 anni dopo, ossia nel 126 av. C. , una eruzione pure
violentissima avvenne nel mare vicino a Lipari, per la quale il mare
tutto ribollì, si fusero gli scogli dell’isola, i pesci vennero a
galla morti e come cotti, la cera e la pece delle navi si liquefecero.
Eutropio, che dà questi particolari, non dice se l’eruzione fosse più
prossima a Lipari od a Vulcano, ma io ritengo si tratti di una
eruzione sottomarina, probabilmente di lava in corrente sgorgata dai
fianchi sommersi di Vulcano o di Vulcanello.

In quale stato si trovasse Vulcano nell’intervallo tra le due
precedenti eruzioni, ce lo racconta Polibio (205- 148), dove dice che
Vulcano a suoi tempi aveva tre crateri, due assai ben conservati ed
uno in parte distrutto . La bocca più grande era rotonda ed aveva un
circuito di quasi 5 ottavi di miglio, restringendosi al basso dove il
suo diametro era soltanto di 50 piedi. La forma degli altri due
crateri è la stessa.

Diodoro siculo e Plinio per gli ultimi anni dell’evo antico, Strabone
e Pomponio Mela pel I secolo dell’ora volgare attestano l’attività di
Vulcano (1: In un MS. che si conserva presso una famiglia di Lipari, e
che io ebbi per mezzo del sig. A. Picone trovai registrata una
eruzione di Vulcano al 43 av. C. senza nessun’ aura indicazione). Anzi
Strabone pare che alluda a qualche vioenta eruzione con emissione di
lava, perchè dice che dal maggiore dei suoi crateri (di Vulcano)
insieme alle fiamme, escivano masse

infuocale che buona parte del mare turarono (2: Strabone cit. e trad.
dallo Spallanzani, Viaggi ec . t. Il, pag. 223.).

Parlano pure dell’attività dì Vulcano Pausania nel secondo e Solino
nel terzo secolo,ed una forte eruzione pare sia avvenuta nell’anno
144.

Per tutto il medio evo le notizie di Vulcano sono assai scarse; però
non mancano affatto. Sappiamo, per esempio, che sul principio del
secolo VI, quando San Calogero abitava in un romitaggio dell’isola
Vulcano, ad un pellegrino che venne a trovarlo, il Santo disse :
«Sappi che in quest’isola sono luoghi concavi pieni di vento e di
fuoco che divampa da certe aperture di questa montagna, chiamata
comunemente le bocche di Vulcano; per esse si veggono anche spesso
entrare ed uscire Demoni indiverse figure..».

Ma date precise per le eruzioni di Vulcano, nonne troviamo registrate
fino al o febbraio lidi , in cui ne avvenne una violentissima con
getto di molti massi infuocati, alcuni dei quali andarono a cadere in
mare oltre sei miglia di distanza (1: Cosi è registrato da Fazello; ma
6 miglia mi paiono un po’troppo!).

Nel secolo XVI Fazello ci attesta che l'isola Vulcano perpetuamente
arde e fumiga, e racconta che a’ suoi tempi Vulcanello era diviso da
Vulcano per un piccolo stretto di mare, ma poi le materie eruttate da
una forte eruzione colmarono quello stretto e formarono la bassa
lingua di terra che attualmente riunisce questi due crateri.

Probabilmente l’eruzione a cui allude Fazello è quella riferita da
Dolomieu al 1580.

Cluverio, vissuto dal 1580 al 1623, lasciò pure scritto d’aver veduto
durante la notte i fuochi di Vulcano, stando sul lido di Sicilia.

La Fossa di Vulcano durò lungamente in forte eruzione verso il 1626
come attesta Agatio di Somma (2: Jlistorico racconto dei terremoti
della Calabria dell’anno 1638 ecc. Napoli, 1651 pag. 189.), il quale
dopo avere menzionate le scosse disastrose che colpirono la Calabria,
nel marzo e nell’aprile 1626, soggiunge che « varii sono gli indizii,
per cui pare che tutto il male della Provincia sia derivato dal solo
monte dell’isola di Vulcano, la quale si vide sul punto del terremoto
con strepitoso rimbombo inalzare oltre l’usato le ruote delle fiammee
del fumo, e fu poscia notabilmente osservato che di rado e non mai
ripigliava il terremoto i suoi asfalti senza precedere i tuoni di
quella bocca infernale, quasiché all’ora ne bandisse la prova.. . ».

Nel 1646 il p. Bartoli visitò Vulcano e vi trovò una profonda voragine
tutta dentro infocata ed ardente, dalla cui bocca esalava il fumo
copiosamente.

 

 

 

“Botta e Risposta”

Da un articolo del giornalista Franco Battistessa sul giornale italiano di Sidney del 17.04.1935, si creò una polemica con tentativo di chiarimento tra il giornalista ed il Dott. Merlino di Lipari.

(prima di riportare di cosa si tratta tengo a precisare che quanto affermano entrambi è lasciato all’opinione personale che ognuno di noi può avere, che ognuno di noi può condividere o meno).

Cerco di sintetizzare immagine con mix titoli degli articoli citati.

Franco Battistessa sul giornale italiano di Sidney del 17.04.1935, nello scrivere: La Triste Triade, Buetti, Parisi e Jacona, a Domicilio Coatto, Da persone a bordo della motonave "Esquilino" giunto qui dopo aver trasportato in Italia i famosi Giuseppe Buetti e Giuseppe Parisi, deportati dalla Confederazione Australiana, perche rei di gesta criminose, si e' potuto avere notizie sulla loro accoglienza e cosi pure quella del loro ex compare Giovanni Jacona, nonché' sull'ultima
dimora offerta dal poco riconoscente governo italiano a questa indegna
e triste triade di figli suoi…

Lipari: l'Isola del Diavolo Italiana

Furono relegati nell'Isola di Lipari, a poca distanza dalla Sicilia, che senza essere la dantesca bolgia infernale descritto con fegatosa acrimonia politica da Nitti il giovane fuggiasco politico nipote di sua in decenza Nitti il maggiore, e' pero' sempre, una delle più fosche colonie penali d'Italia e puo' veramente dirsi l'Isola del Diavolo italiana.

Lasciate ogni Speranza o Voi che Entrate

Come su le porte dell'averno, il fiero profugo Ghibellino, lesse le terribili parole, cosi la triste triade della malavita italiana in Australia, avra' sentito con la disperazione nell'animo che Lipari e'
per loro una fossa vivente guardata dal mare, ove si entra ma non si e' sicuri di uscire. Li si deve scontare il castigo delle loro malefatte e riflettere amaramente che allorché' si vilipende e si
diffama l'onore italiano all'estero, si è colpevoli non solo verso la legge del paese che ci ospita, ma verso l'intera razza italiana sul mondo.

GIORNALE ITALIANO DI SIDNEY 24 LUGLIO 1935

Una lettera del Dottor Merlino

LIPARI Sig. Editore,

Tempo addietro nel suo Giornale, Lipari veniva nominata l'Isola del Diavolo. Più' forse perche' sede di un penitenziario che per la natura vulcanica di essa.

In un numero successivo si e' notato un errata-corrige che ha fatto piacere, credo, a tutti gli Eoliani.

La correzione diceva che in Lipari non esiste penitenziario e che i tre italiani deportati furono inviati Pantelleria e non a Lipari. La verità' fa maggior piacere ed il suo gesto, sono sicuro, verrà
ammirato e preso in considerazione da tutta la colonia eoliana.

Lipari non e' mai stata considerata ne' dagli abitanti ne' dai forestieri, l'Isola del Diavolo; piuttosto l'isola di Eolo che mitologica mente significa l'Isola del Vento…

IL GIORNALE ITALIANO SIDNEY 21 AGO 1935

Risposta al Dottor Merlino

Lampedusa e Lipari Nel Libello Nittiano

Risposta al Dottor Merlino

L'amico Dott. Merlino nella nostra edizione del 24 Luglio, ha fatto opera patriottica difendendo la nobile sua Lipari, nobile dominio del ventoso iddio Eolo. Come responsabile dell'ingiusta qualifica "Isola del Diavolo" che giustamente ha suscitato la doverosa reazione dei Liparini offesi, devo a questi ed al Dott. Merlino una spiegazione.

La qualifica incriminata "Isola del Diavolo"' applicata a Lipari fu da me ripetuta in un'articolo affrettato diffondendo l'impressione che fosse da me coniata, mentre avrei dovuto spiegare, che io non fatto che ripetere — senza condividerla affatto — tale definizione creazione dell'ignobile genia antitaliana dei nefasti Nitti; ciò' avrebbe evitato la errata interpretazione dei lettori che io ne fossi l'autore.

Nell'ignobile libello antitaliano del degno nipote dell'ex Primo Ministro Francesco Nitti Senior alias "Cajola" del titolo "La Fuga," ossia nella sua veste originale inglese: "ESCAPE," che furoreggia in
America con ristampe mensili, ecco come l'autore del libro Francesco Nitti Junior parla della nobile isola nella sua famosa dichiarazione d'introduzione a quella sua ignobile diffamazione italiana che dovrebbe intitolarsi non "La Fuga" ma bensì "La Calunnia"…

Grazie ad una cara persona ho scoperto un documentario che non conoscevo di Lionetto Fabbri sulle cave di pomice di Lipari.

Lionetto Fabbri (Firenze, 4 aprile 1924 – Firenze, 9 dicembre 2011), regista e documentarista italiano, produttore di opere di fondamentale importanza PER LA DOCUMENTAZIONE STORICA DELLA VITA POPOLARE in Italia nel secondo dopoguerra. Su di lui È CADUTO IL SILENZIO DEL pensiero diffuso dominante.

Cresce nel quartiere di San Frediano, a Firenze. Si appassiona alla fotografia tramite il contatto con Magrini, famoso fotografo di Viareggio, città dove si trovava il negozio di giocattoli del padre.
Nel 1949 Antonio Basetti Sani, il presidente della Pontificia Commissione di Assistenza, gli commissiona il suo primo film, un documentario sui ragazzi in colonia: Colonie per l'infanzia. Comincia poi a lavorare come reporter di cinegiornale e in seguito come documentarista scientifico.

Vince due volte il Gran Premio Orso d'Oro al Festival internazionale del cinema di Berlino con i documentari Gente lontana (1957) e La lunga raccolta (1958). Realizza anche due lungometraggi ascrivibili all'interno del genere mondo movie: Malesia magica (1961) e Uomo, uomo, uomo (1977, uscito solo sul mercato giapponese e di Hong Kong nel 1979 col titolo Man, Man, Man).

Nel 2008 il Consiglio regionale della Toscana gli conferisce il Gonfalone d'argento. Il regista Roberto Schoepflin gli ha dedicato il documentario "Un Ulisse rustico. Il cinema di Lionetto Fabbri" (2010), Il primo Orso d’Oro: “Gente lontana”. Ho notato che nei tuoi documentari non c’è mai uno sguardo in macchina. Riuscivi a gestire le situazioni, oppure li tagliavi nel montaggio?

- Lo dicevo che non mi piaceva che le persone guardassero verso la macchina. C’è in Gente lontana, il documentario primo Orso d’Oro nel 1957 girato a Lipari, uno sguardo in macchina che io magari non avrei voluto ma quello lì, tutto bianco e impolverato di pomice ad un certo punto... Lo sguardo stesso di Lionetto qui si fa lontano, si perde nella memoria e mette i brividi.

- Lui guarda. Guarda te, guarda me, guarda il pubblico, guarda la platea... E questa fu una cosa che a Berlino avrà fatto certamente il suo effetto. Credo forse sia l’unica volta in un mio documentario quello sguardo. Fu uno sguardo che a lui venne spontaneo, io non glielo chiesi. Io davo del lei a tutti mentre giravo, e a lui non avevo detto nulla, perché di guardare in macchina, perché di non guardare. Non dicevo nulla, stavo vicino, curavo l’inquadratura, fino a che entrò quello sguardo in macchina. Poi in montaggio vidi che funzionava bene. Ma è l’unico caso perché in genere lo sguardo in macchina rompe il racconto e dà fastidio. Anche in Vetro verde
(documentario sulla fattura vetraia artigianale di fiaschi e damigiane ad Empoli) non c’è niente del genere.

I cortometraggi di Lionetto Fabbri, oltre ad affascinare per la qualità della fotografia, assumono un eccezionale valore di testimonianza storica. A Gemona saranno presentati e commentati: I
Mammalucchi (1959, 10’) sugli abitanti di Bagni di Lucca che si dedicano tra polveri e colori alla fabbricazione di statuine di gesso; Gente lontana (1957, 21’, Orso d’Oro a Berlino) sui cavatori di pomice di Lipari nelle isole Eolie; Terra contesa (1958, 28’) sulla difficile vita nel Polesine alla mercé delle acque del Po; La lunga raccolta (1958, 22’, Orso d’Oro) sul lavoro delle donne negli immensi uliveti della Calabria; Antico mestiere (1955, 10’) sui lavandai di Grassina, località vicino Firenze diventata famosa proprio grazie a questo mestiere. Fabbri registra e attesta l’esistenza di mestieri ormai scomparsi, «esperienze millenarie - diceva l'autore - di cui non sapremo più niente, perciò è bene documentarle nei minimi dettagli per conservarne il ricordo».

Confinati politici a vario titolo scrivono sulla festa di San bartolo, in questo caso:

Capitolo 16 SAN BARTOLOMEO da: Riccardo Gualino – Solitudine – Durante il regime fascista, l’esperienza del confino nel racconto di un grande finanziere mecenate.

Scritto nel 1931 a Lipari pubblicato nel 1945 ediz. DE CARLO, tra la copertina panorama di Lipari disegnato dalla moglie Cesarina. Ristampa del 1997 edizioni Marsilio.

Una lunga scalea, chiusa fra alti muri e pareti di roccia, conduce dal centro cittadino alla Cattedrale. Situata giusto in cima alla scala, su di un piazzaletto a lastre di pietra, questa domina dall’alto la città. Di solida struttura bizantina, ha il tetto adorno di cupole tonde che segnano nell’aria una bella linea sinuosa. Nel Settecento le fu aggiunta un’imponente facciata barocca, molto più alta, che, veduta di lontano, a chi arrivi dal mare, offre l’aspetto di un sottile scenario eretto contro il cielo. La porta della Cattedrale guarda a ponente. Nel pomeriggio avanzato un fiume di luce penetra dai battenti aperti, riempie d’oro le navate. In fondo al braccio sinistro della chiesa, in una nicchia chiusa da serica-tenda, protetto da uno spesso cristallo sta San Bartolo, il santo protettore di Lipari, venerato dalle popolazioni eolie con ardore che sa di fanatismo.

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Scosto la tenda e il gran santo m’appare: alto al naturale, tutto in lucido argento. Sul capo regge la corona del martirio, sopra il braccio porta un lembo di pelle a ricordo della scorticazione, nella
mano impugna un coltello; ha i lineamenti marcati e volitivi, il gesto e lo sguardo duri e decisi. Già avevo veduto la statua per strada, in giorno di festa solenne, portata a spalla da dodici uomini in mezzo a strabocchevole moltitudine. Preceduta da un piccolo vascello in argento, dominava dall’alto le turbe, luccicando sotto il sole. Dalle vecchie cronache apprendo perché l’apostolo Bartolomeo abbia suscitato tanto amore in Lipari. Si narra difatti che nel terzo secolo sant'Agatone, vescovo di Lipari, sia stato svegliato di notte, verso il tocco, da un battito sulla spalla. Un angelo gli dice «Mi manda a te l’apostolo Bartolomeo, scorticato e gettato in mare dagli infedeli d'Armenia due secoli fa. C'è il suo corpo entro una cassa di marmo; va domattina al Porto delle Genti: la vedrai galleggiare presso la spiaggia».

Il buon Agatone non dà soverchio peso alla visione, ritenendola un sogno, ma il giorno appresso, a mezzanotte in punto, le campane delle chiese prendono a suonare, da sole, con immenso stupore del popolo e dei sacrestani. L'angelo, ripresentatosi ad Agatone, attonito per tanto frastuono, gli dice: «Mi vuoi credere, ora? Ti ripeto che sulla spiaggia c’è il corpo dell’apostolo».

Alla prima alba, il vescovo si reca al Porto delle Genti, seguìto dal popolo, e scorge difatti sul mare una cassa di marmo. La fa legare con funi; il popolo tira tira; la cassa non si muove; ballonzola sull'acqua ma, per quanti uomini s’aggiungano alle corde, non l’avvicinano d’un metro. Per il che sant'Agatone, dopo matura riflessione, licenziati gli uomini, pone alle funi dodici bimbe e il marmo se ne viene a riva, docile come un fuscello.

Scoperchiata la cassa, Agatone vi trovò dentro il corpo di San Bartolomeo, che approdava intatto a Lipari dopo duecento anni di peregrinazioni sui mari. Ben si può immaginare il giubilo degli abitanti e la cura gelosa con cui tennero cara e protessero la preziosissima reliquia. Ma le peripezie dell’apostolo non erano finite. Nel nono secolo i Saraceni riescono a impossessarsene. Sulla spiaggia la lotta divampa acerrima. Tira di qua, tira di là, il corpo del santo è alla fine involato dai predoni, meno un pollice che rimane a Lipari, ove ancor oggi mostra intatti l’unghia e i peli.

D’allora Vulcano e Stromboli ruggirono cento volte poche miglia lontano, ma sempre lasciarono Lipari immune, i terremoti squassarono la Calabria e la Sicilia, ma le case lesionate dell’isola non
crollarono mai, né ci furono vittime. Ond’è che, per riconoscenza, gli abitanti, con grandissima spesa, rifecero in argento, grande al vero, l’involato apostolo, e ne invocano l’aiuto nelle gravi calamità. Tre suore Francescane sono venute ieri a ringraziare mia moglie d’una sua piccola offerta ai poveri. Io rincasavo allora dalla Cattedrale, e il discorso subito cadde sulle virtù di san Bartolomeo.

— Ha veduto la navicella in argento, che precede la

statua del santo nelle processioni? — mi chiede una suora

— vuol ricordare un famoso miracolo.

— Un miracolo?

— Sicuro; un avvenimento meraviglioso! Deve sapere che, nel
Settecento, ci fu un’annata così terribile che gli abitanti
dell’isola, per la carestia, si cibavano di radici.

Ma la vigilia di San Bartolo, quando tutti stavan perdendo l’ultima
speranza, ecco apparire all’orizzonte un gran veliero. Aveva la prora
drizzata verso Messina, i venti soffiavano in quella direzione, ma il
legno se ne venne ugualmente a Lipari e diede fondo in questa rada. La
nave aveva nome San Bartolomeo, il capitano si chiamava Bartolomeo, ed
era colmo di frumento.

— Un magnifico regalo del santo — osservai.

- Sicuro! — continuò la suora — ma c’è ben altro: si figuri che il
grano, appena giunto il bastimento, era stato ripartito in gran fretta
fra i negozianti perché ne sollecitassero la distribuzione alla
popolazione affamata, e che l'indomani, allorché i mugnai ne vollero
pagare il prezzo, il veliero era sparito.

— Caspita! — dissi io — questo è per davvero il miracolo dei miracoli,
ma voglio sperare che i mercanti avranno, a loro volta, regalato il
grano ai cittadini, perché parrebbe sconveniente che un miracolo
avesse dato origine a speculazioni disoneste.

— Oh, quello è niente! — esclamò a un tratto una suora alta, simpatica
dai gesti pieni d’energia, una suora che non avrebbe, ritengo, avuto
paura neppure dei Saraceni.

- Quel miracolo, che le pare così grande, è nulla in confronto a quel
che avvenne quando un vescovaccio indegno, d'accordo col governatore
ribaldo dell’isola, volle fondere la statua del santo per venderne
l’argento.

— Arcipicchio! - esclamai; — la faccenda è grave davvero, e non
stupisco affatto che san Bartolomeo, con quel suo viso severo, abbia
provvisto a dovere.

— Con quel suo viso severo? Crede lei forse che si sia accontentato di
fare una sfuriata? Neanche per sogno?

Ha adoperato il coltello.

— Il coltello?

— Sicuro, il coltello; e sa come? Da vero santo, che conosce il fatto
suo. Stia a sentire come andarono le cose. Avevano deciso di fondere
la statua. Riuscite vane le invocazioni del popolo impaurito, inutili
le preghiere e gli scongiuri, si era giunti a poche ore dalla
esecuzione del vandalico atto. Ma la vigilia del giorno stabilito, di
notte, a tardissima ora per non spaventare i viandanti che l’avessero
incontrato per strada, san Bartolo apre il cristallo della nicchia,
scende, e se ne va difilato al vescovado. Prende per un orecchio il
vescovo addormentato e, senza tanti complimenti, tàffete, gli taglia
netto il collo, meno un pezzetto di pelle e una vena, che lascia
attaccati al busto perché il vescovo tardi a morire; poi lo sveglia e
gli dice: «Vescovo indegno, t'ho mozzata la testa per darti una
lezione; tieni per detto che un santo pari mio non lo si fonde come
del vile metallo; e t'ho lasciato un filo di vita perché tu scriva
presto un biglietto a comprovare che sono stato io a decapitarti».

- È un pensiero gentile per l’autorità notai io.

— Precisamente! Il vescovo, spaventatissimo, giù in fretta e furia il
documento, l’infilò nella ferita collo e se n’andò all’altro mondo;
ma, proprio per lo scritto, nessun innocente fu incolpato della sua
morte.

— Creda a me — concluse la suora — con un pochino d’energia le cose,
in questi tristi tempi, andrebbero meglio assai.

 

Durante il periodo del confino politico a Lipari alcuni confinati a vario titolo descrivono sinteticamente la festa di San Bartolo. 

Jaurès Busoni Confinati a Lipari Ediz. Vangelista

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di Jaurès Busoni 

La popolazione dimostrava una religiosità che, tuttavia, era molto apparente e formalistica, superficiale. Partecipava alle frequenti processioni dietro la banda e le statue di cartapesta dei santi e quella d’argento del patrono; alle messe e alle funzioni; andava a confessarsi; nel 1929, all’arrivo su una nave sontuosamente pavesata e addobbata del nuovo vescovo, Re, e del suo seguito, arrivo al quale avemmo la ventura di assistere, vedemmo scene quasi di fanatismo.
Ma si trattava di una sorta di fanatismo più apparente che sostanziale.

Chi si sbracciava, chi gridava, chi appariva esultante, lo faceva più per essere notato che perché sentisse entusiasmo.
E scene di artificiale euforia avvenivano il 24 agosto, giorno solenne per la celebrazione della più grande festa, con sagra, mercato e processione, in onore del patrono San Bartolo, a Lipari rimasto venerato da centinaia di anni fino dai tempi di S. Agatone vescovo.

Secondo la leggenda il corpo dell’apostolo S. Bartolo, Bar Tolomeo, figlio di Tolomeo, giunse a Lipari, portato dalle onde marine, chiuso in una cassa chi dice di piombo, chi di pietra, approdando il 13 febbraio del 264 al Portiniente, cioè nella breve spiaggia ghiaiosa oggi compresa fra gli alberghi « Rocce Azzutre » e « Carasco », e il cui nome rimase contratto in Portinente, detto anche « Porto delle genti ».


Pare che poi, nell’879, il corpo, prima disperso dai saraceni che occupatono l’isola, e poi miracolosamente ricomposto, fosse trafugato durante una scorreria e trasportato a Benevento dal principe Sicardo V, da dove, dopo 104 anni, Ottone III, imperatore di Germania, dopo
l’assedio e l’espugnazione della città, lo fece trasportare a Roma e collocate in sontuoso sepolcro di porfido nell'Isola Tiberina.

Ma, in Lipari, rimase profondo il culto del patrono S. Bartolo di cui successive romanzesche vicende dicono recuperato un brano di pelle e un dito, chiusi in reliquari nella cattedrale dove, in un quadro decorativo del "700, è raffigurata la venuta del corpo alla presenza processionale di S. Agatone in piviale e mitra preceduto da chierici e clero. E si vuole che la diretta influenza del patrono abbia impedito successivamente a una nave di appestati di approdare nell'isola e abbia invece, durante un periodo calamitoso di carestia, fatto
dirottare verso i suoi lidi un vascello carico di grano.

Una statua d’argento del patrono scuoiato — con sulla spalla destra la pelle, nella mano la palma del martirio e nella sinistra il coltello dello scuoiamento — e un « vascelluzzo », pure d’argento, offerte di fedeli a ricordo del miracolo del dirottamento del cereale, sono anch'essi nella cattedrale e vengono portati in processione in date significative e particolarmente il 24 agosto.

Ma, a dimostrazione di un residuo entusiasmo più apparente che reale, sta il fatto — che non riguarda solo Lipari, ma è notevolmente diffuso in tante località, particolarmente del meridione — che quando il 24 agosto la processione tradizionalmente sosta nella piazza della Marina
Corta, intorno alla statua del santo si affollano i devoti più abbienti per appuntare con spilli ai paramenti della statua le loro offerte materializzate in biglietti di carta moneta, per apparire più
devoto chi può permettersi di offrite la cifra più elevata e godere dell’orgogliosa soddisfazione di ostentare pubblicamente con la sua più alta offerta, la sua più profonda religiosità...

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LE RICOMPENSE DELLA VITA, FILICUDI E LE ISOLE EOLIE

di ANTONY BONICA

I Filicudesi in Australia
La gente di Filicudi che emigrò in Australia durante il primo e secondo periodo di emigrazione, divenne prospera e benestante, specialmente durante la seconda guerra mondiale. Dopo il conflitto, il numero di filicudesi si incrementò di molto, poiché la quota di immigrazione in quel paese divenne più elevata. Come risultato c'è un notevole insediamento di filicudesi sia a Melbourne e Sydney, sulla costa orientale, che a Fremantle nell'Australia Occidentale.

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Ebbi la fortuna di visitare l'Australia parecchie volte e sono felice di dire che i nostri "paesani" se la sono cavata molto bene e, in verità, la loro parte di successo è stata simile a quella di coloro che si stabilirono in America. Al momento, mia sorella Terzita e la sua famiglia vivono a Melbourne, insieme a molti parenti ed amici di Filicudi. Durante le mie visite, che furono occasione per piacevoli riunioni, facemmo molte chiacchiere, richiamando alla mente i ricordi del passato. Tutti questi incontri mi hanno dato grande gioia. 

Feci il mio primo viaggio in Australia nel 1965. ln quella occasione scoprii che alcune cose che costavano circa quaranta centesimi in Australia, costavano un dollaro e anche più in America. Durante la mia ultima visita, nel 1977, notai che i prezzi delle merci erano gli stessi che in America. Questo era il risultato di quindici anni di inflazione! Per coloro che possedevano terre e proprietà o per chi capì cosa stava avvenendo, le cose andarono molto bene. Terre ed altri beni sono aumentati enormemente di valore. Non è diverso da quanto è avvenuto in America.
Per concludere, fui molto colpito, in modo positivo, da ciò che vidi in Australia.

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Lipari Carnevale 1986

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Lipari Carnevale 1986 prima parte

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Grazie alla biblioteca comunale di Lipari alcune fotografie del Carnevale del 1984 tratte da un numero dell'Arcipelago.

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LA POMICE DI LIPARI aspetti geografici, economici e sociali CARMELO CAVALLARO 1979. 2 parte.

La produzione e i problemi connessi all’esportazione.

La lavorazione della pomice è l'unica attività industriale redditizia per i Liparesi: L'esportazione della pomice ebbe una rapida espansione dal 1900 (6834 t) al 1910 (25.654 t ) ; poi si ridusse, gradualmente, a circa 7000 t a causa degli eventi bellici. Il commercio ebbe una ripresa nel 1922, con 27.221 t di pomice esportata, e un andamento favorevole, per il crescente impiego nell'edilizia, fino al 1940 (la produzione di quell'anno fu di 41.801 t). Successivamente, l'industria
della pomice subì la stessa sorte delle altre attività economiche per il secondo conflitto mondiale.

Agli inizi degli anni '50 l'esportazione si intensificò per la ripresa delle attività economiche, e nel 1953 raggiunse le 114.840 t, pur essendo l'industria della pomice caratterizzata da modeste aziende individuali, che operavano con mezzi tecnologici e impianti rudimentali. Nel 1969 si esportarono 496.999 t di pomice di varie qualità: in sedici anni la quantità esportata si è quadruplicata per molteplici nuove applicazioni e sbocchi commerciali. Come si osserva dal prospetto seguente, dal 1969 al 1976 si sono verificate notevoli variazioni dei quantitativi esportati , con una punta di quasi 600.000 t nel 1972: 

Dal 1973 l'esportazione registra in termini quantitativi un calo netto, quasi della metà, fino al 1975, con una lieve ripresa nel 1976.

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In termini di fatturato, però, non si è avuta alcuna diminuzione, tenuto conto che nel frattempo il costo complessivo della pomice sul mercato è quasi raddoppiato. La diminuzione del movimento esportatore è stata causata non solo dalla minore domanda, per la crisi generale, ma anche dalla concorrenza della pomice greca. Si osserva l'andamento della esportazione dal 1969 al 1976, ripartita nelle diverse qualità di produzione.
Dal 1972 in poi, dunque, si registra un decremento di esportazione sensibile, sia all'estero che in Italia.

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Le vendite negli Stati Uniti hanno subito negli ultimi anni una
notevole diminuzione, dovuta non solo alla crisi che ha investito
tutto il mondo industrializzato ma anche alla crescente e sempre più
agguerrita concorrenza del prodotto greco: ed è significativo il
sostanziale decremento (- 140.343 t, pari al 65%) avutosi tra il 1972
e il 1976 nell'esportazione verso questo mercato, nel passato di
grande interesse per la pomice liparese. I granulati destinati
all'edilizia sono passati dalle 177.882 t del 1972 alle 80.37 t del
1975; l'esportazione di polveri destinate all'industria, che nel 1972
aveva toccato le 2270 t, si è addirittura annullata; la pomice
pezzame, infine, è scesa dalle 8849 t del 2970 alle 2500 t del 1975.
Gli ultimi dati del 1976 indicano tuttavia sintomi di lieve ripresa.
I concessionari devono far fronte, come si è detto, al pagamento di
una tassa comunale gravante sulla pomice esportata, la quale incide
per una somma pari a lire 300/t per il granulato, 500/t per le
polveri, 800/t per il pezzame e 1800/t per i pezzi.
Essa ha assicurato al Comune un introito di 159 milioni di lire nel
1972, scesi a poco più di 100 milioni nel 1976. Per evidenziare la
pesante concorrenza estera, si pensi che in Grecia esiste una tassa
simile, ma che incide solo nella misura di lire 30/t per qualsiasi
qualità di pomice. Anche il balze110 della portuale - che in Grecia
non esiste - incide sul costo dell'esportazione per oltre il 10% del
fatturato. Soprattutto questi motivi hanno determinato la crisi del
settore minerario della pomice liparese; ad essi si aggiunga che
sempre in Grecia il costo del lavoro è inferiore del 30% circa.
La popolazione ed il lavoro nell'attività della pomice.

- Lipari è stata l'isola più popolata dell'arcipelago già nella
preistoria, nel periodo greco e romano, nel medioevo e nell'età
moderna, anche se con fasi di spopolamento causate da invasioni e
distruzioni.

Dai dati riportati nel prospetto seguente rileviamo che l'isola dal
1871 al 1911 ebbe un incremento di 2729 abitanti, passando da 206
ab./km2 a 279. Al censimento del 1951 registrò per la prima volta un
decremento che gradualmente si è continuato a verificare fino al 1971,
per l'emigrazione che ha investito tutto l'arcipelago. E'
significativo il fatto che al 1975 si sia avuto un lieve aumento,
determinato dal contenimento dell'emigrazione e da fenomeni di
rientro.

Anche se nella curva dell'andamento demografico, tra il 1871 e il
1071, riscontriamo una flessione, questa è stata più contenuta
rispetto alle altre isole: Slromboli, ad esempio, dai 2487 abitanti
del 1911 si è ridotta nel 1975 a soli 408; Filicudi da 1547 abitanti è
passata a 245. L'mica isola che ha resistito, in parte, al massiccio
esodo della popolazione, è stata dunque Lipari, che, essendo la sola
dotata di centri di servizio per la commercializzazione della pomice e
del pescato, riusciva in qualche modo a dare possibilità di vita ai
residenti. Dei cinque centri abitati dell'isola, Acquacalda e Canneto
si sono sviluppati esclusivamente per lo sfruttamento della pomice,
anche se l'attività mineraria, per lungo tempo, ha dato lavoro in
condizioni inumane. La popolazione di Canneto dal 1961 al 1971 ha
avuto ancora un incremento del 5% e Acquacalda invece un decremento
del 670.

Canneto è interessata più direttamente all'attività dello sfruttamento
e del commercio della pomice, e lo dimostra anche la percentuale di
lavoratori addetti. Ai censimenti della popolazione del 1951, 1961 e
1971 la popolazione residente attiva nell'industria estrattiva, nel
Comune di Lipari, era rispettivamente di 664, 653 e 517 unità. I dati
si riferiscono all'intero territorio comunale, ma si presume che essi
per la maggior parte riguardino la popolazione addetta alla estrazione
della pomice.

Complessivamente oggi le unità lavorative (operai, impiegati e
dirigenti) (vedere TABELLA 2 DEL 1977) occupate nel settore e nelle
attività complementari sono 476 ; si veda, in proposito, la tabella
relativa alla loro distribuzione per azienda e per qualifica. I
lavoratori provengono per il 50% da Canneto, per il 20C4 dal centro di
Lipari, per il 6% da Acquacalda, per il 18% da Quattropani e Piano
Conte e per il 6% dalla Sicilia.

LA POMICE DI LIPARI aspetti geografici, economici e sociali CARMELO CAVALLARO 1979. 1 parte.

I giacimenti e l'ambiente. - I giacimenti più noti per la qualità del prodotto sono quelli di Lipari, conosciuti non solo in Italia ma anche in Europa, nell'America del Nord, nell'Africa settentrionale e in Australia.

Le pomici si trovano anche in Grecia, nell'isola Santorino (Cicladi) ; in Spagna, in Almeria; in America; nelle isole Canarie; in Ungheria, nei Carpazi; in Francia, nel Massiccio Centrale; in Eritrea, presso il vulcano Alid; nella Nuova Zelanda; nel Giappone; .in Germania, lungo
il bacino medio del Reno (Neuwied).

In Italia esistono giacimenti anche in Sardegna (Monte Arci e Macomer), nell'isola di Pantelleria, nei dintorni del Vesuvio e in altre località. Le pomici di Santorino, pur essendo più pesanti e meno
pure, sul mercato oggi riescono a concorrere con quelle di Lipari per il basso prezzo.

I giacimenti di Lipari si estendono, lungo la costa orientale e settentrionale, fra i centri di Canneto e Acquacalda, per complessivi 8,4 km' (più del 22% della superficie totale dell'isola) costituiscono inoltre la maggior parte del Monte Pelato (m 476), del Monte Chirica (m 602), della Forgia Vecchia e in minor misura del Monte Sant'Angelo (m 594).

I crateri della Forgia Vecchia e del Monte Pelato hanno eruttato anche colate di ossidiana; quella delle Rocche Rosse, eruttata dal Monte Pelato, dopo avere penetrato e superato la barriera dello strato delle pomici, si è riversata sulla costa formando un piccolo promontorio, punta Castagna. Recentemente J. Keller ha potuto stabilire con misurazione di C14 che l'ultima eruzione di pomice e l'emissione di ossidiana della Forgia Vecchia e Rocche Rosse avrebbero avuto luogo
tra il 500 ed il 550 d. C.; nel passato si dava per certo che a Lipari in epoca storica non si fosse avuta attività vulcanica.

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La pomice di Campobianco si ritiene sia stata emessa dal cratere del
Monte Pelato: le sue varie eruzioni avrebbero ricoperto anche il Monte
Chirica.

Nella fig. 1 si riportano le ubicazioni e le delimitazioni dei
giacimenti di pomice e delle colate di ossidiana. Le aree maggiormente
sfruttate sono quelle di Campobianco e del Monte Chirica. Altri
sfruttamenti minori si sono avuti in località Pirrera.

Frammenti di pomice sono stati rinvenuti in contrada Diana; durante
gli scavi archeologici, è stato notato che una coltre di polvere di
pomice si trova al di sopra degli strati del periodo romano ; ciò
indica che su tutta l'area della città di Lipari si riversò una coltre
di polvere bianca eruttata dal Monte Peiato appunto nel 500-550 d.C.
Lo spessore dei giacimenti è variabile: nel Monte Pelato la potenza
raggiunge i 200 metri; sui versanti del Monte Chirica è di pochi metri
sullo strato delle lave e dei tufi antichi.

Il paesaggio in quest'area è caratterizzato da una coltre bianca che
dal livello del mare si spinge fino a 602 metri di altitudine; ampie
squarciature, incisioni, ammassi enormi di materiale denunciano
l'alterazione dell'aspetto originario naturale, con l'evidente
dimostrazione che nel tempo l'estrazione è stata di notevole
intensità. Nel pendio orientale del Monte Pelato, dal livello del mare
fino alla strada rotabile, che si sviluppa lungo la costa a circa 60
metri s.l.m., l'area è ricoperta da materiale detritico pomiceo; dalla
rotabile fino a circa 150 metri d'altitudine si trovano le cave
sfruttate nel passato e oggi abbandonate; al di sopra, e fino a circa
400 metri s.l.m., si estende la nuova area di sfruttamento del
giacimento.

La lavorazione e l’utilizzazione della pomice. Lo sfruttamento.

- I giacimenti di pomice per oltre due terzi appartengono al demanio
del Comune di Lipari, mentre il resto è proprietà privata. Le
concessioni di sfruttamento, in base a speciali autorizzazioni,
vengono date dal Comune, che riscuote una tassa di esportazione
stabilita da una legge del 1908. Attualmente vi operano la Pumex
S.p.A. di Canneto-Lipari, la Italpomice di Acquacalda e la Cooperativa
San Cristoforo di Canneto-Lipari.

Le prime due lavorano per il 75 per cento circa in esportazione,
mentre la Cooperativa si occupa soltanto di produzione. La Pumex è
sorta nel 1958 dalla graduale fusione di diversi riruppi
imprenditoriali che nel passato avevano concessioni per lo
sfruttamento del giacimento; essa ha realizzato un programma razionale
di ammodernamento degli impianti di lavorazione, prima
straordinariamente carenti. La Italpomice, che sfrutta le cave di
Acquacalda, fu costituita nel 1956 dal tedesco H. Leonholdt, dopo che
la famiglia Saltalamacchia cedette cave e impianti di lavorazione.
Oggi l'attività è diminuita e, rispetto alla Pumex, questa società
opera in condizioni limitate. Gli impianti per la lavorazione della
pomice si trovano in massima parte concentrati in località Porticello;
alcuni, di dimensioni modeste, sono ubicati nell'abitato di
Acquacalda.

Lo sfruttamento dei giacimenti avviene mediante un procedimento di
estrazione che, a differenza del passato, utilizza bulldozers per lo
scavo dall'alto verso il basso. In precedenza, l'estrazione veniva
eseguita con tre diversi procedimenti: a cava, a taglia e in galleria.
L'estrazione a cava non si spingeva mai a grandi profondità e
consisteva nel praticare ampie buche nel terreno, entro un'area più
convenientemente sfruttabile; eliminati gli ammassi superficiali, le
pomici affioranti venivano utilizzate in frammenti o in blocchi.
Questo metodo veniva praticato da singoli lavoratori per l'estrazione
della pomice grigia, detta alessandrina e pomiciazzo. L'estrazione a
taglia era praticata per la produzione di materiali pomicei più comuni
e di minor valore commerciale. Quella in galleria, infine, veniva
praticata da cavaioli specializzati che, attraverso gallerie, si
spingevano all'interno dei giacimenti.

Il sistema di scavo che viene effettuato oggi, indubbiamente, ha
ridotto il pericolo di infortuni, rispetto al periodo in cui
l'estrazione veniva fatta con il piccone e le zappe da sterro.

Il giacimento viene attaccato per piani orizzontali, dall'alto verso
il basso, dalle ruspe, che spingono il materiale in tramogge ricavate
nel corpo della montagna stessa e dal cui fondo, attraverso apposite
bocchette di scarico, l'escavato precipita su un nastro trasportatore
che lo convoglia ai canali di produzione.

Questi ultimi, il cui fondo è costituito da tela metallica a maglie di
varia grandezza, operano una selezione granulometrica come segue: a)
pietre di grossa dimensione: vengono dirette a unapposito silo da cui,
con autocarri, vengono portate a discarica;

b) pezzame compreso tra i 15 ed i 90 mm di 0: viene diretto

in apposito silo; una parte viene selezionata mediante aspirazione,

la rimanente viene destinata alla discarica;

C) granulato di 0 tra 0 e 15 mm: viene immesso in appositi silos di
transito, da dove - con autocarri o nastri trasportatori - viene
trasferito ai silos di stoccaggio e imbarco, posti alla base dei
pontili ai quali si ormeggiano le navi;

d) pomice lapillo, di 0 da 0 a 3 mm circa: viene immessa in piccoli
silos di raccolta ai piedi dei canali, da dove, con autocarri, è
trasportata a discarica; solo una piccola percentuale (circa 1'874)
viene inoltrata agli stabilimenti per essere essiccata e selezionata
in circa 20 granulometrie differenti di polvere e granelli.

La produzione di polveri e granelli si distingue in “bianca” (cioè
pura, senza parti estranee) e “nera” (quella cioè da lapillo, ossia
con le impurità naturalmente presenti nel giacimento).

Il processo di lavorazione è quasi identico, salvo nella parte
iniziale, in quanto per la produzione “bianca” occorre selezionare la
pomice pezzame (per asportare tutti i corpi estranei) e macinarla,
onde indirizzarla agli essiccatoi nella finezza desiderata, mentre per
la produzione “nera” il lapillo prodotto in sede di escavazione viene
immesso negli essiccatoi senza alcun processo preliminare.
L'essiccamento del materiale - che può avere, secondo le stagioni e il
giacimento di provenienza, fino al 30% di umidità -- si effettua in
forni cilindrici rotativi, abitualmente funzionanti in equicorrente,
con camera di combustione alimentata da residui densi. Alla fine degli
essiccatoi sono posti uno o più cicloni per il primo abbattimento
delle polveri: la parte residua di queste viene indirizzata a
sofisticati apparecchi che, con procedimenti a secco e a umido,
provocano il loro successivo abbattimento. La classificazione
granulometrica delle polveri e granelli i! fatta attraverso buratti
(vagli rotativi) rivestiti di tele metalliche di acciaio inossidabile.

E' importante notare la profonda innovazione del sistema di
essiccamento, oggi interamente meccanico e quasi privo di polverosità,
in rapporto a quello precedente che prevedeva l'impiego di forni piani
a lastre di ghisa, con conseguente immissione di grandi quantità di
polvere nell'ambiente di lavoro.

Anche la classificazione granulometrica ha subito, agli stessi
effetti, importanti innovazioni: tutti i buratti, tanto nella parte di
vagliatura che in quella di scarico nei sacchi, sono dotati di
impianti di aspirazione che convogliano i fumi aspirati in camere di
abbattimento per decantazione. Lo stesso sistema di imbarco dei
prodotti finiti risulta innovato, modernizzato e più sicuro: i
granulati alla rinfusa vengono imbarcati a mezzo di nastri
trasportatori sulle navi ormeggiate ai pontili, mentre polveri e
granelli, in sacchi, vengono portati sotto bordo a mezzo
motacarrozzette, oppure caricati su autocarri che si immettono nella
rete stradale nazionale e internazionale attraverso le navi traghetto.

Commercialmente la pomice si distingue in pezzi e in polvere.

Inoltre, secondo il tipo di lavorazione, il colore e i caratteri di
porosità, si distinguono vari tipi di pomice in pezzi: bastardoni,
fiori, alessandrina, rasaglia, limata, pezzame, granulati.

La pomice in polvere è contraddistinta da diversi numeri
corrispondenti alla finezza dei buratti.

La pomice trova nell'attività edilizia vasti impieghi, che vanno dagli
impasti alla fabbricazione di blocchi e lastre di agglomerati. I
vantaggi dei prodotti poimicei consistono in una maggiore leggerezza,
in un più alto grado di coibenza e di afonicità. In alcune attività
industriali, oltre all'impiego della polvere comune, che è
maggiormente richiesta nelle fabbriche di terraglia e nell'industria
metallurgica, trovano largo impiego i granelli di pomice, che servono
per la fabbricazione di filtri per acidi e alcali, di tele abrasive,
impasti coibenti, ecc. La pomice viene anche utilizzata per la
levigatura dei tubi catodici dei televisori e per il rivestimento dei
reattori nucleari.

 

 

 

ANNALI DI STATISTICA PROVINCIA DI MESSINA 1897

Due sorgenti esistono a Lipari: una detta acqua del bagno secco, avente la temperatura di 80 gradi centigradi, non analizzata, nè utilizzata in alcun modo; l’altra detta acqua di San Calogero,
utilizzata in uno stabilimento municipale, capace di contenere oltre 50 bagnanti e provvisto di tutto il necessario. Quest’acqua, secondo l’analisi fattane dal professore Arrosto di Messina, è alcalina e viene usata per le affezioni gottose e reumatiche croniche, per le poliartritidi deformanti, per le malattie di cuore dipendenti da cause reumatiche, per la sifilide terziaria e per i catarri intestinali cronici accompagnati da reazione acida e stitichezza abituale.

All’infuori del capoluogo, si ha notizia di due piccole tipografie in Barcellona Pozzo di Gotto delle ditte Rotella Giuseppe e Greco Gaetano, con una macchina e due operai ciascuna che lavorano per circa 200 giorni dell’anno; una ne esiste a Lipari della ditta Mollica e Conti con una macchina semplice, sistema Marinoni, con quattro operai adulti, occupati per circa 250 giorni all’anno…

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Meritevoli di speciale menzione sono le numerose cave di pomice, già accennate, esistenti nell'isola di Lipari. Nel valore totale della produzione delle cave della provincia di Messina, che fu nel 1890 di oltre un milione e 20 mila lire (superiore di gran lunga a quelli rappresentanti la produzione di ciascuna delle altre provincie siciliane nello stesso anno), il valore della pomice
figura, come risulta dai dati sopra esposti, per oltre la metà, cioè per 600 mila lire.

La pomice viene quasi tutta esportata, sia nel continente italiano, sia all’estero, in quasi tutte le parti del mondo.
Da alcuni dati pubblicati nella rivista mineraria per il 1887, risulta che la quantità di pomice esportata da Lipari nel settennio 1881-87 variò da un minimo di 3500 tonnellate nel 1881 ad un massimo di 4915 nel 1887…

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Grazie alla Biblioteca Comunale di Lipari dall’Arcipelago del dicembre 1976. “Sutt’o’ palu” di Giuseppe Iacolino

Giovane o non più giovane, un Liparoto di razza che senta aire 'Sotto il Palo' corre istintivamente a rievocare lembi d'estate, tum spericolati, distensive immersioni in uno specchio di mare largo e
profondo. Tutto preso dal momento nostalgico, egli è persino disposto a non mettere nel conto le tre o quattro maleodoranti giumelle che, a ridosso, con la loro impertinente presenza pareva volessero incrinare la delizia di quelle mattinate d'incanto.

Perché? Sotto i Palo? Toponimo quanto mai singolare per la sua stranezza. Si direbbe anche pedestre, e persino assurdo poicne nel termine non si cogne nesso alcuno che sia in carattere con la conformazione del sito, con la colorazione della roccia o con qualche sbiadita vicenda che colà siasi maturata; così, vogliamo dire, come Pomiciazzo, Monte Rosa, Sottomonastero.

Eppure 'Sotto il Paio' ha la sua umile storia, vecchia forse di oltre settecent'anni, e protagonisti ne furono tante e tante pacifiche bestie da stazzo; una storia che è strettamente legata agli albori
della rinascenza di Lipari quando quando la sparuta comunità cittadina sbocciava speranzosa sullo squallore lasciato dai Saraceni. Dall'alto del Castello, e con pieni poteri, su tutto e su tutti vegliava allora il vescovo col suo capitolo di monaci benedettini. 

Non era impresa facile per lui, nella complessità dei suoi compiti, esser presente tempestivamente nelle varie città , ville, terre e casali disseminati su una si vasta diocesi feudale che dalle Eolie si estendeva a S. Lucia del Mela, a Milazzo, a Patti e su su fino alle alture di Librizzi. Perciò egli, almeno per un più sollecito disbrigo degli affari di giustizia, servivasi di un certo numero di commissari, stratigoti e baiuli, gli uni per la conoscenza delle case criminali, gli altri per le civili.

Al baiuolo isolano, che era detto anche visconte o più semplicemente conte (uno di questi conti dovette possedere terre censite dalla Chiesa, l’esazione delle decime “per Dio e S. Bartolomeo”, la vigilanza di commerci, la repressione delle frodi che nei commerci prosperavano, e, infine, il sequestro e la custodia degli animali erranti; di quegli animali, cioè, che, sconfinando dagli “erbatici” o pascoli comuni, oppure dai recinti padronali, si spingevano nei poderi coltivati e ne “dannificavano” le vigne, le messi e gli ortaggi. Buoi, cavalli, asini, capre, pecore e maiali. Non è un’esagerazione , ma, due tre e quattrocento e passa, nella isola nostra c’erano più capi di bestiame nelle campagne che cristiani in città.

Abbiamo una copia delle medievali 'Consuetudines scriptae huius civitatis Liparae', una sorta di calepino giuridico contenente usi, diritti e obblighi consuetudinari dei cittadini liparoti, e in esso si elencano le categorie di quegli animali ritenuti potenziali “dannificatori” delle colture. Accanto ad ogni categoria è segnata l'ammenda da irrogare ai rispettivi negligenti padroni. E curioso sapere - e fa anche tenerezza - che i piccoli ancora lattanti sorpresi in terre di terzi, purchè in compagnia di mamma vacca o di mamma asina, non comportavano penalità alcuna. “……pro quolibet bove, bacca sive gencone grana 12, et si bacca habuerit vitulum lactantem, vitulus sit liber.... Identica la multa per un cavallo o una cavalla. Per un asino o un'asina l'ammenda prevista dal calepino era di grana quattro.

Ma c'erano le bestie più minute e più numerose, quelle da ovile, che vagavano in branchi di notevole consistenza. Per esse si procedeva a forfait, per centinaia di capi; così... pro quolibet centenario ovium, caprarum sive arietum tarenos auri duos et grana 10 (= due tari d'oro e 10 grana); pro quolibet centenario porcorum tarenas 5....”

Davasi per il caso che non si fosse in grado, lì per lì, di identificare il proprietario responsabile del gregge incriminato, e allora il baiulo doveva provvedere ad imbrancare le bestie, a condurle
in città e ad allogarle in un apposito recinto. Indi procedeva ad avviare l'indagine. Questo recinto si estendeva lungo il settore orientale della spianata della 'Civita'. Era definito 'carcerem animalium', ma con termine specifico era chiamato 'palum'.

Non si equivochi col 'palo' di legno che ha tutt'altra derivazione etimoiogica connessa alla radice 'pag, pac, peg' (pac-lum, paium) che propone l'idea del 'conficcare' e 'stabilire' come 'pace' 'pagare'. Il nostro 'palum' prende derivazione dall'etimo 'pal' che ha senso di 'largo', quindi 'spiazzo' o 'radura', parente strettissimo di 'pala', arnese piatto e largo, e di 'palese' che dicesi appunto di cosa aperta, chiara ed evidente.

Se dunque il nostro 'palum' occupava la balza pianeggiante superiore della 'Civita', risulta ovvio che, per riflesso, la scarpata sottostante, fino al mare, assumesse il toponimo di 'Sotto il Palo'. Tutto qui. E' una storiella da due soldi, d'accordo. Ma, ad essere sinceri, non ci sembra priva di quel tanto di fascino, nostrano e casareccio, cui il Liparoto di razza è particolarmente sensibile.

Chi alle Eolie ha avuto parenti emigrati negli Stati Uniti, New York in particolare ma non solo, o rientrati dopo anni alle Eolie, come nel mio caso i miei nonni paterni e mio padre, conserva degli oggetti che essi portarono dagli Sati Uniti come ad es.:

1 OROLOGI Waltham

La fondazione risale al lontano 1850 a Roxbury Massachuttes USA. Fu subito un grande successo tanto che il brand si spostò nella vicina città di Waltham per mettere in opera una produzione in grandi numeri.
Erano anni d’oro per gli orologi da tasca: non mi è difficile credere che l’avvento delle prime ferrovie facevano sentire l’esigenza di portare sempre con sè uno strumento che potesse scandire il tempo con precisione.

Fondata nel 1850 negli Stati Uniti, a Roxbury, Massachussetts, per trasferirsi quattro anni dopo nella cittadina da cui prenderà il nome, Waltham si è da sempre contraddistinta per la grande precisione e le performance di altissimo livello dei suoi strumenti. Queste caratteristiche hanno fatto sì che Waltham fosse adottata sin dall’inizio del Novecento dalle istituzioni più importanti dell’epoca, come le Forze Armate Americane o le Ferrovie di ben 52 Paesi…

2 Altro oggetto, più raro direi, che io conservo e come me chissà quanti altri è la gruccia P & Q CLOTES. I miei nonni al ritorno da New a Lipari negli anni 20 ne riportarono diversi oggi se ne è salvato uno, sul legno vi è impresso il marchio e l’indirizzo di New York.

Il primo negozio Howard Clothes è stato aperto a New York nel 1924 ed è stato fondato da Samuel Kappel, Joseph Langerman e Henry Marks, dal nome del figlio di Langerman, Howard. Una società fu successivamente organizzata a New York nel 1925 con il nome di Howard Clothes Inc. e successivamente fu cambiata in Howard Stores Corporation. L'azienda
gestiva un'enorme fabbrica a Brooklyn, proprio dall'altra parte del Manhattan Bridge, nel quartiere ora noto come Dumbo…

3 Ma credo che il ricordo più bello siano le fotografie, foto in bianco e nero per i tempi custodite all’interno di un cartoncino che si apriva con una o due parti. La famiglia seduta in abiti eleganti o
il piccolo sono due pose caratteristiche, io conservo tre foto fatte a New York con i miei nonni e mio padre nato da poco presso Reliable photo studio 704 8th avenue New York.

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LE VIE D’ITALIA 1964 ARIA NUOVA A VULCANO

di Mauro de Mauro

Con poche ore di viaggio per mare, gli italiani hanno a disposizione per tutto l’anno uno degli ultimi paradisi terrestri: Vulcano, un’isola meravigliosa e ospitale nell’arcipelago delle Eolie dove il
turista trova tutto ciò che dà gusto e intelligenza alla vita.

…Oggi, chi sbarca a Vulcano nella baia di levante si imbatte subito nell’Hotel faraglione o nella Pensione Capitti, mentre la baia di ponente, molto più sofisticata, offre al turista l’Hotel Sables
Noires, l’Hotel Vulcano, la Pensione Casa Rosa, la Pensione Conti, il “Village del Club “Connaissance du Monde”, il delizioso complesso bungalow “I pagghiara”, cioè i pagliai, che prende il nome dal rivestimento esterno delle pittoresche costruzioni, e infine l’albergo
Eolo.

Nei periodi di punta, e soprattutto a agosto, tutto questo non è sufficiente, ed è giocoforza arrangiarsi alla men peggio dove capita, perfino nella sacrestia della chiesetta nuova di zecca. Ma questo è un altro discorso, che non incide su questa breve storia: la cronaca della trasformazione di Vulcano da zolletta d’inferno selvaggia e spoglia a stazione turistica di notevole richiamo...

Quando sulla scia dei francesi, scesero a Vulcano i milanesi
(nell’estate del 53 fra Porto Ponente e l’Acqua del bagno si sentiva
parlare soltanto in puro meneghino, e se non fosse stato per i
generosi lembi di pelle esposta al sole si sarebbe potuto pensare di
stare in Galleria), allora la fortuna turistica dell’isoletta fu
sicura. Il fenomeno però non destò alcun interesse fra i tradizionali
operatori turistici, fra gli industriali alberghieri: l’antichissima
fucina di Vulcano sente ancora troppo di zolfo, raffigura con toni
sempre attuali e evidenti una possibile anticamera dell’inferno,
perché un qualsiasi consiglio d’amministrazione deliberi un
investimento di capitali su questo autentico residuo di mitologia.
Solo dei sognatori, degli originali, dei collezionisti potevano e
possono sentire il fascino di Vulcano al punto di farne scopo e mezzo
di esistenza.

Sono fatti così, i moderni “albergatori” di Vulcano. La marchesa di
Campolattaro è una affascinante signora di rara sensibilità, che ha
chiuso dieci anni fa la sua villa di Taormina per trasferire le innate
arti di squisita ospite all’Hotel Sables Noires, da lei costruito e
gestito: e nel cambio a rimetterci è stata Taormina.

Attilio Castrogiovanni, avvocato, deputato all’Assemblea regionale
siciliana, ha piantato la professione e la politica e si è
improvvisato albergatore. Ha ideato e costruito “I pagghiara”, il
ridente complesso di bungalows rivestiti all’interno di maiolica dalle
tinte più dolci a tenui, all’esterno di rozza paglia; ha popolato
l’isola di cocorite, voleva popolarla anche di caprette tibetane ma
dovette rinunciarvi per i guai combinati dall’irruenza dei primi sei
o sette esemplari trapiantati a Vulcano. Cominciò anche a costruire
uno stabilimento termale, sul modello delle antiche terme romane, per
sfruttare l’acqua bollente e i fanghi radioattivi che sgorgano dalla
pietra ai piedi del cono vulcanico, ma le cose gli andarono male e
lasciò questa, e altre iniziative, a metà o addirittura appena
abbozzate.

Altro “politico” è l’avvocato Restuccia, professore di filosofia a
Messina. Restuccia fu uno dei leader del movimento SEPARATISTA
SICILIANO DEL DOPOGUERRA; CON Finocchiaro Aprile e con Varvaro
condivise la notorietà e le spiacevoli conseguenze dall’arresto,
ordinato vent’anni fa da De Gasperi, e del successivo internamento a
Ponza. Adesso il professor Restuccia, coadiuvato dalla giovanissima
moglie, riceve i clienti sulla soglia del suo albergo – il
“Faraglione” – e qualche volta li serve a tavola.

Anche Irene Patrovita, più nota nel mondo della canzone italiana come
Irene d’Areni, rivelazione del festival di Sanremo nel 1961, serve
talvolta a tavola i clienti del suo Hotel Vulcano. Capitò a Vulcano un
paio d’anni fa, per riposarsi, insieme al marito: da allora i due non
si sono più mossi dall’isoletta. Mario Patrovita ha liquidato la sua
partecipazione in un’industria olearia pugliese, Irene d’Areni ha
detto addio a microfono e dischi. Qualche volta, nel dancing
dell’Hotel Vulcano, un ritorno di fiamma canora l’assale, ma si tratta
di rari sprazzi, le cure dell’albergo le lasciano poco tempo per
cantare.

Il lento ma crescente richiamo turistico della loro isola non ha
lasciato indifferenti i vulcanari, anzi li ha convinti tutti, uno per
uno. Non sono molti, a onor del vero, non superano i cinquecento, ma
il loro numero tende a aumentare. Il piccolo boom turistico ha
bloccato l’emigrazione, il tradizionale esodo che in passato spopolava
le isole dell’arcipelago e lasciava incolti i poderi, deserti e
abbandonati i casolari, si è fermato.

Dieci anni fa la popolazione di Vulcano era scesa a meno di
quattrocento unità, per lo più donne e bambini: gli uomini validi
partivano per l’Australia o per L’America, e quasi mai tornavano.
Adesso qualche cosa sta cambiando. I pescatori hanno trasformato le
loro barche, le hanno dotate di motore, di salvagente, di cuscini di
gomma; loro stessi si sono trasformati in barcaioli, fanno il piccolo
cabotaggio fra le isole dell’arcipelago, fra Vulcano e Lipari, e hanno
capito che il turismo non è fatto più da originali stravaganti di
passaggio ma è diventato una attività economica seria, continua,
duratura. Col risultato che molti barcaioli si sono imposti perfino
dei veri e propri orari di partenza per le singole corse, e hanno
unificato i prezzi, per tutti i tragitti possibili intorno a Vulcano o
fra un’isola e l’altra.

Anche gli isolani che vivono a terra si sono poco per volta
trasformati. Papà Capitti, ex fornaio, ex pescatore, oggi proprietario
e gestore della Pensione Capitti e di svariati altri servizi,
simboleggia un po’ questa metamorfosi. Capo di una robustissima
famiglia – moglie, nove figli e figlie, e in più generi, nuore e
nipoti – decise che tutte quelle braccia dovevano trovarla lì, dove le
incudini avevano gemuto e strepitato sotto i martelli dei Ciclopi, la
loro Australia. Aveva un vecchio forno, lo trasformò per confezionare
un pane diverso, più gradito ai “forestieri”. Durante un inverno, con
l’aiuto dei figli ingrandì la sua casetta, costruì altre stanze, la
trasformò in pensione. L’anno successivo costruì proprio sul mare,
sulla spiaggia di Levante, una trattoria di tipo casalingo. Quando a
Vulcano il telefono divenne indispensabile mise a disposizione dei
telefoni un locale e assunse la gestione del servizio telefonico.
Contemporaneamente dotò Vulcano di due tassì, i due unici tuttora
esistenti: sono due vecchie 1400 che hanno superato, in due, il
milione di chilometri, ma vanno ancora. Quest’inverno ripasserà i
motori, se avrà tempo: infatti, partito l’ultimo turista, ha messo
mano alla sopraelevazione della pensione. La prossima estate il numero
delle camere sarà raddoppiato.

L’esempio è stato contagioso, ciascuno, nel suo piccolo, ha cercato di
fare altrettanto. Le casette bianche, bianchissime,
nell’inconfondibile stile eoliano – corpo basso, lungo, a tetto
piatto, porticato con pergolato d’uva poggiato su pilastri in muratura
– si sono moltiplicate, o per lo meno ingrandite: non c’è famiglia che
non sia in grado, fra giugno e settembre, di cedere una o due camere
pulite, ariose, igieniche. Si sono moltiplicati anche gli impianti
generatori di corrente, e il problema dell’acqua, che gli alberghi
hanno risolto cercandosi falde idriche e i privati attraverso pozzi e
cisterne, fra qualche mese cesserà di essere tale: l’acqua è stata
trovata (l’aveva trovata per primo, quindici anni fa, un eoliano
tornato dall’America), l’acquedotto è stato costruito, non resta che
da collocare in opera gli impianti di sollevamento e pressione del
prezioso elemento.

La metamorfosi degli isolani di Vulcano non si è però limitata alla
ricettività o capacità ricettiva. E’ assai più profonda. Quasi
avessero dietro le spalle secoli di esperienza raffinatasi attraverso
il succedersi delle generazioni, gli isolani oggi sanno valutare e
soppesare “il forestiero” con una sola occhiata, per classificarlo di
colpo in una delle due grandi categorie che contano, veramente: quello
che sbarca a Vulcano così, per vedere l’isola per fare un po’ di
vacanza, per provare la novità del tuffo nel mare che scotta, e quello
che invece giunge a Vulcano perché ci torna, o per scoprirne e
gustarne il fascino. Nei confronti del primo tipo il “vulcanaro” è
cortese, premuroso, ma niente di più. Con l’altro tipo, che parla il
suo stesso linguaggio, l’abitante di Vulcano si rivela invece ospitale
al di là di ogni immaginazione: lo accompagna a pesca, gli indica le
tane dei cerniotti o i banchi di ricci, gli svela i segreti
dell’isola, la chimica che sembra permeare, e permea veramente, questo
meteorite incandescente piombato chissà quando nell’azzurro del
Tirreno.

Ma anche la struttura fondiaria dell’isola è stata sovvertita, in poco
più di un decennio. Secondo l’abate Francesco Ferrara, che pubblicò
centocinquant’anni or sono un’organica storia di Vulcano sotto il
titolo I campi Flegrei della Sicilia, l’isoletta fu consacrata dai
primi abitatori dell’arcipelago al dio del fuoco di Hiera, e è rimasta
per millenni fedele al suo ruolo di fucina dei Ciclopi. L’abate
Ferrara citò Aristotile per raccontare come “un giorno in una parte
dell’isola la terra si gonfiò con grande strepito, e dalla cima nella
quale si ruppe mandò fiamme, gran vento e ceneri che coprirono Lipari
e varie città vicine dell’Italia”, e precisava che esisteva ancora “
il luogo da dove erano state vomitate quelle materie”. Anche Cullia,
siracusasno, aveva descritto “la montagna di Vulcano vomitante fra
immensi fragori fumo, fiamme e pietre infuocate”. La narrazione di
Plinio è, dal punto di vista scientifico, più fedele: descrive
l’eruzione del 183 a.C. durante la quale emerse dal mare Vulcanello,
il conetto vulcanico unito all’isola maggiore solo per mezzo del
sottilissimo istmo che ha dato praticamente vita alle due baie di
Ponente e di Levante.

Quale che sia stata l’origine di Vulcano, sta il fatto che all’epoca
in cui l’abate Ferrara descriveva la sua storia l’isola era di
proprietà dei Borboni di Napoli, i quali la regalarono a un loro amico
inglese. Costui non mise mai piede a Vulcano, ma ci mandò un suo
amministratore, un tipo freddo e egocentrico di nome Harley.

L’Harley costruì un palazzo (le cui mura esterne esistono ancor oggi)
in prossimità delle sorgenti di fanghi caldi che l’on. Castrogiovanni
voleva trasformare in terme romane. L’interno del palazzo fu però
inghiottito, sul finire del secolo scorso, da uno dei sommovimenti
della crosta terrestre piuttosto frequenti a Vulcano, in seguito al
quale l’inglese Harley scappò terrorizzato e vendette l’isola a un
ricco liparota, il cavalier Favaloro. Costui aveva due figlie nubili
alle quali toccò in eredità la proprietà dell’isoletta. Dalle
signorine Favaloro l’isola passò ai loro nipoti, i Conti, uno dei
quali è proprietario della più antica pensione esistente a Vulcano.
Questa era la situazione catastale dell’isola, una quindicina di anni
fa. Oggi troviamo la proprietà spezzettata, fra i Conti, i Giuffrè,
gli Zanca, i Capitti – gente di Vulcano o di Lipari – e altra gente
piovuta a Vulcano dalla terra, che è come dire da un altro mondo.
Figurano fra i proprietari di cottages e di terra a Vulcano, oggi,
Emma Danieli, il principe Manfredi Lanza di Scalea, due giudici – La
Torre e Viola – e un direttore generale del Ministero degli Interni,
Severini, la napoletana principessa San Biase, alcuni insigni docenti
universitari di Messina e Palermo, un gioielliere milanese, un
dirigente della Fiat.

Artefice della salutare lottizzazione dell’isola di Vulcano è stato
Mario Patrovita: non pago di gestire il suo albergo, il marito di
Irene d’Areni si è fatto costruire un delizioso cottage che accoppia
all’armonia del più puro stile coloniale castigliano la funzionale
ricerca del comfort. La casina fece gola a più d’uno, il Patrovita
ricevette l’incarico di costruirne e arredarne un’altra, poi un’altra
ancora. Sono quindici quelle già esistenti, altre sei o sette ne
sorgeranno durante l’inverno; ma la metamorfosi di Vulcano ha ricevuto
nei giorni scorsi un nuovo, determinante impulso: le resistenze
ultradecennali dei Conti di Lipari sono state vinte, l’istmo che
congiunge Vulcano a Vulcanello, l’indescrivibile striscia di terra
larga appena duecento metri che separa la baia di Levante da quella di
Ponente è stata finalmente venduta, l’ha comprata l’ex industriale
oleario Patrovita. La sua fisionomia non subirà mutamenti, roccia nera
e canneti continueranno a ricoprirla: ma è già pronto il progetto per
costruire, sulla più suggestiva lingua di terra dell’intero
arcipelago, un centinaio di bungalow rivestiti di pietra nera e
circondati dal canneto. Orridi e neri all’esterno come l’ambiente, i
bungalows saranno rivestiti all’interno di maiolica rosa, dotati di
quattro cuccette, servizi con doccia e acqua corrente, prese d’aria e
frigorifero.

Solo quattordici anni orsono Fosco Maraini, l’esploratore e poi
cantore del Segreto Tibet, scriveva di Vulcano: “”è un lembo di
stella, le sue rocce non sono rocce ma processioni di dromedari fusi,
lotte d’iguanodonti torturati, sfaldarsi d’ornitorinchi lebbrosi,
esplodere di giraffe in fiamme. Il mare entra nelle viscere
dell’isola, l’isola pugnala il mare coi suoi capi contorti.
Dappertutto fumacchi e zolfi, vapori e anidridi””.

Dieci anni fa, Vulcano accoglieva il turista con la sabbia nerastra,
infocata, del porto di Ponente, dopo l’avventuroso trasbordo del
vaporetto al barcone: la baracca di Enrico, all’insegna del “club
della pera”, dava il benvenuto. Enrico vendeva cappelloni e zoccoli,
radeva la barba, suonava la chitarra e due volte al giorno soffiava
nella bucina, per chiamare al pasto, sotto la grossissima lampada a
acetilene, gli ospiti dei primi pagliai che sorgevano tutt’intorno
alla Pensione Conti. Oggi Enrico è in Australia, l’aliscafo collega
Vulcano a Messina in poco più di un’ora, il gong dà agli ospiti degli
alberghi il segnale del pranzo.

Perché l’incantesimo della metamorfosi di Vulcano sta proprio qui: i
gruppi elettrogeni, la luce elettrica, i cottages arredati con pezzi
d’antiquariato importati da Firenze o da Milano, le cellule
frigorifere, gli short drinks serviti da barman impeccabili, nei
“tumbler gelèe” al punto giusto, non hanno tolto nulla al dramma
tellurico dell’isola. Anche davanti al televisore, a Vulcano ci si
sente pionieri. A Vulcano soltanto i sassi hanno un’anima, e i
vulcanari non fanno nulla non muovono un dito per interferire fra i
sassi e il turista. Ragione per cui se oggi tornasse a Vulcano
Ludovico Salvatore d’Austria, autore del più poderoso studio dei tempi
andati su Vulcano e sulle Eolie - Die Liparischen Islen – molto
probabilmente non si accorgerebbe che qualcosa è cambiato. Si
limiterebbe a annotare che qualcosa è cambiato. Si limiterebbe a
annotare, nel suo taccuino di viaggio, la presenza dei cottages di
Patrovita o dell’albergo bianco-calce della marchesa di Campolattaro.

MURO DE MAURO fotoservizio Scafidi.

 

 

 
 

UN AMORE COSÌ FRAGILE COSÌ VIOLENTO 2 parte
STRALCIO DA UN VECCHIO NUMERO DEL NOTIZIARIO DELLE ISOLE EOLIE GRAZIE
ALLA BIBLIOTECA COMUNALE DI LIPARI. UN FILM INTERAMENTE GIRATO ALLE EOLIE

La storia d'amore di L. Pittoni, il cui libro, ed. Muse, uscirà in gennaio, è sbarcata alle Eolie per essere riportata in pellicola.
“Un amore così fragile così violento”, con questo titolo le Eolie gireranno le sale cinematografiche italiane e straniere.
La ROOS produzione ha stabilito sette settimane di lavorazione da girare interamente a Lipari e Vulcano, per dotare al film tutte le bellezze naturali possibili.

Fabio Testi interpreta il giovane architetto che si spoglia della società dei consumi per sposare il mare delle Eolie, la pomice, la pesca e la gente dell'isola, carica di passione di vita naturale,
Paola Pitagora, povera venditrice di materiale da pesca, con un marito in carcere ed un figlio paralitico da mantenere. Franco Ressel maresciallo dei carabinieri; Maria Baxa, signora milanese bella turista in cerca di avventure; Giovanna De Vita, “Mammana” praticona sempre inguaiata; Daniele Dublino “Don Gesualdo” , il prete dei pescatori, Casellato il medico, Filippo, giovane paralitico e Giovanni Profilio un diavoletto della spiaggia di porto delle Genti, che ha
impressionato tutti per la sincerità della recita.

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Ciccio Mondello non poteva mancare col suo viso e la sua chitarre, così come le facce pù interessanti dell'isola sono state scelte con cura. La colonna sonora del film sarà la ballata eoliana ed una canzone che Sant'Ercole, attore pure nel film, ha scritto sul lavoro della pomice, Ugo Cardea “Carmelo”, veste anche lui una parte spettacolare specie in un duello che sa di morte prima di iniziare. La regia è curata dallo stesso Pittoni; direttore di fotografia Gerardi,
già noto alle Eolie per il film Stromboli.

La lavorazione di questo film alle Eolie ha veramente un alto valore poiché fa sì che le nostre isole, così tanto conosciute nel nome possano rimbalzare nella visione di tanti panorami, di tema infernale, ed oltre ad assicurare alle casse della produzione un ottimo guadagno, raggiungere quell'alto valore qualitativo di cui tanto hanno goduto e pochi hanno saputo gestire.

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Un amore così fragile, così violento ITALIA – 1973 con i ricordi di Gennaro Leone.
1 parte Regia: Leros Pittoni Attori: Fabio Testi - Gerolamo Poliziani, detto Gepo, Paola Pitagora -
Assunta, Daniele Dublino - Don Gesualdo, María Baxa - Signora milanese, Gino Santercole - Ruzzo, Franco Ressel - Maresciallo dei carabinieri, Luigi Casellato - Medico, Ugo Cardea - Carmelo, Giovanna Di Vita - Mammana, Franco Bartella - Giorgio, Filippo Tarantino - Alfonso
Tratto da: Romanzo omonimo di Leros Pittoni.
Il film nasce dal libro scritto da Leros Pittoni che fu il regista. Girato direttamente a Lipari con molte comparse eoliane. L'idea di finire il film con un gruppo di bambini che di corsa venivano giu' verso la piazza di Marina Piccola partendo dalla chiesa di San Giuseppe con teli di plastica a fare vela piatta sopra la testa. Fra pontili della pomice, cave e spiagge. Porticello divento' l'epicentro.
Scene fra cavatori frustrati da quel gigante palermitano dipendente della Italpomice. La vigliaccata della produzione che dopo aver ottenuto tutti i permessi ed aiuti materiali dalla Pumex per girare le scene dentro le cave, per farsi pubblicita' diedero alla stampa la falsa notizia che l'attore Fabio Testi, soprannominato orecchie di scimmia, svenne durante la lavorazione perche' si ammalo' di silicosi.
 
Paola Pitagora era molto triste, mentre l'altra attrice Maria Baxa di Belgrado, deceduta nel (Notiziario Eolie del 18 novembre 2019) qualche anno fa, si innamoro' di un giovanissimo eoliano oggi affermato architetto a Roma. Una giovane fanciulla cannetara svenne quando ha stretto la mano a Fabio Testi, bello e con un bel fisico. La troupe alloggiava alle Rocce Azzurre. Il film, genere drammatico, non ebbe molto successo. Un falegname romano in 2 giorni costruì con le tavole comprate da Tanino Cassara' una casetta in legno sulla spiaggia bianca. Fra le comparse era stato scelto Turi Alivo per la sua faccia definita una rete. Durante le riprese le comparse eoliane fecero uno sciopero per ottenere il raddoppio della paga.
 
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Stampa Sera 29.11.1972.
L'attore sospende le recite nelle Lipari. Fabio Testi: silicosi in miniera
Lipari, Fabio Testi, ammalato di silicosi? Per questo sospetto l'attore ha dovuto sospendere la lavorazione del film « Un amore così fragile, così violento » e sì è sottoposto ad una serie di
analisi cliniche. Lo ha reso noto Il produttore del film, Il quale ha precisato che II sospetto che l'attore fosse stato afflitto da silicosi si era manifestata dopo una lunga permanenza in una cava di pomice dell'Isola di Lipari dove per molti giorni l'attore ha interpretato le scene del film in lavorazione. Il produttore ha precisato che pur essendo terminate le Bisequenze nella cave, la
lavorazione del film è stata sospesa per alcuni giorni In attesa del responso medico. Nel frattempo lo scrittore Leros Pittoni, che debutta nella regia con questo film, ha cominciato a modificare Il piano di lavorazione al fine di girare scene senza la presenza di Fabio Testi.
Altri Interpreti del film sono Paola Pitagora, Merla Baxa, Franco flesse/, Gino Santercole, Daniele Dublino e Luigi Cesellato.
 
Cronaca del 1972 StampaSera 29.11.1972.jpg
 

 

di Piero Fortuna 

EPOCA 6 AGOSTO 1972. Nelle Eolie Borsa nera dell'acqua.

La scarsità dei rifornimenti, effettuati con le navi cisterna, allontana migliaia di turisti da questo fantastico arcipelago di vulcani. Per provvedere alle necessità dei clienti, gli albergatori
devono arrangiarsi con le bottiglie di “minerale”.

Lipari, agosto

“L’acqua? Un miraggio, una vana speranza.” Il direttore del più grande albergo dell’isola di Lipari (aria condizionata, piscina e night psichedelico) allarga le braccia in un gesto sconsolato. “Vi sono momenti in cui prende la disperazione. Non possiamo dire ogni giorno ai nostri ospiti: “Signori, per il bagno o la doccia eccovi una bottiglia d’acqua minerale”. Perché gli ospiti, pur apprezzando gli sforzi che facciamo, pur rendendosi conto che non è colpa nostra se manca l’acqua, al primo accenno di disagio fanno le valigie e se ne vanno.”

Quest’anno il panorama turistico delle Eolie è veramente drammatico.
Un’attività che dà lavoro a tremila persona cioè a più di del trenta per cento della popolazione complessiva di Lipari, Vulcano, Salina, Panarea, Stromboli, Alicudi e Filicudi, è sull’orlo del collasso per la cronica mancanza d’acqua. Se va avanti così, queste isole bellissime finiranno per scomparire dal panorama turistico italiano.

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L’anno scorso la scarsità d’acqua ha allontanato dalle isole migliaia di ospiti. Quest’anno, già nel mese di giugno, si è giunti alla paralisi dell’attività turistica: un grande albergo di Vulcanello ha
dovuto chiudere i battenti per quindi giorni. Un altro, a Panarea, ha rinviato l’apertura alla metà di luglio. Tutti, comunque, hanno registrato una preoccupante diminuzione delle prenotazioni e della
durata dei soggiorni. “All’atto pratico”, dicono gli albergatori, lavoriamo un mese all’anno a cavallo di Ferragosto. Ma è chiaro che non possiamo più andare avanti. O si provvede o saremo costretti a chiudere.”

Il problema è gravissimo. Esso trascende il limite locale per diventare il simbolo della trascuratezza con cui l’Italia, che pure è in preda a una drammatica crisi economica, affronta i temi del turismo, un’industria che frutta al Paese più di mille miliardi di lire all’anno in valuta pregiata. A chi risale la responsabilità di tutto questo? E’ difficile dirlo con precisione. Le colpe sono collettive. Affondano le radici nella miriade degli interessi particolari e nella pigrizia della burocrazia. Anche sotto questo punto di vista le isole Eolie fanno testo.

Sono prive di d’acqua e alle esigenze della popolazione si provvede con rifornimenti effettuati da navi cisterna che si approvvigionano presso gli acquedotti della Sicilia. Ma questi rifornimenti sono così saltuari e lacunosi che molto spesso, d’estate, le isole rimangono senz’acqua. Il problema sarebbe di aumentare il numero delle navi cisterna o di rendere più frequenti i loro viaggi. In realtà non accade né l’una né l’altra cosa. L’azienda che, surrogando la Marina
Militare, ha preso recentemente in appalto questo servizio, destina al rifornimento d’acqua delle isole tre navi. “Due delle quali”, sostengono gli albergatori “mancano spesso all’appello. Non si sa dove vanno, cosa fanno. Sono navi fantasma.”

E’ questo il motivo per cui Manca l’acqua? Certamente. Tuttavia non si riesce a capire perché quest’acqua, che viene trasportata con il contagocce ai prezzi ufficiali (gli alberghi la pagano 150 lire la tonnellata), diventa immediatamente reperibile e nella quantità desiderata se la si paga 2.350 lire la tonnellata. Lo scarto è di 2.200 lire ogni mille litri. “Un aggravio di prezzo”, spiegano gli albergatori, “che è immorale e insostenibile. Tanto più che non possiamo rivalerci sui turisti, i quali consumano in media sui 300 litri d’acqua al giorno a testa.”

Ma oltre all’acqua, nelle Eolie, scarseggia, d’estate, anche il carburante. Quest’anno, tra la fine di giugno e i primi di luglio, l’apposita nave cisterna che deve rifornire le isole di benzina e gasolio è andata in bacino per certi lavori di manutenzione che, si potevano effettuare d’inverno o in primavera.

Risultato: l’attività dei pescherecci e quella delle barche che portano a spasso i turisti nell’arcipelago si è bloccata di colpo. Ma la benzina, introvabile sul mercato normale, era trovabilissima alla borsa nera. Bastava pagarla 220-230 lire il litro. Va da sé che anche la nautica da diporto ha subito un fiero colpo.

A questa catena di guai si è aggiunta la vertenza sindacale che ha pressochè paralizzato l’attività della Navisarma, la società che assicura i collegamenti marittimi tra Napoli e l’arcipelago Eoliano.
Molti viaggi sono sati aboliti, molti turisti in procinto di imbarcarsi sono rimasti a terra. Insomma un’estate rovinosa.

A questo punto viene da chiedersi com’è possibile che in un Paese come il nostro si tolleri che le cose vadano a questo modo. Gli eoliani sono inveleniti. Fino a qualche anno fa vivevano dei magri proventi assicurati dalla pesca e dalle antichissime cave di pomice di Lipari.
Da qualche tempo avevamo scoperto il turismo e nel turismo hanno reinvestito i loro risparmi. Ma ora tutto viene rimesso in discussione. Tutto minaccia di regredire verso un passato di stenti.
Perché? A chi giova? Ed è lecito sottrarre al panorama turistico del Sud un bene così prezioso?

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PER L

Sicile Iles Lipari Tomas Micek 1976 – 1977 Una giornata sul cratere dello Stromboli

di Tomäs Micek

Sono già abbastanza in alto sul lato del cratere. Alla mia destra, si tuffa a picco nel mare su un pendio vertiginoso, la famosa Sciara del fuoco, attraverso la quale scorrono le lave espulse dallo Stromboli.
Sulla cima, aleggia un velo azzurrognolo di emanazioni soffocanti. Io seguo la direzione delle striature più fitte e scelgo un percorso che porta al cratere senza espormi alla minaccia del gas. A circa ottanta metri dalla Cima devio dal sentiero diretto e attraverso il pendio coperto di cenere, rotolando ad ogni passo pezzi di lava antica. Sto arrivando quindi nelle immediate vicinanze dell'apertura del cratere.

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Mi ritrovo in quella sorta di ciotola che mi separa della Cima. Qui si erge un alto bastione che circonda la depressione del cratere. A venti metri da me il vulcano ruggisce. Già, attraversando le ceneri, dovevo farlo modera il mio entusiasmo e sii pronto a reagire in qualsiasi momento ai suoi pericolosi capricci. Questa potenza minacciosa, tempestosa ed esplosiva esige la massima cautela. Spero che le condizioni attuali mi permetteranno di osservare da vicino e
fotografare il fondo di questo spaventoso calderone, che è a pochi metri da me. Trame di lava, proiettate nell'aria, volano in continuazione e, il più delle volte, ricadono nell'aria cratere
seguendo una curva balistica. Osservo con attenzione alle proiezioni e alle ricadute delle bombe di lava. Proprio di fronte a me si erge un'altura alta 20 metri sulla parete del cratere. La lava raramente la raggiunge, così come i gas stessi per lo più evitatelo. Se presto attenzione alle bombe di lava, sarà un buon posto di osservazione.

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Mi copro naso e bocca con una striscia di garza per proteggermi dai
fumi. Dalla terra ardente emergono intorno a me fumarole soffocanti.
Percorro gli ultimi venti metri col battito nel cuore. Il soffocamento
dei suoni provocati dalla parete del cratere diventa sempre più debole
e il frastuono indescrivibile di questa forza sfrenata cresce in ogni
momento. Ancora tre passi, due... Il fischio e il rombo diventa così
terribile che mi teme afferrato davanti a questo abisso furioso. La
tensione mi fa scoppiare la testa. Sono pronto a saltare di lato in
qualsiasi momento e scappare da un'esplosione particolarmente
violenta. Mi appoggio verso terra. Ma, ancora una volta la mia
curiosità trionfa sull’ansia. Alzo la testa sopra il cornicione...
Assordato dal frastuono, contemplo il fondo del cratere dello
Stromboli.

Cinquanta metri sotto di me, palpitante le viscere della terra. Ad
ogni esplosione, istintivamente ricado dietro il bordo del muro che,
in questo luogo, precipita ripidamente nelle profondità. Laggiù sullo
sfondo, in mezzo ai turbini di vapore, compaiono quattro coni neri
sputatori, arrivo a uno di loro vomita lava incandescente e
splendente, in un frastuono fragoroso. La lava vola nell'aria,
scaturisce da ogni parte, si diffonde come il sangue da un'enorme
ferita, scorre lungo le pareti, si blocca e si spegne. È costantemente
ricoperto di nuove masse, nuove ruscelli, di una nuova pioggia di
fresca lava. Credo di assistere all'ira di una bestia spaventosa che,
in un impeto di rabbia mostruosa, cerca di dilaniarsi, quando sta per
soffocare e lei dibattito senza fiato. Come mille locomotive ruggendo
e sibilando, il cono secondario sputa verso l'alto, a intervalli
regolari, teste di rocce incandescenti che gli sgorgano dalla gola,
ripido sotto di me c'è un enorme avvallamento: il cono principale di
esplosione, la cui apertura continua a soffiare nuvole di fumi
soffocanti. È qui che risuonano le detonazioni più forti e potenti,
assordanti. Proiezioni di lava attraversano i banchi di fumo, salgono
verso il cielo e ricadono a Terra. Resto a guardare. I dispositivi
sono pronti, ma non posso lavorare. Sono come paralizzato.

Le mie reazioni alle esplosioni sono istintive. riesco solo a
coprirmi, seguire la traiettoria delle bombe nel cielo, per ascoltare
e osservare il terrificante e magnifico sussulto della Terra.
All'improvviso capisco perché gli uomini del Medioevo credevano nel
diavolo e nell'inferno quando videro uno di questi vulcani, che la
loro immaginazione popolati da demoni di ogni tipo.

Forse passerà qualche minuto, forse mezz'ora prima sono riuscito a
concentrarmi sugli scatti. Dato che quest'anno non ho portato il
casco, uso lo zaino come scudo contro le proiezioni di lava. Le
eruzioni più forti sono intervallate da una serie quasi ininterrotte
di esplosioni più deboli e proiezioni di lava meno significative.
Tutto si svolge come se le fonti dell'esplosione fossero oltrepassate,
tempo di raccogliere le forze in vista del loro "accesso di furore”.
Di tanto in tanto, il vento disperde il gas per alcuni secondi e
scopre il fondo del cratere. È ora che faccia una fotografia.

Il grande cono che si trova proprio sotto di me improvvisamente smette
di esplodere e di fumare. Vedo, nella sua enorme apertura, un piccolo
mare rotondo, pieno di lava arancione ardente. Gli altri coni
d'eruzione riducono improvvisamente la loro attività e la calma si
impadronisce del vulcano. È quasi silenzioso. Questo momento di riposo
mi sembra tanto più inquietante dei brontolii. Al momento in seguito
il vulcano comincia a ruggire con la stessa fierezza e violenza di
prima. Dai coni neri in fondo alla gola, circondati da nuvole di
vapore bianco e grigio, sputa come un indemoniato lava rossa.

Seguo la traiettoria delle bombe di lava. Nessuno mi ha minacciato di
nuovo. La mia posizione è buona. È difficilmente, di tanto in tanto,
una pioggia di cenere o goccioline di lava, già raffreddate dalla loro
corsa nell'aria, riesce a raggiungermi. Lei cade formando piccole
particelle porose. Fotografo con applicazione. Mi sono già abituato a
questo inferno.

Presto sento un rumore assordante, un'enorme esplosione che mi getta
in ginocchio dietro il bordo della parete del cratere. La terra di
fronte a me è ricoperta da una pellicola incandescente. Dal piccolo
mare, si levò al cielo una rossa colonna di grandi particelle di lava.
Vola più in alto, sempre più in alto. Sento un grave pericolo. Tutta
la mia attenzione è focalizzata su un piccolo pezzo di cielo ronza
sopra la mia testa. Tengo con la mano destra il mio zaino, la mia
unica protezione.

A gambe divaricate, aspetto, con gli occhi socchiusi, infastidito
dalla polvere, e guardo la lava cadere dal cielo. Devo saltare di
lato o semplicemente restare lì al posto. Le bombe di lava si
precipitano. Mi trovo in mezzo a loro. Alcuni volano sopra io cado ai
miei piedi, altri cadono a destra, lasciato indietro. Sento il rumore
sordo delle cadute sul pendio fatiscente. Cadono alcune particelle su
di me. Li evito grazie allo zaino. Poi arriva una pioggia sottile di
particelle raffreddate, seguita da cenere vulcanica.

Alla fine, tutto finisce. È durato solo qualche interminabile secondo.
Un pezzetto di lava mi ha bruciato il collo. Cinquanta centimetri dal
mio piede, raffredda una spirale di lava delle dimensioni di un
piatto. Presto sento l'odore del tessuto bruciato. Solo ora me ne
accorgo del mio zaino, la mia protezione contro la lava ha preso
fuoco. Ho spento rapidamente le fiamme alimentate dal vento. Ma la
borsa presenta già un buco grande quanto il pugno.

Esplosioni simili, di straordinaria forza, si ripetono altre due
volte, per fotografarle entrambe nel momento in cui le fiamme erano
appena uscite dalla bocca del più grande dei crateri. Cambio posto più
volte sul mio scomodo osservatorio. Tutto il mio corpo mi fa male.
Noto sul mio orologio quanto il tempo passa incredibilmente
velocemente. Una gioia mi prende pensando a quello che sto facendo
vivendo. Mi trovo a contatto diretto con il vulcano, con questo
elemento terrificante e affascinante, respiro i fumi cadono pezzi di
lava su di me, la terra trema sotto i miei piedi e devo evitare bombe
vulcaniche. Ma sono qui. Io sento ed io penso e mi emoziono. Penso a
mia madre che è lontana, a casa, e che mi ha insegnato ad apprezzare
la bellezza della natura. Come sarebbe appassionata se anche lei
potesse vivere questo spettacolo! Sul lato opposto alla depressione
ovale del cratere, ci sono altre due aperture esplosive. Di tanto in
tanto sibilano come gigantesche caldaie e rilasciano lava. Ma non sono
attivi come i "miei" quattro coni.

Il sole tramonta a ovest. Devo cercarne un altro posto di osservazione
e staccarmi da questa contemplazione. Poco prima della mia partenza,
il cono vicino, ai miei piedi, muto fino ad allora, comincia a
sputare. Rumore è così potente che l'attività di questo cratere copre
gli altri. Le mie quattro bocche scintillano, ardono ed esplodono a
malapena, come se lasciassero la scena alla nuova fonte di
esplosione di giocare da sola.

Abbandono la mia posizione e ritorno nel luogo che sfugge alle
emanazioni vulcaniche. Che bello respirare di nuovo l'aria pura, la
fresca brezza marina! La passeggiata di oggi, la concentrazione
richiesta dal lavoro, la tensione nervosa esacerbata mi hanno sfinito.
Lentamente, faticosamente, ho risalito il pendio ghiaioso che porta
alla Cima. Lì il percorso diventa facile. Che sollievo dopo
l'estenuante scalata tra le ceneri! Faccio il giro del cratere. Voglio
sfruttare il tempo favorevole e la limpidezza della notte per scattare
foto notturne.

Per una comoda groppa arrivo al luogo da dove vorrei scattare le
fotografie. Ma sono scacciato dai gas che il vento soffia dal cratere.
Quindi vado oltre, fino alla cima del Torrione'. È l'osservatorio
ideale; c'è un vento fresco lì soffia costantemente. La terrazza del
cratere si estende fino ai miei piedi. Il sole rosso scuro scende nel
mare, di fronte rivedo i quattro coni i più furiosi, che continuano a
sputare. La notte cade presto. La lava disegna striature rosse e Torno
a fotografare. Uno splendido spettacolo si presenta ancora una volta
ai miei occhi.

Alla luce del giorno, ogni goccia di lava che attraversa l'aria
sembrava una pietra nera sul sfondo del cielo. Ora, nella notte che
cade, queste stesse goccioline lasciano striature gialle, arancioni
invecchiato o rosso. I pennacchi di fumo scompaiono nelle tenebre e
nelle parabole descritti dalle bombe vulcaniche sono sempre più
numerosi più luminoso. Fantastiche fontane di fuoco esplodono nel
cratere. in uno schianto infernale, tre gole rilasciano all'improvviso
getti di lava incandescente. Spesso due o tre bocche vicine si
uniscono a questo movimento subito dopo. Ho contato quella notte un
totale di dieci aperture eruttive nel cratere. Due esplodono quasi
sempre contemporaneamente e sparano simmetricamente esplosioni di
lava. UN potente cratere comincia a sputare con così tante
precipitazioni di una colata lavica di una dozzina metri si estende ai
suoi piedi come un gigantesco serpentolo di fuoco, sul retro decorato
con motivi sfumati in nero.

A volte suona uno dei quattro grandi crateri un'esplosione così forte
che mi prende la paura. IO mi convinco subito che intorno a me va
tutto bene, la terra non si è aperta da nessuna parte, quel pezzo
dell'isola non è buio. Credo che chiunque sia nell'immediata vicinanza
alle esplosioni vulcaniche ha avuto gli stessi sentimenti. Non puoi
mai stimare la forza della prossima eruzione. Mi sento sempre un
centesimo in ritardo indescrivibile quando mi allontano dal cratere
attivo, anche se mi sono abituato, passo anni, all’attività vulcanica.
Come tutti i vulcani, Stromboli ha conosciuto, nel corso della sua
storia, disastri devastanti. Non ce ne sono così tanti fino a trenta
tonnellate di grandi quarti di caduta massi sul piccolo borgo di
Ginostra. Ma, nonostante questo pericolo, gli uomini sono sempre
attratti e sedotti dai crateri dei vulcani. E tutto oggi, esperienze
fantastiche li premiano per aver superato la propria angoscia.

Fotografo di notte da più di quattro ore. Sento che la stanchezza mi
divora lentamente. Io vorrei dormire e ho un gran bisogno di bere. Non
ho interamente finito il lavoro. Poggio i dispositivi, mangio qualcosa
avidamente e bevo ciò che resta dell’acqua nella mia borraccia. I
quattro grandi crateri restano in silenzio per qualche minuto,
accontentandosi di una fiammata. Si riversano nella gigantesca
officina di Efesto onde incandescenti e sputi lingue di fuoco.

Lentamente torno indietro il sentiero mi accompagna la fiammata
luminosa del cratere sola in alto, come prima e come a origini, il
vulcano continua a rimbombare alle mie spalle.

 

 

DA UN NUMERO DEL NOTIZIARIO DELLE ISOLE EOLIE, GRAZIE ALLA BIBLIOTECA
COMUNALE DI LIPARI

A Marina Corta, all’ingresso della passerella che porta sulla Banchina, sono stati tolti i due piloni di cemento che erano stati piazzati quando la piazza venne sistemata.

Correva insistente la voce che sulle due basi sarebbero stati sistemati due mezzi busti raffiguranti personalità insigni del luogo.

Inaspettatamente, invece, alcuni giorni prima della festa del Patrono S. Bartolo, sono state costruite sulle basi “Due Grosse Palle…”

Noi non sappiamo a chi, personalmente, si deve questa decisione e se essa sia stata approvata dalla commissione edilizia.

E’ una decisione del Sindaco? Della Giunta? Del comitato per i festeggiamenti del Patrono?

Non sappiamo neppure che cosa vogliano significare le due grosse palle, certamente non suscettibili di ulteriore ingrossamento dato che sono costruite in cemento e, in attesa che ci venga chiarito il significato delle due palle, riportiamo alcune interpretazioni che ci
sono state comunicate.

Alcuni di quelli che hanno studiato e che la “sanno lunga” ritengono che le due palle vogliono indicare la “Universalità”, delle isole.

Qualche altro, e che forse non ha tanto studiato, ritiene che le due palle indichino lo stato fisico dei cittadini maschi del comune per lo immobilismo amministrativo.

Comunque noi, per dovere di cronaca, abbiamo riportato il fatto ed alcune opinioni e saremo lieti di pubblicare la precisazione sul significato delle palle, se ci verrà da fonte autorizzata, così come
pubblicheremo le opinioni dei lettori, se vorranno farcele avere.

 

Saint-John Perse Premio Nobel per la letteratura nel 1960, visitò le Isole Eolie nel 1967 con lo yacht “”aspara”” dal 13 al 31 luglio, compilando un diario del viaggio.

- 2 parte - Dopo il suo ritiro nel Mediterraneo, Saint-John Perse ha avuto l'opportunità, per cinque estati consecutive, di salire a bordo dello yacht del suo amico Raoul Malard – eccellente marinaio – per una crociera di alcune settimane. Nel 1967, l'ultima scappatella di Aspara salpa per le Isole Eolie, poi le isole del Golfo di Napoli (Capri, Ischia, Procida) e le Isole Pontine (Santo Stefano, Ventotene, Ponza, Palmarola, Zannone). Saint-John Perse annota su un taccuino ciò che attira la sua attenzione: linee di luce, giochi di colori, sapori (anche alcuni menu), flussi e fiamme di un vulcano, zampilli di un pesce spada, piante rare, donne al bagno, …

Poche righe tratte dal testo: Domenica 16 luglio risveglio a Panarea la più piccola delle isole Eolie, si osservano ancora dei fenomeni di origine vulcanica.

Alcuni ostelli con camere. Diverse culture di ulivi, cactées – oponces. La Roccia di Basiluzzo disabitata tranne nel periodo di raccolta di capperi.

Sveglia per l’oblò un pescatore offre un aragosta. Canto distante e debole di un gallo ruspante.

Marthe de Felse e Raoul tornano dalla messa mi raccontano storie di boutiques, negozio con prosciutto appeso profumi di gelsomino e di pesce secco, tra muri scottanti – tutti i frutti della terra: pesche gialle, come a casa.

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La messa officiata teatralmente da un sacerdote stravagante con ingresso e benedizione papale – la donna vestita di nero con scarpa nera sotto forma di zoccolo – bellissimi gesti delle contadine offrono cesti di uova – acquisto dei piccoli pesci e, per me, della Malvasia.

A bordo, offre un grande pesce come un tonno: un Palamida pesata con bilancia a leva e a catena. Un aliscafo che viene da Messina va in tutte le isole: con i suoi “sci”, che svettano sul mare piano, può fare 45 nodi battendo i mari cattivi.

L'Aspara è ancorata proprio davanti a San Pietro, ad est dell'isola. Si vede una vecchia cappella con campanile. Una grande goletta nera. Saint-John Perse aveva già detto della Roccia di Basiluzzo. Davanti a San Pietro si scorgono varie rocce, Dattilo, Panarelli, Bottaro, Lisca Nera e Lisca Bianca.

Le barche tirate sulle aspre rocce – case strette a un piano – circondate da canne. Voci di bambini nel vento. Case cubiche a un piano con pilastri in stile orientale avvolte con viti. Catena di isolotti rocciosi - di rocce grigio chiaro (colore cenere) che assumono tutte le sfumature nel corso delle ore.

Scavi eseguiti in località del Milazzese hanno trovato capanne di un villaggio preistorico. Saint-John Perse annota che la roccia di Basiluzzo era formata da materiali eruttivi vetrificati. Barche sul fianco, come navette (Queste barche possono certamente far pensare, in forma più piccola, alle navette che assicurano abitualmente il collegamento tra le isole...

Alcuni versi che egli dedicò alle nostre isole:

Salina. La grande isola metà cratere. Commovente generosità, amenità imperiosa "Grande Signora", dice M. Seno, fianco leggermente aperto, per metà. Largo anfiteatro, emiciclo. Circo tagliato in due (dov'è finita l'altra metà?) (bellezza delle due parti sezionate). (L'altra metà sembra essersi semplicemente capovolta nell'abisso delle acque) - Grande portamento, ampia effusione. Largo vassoio, ampio cesto d'offerta aperto al frutto dell'astro rosso già basso sull'acqua - La grande Spulatrice. Sul fondo del 1/2 cratere riempito d'una materia ricca e feconda, verdeggiante, un mucchio di case bianche.

Filicudi - Filicudi l'ultima - differente non per forma (conica) ma per sostanza e per rivestimento, per carattere e per tonalità - Umore affabile e dolce, vellutata - Fodera d'un oro rosa, fatta di... (cfr. Licheni della Solfatara) con dei punti d'erosione o di velluto da vecchia stoffa di chiesa (lampasso?) rosso vivo, vino rosso vino vomitato.

Nè il deserto dorato nè la cataratta catastrofica di passato vulcanico appaiono - Un'isola dalla dolcezza di grosso pulcino giallo Punteggiante un'isola ancora raschiata, ancora striata, ancora rigata coltura bassa a lunghe terrazze - Chi se n'è preoccupato il palafreniere? Nessuna agglomerazione sia pure sparpagliata, ma di quando in quando sui contrafforti o ancone, qualche capanna di contadini aratori (cultura di sussistenza?) Nessuna traccia visibile di vivente.

L'isola annunciata, onorata, proferita, proclamata in silenzio dal suo prodigioso araldo. L'alta stele di pietra tormentata, l'alto stile senza stilita (se non un gabbiano) - prodigioso incidente di una storia senza maestro: l'impronta ad altissima andatura posta sulla pagina delle acque - Una madonna con bambino, dice D. - Per me un alto frammento di scultura greca senza panneggiamento (clamide a pieghe): o una Vittoria di Samotracia che ha perduto le ali (strappate) e ha annerito d'un sangue antico - Scultura d'albero commovente come svuotata d'un prodigioso fibroma. (viscere strappate che lasciano il nero)

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l’Arcipelago del maggio 1983. STROMBOLI AGLI STROMBOLANI

DI PIETRO QUINZI

A distanza di ottanta anni, dalla prima volta che Stromboli tentò di rendersi autonoma dall'amministrazione Liparota, gli Strombolani nella loro totalità, frazione di Ginostra compresa, hanno firmato la petizione che dovrebbe portarli ad avere il loro Comune. Le difficoltàobiettive da superare non sono poche nè i tempi di attuazione brevi,
 ciò nonostante tutto lascia supporre che l'esito sarà positivo.

Al di là di queste considerazioni, quello che emerge per chi ha
vissuto in prima persona gli sviluppi del tessuto connettivo sociale
strombolano,

è e rimane che gli abitanti tutti dell'isola sono alla ricerca di una
loro precisa collocazione ed identità nell'ambito dell'arcipelago
eoliano.

Stromboli agli Strombolani. Non un grido di rivolta ma un'affermazione
di principio nella certezza che con l'autogestione Stromboli possa
rinascere e ritrovare nel suo seno, quello che dopo tanti anni di
clientelismo politico, assistenzialismo di tipo coloniale, stava
perdendo la dignità, il

rispetto, la partecipazione attiva in difesa dei suoi giusti diritti e delle

sue rivendicazioni sociali.

 

 

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L’Arcipelago del settembre ottobre 1984: STROMBOLI OGGI
 
di Aldo Cicala
 
La carenza a Stromboli dei più essenziali servizi sociali e di un rigoroso criterio di controllo e di rispetto dei prezzi nel campo delle prestazioni di lavoro o nelle gestioni commerciali al minuto

continua a mantenere una situazione pesante e un disagio economico, che, a lungo andare, può riflettersi negativamente sulle prospettive di sviluppo economico e turistico dell'Isola.

Non si cade in grossolani errori affermando che Stromboli appare oggi come la più sporca e la più trascurata delle Isole Eolie o che Stromboli presenta i prezzi più elevati, sia nelle prestazioni manuali di lavoro come nei generi alimentari. Ognuno mette i prezzi che vuole, sia che si tratti della pulizia di una cisterna o del trasporto di una valigia o dell'affitto di una camera in privato o della vendita di un barattolo di marmellata.

A prescindere da quei bigliettini di ricevuta emessi dai registratori di cassa nei negozi alimentari, esistono ben poche dimostrazioni firmate di somme riscosse e denunciate per prestazioni di lavoro.

Nessuno ha idea del reale movimento di denaro, delle effettive presenze negli Alberghi o nei locali privati in affitto.

Non ho mai capito in base a quali elementi gli Operatori Turistici riescano a ricavare a Stromboli i dati relativi all’affluenza turistica stagionale e a trarre considerazioni da un anno all'altro.
Forse sarebbe meglio fare riferimento alle infornate di pane: i risultati potrebbero essere più attendibili e rappresentativi.

Se questa situazione fa comodo ad alcuni, non è detto che faccia comodo a tutti coloro che amano ancora soggiorno strombolano.

Ritengo che nessuno sarebbe scontento di constatare una maggiore disciplina e un ordine più rigoroso in questa Isola, anche se ciò dovesse comportare la rinuncia a comode scappatole.

Gli Strombolani hanno firmato compatti per la istituzione di un Comune a Stromboli: è segno che sono fiduciosi di sapere amministrare da soli i propri interessi nel segno dell'onestà e del dovere e nella consapevolezza dei problemi che assillano l'Isola.

E' piuttosto difficile che Lipari, già gravata da grossi problemi in casa, possa curare efficacemente e costantemente i mali che affliggono Stromboli per non parlare di Alicudi o Filicudi o Vulcano o Panarea. Tra l'altro, dal dire al fare e di mezzo il mare!

D'altronde è un paradosso che un'isola come Salina sia sede di ben tre Comuni mentre Lipari, da sola, debba badare a tutte le altre Isole dell'Arcipelago.

Occorre riattivare i contatti per la pratica che prevede Stromboli come sede comunale.

I problemi di Stromboli sono seri e urgenti. Possiamo mettere in elenco i problemi riguardanti le concessioni edilizie, la pulizia delle strade e delle spiagge, il trasporto e lo smaltimento dei
rifiuti, la lotta contro la droga e contro i furti che si susseguono incalzanti, il controllo serio del movimento turistico e della ricettività alberghiera e in abitazioni private, la realizzazione di

una pista per elicotteri in missione di soccorso, il problema della scuola e degli Insegnanti pendolari, il rifornimento dell’acqua e la eliminazione delle manichette che trasformano le strade in fiumare, la disciplina dei prezzi; l’organizzazione del tempo libero e dei servizi sociali, le manifestazioni e le attrattive turistiche, l’intervento decisivo nei locali pubblici, che durante l’Estate disturbano la quiete notturna, la disciplina del traffico delle motorette e…chi più ne ha, più ne metta.

 
Questa estate 2023 ho avuto il piacere di incontrare a Lipari Benito Merlino e Signora, nell’occasione mi ha regalato, tra altri già precedenti libri, questa piccola « perla ».
Lo ringrazio di cuore anche per la cara dedica.
benito-merlino
 
Le gout de Capri
Un libricino, potremmo dire di piccolo formato ma di grandi contenuti.
Vi sono riportati piccoli stralci di articoli di testi di Grandi autori di vari periodi temporali che hanno per oggetto Le Isole.
Dall’immagine dell’indice si può capire la levatura di questi autori.
La parte finale è dedicata alle Eolie, anche per le nostre isole, stralci da testi di grandi autori/viaggiatori, alcuni dei quali io li possiedo.
 
« Alcuni luoghi terreni hanno un sapore di paradiso, Così le isole italiane "partenopee", nel Golfo di Napoli (Capri - "l'isola delle sirene" - Nisida, Procida, Vivara, Ischia) e, più a sud, "Le Eolie"
(Lipari, Stromboli, Salina, Pararea, Vulcano, Filicudi e Alicudi). La loro bellezza nascosnde sovente pericoli spesso molto reali. Ad eccezione di Capri tutte queste isole sono di origine vulcanica, soggette a terremoti ed eruzioni. Procida e Lipari furono anche luogo di esilio per lungo tempo: condannati o prigionieri comuni, antifascisti, l'Eden è diventato un inferno. Ma nonostante queste ombre, è il sapore della felicità che viene cercato qui per sempre da
scrittori, fotografi, o cineasti: sulle orme di un Ulisse errante, Alexandre Dumas, Axel Munthe, Henry James, Jean-Paul Sartre, Alberto Moravia, Elsa Morante, Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Nanni Moretti, e molti altri, saranno preziose guide.
 
Testi raccolti e presentati da Pascale Lismonde. »
Ed infine vi sono delle pagine proprio di Benito che ripercorre la storia delle Eolie, toccando importanti aspetti come la « pomice », il « confino politico » ecc. Ma anche le sue opere tra cui « Arpa Eoliana» : « L’Arpa eoliana è una storia costruita sulla storia di famiglia dell'autore. L'azione si svolge nella primavera del 1922, momento del ritorno di Gaetano a Lipari, l’isola della sua infanzia. Partito da bambino per Montevideo, ritorna con Irma, la donna che ama, ed entrambi riscoprono La vita isolana. Ma è anche l'ascesa del fascismo, che presto capovolgerà le loro vite. Una bellissima evocazione della storia italiana, e le sue ripercussioni nel vita di quest'isola, che farebbe da controparte a quella di Emilio Lussu.
 
Benito Merlino è nato in uno delle più piccole isole eoliane, a Filicudi. A Parigi si è fatto conoscere grazie al multitalento: cantautore nei cabaret della Rive Gauche ha inciso più di trenta
dischi; ha anche lavorato con Atahualpa Yupanqui o Lanza del Vasto; ha anche realizzato serie spettacoli televisivi, in particolare Les paladins de France, sull'arte dei burattini e testi tradotti per
ChrisTian Bourgois. »
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Un ricordo di una grandissima Anna Magnani. (foto con dedica a Jany Ristuccia)

La Stampa 2 febbraio 1950.

…Anna Magnani in Vulcano Nell'isola (Vulcano, quando si girava il film Vulcano, l pescatori che approdavano ogni mattina per rifornire la mensa dei cinematografisti chiedevano se si poteva vedere Maddalena.
Unn'è Maddalena? domandavano. Maddalena era il personaggio del film, e il personaggio aveva sopraffatto Anna, una signora bruna che era giunta da Roma con un cane lupo al guinzaglio. A Maddalena, nel film, il destino aveva Imposto quasi la stessa vicenda delle genti dell'arcipelago Eolio, la vicenda delle maree: partire e tornare dai continenti più lontani-, partire per vivere, tornare per morire. E nel perso- nere estetltco ed artistico, e cioè 11 suo sapere in un sol
tempo aderire all'ambiente In cui il dramma si svolge e alle esigenze di una Interpretazione destinata al pubblico di tutto U mondo. Vulcano nacque giorno per giorno, ora per ora, dalla Intesa artistica, veramente istintiva, fra Anna Magnani e Williami Dleterle…

L'operaio italiano quindicinale sindacale 16.10.1950.

La presentazione di Vulcano ai critici della stampa parigina ha dato luogo a diverse riprese a scroscianti applausi a « scena aperta ».
Alla fine della proiezione il pubblico si è levato in piedi e, rivolto alla galleria, dove si trovava la principale interprete del film, Anna Magnani, le ha tributate una calorosa manifestazione di simpatia. Se Anna Magnani può’ essere soddisfatta del suo successo…

Anna Magnani La biografia Di Matilde Hochkofler

“…….Anna arriva alle Eolie martedì 7 giugno. Partita la mattina presto da Milazzo, in Sicilia, con il piroscafo Rizzo, giunge a Lipari alle dieci. Indossa un tailleur a righe bianche e nere e ha i capelli coperti da un fazzoletto bianco e azzurro. Al suo arrivo l’accolgono il sindaco, il comandante della Capitaneria di porto, lo scenografo Mario Chiari e Renzo Avanzo. Le ragazze dell’isola le offrono mazzi di fiori. Sembra stanca per il lungo viaggio, ma si imbarca quasi subito
sulla motobarca Sant’Antonio insieme alla sarta Mimma Olivieri, alla cameriera e all’inseparabile Micia.”

Anna Magnani La biografia Di Matilde Hochkofler:

“”Alla fine delle riprese, il 26 luglio, si festeggia l’onomastico di Anna. Sono presenti il regista, tutti gli attori e molti marinai di Vulcano con le loro mogli. Al suono di un’orchestrina di fisarmoniche
e chitarre fatta venire da Lipari, apre le danze con il marinaio Capitti, padrone della barca a motore che appare di frequente nel film. Alla fine della serata, intono al falò degli addobbi, Anna
improvvisa un ballo accompagnata dal canto cadenzato dei marinai.
Qualche giorno dopo a Lipari si proietta L’onorevole Angelina, per cui ha appena vinto il Nastro d’argento. Riceve anche il premio della giuria al Festival internazionale di Bruxelles per Molti sogni per le strade. Prima di partire dona un milione di lire all’orfanotrofio del paese, dove vivono i figli dei marinai morti in mare””.

“”Alla vista di Vulcano si rianima. Per lei non rappresenta solo un luogo affascinante, ma il set del film che sta per cominciare e insieme l’ultimo avamposto contro Stromboli…

Anna abiterà nella villetta di un emigrato in America. E’ una costruzione semplice tra gigantesche ginestre in fiore e una grande terrazza, in cui viene accolta affettuosamente dalla troupe...””

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LA LIBERTA 15 settembre 1929.

La livida rappresaglia della polizia fascista. Quel che avvenne a Lipari dopo l’evasione. L’allarme

La assenza, dei tre evasi fu notata quasi subito. Circostanza d'altronde che gli interessati avevano previsto e scontata, ben sapendo che entro le 22 avrebbe avuto luogo la visita di controllo.
Lussu e Nitti abitavano nel centro del paese, in una casa che dava su un dedalo oscuro di viuzze; mentre Rosselli abitava una casetta di campagna,, al limite dell’abitato.

Appena la pattuglia di controllo della zona Lussu-Nitti ebbe accertala l’assenza dei due confinati, successe il finimondo. La pattuglia 'si precipitò à Marina Corta (piazza del paese, dove-la sera usavano sorbire la granite di rito le autorità) alla ricerca del direttore della colonia, cav. Cannata.

Ma il signor cavaliere non c’era quella sera. Era andato al. vicino porto della pomice, Canneto, a godersi, pieno di boria una festa popolare rallegrata dai fuochi d’artificio. Iì in piazza c’erano
invece il maresciallo Allò — uno dei peggiori arnesi della polizia italiana, sfottitore di confinati, giuocatore d’azzardo nella sede del fascio di Lipari —, vari brigadieri e agenti, pattuglie di militi, gli ufficiali della milizia e l’inevitabile signor pretore.

Balzarono tutti sulle seggiole tra un gran rumore di bicchieri e di cucchiai e via chi da una parte, chi da un’altra, mentre il brigadiere Cacciola, un'altro fiero cretino criminale sempre insuperabile nella piccola persecuzione lanciava fischi convenzionali in tutte le direzioni per richiamare le pattuglie di ronda.

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Si telefona a Canneto, si telefona a Pignataro, la vicinissima 'base dei motoscafi e del mas, si telefona
al semaforo, suona radunata generale dei militi al castello, si
lanciano i primi telegrammi.
Un motoscafo si precipita a prendere il signor direttore-a Canneto. I
confinati erano già rientrati alle loro abitazioni, ma la voce, già
diffusa per il paese, penetra dovunque. Alle finestre i confinati, per
le strade i liparioti. Domande e risposte si incrociavano, mentre le
prime squadre armate di militi cogli ufficiali in tenuta di
combattimento, maniche rimboccate, pistolone, frustino, girano in
lungo e in largo.
Dopo neppure un quarto d’ora, altra novità sensazionale. Manca
anche-Rosselli. Enorme stupefazione. Rosselli? Ma se era in giro in
paese, sino alle 21? Ma se lo ha incontrato il maresciallo mentre
tornava svelto svelto verso casa ? Ma se è un profesore, un marito, un
padre, un bougianen. Altro che' storie ! Rosselli non c’è, e non ci
sono neppure Nitti e Lussu. Il bilancio delle perdite è presto fatto,
attraverso una seconda visita di controllo.
Ci sono tutti meno tre. Ma perdio, questi tre proprio non dovevano scappare.
L’allarme fu completo verso le 22.30 in cui uscì la «flotta» del
Pignataro che si dette a trottolare intorno a Lipari, fermando e
visitando tutte le barche da pesca, esaminando attentamente le coste
dei dintorni. A completare il quadro, sorge un bel lunone giallo,
beffardo, sfottitore, che aiuta la sbirraglia a convincersi che i tre
evasi non ci sono, nè morti, nè vivi.
Arriva trafelato, furibondo, esaltato, i capelli ricciuti irti sul
leonino capo, Cannata. Dieci scagnozzi lo circondano. Corre in
direzione, telefona alla radio di segna-e intanto lo si avverte che la
radio è alle dipendenze della... marina ; occorre quindi il permesso
della marina. Bestemmie, berci, arrabbiature. Finalmente il permesso è
ottenuto. Nuove notizie intanto sono raccolte. Un pescatore, sospinto
a urtoni da parecchi agenti, viene proiettato come un
bolide nell'ufficio del direttore. Con voce rotta dall’emozione
racconta che sì, ha alle basi navali e alle stazioni idrovolanti la
probabile evasione. Il capo di porto comunica d’urgenza la rotta dei
navicelli partiti in giornata. Un, motoscafo li rincorre. Arriva
trafelato un agente e comunica che sulla banchina vicina a Mare Corta
(banchina fuori uso che' fu costruita per proteggere l’abitato contro
la furia del mare) è stata rinvenuta una giacca e un cappello. Cannata
corre sul posto, sentilo, ha visto un naviglio velocissimo
filar via verso Vulcano.
-— Che ora era ? — urla Cannata.
— Le nove — risponde il pescatore.li signor direttore balza in piedi,
ordina al mas l’inseguimento.
L’inseguimento
Il mas è bello, solido; lucente. Sembra
una mezza torpediniera. Ha mitragliatrice e cannoncino a bordo. Buoni
i motori, cospicua la riserva di carburante. Il mas può
attraversare anche due volte il Mediterraneo. Ma il mas è un po’
appesantito da quel po’ di. carico e solo a gran fatica arriva alle-
18 miglia. Al comando c’è un imberbe ufficiale" di complemento della
marina che il mare lo conosce solo per i bagni fatti in gioventù. (I
tre amici avevano spesso pensato alla faccia di costui quando avesse
dovuto partire per una così ardua impresa.) Già pochi giorni prima era
andato a rischio di sfasciare il mas, urtando contro una roccia
affiorante. Le carte, poverino, le legge male. A bordo c’è
però anche un vecchio maresciallo di marina. Marinai imberbi, quasi
fanciulli, appartengono anch’essi alla milizia. Sul collo bleu alla
marinaria portavano, per distinguersi dai marinai comuni, due bei
fasci littori. Sembra che ora glie li cambieranno in fiaschi. Per dire
la verità, nessuno a bordo, è troppo entusiasta di questo viaggio
improvviso. Il signor maresciallo aveva
finito allora un bel' pranzetto in buona compagnia e in compagnia
surfout con la buona Malvasia ; allora allora aveva allungato le
gambotte sotto il tavolo ospitale, mollando segretamente due bottoni
alla cintura. Quand’ecco che le lo prelevano, e lo scaraventano, a
bordo, e via. Almeno i motori non avessero funzionato. Macché, in
cinque minuti si parte. Ordino : ricuperare o vivi o morti i tre
criminali. Fermare anche canotti che battano bandiera straniera. Colpo
in bianco e poi colpo a palla se non si fermano. Il signor
sottotenente. di vascello è parecchio scocciato.
Già gli hanno raccontato che Lussu — quello della brigata Sassari — ha
un carattere un po’ ombroso. Sfacciato al punto da osare di
difendersi. E l’ha provato in altra occasione. Questa guerra in tempo
di pace non sorride all’ufficialetto. Via via nella notte. Sono già
due ore che il mas costeggia a un venti miglia la costa nord della
Sicilia. ecco finalmente un lume verde, poi un triangolo di luci. Una
nave. Si ordina l'alt col megafono. La nave, di nazionalità italiana,
si ferma. Sul ponte di comando appare il comandante, anch’egli col
megafono. Riconoscimenti. Domande ansiose. II
vecchio lupo di mare dichiara, sì, di aver scorto nella notte la scìa
di un battello velocissimo. « Ma è passato già da due ore.
Correva come un indemoniato. Quante miglia fate ? »
« Quindici normali. »
« Allora non li riprenderete più. Hanno almeno 60 miglia di vantaggio,
vi dico, una specie di siluro. Il tenentino e il maresciallo sì
guardano. Che si fa ? Si torna o non si torna?
Veramente gli ordini sono di frugare tutto il mare. Da Roma era
arrivato un radiotelegramma fulminante : « S. E. esige per
domattina l'arresto degli evasi. » Sì, S. E. può dire quel che vuole.
Ma intanto qui in mare, sotto la luna, a far la danza delle ondine, ci
siamo noi.
Dopo lutto, sussurra il maresciallo, la colpa, se son scappati non è
nostra. E non son neppure tre malfattori. • Tira e molla, molla e
tira, il mas fa dietro front e ricompare, all’alba. Si precipitano" al
pontile Cannata, Allò e tutta la compagnia. Interrogano con lo
sguardo.
« Filano verso l’ignoto. Ma chi li riprende più ? il capitano di una
nave che abbiamo incontrato dopo Capo Orlando ci ha dichiarato che
avevano 60 miglia di vantaggio e correvano il doppio di noi, come dei
pazzi. »
La sconfitta si delinea
Cannata è furibondo. Di nuovo alla radio. «Bè e questa radio funziona,
sì o no ?»
Il radiotecnico, con grande calma si sfila la cuffia e lascia cadere
lente le parole della condanna : « Nessuno risponde. Nè Trapani, nè
Messina, nè Cagliari. E’ sabato, saranno a spasso. »
-Cannata impreca. Già, è sabato, tutti a spasso. Quei porci, mica per
nulla hanno scelto il sabato.
Al mattino c’è aria di sconfitta tra gli sbirri, di vittoria tra i
prigionieri. I confinati sono tutti mattinieri, il 28 luglio.
Escono fuori con delle facce a punto interrogativo che è un piacere
vederli. Piccoli conciliaboli, strizzatine d’occhio, sorrisini
significativi. Indescrivibile il parlottare, l’almanaccare e lo
stupirsi di tutto il mondo. Tutti lieti, tutti fiduciosi, che almeno
questa volta la vada bene. Succeda poi quel che vuol succedere. Lieti
anche quasi tutti i liparesi. Il partito anti Saltalamacchia (il
podestà camorrista recente defenestrato), e quindi anti Cannata (amico
del podestà) esultante come di una Vittoria propria .
Il giornalaio, un avaraccio brontolone ex coatto, si dichiara a
quattr’occhi contentone ; non rimpiange neppure — dice — i cinque
giornali quotidiani di Rosselli.
Si fanno perquisizioni minuziosissime agli amici più intimi degli
evasi. Tra gli altri a Carlo Silvestri, a Ferruccio Parrì a Ermanno
Bartellini. Esito negativo. Specialmente ricercata-la corrispondenza
per vedere dì ricostruire i fili dell’imbroglio...
Ma è proprio ciò che lor signori non sapranno mai.
Alle 11 della domenica arrivò il vice-questore di Messina e un alto
ufficiale dei carabinieri, e preannunciarono l’arrivo dei
pezzi grossi. Cannata alle 11 faceva solo pena, ormai. Gli era sempre
andata bene per due anni, e ora che stava per raccogliere il frutto
delle sue fatiche di guardiano. ecco la grana, — ma che grana!, il
granone. — che comprometterà la sua' carriera. Disgrazie che capitano,
signor Cannata, a fare di quei mestieri. Vuol dire
che se sarà buono lo nomineranno a suo tempo controllore del dazio in
qualche città povera del meridione. Almeno si sarà
sicuri che il passaggio di frodo avverrà facilmente.
Ma torniamo al vice-questore.
Porlato sul luogo del misfatto, a neppure cento metri dal posto, non
voleva creder ai suoi occhi. «Di qui, di qui », signor
cavaliere, diceva un agente zelante. Si son gettali in acqua e poi....
«Ma allora sapevano nuotare...»
« Signorsì, Rosselli era un mezzo campione.» .
Silenzi. Impacci. Il superiore ha il viso scuro. Fa atto di andarsene
e lascia cadere al satellite le seguenti parole di commento : « Caro
Cannata, non mancava altro che li accompagnavate voi. »
Intanto le voci più varie e ridicole si diffondono. Due volte furono
fatti sbarcare in terra libera, una volta arrestare in alto mare,
un’altra annegare addirittura. Quando infine la vittoria si delineò si
cura, comparvero i soliti bene informati.
Dissero che Nitti in persona era venuto a salvare il nipote, che al
largo stazionava un idrovolante e chi più ne ha più ne metta.
I poliziotti rimasero malissimo. Squadravano tutti i confinati.
Cacciola, l’inarrivabile Cacciola — detto Javert — camminava
lentamente mogio mogio, sogguardando ogni tanto i tipi più pericolosi.
Ne fermava ogni tanto qualcuno per chiedere la libretta. Guardava poi
attentissimamente per lunghi minuti la libretta di rico-
scimento, e infine, dopo aver squadrato la vittima, glie la restituiva
con parco gesto, senza pronunciar parola.
Sfuggite lo persone, la polizia, come al
solito, si affannò contro le cose. Le camicie di Lussu e la«grandiosa
» guardaroba di Nitti furono sequestrate. La casetta di
Rosselli venne piantonata. IL povero cane, cieco da un occhio, che
saliva la scaletta all’ora dei pasti, fu mandato via a pedate.
Ecco che Cannata e il vicequestore si assidono davanti alla scrivania
di Rosselli e leggono tutto quello che Rosselli aveva stabilito che
leggessero. Nel terzo cassetto a
destra, ecco, ecco, delle Iettere buttate lì alla rinfusa ; sono in
inglese. Nessuno dei due sa l'inglese. Presto, un interprete. Arriva
un liparese, reduce dall'Australia, legge, malamente traduce.
.. «Caro signore, dice la prima lettera, io sono una inglese, vivo a
Birminhgam. Ho seguito sur Manchestey Guardian il vostro processo.
Sono, siamo pieni di ammirazione per lei e il signor Parri, in
Inghilterra. Avete agitò nobilmente, nello spirito di Cristo. .La
tirannia fascista non potrà resistere a lungo... »
« Basta, non interessa, interrompe il vice-questore. Ma l'australiano,
che di fascismo ne ha,piene le tasche, e soprattutto
muore - dalla curiosità, vorrebbe continuare... •
Sorveglia la scena un bel ritrattino, del bimbo di Rosselli. A quante
scene ha già dovuto assistere, inconsapevole. Ha conosciuto il babbo
attraverso le sbarre del parlatorio d’una prigione. E’ stato al
confino. Chi sa che meraviglia il giorno in cui sarà edotto delle sue
precoci esperienze di oppositore !
L’arresto di Fabbri
Solo ora ci è giunta notizia delle rappresaglie avvenute nell’isola.
Dimostrano una volta ancora la stupida, bestiale ferocia del regime.
La mattina successiva alla fuga, alle. 7, venne arrestalo Paolo
Fabbri.
Il crimine di Paolo Fabbri sarebbe stato quello di abitare vicino alla
famosa banchina di partenza. Un milite lo avrebbe accusato, non si sa
davvero di che, poi si sarebbe ritrattato. La sera della domenica 28
luglio, Fabbri venne passato alla prigione e denunciato. Arguiamo la
denuncia dal fatto che egli fu immediatamente interrogato dal pretore,
uria misera figura di imberbe, ignorante e vile, legato" a filo doppio
con la polizia e la milizia. Paolo Fabbri è del lutto innocente. Paolo
Fabbri non ebbe nulla a che vedere con l’evasione. Paolo Fabbri era
all’oscuro di tutto: Egli ha un solo crimine vero : quello di essere
amico dei tre evasi. La sciocca polizia pretende che egli dovesse
sapere.
Quasi che chi evade in circostanze cosi difficili non abbia come primo
strettissimo obbligo il silenzio più ermetico con chiunque non prende
parte all’impresa, fosse pure questo chiunque, l’amico più caro e
devoto. Ed è grottesco pensare che Fabbri volesse evadere dall’isola,
con tutti i rischi connessi all’evasione, quando sapeva di terminare
la pena tra pochi mesi
(aprile 1930). Fabbri ha moglie, un figlio.
Non si evade a pochi mesi dalla liberazione. Si evade quando si hanno
cinque anni da fare, come Lussu, Nitti, Rosselli.
Intanto Paolo Fabbri è dentro, funziona da ostaggio, da sentimentale
.strumento di ricatto, da sfogatoio della rabbia per la
beffa riuscita. Paolo Fabbri, per chi non lo sapesse, è uno degli eroi
di Molinella. Con Masserenti e Bentivoglio organizzò quella stupenda
epopea che è la resistenza dei lavoratori di Molinella. Contadino sino
a vent’anni, si trasformò in organizzatore, in guida, in maestro dei
suoi compagni di lavoro. Studiò, lavorò, combattè, Oggi ha
quarant’anni ed è uno dei più equilibrati, intelligenti, fieri
condottieri contadini che vanti l’Italia socialista.
Uno spirito giovane, elastico, pronto a tutto osare e tutto
affrontare, egli fa partedi quella corte di uomini nuovi che il regime
più ferocemente perseguita ; ma che,a costo di tutti i sacrifìci,
della vita fìnanco, salveranno l’Italia dalla abbiezione in cui è
caduta.
Noi siamo certi che anche in carcere, così ingiustamente perseguitato,
egli 'non si perderà di coraggio. Fu fiero al confino,
come nessun altro mai, oggetto di ammirazione da parte degli stessi
comunisti che vanamente lo corteggiavano. Sarà fiero anche in galera.
Questo organizzatore che si trasforma di punto in bianco al confino in
lavandaio, e con la forte e brava compagna affronta allegramente le
durezze della deportazione, è un esempio stupendo di coerenza e di
fede.

Tutti gli errori e tutte le colpe del passato si riscattano di fronte
a uomini simili. Un movimento che può produrre simili tipi di uomo è
un movimento che non può morire, è un movimento che quando che sia.
come che sia, è destinato a trionfare. Non per l’onore — che l’onore è
esule in carcere— ma per la « decenza» del nostro paese auguriamoci
che quest’uomo sia strappato dal carcere. Sia pupe per rientrare in
quell’altro carcere che è il confino.
Le rappresaglie contro i confinati.

In tutte le isole furono prese, dopo la fuga, straordinarie misure di
sicurezza. Sospesi i bagni, i permessi, moltiplicati gli appelli. A
Lipari poi è avvenuto l’incredibile, incredibile che sta tutto nel
motto « si chiude la stalla dopo che i buoi son scappati ». Arrivò di
fatto un ispettore generale della pubblica sicurezza inviato
personalmente dal «duce», per una inchiesta. Cannata fu fatto saltare
fulmineamente. Al suo posto è arrivato un brutto tipaccio di
commissario dalla ciera temporalesca, che promette nulla di buono per
l’avvenire. Ma il più grave si fu che l’ispettore generale ordinò
l’immediato sfratto in massa dei confinati alloggiati nel tratto del
paese posto a tergo della zona rocciosa da cui gli evasi sono partiti.
Cento famiglie almeno sono state così costrette a sloggiare dalla
mattina alla sera e a trasportare le loro misere tende altrove, a
prezzo di sacrifici d’ogni genere. Per l’appunto quel tratto di paese
era il più povero, un ammasso di grigie e sporche casupole ; vi
abitavano le famiglie più numerose, più povere, che non potevano
concedersi che una o due stanzette senza aria, senza luce,
a trenta-cinquanta lire al mese. Dove andranno quei poveretti ?
Intanto altri sfratti sono annunziati in altre zone. Non si potrebbe
immaginare crudeltà più stupida e grottesca, che mette centinaia di
persone letteralmente sul lastrico. Stupida, soprattuttto perchè la
zona rocciosa da cui i nostri sono evasi non comunica in guisa alcuna
con l’abitato retrostante, che strapianta da 30 m. di altezza sul
mare. Alle rocce gli evasi arrivarono a nuoto, e giunsero alla
banchina dal vicino porticciuolo di Mar Corta. Una sola guardia sulla
banchina sarebbe bastata a far dormire tranquilli tutti i Cannata
dell’universo.

Ma già, è noto, la polizia italiana è il ricettacolo di tutti gli
spostati e di tutti i bocciati. Al signor ispettore la misura presa
sarà sembrata geniale, mentre avrebbe dovuto capire che se un’altra
fuga avverrà, avverrà matematicamente con modalità del tutto diverse,
e soprattutto da un altro punto. Vuole proprio che glie ne diamo
sollecita la prova ?
Il generale Bencivenga trasferito a Ponza.....

 
Da un numero del notiziario delle isole eolie di anni fa, grazie alla biblioteca comunale di Lipari.

(tre immagini del passato del Santuario di Chiesa Vecchia ed immagine che raffigura Maria SS. della catena (Mongiuffi Melia). madonna con bambino incorniciata da motivi architettonici e cherubini. nella destra tiene la catena con la sinistra sostiene il bambino coronato).
Il pellegrinaggio alla Madonna della Catena per la mattina del giorno 8 settembre, veniva organizzato tra gruppi di famiglia con tre quattro settimane di anticipo. Tradizione che si tramanda da decine di anni e che, tuttavia, è sentita ed osservata dai Liparesi. 

MARIAS_1.JPG

Si partiva da casa la mattina verso le ore 3 e ci si erpicava lungo la mulattiera di S. Leonardo, poi dalla Nunziata, di Varisana, Castellaro, e si raggiungeva la pianura antistante la piccola chiesetta alle prime luci dell'alba, proprio in tempo per assistere alla celebrazione della prima Messa.
Era una fila di lampioni che si muoveva ed un mormorio continuo di recite delle preghiere, mentre i giovani si davano agli scherzi più impensati. Nella spianata della Chiesa ed ai bivi per Canneto ed Acquacalda ci si incontrava amici e conoscenti, stanchi, ma lieti della passeggiata fatta.

la chiesa della madonna della catena.JPG

Oggi una bellissima rotabile fa affluire sul posto incantevole, dalla vigilia alla sera della festa, un numero enorme di automezzi, i quali spesso fanno la spola.
Si ritorna alla tradizione e si prende l'occasione per una gita magnifica. Anche nelle belle giornate del corso dell'anno, lo spiazzo antistante la Chiesa è occupato da macchine di gitanti che si beano del panorama dello spiazzo di mare sottostante quasi a picco sotto la Chiesa e degli abitati dell'isola di Salina, che sembrano vicinissime.
Tutto è cambiato sul posto: la Chiesetta anche se esternamente non è stata modificata, ma solo pulita, all'interno è rimessa a nuovo le piccole navate comunicanti, il pavimento in
similmarmo...

La leggenda vuole, il parroco Bergellini parla di storia, che regnando
in Sicilia Martino 1, spesso della Regina d'Aragona, tre giovani erano
stati condannati alle forche.
Il giorno stabilito per l'esecuzione vennero condoti nella piazza
Marina di Palermo, ove era stato eretto il patibolo e la sentenza
doveva essere eseguita alla presenza di gran folla.
Ma mentre si preparavano i preliminari dell'esecuzione,
improvvisamente, il cielo si è coperto da densi nuvoloni ed una
scrosciante pioggia cominciò a cadere.
Tutti scapparono e persino coloro che erano addetti alla custodia e
che dovevano fare eseguire la sentenza abbandonarono la piazza e si
rifugiarono in Chiesa vicina.
La esecuzione, pel perdurare del temporale, venne rimandata, ma
vennero prese ulteriori precauzioni perchè i condannati non potessero
scappare.
Vennero aumentate le catene con le quali erano immobilizzati e
lasciati nella Chiesa per essere pronti il giorno successivo alla
esecuzione.
Durante la notte, quando i secondini si erano addormentati, gli
infelici condannati si trascinarono davanti al simulacro della Madonna
e fervidamente La pregarono perchè la loro innocenza venisse
proclamata.
Le catene si spezzarono, la porta del Sacro Tempio si è
misteriosamente aperta ed una voce proveniente dall'infinito
ripeteva........................
e tutto il popolo in fervorosa preghiera impetrò dal Re la grazia che
venne concessa in omaggio al miracolo della Madonna.
Alla Madonna della Catena accorrono oggi tutti gli Eoliani fiduciosi,
a chiedere le grazie per le loro famiglie.
D. Bargellini è fiero della sua missione ed è instancabile.
Non si accontenta di quanto già realizzato: ha in programma di
costruire accanto al piccolo tempio una grande sala da edibire a
convegni, ed ai trattenimenti nei numerosi matrimoni che si svolgono
ora lassù ed ha in programma di ampliare la piazza, insufficiente, nei
giorni di festa a contenere il numeroso pubblico.
Vuole essere aiutato da tutti in queste sue inziative: da quelli in
loco e all'estero; da tutti coloro che nutrono e professano le fede
per la Vergine SS.M.A della Catena.

 

Un piccolo stralcio di un testo del passato riferito alla Madonna
della Catena a Mongiuffi-Melia:
……La nostra strada seguì per lungo tratto quella fiumara salendo a
poco a poco fra belle piante di ulivi. Qua e là i mandorli
biondeggianti modificavano lo scenario. Più lontano, al piè di pareti
rocciose, scintillò improvvisamente una cascata d’acqua, ma l’acqua si
perdeva quasi subito tra i ciottoli della fiumara. Ora tutta la
vegetazione la componevano soltanto i cardi e i fichi d’india. Al di
là di una galleria riapparvero gli ulivi, ma contorti, sconquassati.
La strada si faceva anch’essa più selvaggia e più impervia. A ogni
incontro di vetture bisognava fare una serie di prudenti manovre.
Queste vetture che incontravamo o, meglio, che sorpassavamo, andavano
tutte, come noi, verso Mongiuffi-Melia : erano piccoli carretti pieni
di gente che cantava e suonava il mandolino.
La strada finisce a Melia, grazioso villaggio appollaiato a circa
quattrocento metri di altezza. Mongiuffi, un po’ più importante, ne è
separato da una piccola valle. Queste due località una volta facevano
parte della giurisdizione di Taormina, ma ne furono distaccate nel
diciassettesimo secolo per essere vendute, riunite insieme, come
marchesato. Si può os-servare a questo proposito che il numero di
titoli nobiliari istituiti ed elargiti da ben sette dinastie una dopo
l’altra non ha arricchito la Sicilia non dico di veri castelli ma
neppure di una grande villa signorile. La nobiltà siciliana non ha
avuto i mezzi di farne costruire e si è contentata dei suoi palazzi
nelle città. Ecco perché i marchesi di Mongiuffi-Melia, la cui razza
si è spenta presto, non hanno fatto nulla per ingentilire il feudo che
conferiva loro il titolo nobiliare.
Melia era tutta ornata di bandiere in occasione della festa, di
bandiere che avevano nel mezzo un pezzetto di stoffa bianca che
nascondeva la corona sabauda. Le vie sembravano spazzate proprio
allora per i partecipanti al pellegrinaggio. Le finestre erano adorne
di gerani, di garofani, di rose canine, senza contare l’immancabile
vaso di basilico che, sulle finestre siciliane, fa da scacciazanzare.
Le case si stringono l’una all’altra sui due pendii a dorso d’asino.
Quando si guarda il villaggio dall’alto, si direbbe che i suoi tetti
coperti di borraccina si piegano come i due spioventi di un unico
grande tetto di cui il campanile fa da camino.
Il sentiero che porta alla chiesa della Madonna è molto scosceso ma è
abbellito da macigni color viola, da querce, da castagni, da noci, da
felci. Guardando verso Melia si scorge lontano il mare stendersi al
piè delle montagne. Il sole tramontava quando, dopo tre quarti d’ora
di salita, scoprii il santuario, che pareva eretto nell’incavo dì una
conchiglia. Le sue mura bianche dominavano un ruscello fiancheggiato
da pioppi e da platani; intorno, una moltitudine di gente in abiti
sgargianti; echeggiavano le note squillanti di una banda. La discesa,
da quella parte, era anche più scoscesa di quanto lo era stata la
salita; e i giovani si precipitavano giù correndo come pazzi.
La chiesa sembra un granaio; è vero però che si è in procinto di
costruirne una nuova proprio lì accanto. Presso il cancello del coro,
davanti a un rozzo altare, la Madonna è esposta sotto un baldacchino
ed è circondata da candele. Una catena, dalla quale ha tratto la sua
denominazione, la lega al Bambino Gesù che essa tiene fra le braccia.
È forse un ricordo degli antichi Greci che tenevano incatenata la
Vittoria nel suo tempio sull’Acropoli di Atene? A Napoli c’è una
Madonna pur essa chiamata della Catena,
perché «spezzava le catene dei prigionieri»; un’altra, a Palermo,
perché « custodiva la catena del porto ».
Se il culto di questi montanari per la loro Madonna della Catena si
perde nella notte dei secoli, la statua di legno, verniciata a colori
chiassosi, è assai recente. I gioielli appesi come ex-voto sono
modesti, le oblazioni misere. Si vede che essa vuoi richiamare su di
sé soltanto F attenzione della povera gente. E, certo, non sembrano
molto ricchi quelli che in onore di essa portano lo strano nome di
Catena e Cateno: questi nomi di battesimo ci richiamano alla mente il
calendario di Fabre d’Englantine piuttosto che quello della chiesa
romana.
Nell'interno della chiesa quasi tutti parlavano. Il curato, seduto su
una poltrona accanto alla statua, sgranava il rosario. L’omaggio dei
pellegrini consiste nell’inviare tre baci: o, più esattamente, si posa
sulla statua, tre volte di seguito, la punta delle dita
precedentemente baciate. Fatto ciò, si guarda per un istante la
Madonna e si va via. Le uniche persone che restano lì sono quelle che
hanno fatto voto di tenere, finché non è tutta consumata, la candela
accesa. Esse si siedono in terra e chiacchierano dando via via
un’occhiata al consumarsi, della candela. Più scaltri, i ragazzi la
candela la tengono piegata per affrettare la combustione.
Un uomo, diede prova di sentimento religioso più profondo: si trascinò
in ginocchio dalla porta fino alla statua. Richiamava alla mente il
tempo in cui, secondo l’antica usanza di questo pellegrinaggio, certi
esaltati leccavano le lastre di pietra della chiesa. E c’erano, a quei
tempi, anche i flagellanti che guarnivano di spille l’estremità di una
canna per lacerarsi il petto nudo.
Fuori, la folla si accalcava, anche più disordinatamente che in
chiesa, davanti ai banchi che esponevano aperta dolciumi, bibite
fresche, gingilli. Alcune locande mettevano in mostra le loro tovaglie
immacolate sotto tetti di frasche. E tutto spirava quella semplicità
che è l’incanto delle feste siciliane, nelle quali basta un nulla a
suscitar 'la gioia: il piacere di trovarsi là, di star gomito a gomito
con i propri compaesani e aspettare i fuochi artificiali. Certo, il
posto è stato scelto bene, quella piccola valle è la più graziosa del
mondo; il ruscello scorre fra le rocce stupende; una fonte zampilla
non lontano dalla chiesa, la fonte che in tutti i tempi è stata
all’origine di tutti i santuari.
La notte cadeva a poco a poco. Nelle locande già si accendevano le
lampade ad acetilene. I fuochi per cuocere le vivande accesi sul suolo
facevano pensare ai banchetti degli eroi greci. Fra poco non sarebbero
rimasti a dare un po’ di luce a quella innumerevole folla che quei
fuochi e quelle lampade. Si sente a un tratto il suono di una piccola
campana subito soffocato da un fragore di bombe ripetuto dagli echi: è
il segnale della processione.
Ecco che essa esce lentamente dalla chiesa. Due ragazzi la precedono
suonando il tamburo; poi, le figlie di Maria in abito scuro, con lo
scapolare e un velo bianco sui capelli: fra esse c’è una premiata per
le sue virtù ed ha in capo una corona di rose artificiali. La folla
marcia, stretti gli uni dietro gli altri. Alcuni giovani portano gli
stendardi delle confraternite. Il curato, in cotta, e due preti e tre
carabinieri completano il corteo. Davanti alla statua della Madonna,
un po’ in alto, è posto un cuscino in cui si appuntano con uno spillo
i. biglietti di banca. Dietro, vengono i bandisti. Sebbene suonino a
memoria, gli si illuminano le partiture con lampade. Sulla grancassa,
una scritta su una bandierina fa sapere a tutti che la banda è di
Gallodoro, villaggio vicino, che, al pari di Mongiuffi-Melia, fu un
marchesato effimero.
Il passaggio del ruscello è il momento in cui bisogna non essere
assenti. Il bagliore delle candele che rischiarano i macigni e i
tronchi d’albero, i salti di pietra in pietra delle figlie di Maria
per passare il ruscello, la statua traballante che avanza al disopra
dell’acqua, tutto ciò, nella penombra in cui ondeggiano i fumi e
l’odore delle vivande, compone un curioso quadro.
Più oltre, la Madonna si fermò per lo spettacolo pirotecnico. Esso era
assai modesto, ma alcuni grandi improvvisi baleni gli fecero da
inatteso accompagnamento. Scoppiò un temporale. La processione e la
Madonna rientrarono di corsa in chiesa. Un vero diluvio inondò i
fuochi, le vivande, le frasche delle locande. I giovanotti e le
ragazze parevano stizziti. La Madonna aveva giocato loro un brutto
tiro: l’erba sarebbe stata impraticabile per quelli che volevano
spassarsela. Sarebbero nati quell’anno meno Cateni e meno Catene.

 
 

Due piccoli articoli del 1975 e 1978 sulla SOCIETA’ MUTUO SOCCORSO ISOLE EOLIE, in Australia con sede a Melbourne.

Grazie alla Biblioteca Comunale di Lipari dal notiziario delle isole Eolie del dicembre 1975.

MEZZO SECOLO DI VITA DELLA SOCIETA’ MUTUO SOCCORSO ISOLE EOLIE.

Gli Eoliani vantano in Australia, ed a Melbourne in particolare, una delle più antiche e delle più numerose collettività di emigranti italiani. Si calcola che furono più di un migliaio gli Eoliani che si stabilirono sul continente australiano fra il 1860 e il 1890, ed alcuni dei vecchi emigranti giunti in questo paese prima della fine del secolo scorso sono ancora in vita.

eolian hall.JPG

Attualmente, fra emigranti e oriundi, vivono in Australia circa trentamila eolo-australiani, il più numeroso gruppo dei quali e
concentrato a Melbourne, dove, per moltissimi decenni, gli Eoliani hanno detenuto il monopolio del commercio di frutta ed ortaggi, e dove alcuni Eoliani hanno raggiunto posizioni di eminente prestigio in vari settori della vita australiana. In tempi più recenti il campo delle attività degli Eoliani si è notevolmente allargato, tanto che ora rappresentanti eoliani operano nei vari campi professionali, commerciali, dell’industria, sia con mansioni direttive che come professionisti, e come operai specializzati o come commercianti indipendenti.

Gli eoliani di Melbourne hanno anche una delle più vecchie e fiorenti associazioni italiane d’Australia, la “Società Mutuo Soccorso Isole Eolie” (S.M.S.I.E.), fondata a Melbourne il 2 agosto 1925 dai signori Stefano Tesoriero, Giuseppe Tesoriero e Bartolo Di Mattina, tutti e tre di origine eoliana.

Gli scopi originari dell’associazione, rimasti immutati fino ad oggi, sono il mutuo aiuto morale e materiale fra i suoi soci, e il
mantenimento dei legami affettivi e delle tradizioni con le Isole Eolie, e, inoltre, la preservazione della devozione all’Apostolo San Bartolomeo, illustre Santo Patrono delle Isole.

1939 e 1934.JPG

La confortevole sede sociale della S.M.S.I.E. è ormai diventata parte
integrante della vita sociale degli Eoliani di Melbourne, che
intervengono numerosi alle varie feste e riunioni “in famiglia” del
martedì sera e del sabato. Quest’anno ricorre il cinquantesimo
anniversario della fondazione della Società. La ricorrenza è stata
celebrata con tutta una serie di festeggiamenti.

Il 2 agosto 1975 è stata scoperta una lapide commemorativa murata
nella facciata di Eolian Hall per sigillare così il primo mezzo secolo
di vita di una delle più benemerite associazioni italiane d’Australia.

Nella Lo Schiavo.

_________________________________________________________

L’Associazione “Isole Eolie” di Sydney

Nutrito il programma di attività per il 1978 dell’Associazione Isole
Eolie con sede in Sydney ed il cui Presidente è Nini Portelli, un
nipote di Mezzapica di Canneto, che negli anni 1950 - 51 giocava nella
squadra locale di calcio e che molti paesani ricorderanno.

Il Comitato direttivo dell’Associazione è formato dal vicepresidente
John Ferlazzo, dal Iunior President Lorenzo Picone, dal Tesoriere
Rosario Maniaci, dal segretario John Merlino, da Sergio Costa,
Josephine Di Losa, Frances Merenda, Antonio Maniaci, Giovanni Calcagno
e Franco Portelli. Possono essere soci dell’Associazione gli oriundi
eoliani e i loro discendenti, sia in linea maschile che femminile
(questa è una novità apportata recentemente con un emendamento alla
Costituzione dell’Associazione).

Per il 78 sono state organizzate numerose feste: Miss Panarea e Miss
Stromboli sono state lette il 27 maggio scorso, Miss Filicudi e Miss
Alicudi il 7 luglio. Miss Vulcano e Miss Salina verranno elette in
occasione dei festeggiamenti del 9 settembre e del 14 ottobre. Infine
a dicembre nell’annuale ballo di fine anno verrà eletta Miss Eolie e
Miss Charity……

L’Associazione inoltre opera una serie di attività sportive di calcio,
tennis, ping-pong e nautica da diporto. Il numero del segretario John
Merlino per chi ne fosse interessato…………..Sydney.

Come ci viene attestato dal Presidente Ninì Portelli, il notiziario
costituisce un memorabile collegamento diretto per questi nostri
concittadini emigrati in Australia, nei cui cuori rimane radicato
l’amore per la propria terra d’origine, anche nel nuovo mondo.

Mostriamo anche due foto unite di due articoli di giornali australiani
del 1934 e del 1939 che riguardano, invece, Il Circolo Isole Eolie di
Sidney.

 
 

L'Italia Francescana nov dic 1974 Madre Florenzia Profilio Fondatrice delle Suore Francescane di Lipari

(1873 -1956) AGOSTINO LO GASCIO

“…..Un piccolo strumento nelle mani della Provvidenza, perchè avesse di san Francesco la grandezza delle opere, della santità e deli apostolato».

Con queste espressioni convinte, esaltanti, il compianto cardinale Nicola Canali, il 20 giugno 1950 siglava la vita di questa umile quanto forte suora francescana.

Nel primo centenario della sua nascita rievochiamo I tratti salienti della sua testimonianza al servizio della Chiesa.

Nata a Pirrera di Lipari il 30 dicembre 1873, Giovanna Profilio fu la quarta tra nove figli dei coniugi Giuseppe Profilio e Nunziata Marchese, Qualche casetta con appezzamento di terreno costituiva il patrimonio di quella numerosa famiglia* che dal lavoro dei campi e dai saltuario com­mercio del vino traeva il necessario sostentamento.

Ambiente timorato. In quell’ambiente timorato di Di, Giovanna si senti vocata alla vita claustrale, ma le condizioni economiche, divenute precarie per la lunga malattia del capo famiglia, non consentirono la realizzazione del suo desi­derio. E quando il 27 dicembre 1895 moriva Giuseppe Profilio, alla vedova fu suggerita la via…. d'obbligo: l’emigrazione verso la favolosa….America del Nord. Nel marzo 1896 mamma Nunziata e figli lasciavano Lipari per New York; soltanto il dodicenne figlio Antonino rimase nell’isola, perché già seminarista.

In quella terra nuova, la signorina Giovanna Profilio potè realizzare il suo sogno: ivi avvenne l'incontro storico con l'ideale francescano, ma mediante una fuga. Mamma Nunziata e con lei i figli non volevano assolutamente che Giovanna si facesse suora, proprio là, in America: erano andati a New York per lavorare, per «guadagnare denaro...! Che forse la famiglia Profilio poteva fare a meno della collaborazione di Giovanna? C'era il debito contratto con dei parenti per le spese di espatrio!

Ma Giovanna, ormai venticinquenne, non intese arrendersi dinanzi a quelle sbarre abbassate, e decise di superarle, fuggendo dalla famiglia per recarsi alla Casa di noviziato delle Suore terziarie Francescane di Allegany. In un posto visibile aveva lasciato un biglietto, che potremmo chiamare la sua dichiarazione ili guerra: «Non mi cercate: vado a farmi suora. Giovanna”. Era il 22 gennaio 1898; da quel giorno la giovane passerà alla storia col nome di suor Florenzia Profilio.

mix madre florenzia.JPG

Vani furono i tentativi della inanima per riportarla in famiglia. In
un clima di contrasti e di prove di vario genere era maturata la sua
voca­zione: non vuole essere privata della gioia di servire Iddio nel
chiostro.

Terminato Tanno del noviziato, emise i voti temporanei e fu designata
alla Casa di New York, e poi nel 1902, per disposizione del
Commissario Provinciale dei Frati Minori, da cui dipendeva la
Congregazione, fu tra­sferita a Pittsburgh, ove si intendeva
istituire una Congregazione dedita all’apostolato degl'immigrati
italiani. Per varie circostanze quell’esperi- mento fallì, certamente
non per colpa di suor Florenzia cui era stata data la delicata
mansione di formare quelle postulanti; con provvedimento del Delegato
apostolico, Mons. Diomede Falconio, nel dicembre del 1904 fu disciolta
quell’incipiente Congregazione.

Intanto nel 1904, dopo otto anni di residenza negli Stati Uniti
d’Ame­rica, la famiglia Profilio per la cagionevole salute della
mamma, decise di rimpatriare, lasciando in America suor Florenzia, cui
si promise che sarebbe stato fatto tutto affinché anch’essa, in futuro
tornasse a Lipari, ove da qualche tempo, come aveva fatto sapere il
fratello chierico don Antonino, negli ambienti della Curia vescovile
si progettava l'istituzione di una Congregazione religiosa femminile.

Giovanna, che durante quel tempo che era vissuta a Pittsburgh non
aveva rinnovato i voti temporanei, a motivo del fallimento palese di
quel tentativo di apostolato a favore degl'immigrati, non volle
rientrare tra le suore di Allegany cui fecero ritorno le sue
consorelle, e attese di essere chiamata a Lipari, per realizzare
quanto le avevano fatto intravedere.

Un progetto da realizzare

Infatti, quando mamma Nunziata fu a Lipari parlò con Mons. Fran­cesco
Raiti, vescovo della diocesi, evidenziando la possibilità che la
figlia suor Florenzia avrebbe collaborato per la realizzazione della
progettata istituzione,

Mons. Raiti, vagliati gli aspetti della proposta, scrisse a Mons.
Diome­de Falconio, delegalo apostolico a 'Washington, per facilitare
il rimpatrio della religiosa, sebbene questa non fosse, legata da
alcun vincolo di voti.

Nel febbraio del 1905, infratti, suor Florenzia giunse a Lipari. Dopo
vicende e contrasti anche a livello familiare (mamma Nunziata, avuta
la figlia in casa, non intendeva che continuasse la vita consacrata
all’ideale religioso), suor Florenzia ferma nel suo ideale, piegò la
volontà dei suoi familiari affinché desistessero dall’impedirle di
attuare quanto le avevano fatto intravedere, e per tanto le dessero
quegli aiuti promessi per dare inizio alla novella Congregazione,
sotto gli auspici del vescovo della diocesi.

Espletate le formalità canoniche, il 1° novembre 1905, mons. Raiti
approvava le ”Costituzioni” della novella Congregazione e benediceva
la Casa religiosa di cui suor Florenzia era fondatrice e superiora. In
quella circostanza tenne il discorso ufficiale don Angelo Paino, il
futuro e im­mortale arcivescovo di Messina, anch’egli eoliano.

Secondo le suddette "Costituzioni'' (erano le medesime di quelle
adottate dalle Suore Francescane di Allegany, ove' suor Florenzia era
vissu­ta alcuni anni), l’Istituto delle Suore francescane
dell’Immacolata Con­cezione di Lipari ha un fine generale cui deve
tendere: la santificazione attraverso l'osservanza, in perfetta vita
di comunità, dei tre voti semplici di obbedienza, castità e povertà.
Il fine particolare consiste nell’educazione delle fanciulle negli
orfanotrofi e nelle scuole, nell’assistenza agl’infermi negli
ospedali, nella collaborazione all’insegnamento del catechismo, nelle
opere sociali ed assistenziali nell’ambito parrocchiale.

Non si dimentichi, però, che ogni realizzazione degna della storia non
può andare esente da lotte, contrasti a volte inspiegabili.
L’Osservatore Romano (1° ottobre 1966), scrisse per l'Istituto di
Madre Florenzia: «Madre Florenzia iniziò il suo lavoro con una idea
vaga e imprecisa. Le dissero di raccogliere delle ragazze che, come
lei, desideravano donarsi al Signore, e con semplicità accettò,
andando incontro, com’era inevitabile, ad insuccessi, defezioni e
amarissime incomprensioni e persino proibizioni anche da parte di
superiori ecclesiastici».

Suor Florenzia e il suo Istituto accettarono quelle dure prove, che,
lette in chiave cristiana, erano, senza' dubbio, segni validi per il
collaudo e il successo delle loro fatiche.

L’atteggiamento ostile di Mons. Salvatore Ballo Guercio,
amministratore apostolico di Lipari dal 1921 al 1928, segnò l’inizio
provvidenziale di una nuova vita per l’Istituto di Madre Florenzia.
Numerose cominciarono ad affluire le vocazioni, per cui fu possibile
aprire parecchie Case, a: Acireale, Petralia Sottana, Cangi Linera,
Alimena, Catania, Adrano, Can­neto di Lipari, Bompietro, Palermo,
Giarratana, Noto, Pettineo, Gagliano Castelfranco, Rosarno Calabro, e
«vanti... sino alla Casa Generalizia a Monte Mario, Via delle
Benedettine 34, Roma!

Mentre l’Istituto si diffonde, la Fondatrice ha di mira la meta
desi­derata: l'approvazione dell’Istituto da parte della S. Sede. Il
Pontefice Pio XII.

accogliendo le preghiere della Fondatrice, dopo aver sentito il
parere favorevole della S. Congregazione dei Religiosi cui erano
giunte le «Lettere Testimoniali» degli eccellentissimi vescovi nelle
cui diocesi lavoravamo le Suore di Madre Florenzia, il 25 aprile 1949,
approvava le “Costituzioni” dell'Istituto, per un settennio ad
esperimento, e successi­vamente, il 7 marzo 1958, concedeva
l’approvazione definitiva per cui l’Opera di Madre Florenzia
acquistava un posto ufficiale nella santa Chiesa.

L’apostolato missionario

Quantunque l'Istituto delle Suore francescane dell'Immacolata
Concezione di Lipari non abbia per oggetto primario l’apostolato in
terra di missione, sarebbe assurdo pensare che non ambisse l'onore di
lavorare oltre i confini della patria.

E nel luglio del 1953, per iniziativa del cappuccino p. Odorico da
Resultano, quattro di quelle suore giungevano a Jatai, nello Stato di
Goias, nel Brasile, ove si occuparono del servizio agli ammalati in
quell'Ospedale, della formazione spirituale di ragazze e in opere di
beneficenza. In seguito furono inviate altre suore, da allora svolgono
la loro missione a Cravinhos, a Mogi Guacu, a San Sebastiano do
Paraiso,

Nello stesso tempo altre Case furono aperte in Italia: a Giarre, a
Castagnolino (BO), a Piombino, ad Imperia, a Messina...

Intanto il tempo si era accumulato su Madre Florenzia: contava 82 anni
quando scriveva negli «Appunti autobiografici»: «La mia vita l'ho
passata quasi sempre sofferente, quando di più, quando un po’ meno;
dolori sciatici, reumatismo, male di fegato, bronchite; tutte queste
compa­gne fedeli mandatemi da Dio». (Ivi, pag. 10)

E dalle ore 21 del 21 febbraio 1956, Madre Florenzia Profilio non
appartiene più alla terra! Riposa nella Cappella dell'Istituto da lei
fon­dato, a Roma, vegliata dalle sue Suore che, fedeli alfe direttive
della Chiesa e sulla scia degl’insegnamenti della Fondatrice,
continuano, con sempre rinnovato vigore, l’apostolato voluto dal tempo
postconciliare.

Lipari può vantare nella sua storia di aver dato i natali ad una
Fon­datrice di un Istituto religioso, non solo, ma di esserne stata la
culla.

La vita esemplare delle Suore e il loro zelo per il bene delle anime
meritano ogni elogio e la diffusione vocazionale per una testimonianza
cristiana sulle orme del Poverello di Assisi, in questo tempo aperto
alla ricerca disvalori costruttivi nelle vie dello spirito.

E’ in preparazione una dettagliata bibliografia della Madre Florenzia,
condotta rigidamente su documenti autentici e testimonianze di prima
mano. E ancora vivente il fratello della Fondatrice, il novantenne
Mons. Antonino Profilio.

Quanti la leggeranno avranno la possibilità di conoscere le dimensioni
dell'Opera di Madre Florenzia e, soprattutto, le innumerevoli
difficoltà di vario livello, a volte sconcertanti, inspiegabili,
accettate in ispirito di carità da questa forte quanto semplice figlia
eoliana.

 

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San Bartolomeo. Alcune immagini tratte dal giornale L’Arcipelago del luglio-agosto 1984 e due piccole note da un numero del Notiziario delle Isole Eolie di anni fa. Grazie alla biblioteca comunale di Lipari.

A queste aggiungiamo un testo tratto da “L'APOSTOLO S. BARTOLOMEO 1952 SCRITTO DALL'ALLORA VESCOVO DI LIPARI BERNARDINO SALVATORE RE”.

CANTI POPOLARI DEDICATI A S. BARTOLOMEO

L'occasione dei festeggiamenti per il XVII Centenario dell‘arrivo delle reliquie del nostro Patrono S. BARTOLOMEO mi richiama al dovere di far pubblicare i canti popolari dedicati al Santo

U RUSARIU

I SAN VARTULUMIA :

Oggi e sempi sia lodatu

San Vartulumia nostru abbucatu

E adoriamulu cu firvuri .

A San Vartulu prutitturi

AI Gloria:

Santu Vartulu gluriusu

Gran custodi i sta cità

Lu putiri è purtintusu

Chi pi nui Iddiu vi dà

Fustivu certu un ranni santu

Chi sirvistivu a Gesù

Chistu cori tuttu quantu

Cunfirmatilu cu vu

Misiricordia di nu

Oh gran santu e sempi cchiù.

Ing. Angelo La Rosa.

.

La statua di S. Bartolomeo

Erge solenne il capo sulle folle,

modellato in argento, ardito e fiero

mentre il coltello acuto al cielo estolle

quasi con ardimento di guerriero.

L’occhio profondo gira sulle folle

Cosciente di quei figli, che al primiero

Cristiano vigor, di vita molle

Batter preferiscono il sentiero

Bello non sei, ma Lipari ti ama

perché al fulgor delle Tue fattezze

preferisce il rumor della Tua fama.

E guarda te ne l’infinite altezze

Da questa valle inaridita e grama

A aiuto attende dalle Tue Prodezze.

Bernardino Sal.Re Vescovo.

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Da: L'APOSTOLO S. BARTOLOMEO 1952 SCRITTO DALL'ALLORA VESCOVO DI LIPARI BERNARDINO SALVATORE RE.

S. BARTOLOMEO A LIPARI
L'arrivo del corpo del Santo Patrono a Lipari ci viene tramandato da un racconto che ha ombre di leggenda. Comunque è certo che questa fortunata isola fin dai tempi di S. Agatone Vescovo lo ha posseduto e venerato per centinaia di anni,
Sull’ ultimo altare sella navata destra della Cattedrale vi è un quadro decorativo di fattura veramente artistica, opera di «
Mercurius» della fine del settecento, in cui è raffigurata la scena della venuta del corpo di S. Bartolomeo : I chierici allineati dopo la croce astile levata in alto procedono processionalmente. S. Agatone, preceduto dal Clero, con piviale e mitra, campeggia con la sua figura ieratica e il popolo numeroso prende viva parte alla cerimonia con entusiasmo e pietà composta.

Dal giorno in cui la grande reliquia è giunta a Lipari la vita religiosa dell’isola ha avuto certamente forte incremento.
I Liparesi da secoli hanno mostrato a questo grande Patrono fervente devozione, lo hanno invocato nei giorni di calamità e di dolore e sì sentono affidati al di lui patrocinio e sicura protezione. Basta recarsi in Cattedrale nei giorni in cui si celebra qualche festa in onore di lui per vedere fiumane di popolo accorrere e rendergli: omaggio, ad ascoltare attenti le SS. Messe celebrate al suo altare; e molti si confessano e ricevono !a S. Comunione. Può sembrare strano, ma è certo che uomini e donne non adusati a recarsi in Chiesa, com'è loro dovere, nei giorni e domenicali, vanno in Cattedrale ad onorare il Patrono. 

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In memoria dei benefici ricevuti il popolo liparese grato celebra quattro feste solenni in onore di S. Bartolomeo con quattro
Pontificali all'anno e quattro processioni alle quali prende parte tutto il popolo che scende numeroso dalle campagne.
Fin a tempo addietro per voto solenne di popolo si osservava dai fedeli di Lipari in ringraziamento delle grazie ricevute il digiuno nelle vigilie delle quattro feste, che allora venivano celebrate nei giorni seguenti : 11 Gennaio in ricordo del grande terremoto del 1693, che arrecò immense rovine e lutti in tutta la Sicilia, mentre Lipari e le Isole Eolie furono risparmiate, 13 Febbraio, anniversario della venuta del corpo di S. Bartolomeo con festa di precetto. 17 Giugno in memoria e rendimento di grazie a S. Bartolomeo per avere preservato le Eolie della peste del 1541, — Narra una tradizione che un vascello, il
cui equipaggio era in gran parte colpito dalla peste, faceva vela e dirigeva la prora verso Lipari e già si era avvicinato alla spiaggia.

S. Bartolomeo, a cui erano note le condizioni dell'equipaggio, prese la cura di difendere l'isola da tanto pericolo. Cinto di splendori, con la destra armata da lucente e affilato coltello, sdegnato nel volto, apparve a quei marinari e ordinò che salpassero tosto da questi lidi. — 24 Agosto: Festa solenne in tutta la Chiesa che celebra il martirio del Santo.
Oggi due giorni festivi dedicati a S. Bartolomeo sono cambiati : il popolo celebra altri anniversari di terremoti avvenuti in tempi posteriori e dai quali il S. Protettore ha risparmiato i Liparesi e gli Eoliani; essi sono: oltre il 17 Febbraio e 24 Agosto, il 5 Marzo e il 16 Novembre.

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Grazie alla Biblioteca Comunale di Lipari dal NOTIZIARIO DELLE ISOLE EOLIE del tempo con anche una foto di un testo di Renato De Pasquale.

Il 9 agosto il Presidente della Regione on. La Loggia ha ufficialmente e formalmente inaugurato il servizio Aliscafo tra la Sicilia e le Isole Eolie e, per tale circostanza, abbiamo avuto piacere di avere tra noi anche quasi tutti i deputati Nazionali e Regionali. Il Sindaco, giustamente interpretando i sentimenti della popolazione, ha ringraziato il Presidente della Regione e le altre personalità per la visita fattaci e per la fortunata coincidenza dell’inizio del nuovo servizio.

Noi, Eoliani che in certi momenti sembriamo tanto irrequieti, insofferenti, nel fondo siamo di una docilità e bontà straordinaria: ringraziamo tutti.

Anni addietro abbiamo ringraziato la soc. Navisarma per la istituzione del servizio dello “Strombolicchio” perché non sapevamo che la Regione paga tre milioni all’anno di sovvenzione; oggi ringraziamo la società “Aliscafi” che, in concomitanza con l’art. 5 della L. 7.6.57 n. 30, ha istituito questo servizio e per il quale, certamente le sarà corrisposta la sovvenzione prevista dalla detta legge.

Diciamo subito, però, che il servizio così come è congegnato negli itinerari e negli orari oggi in vigore non serve agli Eoliani, né all’incremento turistico delle Isole Eolie.

Non serve gli Eoliani perché parte da Messina appena poche ore dopo che da Milazzo ha avuto inizio il viaggio del piroscafo postale di linea, ed arriva a Lipari quasi allo stesso orario riparte da Lipari quasi contemporaneamente al piroscafo di linea.

Per la partenza da Messina non dà possibilità agli Eoliani che ivi si siano recati di potersene servire pel ritorno giacchè, stabilita la partenza alle 10, difficilmente, a quell’ora, ognuno avrà potuto sbrigare anche un solo affare.

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Per la partenza da Lipari, solo la rapidità del percorso potrebbe indurre alla preferenza, data la coincidenza delle due partenze quasi allo stesso orario.

Non serve neppure, si ripete, allo sviluppo turistico delle Eolie, anche se, per la istituzione del servizio ci si giova di una legge fatta esclusivamente a vantaggio delle Isole minori.

Infatti per concreto sviluppo turistico della zona non può intendersi l’afflusso numeroso di gitanti forniti della colazione a sacco e della bottiglia dell’acqua per bere: deve, invece, intendersi la permanenza in loco di persone con tutto quello che ne consegue.

Allorchè comotive numerose di turisti partono la mattina da Taormina in pullmans, arrivano a Milazzo, s’imbarcano sul piroscafo per le isole e rientrano la stessa sera a Taormina, dopo avere consumato durante il viaggio la colazione fornita dall’albergo o dalla pensione di quella stazione turistica di fama mondiale, non può veramente affermarsi che ciò incrementi il turismo delle Eolie.

Sono un po’ da paragonarsi alle gite che si organizzano nelle stazioni di soggiorno per non rendere monotona la permanenza, ad esempio da Fiuggi per Castelgandolfo, pel di Nemi, con rientro la sera. Ebbene con queste gite non si alimenta e tanto meno si promuove lo sviluppo turistico di Castelgandolfo o del lago di Nemi, ma si consolida quello
di Fiuggi. E così pel servizio dell’Aliscafo, che prende i turisti la mattina a Giardini, li porta in giro nelle isole e li riporta la sera a Giardini; consolida il turismo di Taormina, ma non promuove quello delle Isole.

Con questa nota abbiamo creduto di segnalare alle Autorità competenti il nostro pensiero sull’argomento, che riteniamo pienamente condiviso dai nostri concittadini e dalla Amministrazione comunale, e non dubitiamo che le nostre segnalazioni siano valutate tanto dal presidente dell’Ente Provinciale del Turismo. Comm. Ballo, ch’è anche presidente della soc. “Aliscafi” e che sempre molta simpatia ha mostrato per queste isole, che dalle Autorità Regionali, onde sia concretato ed attuato uno itinerario orario che promuova il turismo per le Eolie e sia, nel contempo, giovevole agli Eoliani.

S.S.

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L’Arcipelago ANNO VII N. 2. 1983 Stromboli turismo anno zero

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di Pietro Quinzi.

Chi ha letto, su queste pagine, la mia corrispondenza da Stromboli del mese di Dicembre 1982 avrà notato a fine articolo una data, 26 Settembre 1982 ed una netta presa di posizione per certi aspetti di certo non positivi, dello viluppo del tessuto connettivo sociale su questa isola, sia indigeno che immigratorio e/o turistico.

La premessa che anticipa questa mia prima corrispondenza per il 1983 individua la ragione del titolo che ho dato ad essa.

Circa una settimana prima, cd esattamente il 21 settembre 1982 di fronte e dentro i locali della pro-loco di Stromboli la popolazione si era spontaneamente riunita a fronte di un evento che si andava prospettando: l’abolizione della linea Napoli - Isole Eolie - Milazzo per un periodo di mesi otto! Ovvero l’inizio della fine di una delle più importanti fonti di quello sviluppo socio economico che in particolare l'isola di Stromboli e Panarea avessero.

Giovani e meno giovani senza distinzione di sesso in un unico fronte si mobilitarono e con sacrifici economici non indifferenti, portarono a compimento con dignità e senso di responsabilità la loro battaglia!
La nave e la linea restarono. Quale presidente del comitato, in un mese di contatti a tutti i livelli ed al di fuori di ogni
strumentalizzazione (e strumentalizzazione politica ce ne fu ed anche troppa!), oggi posso affermare, senza che nessuno può obbiettivamente smentirmi, che senza la premessa Stromboliana difficilmente si sarebbero raggiunti gli stessi risultati e se qualcuno volesse obbiettare che questa è presunzione, a questo qualcuno io rispondo “ben venga questo tipo di presunzione, se significa consapevolezza di ciò che si vuole e di ciò che si ottiene”.

Oggi, all’inizio di questo nuovo anno, con una punta di amarezza ma con rigore di assoluta obbiettività, vedo quei giorni di unione quasi come immersi tra nebbie ovattate e da dove giungono brontolii. Non per annunciare un temporale imminente e vivificatore ma brontolii confusi che sempre più si confondono con l’ignavia di sempre.

Il primo gennaio di questo anno la crisi Stromboliana è dietro l’angolo. La nave che doveva portare i materiali da costruzione seguita a portarli ma solo per le costruzioni abusive degli stessi Strombolani, che investono i loro risparmi in queste costruzioni che se abusive, lo debbono soltanto alla poco avveduta amministrazione comunale che non ha voluto vedere le effettive esigenze di una nuova realtà sociale che si è andata sviluppando in questi ultimi tempi in tutte le isole Eolie. Le giovani coppie, i nuovi nuclei famigliari si moltiplicano e non vogliono emigrare, vogliono vivere su queste isole!
Ma le infrastrutture? Come può crearsi una coscienza sociale collettiva se il cittadino è ancora succube del ricatto politico?

Solo dopo gli eventi del 21 Settembre, abbiamo visto “i politici!
Interessarsi dei diritti degli isolani, si erano trovati di fronte ad una realtà nuova quindi bisognava correre ai ripari. I soliti:
“Divide et impera”! Debbo riconoscere che, in parte, ancora una volta il sistema ha funzionato. La realtà sociale, attuale, dell’isola di Stromboli vede di nuovo rinascere quella di sempre. Individualismo, egoismo ed un continuo sopravvivere alla giornata. Concittadini di Stromboli, quale amarezza comporta questa conclusione! In questi ultimi tempi ho parlato con molti abitanti dell’isola e quello che più mi ha colpito è che tutti sono consapevoli di questa realtà. Sono tutti consapevoli che la crisi è imminente, che Stromboli così come è non può andare avanti, perché allora questa ignavia? Perché tutte le
strade di Stromboli sono divenute depositi di materiali da costruzione?

Non potrebbe il Comune mettere a disposizione un’area da adibire a questo scopo? Certo così com’è ora, non è un richiamo turistico! Ogni anno a Stromboli più o meno gravi incidenti stradali si susseguono a causa delle motocarrozzette che sostano giorno e notte in strade non illuminate con carreggiate che a malapena permettono il transito per una sola! Non potrebbe il comune creare delle piccole aree di parcheggio?

L’annosa tematica degli incendi, che hanno ridotto l’isola ad un tale degrado ecologico ed ambientale che stormi di uccelli migratori non trovano più un ramo su cui posarsi! Eppure ci sono provvidenze per le comunità montane! E l’isola di Stromboli ne fa parte. O no? Non basterebbe certo tutto il giornale a descrivere lo stato in cui ci troviamo, sia esso ambientale che ecologico e rammentiamo che, nel tempo, esso si riflette in todo su quello sociale ed economico di ciascuno di noi.

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Ivy Attwell (1895 - 1985).

Ivy T. Attwell (1895–1985) aveva evidentemente talento artistico nel sangue, poiché era una parente della celebre illustratrice per bambini Mabel Lucie Attwell (1879–1964). Secondo quanto riferito, il marito di Attwell era nella marina mercantile e con lui ha viaggiato in tutto il mondo.

Negli anni '30 il suo lavoro è in stile realista britannico, con soggetti figurativi della vita moderna, influenzati dall'estetica dei poster di viaggio art déco del periodo. Negli anni '50 questo si è evoluto in qualcosa di più fluido, con figure che si spingono, colori saturi e punti di vista istantanei. Le sue composizioni distintive riempiono il piano pittorico con un'ampia baia costiera o una veranda sopraelevata, che danno un senso di panorama e attività umana in dispiegamento, di cui lo spettatore è sia parte che osservatore.

Le opere note di Attwell includono vedute in Algeria, Turchia, Egitto e Libano, Colombia, Canada, Seychelles, Tailandia, Giappone, Australia e Nuova Zelanda; Francia, Svizzera, Germania, Austria, Spagna, Sicilia, Croazia e Grecia; e Galles, Irlanda e il suo nativo Devon.

Ivy T. Attwell è stata presidente della Devon Art Society per ventisette anni. Il National Trust detiene uno dei suoi dipinti a Greenway nel Devon, che era la casa delle vacanze di Agatha Christie e delle varie collezioni della sua famiglia, con interni degli anni '50.

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Da EPOCA 13.08.1961 articolo di Domenico Bartoli, ne parlò anche l'Avanti nel numero del 03.08.1961 di cui ritaglia in foto.
EPOCA 13.08.1961 articolo di Domenico Bartoli

IL PESCE SPADA DI LIPARI

Un umile pescatore ha sollevato un caso costituzionale che investe l’odiosità di certe leggi e imposizioni.

Non avete letto sui giornali, forse, la storia del pesce spada di Lipari. Si tratta, in breve, di questo. Un pescatore di cinquantasette anni, Giuseppe Li Donni, analfabeta, aveva venduto, nell'aprile scorso, un pesce spada di quarantacinque chili direttamente al proprietario di un ristorante di Lipari. Il dazio era stato pagato regolarmente. Ma l'agente urbano Antonino Natoli giudicò che questa vendita violava l’articolo del regolamento sulla pescheria, nel quale sta scritto che il pesce deve essere consegnato al centro ittico, e fece un verbale di contravvenzione. Li Donni non volle pagare la multa, e la controversia andò davanti al pretore di Lipari, D'Onges, che trovo un contrasto fra la norma del regolamento e gli articoli 3, 5 e 25, secondo comma, della Costituzione. La Corte costituzionale, nell'autunno, dovrà dire se i dubbi del pretore sulla legittimità del regolamento siano validi.

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Non staremo a discutere la complicata questione giuridica, che la notizia, come viene riferita dall'Avanti del 3 agosto, sfiora appena. Limitiamoci a leggere la Costituzione. L'articolo 3 dichiara l'assoluta uguaglianza di dignità sociale e di diritti dei cittadini davanti alla legge, e attribuisce alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che, limitando la libertà e l'uguaglianza di ognuno, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. L'articolo 5 stabilisce il principio del decentramento e dell'autonomia locale. Sono orientamenti assai generali. Il secondo comma dell'articolo 25 dice: «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso ». Ora, sembra che il pretore dubiti della validità del decreto l9gislativo promulgato nel 1955 dal presidente della Regione siciliana e dove, all'articolo 125, è previsto il reato adesso contestato al pescatore. Per questo, crediamo, il magistrato s'è riferito alla norma dell'art. 25 della Costituzione, che abbiamo riferita qui sopra.

La questione, dicono i giuristi, è elegante.

Ma, per conto nostro, le scarse informazioni che abbiamo e i limiti della nostra competenza non ci permettono di approfondirla.

Preferiamo collocare l'episodio su uno sfondo più ampio e più vivo. La legge, da noi, ha spesso un carattere di odiosità , che induce a subirla con riluttanza o a violarla senza rimorsi. Essa, da sola, non può riformare, e nemmeno reggere con equilibrio ed efficacia una società . Ha bisogno del consenso, dell' approvazione di un gran numero di cittadini, o altrimenti rimane impotente anche quando viene applicata perché sprovvista di quella adesione intima, di quella forza morale che sono necessarie per fare di qualunque regola una cosa viva e convincente.

La Sicilia è certamente la regione d'Italia dove questo distacco fra i sentimenti e i codici, fra le consuetudini e le leggi, è più forte e più grave. Non sappiamo quale sia esattamente la situazione nelle Isole Eolie, alle quali Lipari appartiene. Ma è noto che nella Sicilia orientale, nella provincia di Messina, molto prossima a quel piccolo arcipelago, l'illegalità è assai meno diffusa. Non si può dire, ad ogni modo, che nella regione siciliana il rispetto per le leggi sia profondo e assoluto. Anche lasciando da parte la criminalità comune, il cattivo esempio viene dalle autorità isolane, dalla commedia delle elezioni di Palermo, dal governo regionale senza maggioranza che mette le mani sulle cariche, sulle posizioni di potere, moltiplicate dall'avidità o dalla imprevidenza dei predecessori.

La mediazione obbligatoria

Sono queste le cose che contribuiscono a rendere odiosa la legge e il regolamento. In una regione dove si ammazza per mantenere il predominio dei mercati (non a Lipari, non

a Messina, ma poco più in là ), un pescatore non può vendere a chi gli pare il pesce spada. C'è il centro ittico. Quale attrazione esercita, ci domandiamo, la parola difficile sui semicolti, sai mezzo-ignoranti? Ma chiamatelo mercato del pesce. E a che cosa deve servire questo mercato? A rendere più facile il contatto fra chi vende e chi compra o soltanto a far fare denaro a qualcuno?

Il mondo moderno moltiplica, per necessita, gli intermediari. E la legge fatale di una società complessa come la nostra, che si allontana sempre più dalla terra, dall'agricoltura, dal mare. Questo fa salire i prezzi. Leggevamo l'altro giorno che le pesche sono pagate al produttore venti o trenta lire al chilo, e sono rivendute sul mercato a ottanta. Ci rendiamo conto del costo dei trasporti e della distribuzione. Ma ci domandiamo se non sia meglio sveltire la procedura, diminuire il numero degli intermediari; e ci viene in mente che una legge assai illuminata sui mercati generali, proposta dal primo governo Fanfani, non passo in parlamento per una coalizione ostile nella quale. Si schierarono pure i partiti popolari, come amano definirsi. Non abbiamo visto che questa legge sia stata ripresentata. Si teme, forse, che gli interessi tornino a coalizzarsi. Ma siamo convinti che sul terreno di una lotta tenace e corrente contro le incrostazioni parassitarie, i monopoli industriali e commerciali, le violazioni, gli abusi, gli sperperi e la corruzione, un governo moderno deve mostrare la sua capacità e la sua indipendenza.

Non c'è bisogno di andare fino a Mosca, dove si parla di argomenti che sfuggono, in gran parte, alla nostra reale influenza.

Quante cose, vedete, si possono leggere nella semplice storia del pesce spada di Lipari, che giustamente il pretore dell'isola ha sottoposta al giudizio della Corte costituzionale. C'è l'odiosità di infierire sui piccoli, sugli inermi, mentre i grossi e gli armati restano impuniti. C'è la tendenza degli enti locali a legiferare quasi senza limite. C'è il morbo della mediazione obbligatoria, del sensale, del bagarino che è difeso dalla legge, e in certi luoghi anche dalle fucilate a lupara.

La funzione della magistratura è limitata.

Essa ha il compito di applicare la legge. La stessa Corte costituzionale deve soltanto accertare, quando viene sollecitata a farlo dal magistrato o da altri organi pubblici, se una certa norma violi o no la Costituzione. Ma, per quanto vincolati dal diritto com'è, i giudici di ogni grado, e spesso quelli di grado più basso, si mostrano più sensibili e moderni, hanno una grande parte nella nostra vita pubblica. Abbiamo uno Stato di diritto, almeno in teoria. Gli abusi del potere esecutivo, i fermi arbitrari, le violenze, le norme legislative contrarie ai principi generali del nostro sistema, devono essere censurati e repressi dal magistrato. E vero che, mancando il concorso della coscienza pubblica, il giudice non può far molto; ma è anche vero che la coscienza pubblica potrà essere stimolata e mossa a poco a poco dagli avvertimenti e dalle sentenze del giudice.

Domenico Bartoli

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LE ISOLE EOLIE E LA LORO VEGETAZIONE - STROMBOLI

Da Basiluzzo, in 3 ore con buon vento si è a Stromboli, ma io l’ebbi contrario, e la traversata a remi è lunghissima, ed a quel cono maestoso che pareami tanto vicino, sembravami non si giungesse mai.

Fu tanto più lungo il viaggio, in quanto che S. Vincenzo che è la spiaggia più favorevole a ricoverare i legni , sta sul versante di Nord, al versante opposto della Isola, per chi viene da Lipari, o da Panaria.

Stromboli è uno dei tre Vulcani di Europa la cui attività non è mai cessata dacché evvi memoria d’ uomo, 290 anni pria di Cristo ai tempi di Agatocle che regnava in Siracusa, in quelli di Diodoro, i fuochi di Stromboli erano conosciuti, ed i fenomeni del terribile Vulcano erano il soggetto delle favole più assurde, e suscitavano, in quei secoli di ignoranza, le più superstiziose credenze. L’attività di Stromboli non solo che rimonta ad epoche tanto remote, ma quel che è più, e ciò che raramente si verifica in tutte le altre montagne ignivome , non è stata mai interrotta , nè suole presentare come L’Etna, come il Vesuvio, intermittenza nei suoi fenomeni, e momenti di quiete; onde è uno dei Vulcani più attivi della terra. Le sue eruzioni sono incessanti, un nembo di fumo bianco, che si scambia facilmente con una nuvola, copre costantemente la sua alla cima.

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La forma dell’Isola è quasi rotonda, d’ onde il nome che credesi abbia Fenicia origine di Strongyle. I suoi fianchi scendono regolarmente con una marcata pendenza al mare, onde la sua forma è un’ esatta piramide, la cui sommità sembra fosse stata leggermente troncata.

Il suo littorale che conta 7 m. circa di periferie è ogni dove selvaggio, e raramente la costa si abbassa in dolce pendio, da formare una sicura spiaggia ed un ricovero alle barche. È a San Vincenzo, che esiste un ricovero di tal fatta, e la mia barca, si diresse verso quella borgata, che stando come dissi al Nord, obbligavami a dovere girare una buona metta dell’ Isola; ciò che del resto era cosa piacevole ed interessante, essendo sulla spiaggia settentrionale, uno dei spettacoli più imponenti che presenti il Vulcano, il cui sbocco di scorie, di pietre, di materiali infine, da questo eruttati, diretto dal lato di quel mare, ha formato una immensa falda che ogni giorno lo invade, che gli indigeni chiamano col nome di Sciara del Fuoco.

Lasciata Inostra una borgata delle due che contiene Stromboli, che guarda il Sud, vogammo dunque verso il Nord, e lo spettacolo delle derelitte coste di quell’ Isola di fuoco cominciò a svolgersi a me dinanzi, bello nella sua estrema ruvidezza.

Ovunque lava e scorie ammonticchiate in nere falde, che l’occhio segue dal mare sino alla cima avvolta nel fumo. 1 terreni sono scoscesi perciò, ed alpestri, e da I- nostra in poi, oasi perduta in un deserto, nulla evvi che presenti le amene tinte verdi della campagna , e tutto dinotava una sterilità completa. Anzi, più che noi ci avanzavamo, più tetra diveniva la scena, inoltrandoci noi, più presso alle regioni che il fuoco infesta oggidì. Sorpassata un’ ultima punta di terra ecco che appare , la Sciara del Fuoco. — Spettacolo davvero grandioso ! Che non si ha interamente che guardandolo da questo lato , e dal mare, poiché dalla terra, e dalla più alla cima dell’Isola stessa, questa falda non è visibile; si dovrebbe essere sulla cresta di essa per osservarla per intero, ma nissuno oserebbe esporsi ad un pericolo sicuro, poiché lo sbocco del materiale è di là che cala al mare, e quella cresta che noi vedevamo dal mare, è quella che propende sul baratro, che a noi ci restava occultalo, a causa della sua interposizione.

E qui due parole per meglio far comprendere la posizione attuale del cratere.

Per quanto poco (e con grave mio rammarico) io fossi sta-to versalo in geologia, mi fu chiaro il rilevare, che l’antico cratere di Stromboli, quello che originò certamente l’Isola, dovea trovarsi sulla più alta sua cima. Il cratere attuale è un’altra bocca, che successe alla prima, oggi interamente estinta. Il nuovo cratere è nato molto al di sotto della cima dell’Isola, ad un’altezza che io stimai a due terzi dell’elevazione sua sul livello del mare. Spuntò sui fianchi del versante Nord; ed i materiali di tanti secoli di eruzioni, precipitando al mare, produssero la Sciara del Fuoco, falda grandiosa, la cui protuberanza occupando un terreno che era pria il dominio delle onde, ha ingrandito l’Isola da questo suo lato. Le opinioni di Spallanzani, Dolomieu, ed altri geologi che hanno scritto su questo Vulcano, e l’esame delle correnti di lava che colarono dalla sua cima, e le investigazioni fatte sul luogo del cratere vecchio, confermano questo fatto, che del resto si rende evidente, a chi ha l’agio di assistere alle eruzioni del Vulcano. Gli odierni fenomeni rivelano quale si è stata la marcia seguita nella formazione della Sciara del fuoco pel corso di tanti secoli.

Ma ritorno a seguire il mio giro attorno all’Isola, ed a contemplare, l’imponente scena che presenta quel sito devastato dai fuochi.

La forma della Sciara può ben assomigliarsi ad un cumolo di terra, che a rischio di sembrar triviale, direi che sembra fosse stato rovesciato a terra da un carro, tutto ad un tratto; cosa avviene in quella operazione? la terra rovesciata in quel modo non trova ostacolo alcuno e si espande in un’ esalta piramide. Ciò non può succedere nella Sciara, per essere addossata ai fianchi del monte ; la sua forma non è dunque quella di una intera piramide, è di una metta. La sua cima non può essere che tronca, poiché i corpi ed il materiale che erutta il cratere, dalla sua bocca divergono come tenti raggi, e ricadono al basso in un’area costantemente estesa. Ciò che è tenue, come l’arena, resta trattenuta lungo la falda, e concorre all’ incessante suo accrescimento, le pietre, i massi, lanciali dalla bocca ricadono per lo più sovra la Sciara stessa e per la scoscesa pendenza non vi si possono trattenere, e rotolano giù sino alla sua base, ove l’inghiotte il mare.

Ma come mai il mare vicino non si è potuto riempire dopo lauti secoli die il cratere vi manda i suoi materiali? una tale dimanda si affaccia alla nostra mente, e Spallanzani facendola a se stesso, spiega il perchè tale riempimento non ha potuto mai avvenire. L’illustre naturalista, che osservò il Vulcano ed i suoi fenomeni mollo assiduamente, fu il primo a constatare, che dei materiali eruttati, pochi sono quelli che non ricadono nella stessa sua bocca, (per esserne ripetutamente rieruttati), o che non seguino lo sbocco che la natura provvidamente creò al Vulcano, (a maggior sicurezza degli abitanti di quell’Isola derelitta) che li conduce al mare. Potè quegli osservare , ed è un fatto che si rileva chiaramente anche al presente, che non tutta la quantità dei massi lanciali giunge al mare, intatta; che una buona porzione negli urli che nel rotolare riceve , si frantuma e va in polvere per la natura sua friabile molto; quella che vi arriva allo stato di grosse pietre, pria che giunga ai fondo della Sciara, (che si prolunga tanto più al di sotto delle acque, in quanto che quel mare si dice non ha fondo) per l’azione dissolvente dell’acqua, si frantuma anch’essa, pria di toccare il fondo marino, e vi si disperde in balia alle correnti.

Eppure ai tempi di Spallanzani aveano memoria quegli Isolani, che in quel mare era apparsa una secca, che in capo a pochi mesi, fu ingojata dalle onde stesse, dalle quali era nata. Un tal fatto sembra poco vero, in ogni modo sarà stato ciò un fenomeno di vulcanicità possibile, ma del tutto estraneo agli effetti delle ejezioni del cratere. A parer mio, per quanto profondo vogliasi supporre colà il suolo marino, tanti secoli di eruzioni credo sarebbero stati capaci a conquistare alle onde un poco del loro terreno. L’aspetto e la forma della Sciara, parlano chiaro; non è questa una conquista che l’Isola ha fatto sul mare? È questa un cumulo di terra sbucala da un’enorme apertura, e affastellala ai suoi fianchi. Bisogna avere a mente quanto accenna Spallanzani, e quel che si rileva oggidì; il materiale non è lanciato al di là della Sciara, e se va al mare, non vi cade dall’alto. Il materiale lanciato dal cratere, ricade o nella voraggine stessa, o attorno a questa, in questo ultimo caso va al mare, ma vi giunge sbalzando, sdrucciolando per i ripidi fianchi della Sciara.

Il risultato del cammino seguilo dall’ejezioni del Vulcano, si è, che le pietre, le scorie, per quanto potessero venire attenuale dalla furia delle onde, e datazione dissolvente dell’acqua, lungo il loro corso sottomarino, giungeranno al fondo, per accumularsi alla base della grande piramide. Da ciò ne deve risultare un accrescimento lento, ma continuo della sua base. Nuove rifuse di materiale seguendo lo stesso corso, raggiungeranno il primo , ed avranno agio di posarvisi. Così a poco a poco che si avvera l’ingrandimento per la base, aumenta lo accrescimento in spessezza della falda stessa, per uno strato che andrà elevandosi sino alla sommità. In siffatta guisa si spiega il non mai avveratosi riempimento delle onde, fuori di un piano che non sia quello stesso inclinalo che segna la falda del cratere, ed un progresso lento, ma continuo del suolo sulle onde, manifestamente poco visibile, che col tempo ha dovuto certamente anche influire alla elevazione della sommità dell’orlo della falda stessa, rendendo in certo modo, più profonda la bocca del cratere.

La contemplazione dello spettacolo che mi stava dinanzi, aveami trascinato nel campo delle congetture e delle ipotesi più o meno probabili sull’origine della tetra Sciara. Il tempo che là mi fermai fu troppo corto, perchè io avessi potuto assistere alle interpellale eruzioni del Vulcano, il mare tempestoso trascinava sensibilmente la barca su quei temuti frangenti, ed il trattenermi più a lungo sul locale, poteva riuscirmi fatale, però non fui del tutto sfortunato, e nella mia fermala, vidi ripetere una delle scene che si avverano molto spesso durante il giorno, fu una fortuna; perchè io potei accertarmi ocularmente della marcia delle eruzioni, e confermarmi decisamente su quanto aveano asserito gli osservatori che pria di me aveano scritto sul vulcano. Precipitosamente, ed a grandi sbalzi vidi, scorrere due o tre grossi massi, che rotolando dalla cima, e sol-levando lungo il loro corso una striscia di polvere, che sembrava fumo esalalo dalle stesse pietre, che doveano ritenersi incandescenti, ma che non era che la minuta arena che il materiale sollevava nel suo solco, precipitando sul mare. — Fu l’unico segno dell’attività non dubbia del cratere, che io potei ocularmente rilevare, e che serbo delli tanti decantali fenomeni di Stromboli.

Tutto è tetro in quel luogo. Il mare sul quale si riflette la costa, prende le più strane e fosche tinte, che confuse col color proprio di quelle acque di un indigo il più cupo, fanno di quell’elemento tanto attraente e gajo, là ove si mirano, le liete sponde di un bel paesaggio, o ove traspare la bianca arena di un basso fondo, un oggetto di ribrezzo; tanto mistero si asconde in quel mare che da mille anni inghiotte le ejezioni, delle viscere tanto più misteriose di quella terra!

Il littorale sino a Piscita non cede in ruvidezza alla Sciara che venivo di lasciare dietro di me; battuto fieramente dai marosi, corroso dall’azione del fuoco, cade in rovina, e minaccia cedere ai loro urti. Sorpassata una serie di grossi massi di trachite dalle più strane tinte, appare San Vincenzo che sembravami un villaggio musulmano per la quantità di piccole cupole bianche, che sono i forni delle misere case, tanto più luride di aspetto, perchè costruite di pietre di lava nerissime, clic sono le stesse di cui è sparsa tutta la insicurissima spiaggia di questa povera borgata, la principale di Stromboli. Era già sera. Chieggo scusa ai possibili lettori di questo mio scritto, se dimenticando lo scopo al quale queste pagine sono ispirate, io scenda a certi inutili dettagli, che senza aver alcuna relazione colla mia missione botanica, non servono forse che a dare un’idea degli abitanti, e dei costumi di quest’Isola celebre —e nel raccogliere le noie dal mio taccuino, io non ho presunto contare nè meraviglie, nè imporre con tuono dottorale dottrine di cui mi sento affatto vuoto; non dico che ciò che osservai. Del resto, qui mi vien meno la parte scientifica, il suolo è sterile, e nuda la lava, quel verde che allieta gli occhi, è sostituito dai lelri colori delle scorie, e dell’arena di cui tutta Stromboli è coverta, e che io calcava, andando in cerca per mezzo i vigneti che circondano le casipole della spiaggia, del Rev. Padre Russo, il Sindaco, il Parroco, e l’autorità, politica di Stromboli. Il mio arrivo avea visibilmente commossi gli Isolani, che vennero a circondarmi sulla spiaggia , e con modi gentili, disputavansi il piacere di guidarmi sino alla dimora del Padre. Se l’Isola ributtava, gli abitanti al solito come in tutte quell’Isole benedette attiravansi per tutti i riguardi la simpatia dei forestieri. Quanta differenza, e quanto contrasto offrivano i loro costumi, colla ruvida e selvaggia natura del loro suolo! Il Padre Russo era in chiesa. Era un simpatico vecchio, che tuttora conservava la forte tempra di una perduta giovinezza, fu questo il mio giudizio, motivato dal modo lesto, per come si affacendò per cercarmi un ricovero pel villaggio , che non potè contro i suoi desiderii ed i mici trovare; onde gentilmente questi mi cedè una vicina antica sacrestia, che io con poche cerimonie occupai. Gli Isolani non desistevano dal farmi seguito; evidentemente i forestieri a Slromboli, non poteano essere abbondanti, in certo modo contribuiva certamente a risvegliare le loro curiosità il mio bagaglio, le mie carte per la preparazione delle erbe, che coloro non poteano indovinare a quale uso poteano servire. Un fatto che si era avverato a Panaria, si ripetè a S. Vincenzo. Divulgossi la voce che io fossi un medico. Una buona parte degli ammalati dell’Isola, si portò in casa mia per consultarmi. Il mio imbarazzo non fu poco, a procurare di persuadere quella povera gente che io non Io era affatto; non lo voleano credere: » Credetemi io lor diceva, vi posso assicurare, che se io «potessi indicarvi un rimedio per le vostre piaghe, » per i vostri malanni, io lo farei ben volentieri, e nessuna ragione potrebbe farmi occultare una scienza che >; tanto più con rammarico rimpiango non possedere, perchè vorrei potere essere utile alla umanità sofferente, » ed a voi Slrombolesi in ispecie condannali a soffrire, » senza il conforto della medicina. » Poiché a Stromboli non c’ è medico, nè cosa di sorta.

Le loro insistenze, lo stato di quegli infelici, mi facea compassione, andavano , ma niente affatto persuasi delle mie sincere dichiarazioni.

Col sole del domani, S. Vincenzo mi si mostrò meno ingrato locale, per come mi si era offerto dalla spiaggia. La deserta pianura che è alla parte Nord Est dell’Isola, sta alle falde dell’alto monte di Stromboli che presenta due cime; poiché se Stromboli non è che un solo cono, l’apice di questo cono che è leggermente tronco, offre due pizzi, uno la Serra del Liscone (860 metri secondo Salino), e la Serra dei Vancori, quell’ altro che guarda il Sud Ovest, (921 metri). È tutta coverta di vigneti, che producono bellissimi vini, di fichi, e sparsa di altri alberi fruttiferi come ulivi, carrubbi, che ascendono sino a 400 m. circa, sul mare, stentati e rachitici, perchè limitrofi a quella superiore regione che non offre che nuda lava. Le casette sparse fra quella verzura, sembraronmi avessero una certa aria di allegria, che del resto non viene turbala da alcun molesto effetto del vicino Vulcano. Anzi, direi dippiù; da S. Vincenzo, il terribile vicino pare non esistesse, la Serra del Liscone, e Tallo monte lo occultano a quel villaggio, e lo riparano dai suoi pericolosi capricci. Quel versante, è stato esente dalle sue sfuriale, e così ha permesso a quegli abitanti un’esistenza relativamente sicura, un discreto sviluppo delle loro industrie agricole.

Nessuno dei fenomeni che ogni giorno presenta il cratere, furono palesi a me durante il mio soggiorno a San Vincenzo. Ed io non avvertii nè il rombo delle sue esplosioni, nè il fremito del suolo potè farmi rilevare che queste avvenissero, o che là fossero sensibili. Nè la notte apportava variazioni a questo stato di cose, troppo lusinghiero; mirando la Serra del Liscone, o almeno la direzione dove supponevo i fuochi doveano esistere, io non potei discernere, quel chiarore, che un baratro incandescente avrebbe dovuto riflettere su un’ atmosfera, che il fumo dovea rendere pesante, e opaco. Anche di giorno, mancava da quel lato ogni evidente segno di fumo. Que- st’ullimi segni se a me non si manifestarono, fu ciò certamente per il forte soffiare di un vento di Nord Est, che trasportava i fumi lungi da quel versante, e da S. Vincenzo. Di lutto il resto dei fenomeni, di cui Spallanzani fa cenno nella sua dimora a S. Vincenzo, se io non fui disgraziatamente spettatore, credo ciò possa attribuirsi al caso, che non fece che questi si avverassero nella mia dimora nell’isola, che fu troppo breve.

La salita al cratere per quanto ripida si presenti la via, non e punto difficile dalla parte del Liscone. Questa è mollo più preferibile all’altra che invece di inerpicare direttamente pell’alto monte lo costeggia dal Nord-Est per un sentiero mollo più piano che porta nel versante 'del monte, all’Arena grande, che è una immensa falda tutta coperta di sabbia, ove il cammino è faticosissimo, ove il piede affonda sino a metà di ginocchio, ed ove l’ erta non é meno difficile del Liscone. Preferii dunque quella del Liscone, ed un buon tratto si scorre fra i vigneti di S. Vincenzo sino a 400 m. circa; al di là di quel limite cessa la vegetazione, ed il piede incontra la dura lava, sulla quale le orme non hanno potuto segnare sentiero alcuno.

Anche le piante spontanee mancano su quel suolo sterilissimo, le sole che vi allignavano erano una Carlina, la Silene infiala, che vi formava dei grossi cespiti, ed acquistava insolito aspetto e dimensioni, ed una Gramigna (una Dactylis). Dopo non breve e difficile marcia, fui alla cima del Liscone, e pria di rivolgere la mia osservazione sul terreno ove mi trovavo, volsi lo sguardo attorno a me ad ammirare lo stupendo punto di vista che da quell’altezza si ha estesissimo su tutte le Eolie, sulle Calabrie, e sulla Sicilia. Nonostante il tempo caliginoso , e l'impetuosissimo vento di Nord-Est, che parea mi volesse seco trasportare, io godei di quell’incantevole panorama che abbracciava tutta la Sicilia, un buon tratto del continente Italiano, clic si designava chiaramente in tutti i suoi minuti dettagli, dal Faro, colle montagne di Aspromonte sino a Paola, dietro quale si perdeano nell’orizzonte le costiere del golfo di S. Eufemia. Rivolti gli occhi sul suolo mi accorsi che mi trovavo sul cucuzzolo del monte, e per l’elevazione sua, e perchè da tutti i lati circondalo dal mare, e per l’impetuosa corrente d’aria che battevami fortemente, parevami essere sospeso nell'aere, e librarmi sulle ali della fresca brezza Eolica!

Il cono è bicipite, la vetta forma là una vasta fossa di una forma ovale, ed è questa che si ritiene con sicurezza, essere stata la bocca primitiva del Vulcano; le rocce sconquassate che formano i più alti gradini di si vasta arena sono lave, e scorie di molti colori. La sabbia ricopre dapertutto il suolo roccioso. — È caldo, e questo ove smosso, esala emanazioni sulfuree, e lo scavare quà e là genera quasi piccole fumaruole, ove la temperatura si mantiene elevatissima. — Mi avviai pel cratere scendendo più in basso verso Tramontana. —Cominciai a scorgere il fumo che il vento portava verso Sud-Ovest perciò lontano da me. — Ciò doveva agevolare le mie osservazioni — ma che i lettori si preparino ad una disillusione ben grande, per quanto fu la mia. —Raggiunto una eminenza, dalla quale la mia guida dicevami io avrei visto qualche cosa, io per quanto mi sforzassi non potei addentrare lo sguardo, là ove vedevo uscire il fumo. — Bisognava a quanto pare, spingermi più oltre, ma la mia guida nè volle andare più avanti, nè permise in alcun modo che andassi io; pur troppo io mi pentii in appresso di aver dato retta ai suoi consigli, che erano io credo piuttosto che ispirati a sensi benevoli verso di me, o a risparmiare a me un rischio, che forse non esisteva, la vera espressione della sua poltroneria, poiché a quanto pare nissun pericolo, (o almeno manifesto) evvi a spingere più oltre i passi. Nè dalla Serra del Liscone, nè dalle eminenze che coronano il cratere si ha una vista dentro di esso, ed io fui mollo addolorato di lasciare quel luogo, senza avere assistilo a qualcuno dei suoi fenomeni che giornalmente si producono, non però su quella scala, nè con quell’imponente apparalo, per come molte descrizioni troppo poeticamente hanno voluto dipingerli. Fu questo lutto ciò elio io potei vedere, e nulla dippiù — anche allora come alla Sciara del fuoco io fui poco fortunato. — Nessun suono rompea quel silenzio completo, se non quello stridente della brezza, che cozzava con rabbia contro la mia povera persona, con animo di trascinarla. Anche questa fu una ragione che fecemi desistere dai temerari i progetti, che una curiosità troppo spinta, solo poteva suscitare.

Ascesi l’altra più alla vetta che dà sul versante di Inostra, che è l’altra borgata di Stromboli posta sul ver-sante Sud dell’Isola ; avrei voluto visitarne questo lato , ma il tempo non prometteva nulla di buono, e le minaccie di un temporale mi fecero desistere di porre in effetto quel progetto , che del resto non potea fruttare buone raccolte, avendo dopo il giro pel litorale osservato quanta sterilità regnava in quel lato dell’Isola.. GInostra non potrebbe disiare che appena due chilometri dalla borgata S. Vincenzo, ma la sola via per la quale le due borgate mantengono le loro comunicazioni, non è delle più comode, ed il suo corso è talmente anormale che per andare da S. Vincenzo ad Inostra, e da questa a S. Vincenzo debbonsi impiegare più di 4 buone ore, poiché le due borgate non hanno comunicazioni lungo il litorale. — Dal lato Nord la Sciara del Fuoco, è un passo insormontabile che impedisce l’andare al versante Sud. — Dal lato Est, oltre che il cammino, per la ragione che siegue più di due terzi della periferie dell’Isola è lunghissimo, è di più, impraticabile, cadendo i versanti Est, e quello Sud Sud-Est, quasi a picco; tanto che gl'isolani hanno chiamato queste due Sciare col nome di Mal Passo, e Malo Passetto. La via di Ginostra a S. Vincenzo traversa l’Isola dunque nel centro, da Sud-Ovest a Nord-Est, salendo sul cono sino all’altezza di 900 m. circa, per poi discenderne altrettanti dal versante di S. Vincenzo— e ciò fra la sabbia fra le scorie, e per le più ripide salile.

Il sentiero (se cosi potrebbe chiamarsi quello che le orme umane, non hanno potuto ancora segnare sulle mobili sabbie vulcaniche) traversa l’antica Fossa vecchia del Cratere — costeggiando le creste dei colli che sovrastano la bocca del Cratere presente — su quel posto, su quel sentiero, dicevami la guida, frequentano più spesso le apparizioni infernali, che i viandanti, là vi appariscono a quanto mi si diceva! veramente le superstiziose credenze, in un luogo ove i fuochi tremendi di un inferno in sessantaquattresimo, sono una realtà, non sono fuori di proposito! ed il locale dà campo alle più immaginose figure. Là sopra osservai conficcate sul suolo una quantità di piccole croci, fatte con delle canne; sono le armi impugnate contro i cattivi genii dell’abisso, che mugghia li accanto.

La gita alla Schicciola, un’eminenza situata a 700 m. circa sul mare dal lato Est, procura la bella vista della Arena grande, falda maestosa del Cratere tutta di bruna arena formata, che ripida scende da un’altezza di più che 850 m., sino al mare. É di là che conviene discendere dal Liscone e dal cratere; lo scendere per quelle sabbie è agevole non solo, ma piacevole cosa. Se nello ascendere richiedesi più di una buona ora, e buona lena, nel di-scendere in pochi minuti si può percorrere a grandi balzi, impunemente la falda, che non è interrotta, o meglio è cosparsa di tratto in tratto, da sassi trachitici, che con le lave formano il sotto suolo del monte.

Poche piante adornavano quei luoghi solitarii e selvaggi. — Esiste tuttora, ma scarso, sui balzi durissimi di trachite il Cytisus aeolicus Guss., di cui Vulcano e poi Stromboli sono là patria. Le rupi sono di difficile accesso, e quelle al di sotto della Schicciola impraticabili, onde è difficile il potere giungere a cogliere quella pianta, che là, certamente pel suolo su cui alligna, non si presenta sotto T imponente aspetto di vero arboscello, ma bensì sotto forma di cespugli che appena oltrepassano la statura dell’uomo. — Presentavano questi l’aspetto delle piante osservate a Vulcano, al vallone delle Molinelle e che mi fecero sospettare fossero altra specie che non l’aeolicus. Ma l’esame di queste, e di quelle di Vulcano, mi mostrò essere tutte una identica specie, le cui forme mutano a seconda della natura del terreno.

Anche a Stromboli oggi lo Sgurbio (C. aeolicus) è in via di scomparire con grave rammarico del Botanico, che vede ecclissarsi una forma tanto caratteristica della vegetazione eolica.—Il legno è pur troppo raro alle Eolie, ed i naturali per accendere i loro focolari, fanno di ogni erba un fascio, ed assieme alle Eriche, ai Cisti, alle Ginestre, hanno tagliato questa bella pianta.

Anche dal lato della Schicciola, regna lo squallore; mi persuasi pur troppo, da quanto avea visto di Stromboli, che ogni mia ricerca in fatto di piante sarebbe stata vana, laonde pria di volgere i miei passi a S. Vincenzo volli vedere la sorgente della Schicciola, quel tratto di via che vi mena perla calata dell’Arena grande è ben presto fatto, per la facilità colla quale si può scorrere su quel morbido strato di sabbia.

Una sorgente alle Eolie è un caso mollo raro; a dire il vero, nè questa della Schicciola, nè quella di Vulcano, nè l’altra di Salina che si trova sulla Fossa delle Felci potrebbero meritare un tale nome; I’ acqua non deriva

(((1) La parola Schicciola è adoperala dagli Isolani delle Eolie, per gocciola o piccolo sorso; quella voce applicala a quella, sorgente indica perciò la tenue quantità dell’acqua che vi si trova per filtrazioni degli strati dei terreni superiori.))

dalle pullulazioni sotterranee, e perciò non sorge; sono degli tenuissimi stillicidi, prodotti dai massi sovrastanti, o dai terreni vulcanici, che benché di natura poco avida di acqua, pur conservano nelle loro viscere una dose di umidità da generare quei gocciolamenti perenni, la cui origine non si saprebbe a che attribuire, se non alle acque piovane filtranti a traverso gli strali terreni, o al vapore acqueo emanalo dallo stesso vulcano, che condensato negli strati atmosferici, ricade sul suolo solto forma di rugiada.

E l’una e l'altra ipotesi mi sembrano vere, e perciò evvi poca ragione di dubitare, che gli stillicidii che emettono gli strati terrani siano dovuti a tutte due le cause; più però alla prima che è quella del celebre Spallanzani, e che assegna ad essi un’ origine dovuta in tutto .agli infiltra-menti delle acque piovane, che alia seconda, che li addice agli effetti della rugiada, la quale dovrebbe supporsi generarsi su vastissima scala per dar luogo a quelle produzioni acquee del resto tanto sparute. — Pur tenendo presente che le piogge non sono abbondanti nelle Isole, e che nelle nostre regioni meridionali e liltoranee del Mediterraneo, la stagione secca estiva e lunghissima, devesi pur convenire che in quella invernale, la quantità d’acqua che cade sul suolo è sempre più imponente, di quella che riversasi per causa del vapore acqueo, tenue tanto che sembrerebbe dovere disperdersi nel primo suolo arenoso, pria di giungere agli strali sottostanti.

Nelle mie ricerche, io ebbi agio di verificare clic al di sotto dello strato arenoso che a Lipari, a Vulcano, a Stromboli , vedesi coprire gran tratti eli paese, il suolo si trova in uno stato di umidità che non si saprebbe a che cosa attribuire, se non a quello istesso rivestimento di arena che impedendo la soverchia azione disseccante dei raggi solari, è di ostacolo alla rapida evaporazione dell’umidità terrestre.

Dirò a questo proposito, che nelle mie visite a Vulcanello, raccogliendo un Cocomero spontaneo in Sicilia, e precisamente originario dell’Isola di Pantelleria (Cucumis colocynlis L.) che crescea su quell’ aride sabbie, appena elevale sul mare, ed a breve tratto dalla Cosla; nel disvellere i robusti ceppi di quell'erba, io mi accorsi che questi, e le loro radici poggiavano su un tufo impalpabile, e dolce al tatto per la sua finezza, la cui umidità mi destò meraviglia, poiché sin da più che un mese non avea piovuto in quelle contrade. Ciò non poteasi attribuire che all’interposizione dello strato arenoso, che vi trattiene una umidità più che sufficiente alla vegetazione delle molte erbe che colà crescevano. Così può spiegarsi la possibilità di coltivare il Salice, i diversi legumi, l’Arancio stesso, in un suolo il cui esterno aspetto, e la natura dello strato superficiale, mentisce la sua vera sostanza. E naturale che là ove alle arene protettrici, sottostanno le crude lave, non v’ è possibilità a cultura alcuna.

La passeggiata alla Schicciola mi procurò la vista completa dell’Arena grande, il cui piano scende maestoso sino al mare, e vi si sprofonda. Anche il fondo di quel mare è della stessa sabbia dell’Arena grande, di cui è il prolungamento.

Quella corrente di sabbia, che sembra fosse fluita, e che serba tanta mobilità, per la inclinazione del suo piano, caratterizza il versante orientale dell'Isola, e sembra segni il corso pel quale le eruzioni del vecchio cratere ebbero il loro sbocco.

Discesi dal cratere, dalla via orientale, che in breve tempo conduce a S. Vincenzo. Poco restavami a fare in quell’isola, se non approfittare di una prima bonaccia, (alla quale il mare allora non parea volesse accennare) e tornare alla bella Lipari, per non correre il rischio di rimanere a lungo incagliato a Stromboli, trattenuto dai venti contrarii; mi disposi dunque a partire, pur troppo dolente di non aver potuto però assistere a nissuno dei meravigliosi fenomeni, che molti scrittori ci hanno de-scritto in modo pur troppo pomposo. Le notizie da me attinte sul luogo, dalle persone più anziane del paese, mi affermarono positivamente, che lo stato di quiete in cui il Vulcano si trovava allora, è di sovente interrotto da furiose eruzioni, i cui effetti si fanno sentire in S. Vincenzo e nell’Isola tutta; spesse volle si avverte un fremito sotterraneo, ed il suolo ne trema, le esplosioni del cratere spesse volte ripercuotendo l’aria veemente, fanno tremare i vetri delle case di S. Vincenzo. Le piogge di sabbia non sono rare, e le case, il suolo tulio di S. Vincenzo sovente ne viene coperto.

Il Padre Russo mi raccontava che molti anni or sono una forte eruzione fece giungere nel versante di S. Vincenzo, una buona quantità di massi, che non lieve danno fecero a quei vigneti. Fra di questi se ne mostra uno enorme, che all’epoca di quel fatto venne a piombare in un vigneto del buon Padre, sconquassando i filari delle vigne — ed era di tanta mole, e tanto l’impeto di cui era animato, per la immensa altezza d’ onde proveniva, che si addentrò di molti piedi nel suolo arenoso. Infine, le apprensioni che in ogni loro dello fanno rilevare gli abitanti di quell’isola, di un timore vago, ma che pur troppo ha un fondo di grande verità, inspirato dal terribile Vulcano che pesa fatalmente sui Strombolesi, addimostra la disgraziata frequenza di quei fenomeni. Anche a me, quell’alta cima del Liscone dietro quale si ascondeva il mostro di fuoco, pesava come grave incubo.

Pure, l’accomiatarmi da quei buoni Strombolesi, mi fu doloroso, come si è di ogni separazione fra gente che non debbasi più rivedere; poiché Stromboli di supremo interesse pel Geologo, poco ne presenta al botanico per la scarsezza delle sue vegetali produzioni, e perciò allora coniavo ben difficile il ritornarvi. II caso poteva forse farmi imbattere con quegli ospitali Isolani su altro suolo, che non fosse l’arido loro scoglio. Ma coloro sapeano pur troppo che quello, li avea visto nascere, e che li avrebbe visto morire, e con un sorriso melanconico impresso della più calma rassegnazione mi diceano: « Noi resteremo quà finché la montagna non ci Schiacci, o la terra non c’inghiotta, e ciò con l’accento di chi sa, che la morte oltre alle sue mille forme, può ben presentarsi colà, sotto le vesti di lave incandescenti, o di piombanti massi, che di quel suolo, la cui faccia è ogni di soggetta alle più strane vicende, del verde campo di S. Vincenzo potrebbe farne un mucchio di nude scorie. Strano attaccamento dell’ uomo per la terra sua nativa!

Dirò fra parentisi, che furonmi di risorsa a Stromboli, ove buona parte delli più comuni cibi sono sconosciuti, i getti dello Asparagio (l’A. acutifolius) mollo abbondanti alla Schicciola, e le minestre di Rapuddi (Brassica fruticulosa), ovunque sparsa alle Eolie, e delle foglie del Finocchio comune. Anche colà bisogna andare con delle provviste.

I miei esperii marinari di S. Marina, approfittando della calma, successa ai venti fortunali del di avanti, e della brezza favorevole, in 8 ore toccando Panaria, mi condussero a Lipari, che dopo le privazioni di Stromboli, mi sembrò un vero. Eden!

 

 

M. LOJACONO LE ISOLE EOLIE E LA LORO VEGETAZIONE 2 parte Lipari.

Una linea di vapori da Palermo settimanalmente va a Lipari toccando Messina, chi ha in animo di visitare le Eolie dovrà dirigersi dunque a Lipari che del resto merita il primato essendo la più grande, e la più ricca delle Isole Eolie ed il Capo luogo del Circondario.

Da Milazzo in 2 ore e mezza circa si è a Lipari, che dal bordo si presenta ridente e pittoresca. La corona di monti che dal Nord al Sud , a guisa di anfiteatro, dispongonsi sulla capitale Lipari forma una vista incantevole, e li alti colli il M. Pelato la Chirica e tutta la estrema punta del Nord composta di pumice, colpiscono di meraviglia a chi come me vedea la prima volta lo strano spettacolo di quei monti bianchi che si sarebbero creduti coverti da una falda di neve.

Un bel porto riparato dai venti di Nord dal Promontorio del M. Rosa, e da quelli tanto impetuosi nei nostri climi di Sud Est dalle alture del Capistello, offre ai molti legni che vengono a caricarvi le produzioni dell'Isola, un sicuro ricovero.

Il Castello fabbricato sovra un'alta roccia di lava che propende sul mare, sembra sia stata la più antica costruzione dell'Isola, e quella a cui si aggregò la sottostante città che conta un'epoca più recente.

Sin dai primi passi che si fanno nell’Isola si rileva la vulcanica natura del suo suolo, varcando le porte della città si cammina su terreni coverte di arena vulcanica e l’occhio spazia sulle amene campagne tutte consistenti di vigneti la cui cultura è generale tanto a Lipari che in tutte le altre isole. I vigneti coprono tutte le falde dei colli ed inerpicansi sino alle loro cime, sorpassate le alture che sovrastano la città s'è nel centro dell'Isola, il quale si presenta molto piano, e tutto coltivato. Le pianure di Castellaro, Maduro, Varisana, Piano Conte , sono le contrade più deliziose dell'Isola, ed i centri produttivi della Passolina e dei vini più squisiti.

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I vigneti da noi coltivansi generalmente in filari distanziando ogni piede ad un metro circa, potasi la vite lasciando ad ogni piede un sol tralcio che si attacca ad un palo di canna o di castagno, là ove questo albero si trova abbondante, in guisa che i tralci avessero un sostegno, e quando la vigna ò in piena vegetazione arlifizialmenle non fassi che attorcigliare tutti i getti dell’anno al sostegno principale. Altrove usan condurre i tralci da un palo ad un altro, lasciando correre per tutto il filare lunghe pertiche onde aiutare il cammino dei tralci. Ebbi occasione di osservare il metodo che usasi alle Eolie che lo riferisco parendomi di gran lunga più giovevole alla buona maturazione dell’uva. Cominciasi col lasciare alla vite due e più tralci della lunghezza di circa 70 centimetri, ed oltre ad assoggettare queste ad una pertica, si pratica fra i filari nei due sensi per la lunghezza e la larghezza del vigneto una quadratura di canne che si collegano tutte formando dei quadrati perciò dt80 cent, a 1 m. q. circa, in guisa chè i tralci passano da una vite all’ altra dello stesso filare non solo, ma al filare attiguo formando in tal modo un fitto pergolato che ripara quasi ermeticamente il suolo sottostante. I tralci così sostenuti sostengono i grappoli che pendono in bel modo dal pergolato senza che abbiano contatto col suolo come avverasi da noi, e vengono nel tempo istesso a maturare al coperto del sole troppo diretto che può dannegiarli, e dai venti, eccezionalmente freddi o caldi. Un tal metodo ha i suoi grandi vantaggi, oltre che le piantagioni sono più spesse che da noi, ed il fogliame riesce cosi di riparo al suolo che non perde così presto l’umidità naturale, (e ciò che importa assai in un paese come le Eolie, ove l’està è lunga , le piogge sono scarse, e la qualità del suolo arenoso, e grandemente poroso lascia filtrare troppo presto le acque piovane), il fogliame protegge il fruito dalle estreme variazioni atmosferiche sia pel soverchio ardore solare, sia per li rapidi abbassamenti di temperatura, in guisa che il fruito matura lentamente sotto l’azione costante di una temperatura uguale.

Forse da noi un tal sistema sarebbe inattuabile , essendo i nostri terreni per lo più tenaci per la natura argillosa, e richiedono molla forza a lavorarli, ed i lavoranti non potrebbero coll’inciampo delle canne a riquadratura usare la vanga con molto effetto. A Lipari il suolo tufaceo arenoso, pumicio, o di lave decomposte prestasi nel modo più facile ad essere lavorato, ed infatti quei contadini fanno appena uso delle nostre vanghe, lavorando invece con vanghe piccolissime a guisa di erpice che conficcate ad un piccolo bastone, servono bene a smuovere il terreno tanto leggiero, ed i contadini sanno introdurli agevolmente sotto i pergolati, fra i quali hanno un’ arie propria a sapersi districare, e muovere.

Ho detto che le siepi di cui attorniano le culture gli Isolani, per proteggerle dai venti spesso impetuosi, sono quelle vive fatte dalla Ginestra (Spartium) che là prende le proporzioni di un bello arbusto e che riesce assai allo scopo rompendo gli impeli dei venti a meraviglia, pei suoi rami molteplici e virgati. L’Erianthus Ravennae graminacea arborescente è sparsa dapertutto, ed oltre a servire di riparo, somministra una discreta quantità di canna, pullulando incessantemente pel suo fusto sotterraneo. La Genista ephedriodes volgarmente intesa Fascina, riesce anche assai vantaggiosa all’identico scopo.

É strano il vedere vegetare tanto bene le vigne come del resto tante altre culture sul suolo di pura pomice, come si è nei pressi di S. Angelo di Pirrera di S. Elmo e di M. Pelalo. Più ancora il nostro Salice (Salix Alba L.) tanto amico delle umide sponde dei ruscelli reggere così bene in terreni che parrebbero e sono difatti tanto aridi. Il Salice è coltivato nelle Isole, traendone i coloni partito per attaccare i tralci delle viti ai sostegni di canna.

La canna comune è molto rara alle Eolie, e non vidi che un solo piccolissimo canneto a Salina, quegli Isolani la ritirano dalla Sicilia, e siccome la quantità per palizzare tanto numero di vigneti deve essere grande, si può supporre che il tributo che le Isole pagano per l’importazione di questo articolo, deve essere grave; osservando in qual modo meraviglioso certe piante si assoggettano a regimi del tutto differenti di cultura, dalle condizioni alle quali sono sottoposte in istato naturale nel mio giro per quelle Isole, io credo che anche la canna potrebbe coltivarsi abbenchè senza il concorso dell’acqua che sembra le sia indispensabile, e non capisco perchè non se ne sia diffusa la cultura , venendo in tal modo i produttori a sgravarsi di un peso che pagano annualmente per una materia che anche da noi costa tanto cara.

Citai quanto siano scarse le naturali sorgenti nelle Eolie e quale aspetto da tale difetto ne prendono le campagne, e le sue produzioni. Gli isolani non pertanto, fanno tante culture senza di tale elemento, come il faggiuolo che seminano in aprile fra mezzo i loro vigneti, ed ogni altro genere di ortaggi.

A questo proposito cade acconcio il dire che di quel l'acqua che con tanta sollecitudine ogni contadino serba nella sua cisterna, non di rado se rie dedica una porzione allo inaffiamento di qualche delicata pianta, che in parca dose si dà a quelle annuali nel trapiantarle dal vivaio al posto come si è pel faggiuole e qualche altra di tal genere, e che senza quest’impulso nella prima età forse non potrebbe svilupparsi.

Gli abitanti sono tutti provvisti di cisterne ove fanno racchiudere mediante apposite tabulatore le acque piovane. Tutte le case delle Eolie sono sprovviste di tegole, hanno tutti tetti piatti a guisa di terrazze leggermente inclinate in un senso, acciò le acque che cadono nella stagione invernale, scolassero nelli sottostanti recipienti o cisterne, che se ne incontrano ovunque sparse per tulle le Isole e sono un gran ristoro per il proprietario non solo ma pei viandanti. E per queste ragioni, più facilmente percorrendo queste contrade si può estollere la sete, che presso noi in Sicilia ove certe contrade ne mancano assai , e l’uso delle cisterne non esiste. Lo strano aspetto della città di Lipari è dovuto anche all’ insolita costruzione delle sue case, che per le loro forme rammentano le piatte casipole dei villaggelti della costa Africana.

Per altri graziosi particolari si distinguono le case delle Eolie, che attirano tanto dal loro esterno aspetto. Le mille abitazioni che su tutte le Isole sono sparse in mezzo alle proprietà rustiche, sono sempre imbiancate e danno perciò un’idea di nitidezza, sono per lo più ad un sol piano terrano il cui prospetto dà su un terrazzino, sul quale quasi sempre sono erette due o tre pilastri in muratura, che e presso il ricco e presso il povero sorreggono un pergolato che diffonde le sue ombre benefiche in una stagione in cui il sole come da noi e cocente, ed in cui l’isolano è avido di frescura tanto più in paesi ove gli alberi, ed i boschi sono cosa tanto rara. Allo scopo di procurare agli abitanti un po’ di fresco, sono anche fatte le immancabili aperture rotonde, che vedonsi sul prospetto delle case, per mantenere una corrente d’aria se le porte volessero tenersi chiuse.

Gli agrumi sono coltivati alle Eolie all’asciutto, in aprile molti alberi conservavano ancora i loro fruiti, i Limoni anch’essi mostravano una vegetazione lussureggiante. Questi alberi non sono però mollo abbondanti, ed il loro prodotto non è mai sufficiente al consumo del paese che li ritira da Messina, e dalla costa Siciliana; ma mi si diceva che eravi qualche proprietario che possedea tanti alberi da poterne esportare anche a Messina. Io stesso vidi dei grossi alberi carichi, allora delli soavissimi fiori nei tufi arenosi della contrada Nunziata, cresciuti senz’acqua e vivere rigogliosamente.

Mi feci meraviglia il vedere la eccellente qualità dei loro fruiti, insisto su tale punto essendo la cultura degli agrumi una quistione vitale per la Sicilia, ed ogni osservazione su quest'albero prezioso che e stato soggetto a tante peripezie, credo potesse giovarci.

Da una serie di anni gli agrumeti in Sicilia sono stati invasi da terribili mali che sia attaccando la interna organizzazione dell’albero colla malattia intesa gomma, sia il fogliame ed il frutto stesso colle svariate forme di crittogame intese tigne, hanno seriamente compromesso la produzione, ed il frullo perdendo quel bello aspetto che gli è proprio, ha perduto anche quella fama, per la quale vantavansi gli agrumeti di Palermo. Sappiamo noi come si è tentato, ma vanamente sinora di combattere questi mali restituendo agli alberi quella vigoria loro primitiva, ed il nostro Governo saggiamente in quest’anno a stimolare gli studi sulla ricerca per vincere il male, abbia istituito un premio vistoso por chi avrebbe presentato tale antidoto che avesse potuto combattere il fiero male della gomma.

Da notizie mollo attendibili io so che a Lipari ancora non si conosce il male in parola. Come va ciò? io non saprei dire sicuramente se un tale fenomeno sia dovuto alla cultura, a cui soggiace a Lipari, o se invece devesi attribuire, l’essere gli agrumeti ancora immuni dal male, all’eccezionale circostanza dell’isolamento dei giardini di quel suolo, dal centro d’infezione, (finché sia provalo che la gomma è un male contagioso come lo è l’Oidio per le vili o la Phylloxera.) La quistione è un po’ troppo complessa per essere trattata tanto leggermente in questi fogli. Bisognerebbe anzi tutto provare se il male della gomma é un male infettivo, i cui germi diffusi nell'aere possono essere trasportali dai venti. Io non credo sia causato da germi, nè tampoco che sia un male infettivo al pari dell’Oidio e di tanti altri, e perciò non credo che l’immunità degli agrumi di Lipari sia dovuta alla sua eccezionale condizione topografica, poiché con tutta questa sua vantaggiosa posizione, l’Isola avendo certamente dovuto ricorrere per le sue piantagioni alle coste siciliane, a Milazzo, a Barcellona , a Messina, emporio degli agrumeti ove il male è diffuso, difficilmente gli altri alberi avrebbero potuto non attaccarsi, o evitare il supposto male contagioso.

Adunque conviene piuttosto credere che la gomma sia un male come ogni altro a cui vanno soggetti, e gli organismi animati, e gli inanimali, ed in tal caso noi dovremmo ricercare la causa dell’assenza della gomma a Lipari, unicamente nelle differenti condizioni in cui vive l’arancio od il limone all’Eolie e in Sicilia, all’effetto della cultura secca, o della irrigazione. Quali due metodi producono in tutto i vegetali differenze radicali e nell’intima loro struttura, e nell’esterno loro aspetto.

Le piante dei terreni secchi, presentano un aspetto proprio e manifestamente riconoscibile da quello dei terreni umidi, ed acquitrinosi, dippiù piante di identica specie che l’uomo per gli usi che ne trae, toglie dai luoghi nativi, per sottoporle a condizioni differenti di cultura, perdono molti dei loro caratteri esterni, e benché conservando i caratteri di forma inerente alle specie, mutano i loro gusti, ed ogni giorno noi vediamo nei nostri orli quale impronta speciale la cultura dà alle specie identiche, spontanee, o acclimate.

É inutile l’insistere sull’evidenza di tale fatto, anche dal senso del gusto noi giungiamo a far differenza tra i! Finocchio di montagna, e quello dei giardini, tra la Bietola degli orti, e quella dei nostri campi incolli.

Un eccesso d’acqua sviluppa grandemente i tessuti vegetali, e le dimensioni di una pianta ne crescono in pro-porzione, non ne cresce però il volume assoluto, e la fibra vegetale non è così consistente e spessa, e non ha tanti succhi elaborali, quanto ne ha una pianta esposta al sole, e che vegeti sulle nostre montagne. I succhi propri sono tanto più spessi e ricchi di sostanze quanto più spessa è la fibra.

Posto ciò noi potremmo agevolmente credere che in un organismo, ove le funzioni sono più perfette e più complete per la maggiore elaborazione dei succhi, che è in ragione diretta della favorevole condizione di esistenza del vegetale, la vitalità è maggiore. Ed ove la vita è rigogliosa, attive le funzioni, i germi malefici difficilmente, o almeno con minore probabilità di riuscita giungono ad attaccare l’organismo, ed in tal caso nulla d’improbabile che gli agrumi delle Eolie si siano trovali mal disposti ad ammalarsi, e conservino una salute di cui non godono gli stessi alberi in Sicilia.

Chiedo scusa se una quistione pur troppo interessante nella quale io vorrei saper discernere mi ha distolto dall'argomento.

Se l'assoluta mancanza di acque sorgenti priva come dissi quelle campagne del brio che infonde quell’ indispensabile elemento, non priva adunque quelle contrade di lutti i godimenti che somministrano le svariale produzioni del suolo — produzioni limitate come ho dello riguardo agli agrumi, ma sufficiente ai bisogni delle Isole tanto da non ricorrere alla importazione.

Non è così per l’ulivo che è poco diffuso, come anche pel carrubbo , a discapito dell’economia Eolica che è costretta chiedere fuori l’olio, non solo; ma a discapito dell'attrattiva del paese che come dissi, privo di boschi può in certe parli sembrare monotono ed arido per la mancanza di alberi di allo fusto, e delle ombre benefiche.

Un tempo tutte le Isole erano fitte boscaglie, mano mano coll’accrescersi della popolazione le culture hanno conquistato palmo a palmo il terreno, ed i boschi, che nessuna legge forestale giustamente avrebbe potuto garantire, vanno ogni giorno sparendo con grave danno delle condizioni climatologiche di quelle Isole, soggette a tanta penuria di acqua.—Addippiù dissodamenti dei terreni posti sulle cime degli alti colli, dovrebbero saggiamente essere impediti, frenando le superiori boscaglie, il soverchio impeto delle acque che facilmente trascinano gli strali di terreno vegetali sottostanti, causando spesso le frane o meglio i dirupamenti di un suolo che per natura propria cede ad un minimo urto.

Ma il bisogno delle legna è impellente alle Eolie, e ciò è causa principale della scomparsa delle boscaglie, seconda ne è l’incremento delle popolazioni che pur troppo ristrette nell’ Isola, non possono tollerare il soverchio lusso di mantenere i boschi, essendo di loro maggiore risorsa, la coltivazione dei terreni di cui in ogni modo pro-curano di trarre profitto.

A Lipari restano tuttora lembi delle folte boscaglie di una volta, presso il villaggio di Canneto, là ove esisteva un cratere che tuttora si chiama Forgia Vecchia, gli Elei, le Eriche, ed i Cisti, ne sono la base principale; presso la Cima della Pirrera nelle lave terrose e nel suolo pumiceo delle Rocce Rosse presso il Capo Castagna, e nel versante occidentale di Monte S. Angelo nei profondi burroni che portano le acque al Vallone Bianco.

Il centro dell’Isola che è un vasto altipiano è il centro della cultura della vite, e quelle campagne sono le più ubertose dell’Isola, e rivaleggiano con i rinomati vigneti di Pirrera di Piano Conte e dell’altro versante Orientale di S. Angelo; sono pochi i terreni che negansi alla cultura e sono questi i suoli di lava massiccia e nulla affatto decomposti r tanto da sembrare fossero state eruttate da poco tempo in qua, ma che debbono contare centinaia e centinaia di secoli, poiché da 3000 anni in qua nessun ricordo esiste di recente attività nell’Isola.

Una pianta particolare a Lipari ed alle altre Isole è il Cappero. — Questo arbuscolo è spontaneo alle Eolie, da noi trovasi nella regione marittima fra le rupi calcaree, ma non credo facciasi molto conto dei suoi frutti, almeno in tanta vasta scala per come si fa a Lipari, ove quella produzione è un ramo principale di commercio. Incontrasi questa pianta dapertutto sui suoli vulcanici e sulle lave che stanno più presso al mare, in istato selvatico; la cultura che gli Isolani danno a questa si riduce a ben poca cosa, in febbraio e marzo potano i piedi togliendo loro tutti gli getti dell’annata scorsa, in modo che non lasciano che il solo fusto, che a guisa di informe ceppaia comincia ad emettere i nuovi rami in aprile, che deboli e cadenti scorrono sul suolo o pendono elegantemente dalle rupi. Col taglio la produzione dei rami si accresce a dismisura ed è ciò che si pretende per avere una produzione più abbondante di fiori. Ma il fiore non è precisamente quel che si raccoglie, e i capperi, sono le buccie dei fiori e sono questi tanto più saporiti quanto meno sviluppati essi si raccolgono.—I grossi capperi cioè quei bottoni che si sono lasciati maggiormente sviluppare hanno sapore meno piccante, e più erbaceo, hanno perciò minore valore; ma al momento della raccolta non si fa distinzione dei grossi e dei piccoli, si staccano dal piede, e portate alla città con aceto e sale si curano, e non ò che dopo che si separano in diverse categorie secondo le loro dimensioni, che messi in barili si dispargono per tutti i paesi.

Avendo parlato del cappero, dell’ulivo, della vite, poco mi resta a dire volendo esaminare tutte le produzioni dell’Isola; la cultura dei cereali non è molto estesa ed il frumento che si produce non è sufficiente al consumo, coltivasi la segale, l’orzo massimamente a Panaria, ove di quest’ultimo si fa pane, ma che razza di pane!

L’esame delle culture di Lipari mi ha forse fatto scrivere di soverchio, quanto ho detto mi dispenserà di parlarne in seguito, nella descrizione delle altre Isole, essendo le culture identiche in tutte; io credo che a volere dare una idea della vegetazione di un paese, giova assai più che citare le produzioni spontanee, il descrivere quelle più estese sparsevi da secoli dalla mano dell’uomo. Più che le forme dei monti la configurazione del suolo, il manto che la natura spande su questo, vale ad imprimere ai luoghi un’originalità propria, e l’effetto che se ne produce, lascia in chi li ha visitati un’imagine che la distanza ed il tempo non può cancellare.

Eppure quanta speciale originalità, ad ogni passo non si rileva in quel suolo corroso, frantumato dalli spaventevoli cataclismi che generarono queste Isole!

Per una serie di elevati poggi si ascende il versante orientale, il cui vertice formato da una considerevole elevazione (600 m. circa) che è la cima di S. Angelo, sta quasi al centro dell’Isola, dal quale si ha una veduta generale e su Lipari e sull’intero Arcipelago, la prolungazione settentrionale è distinta dall’alto Monte della Chirica, che è il centro della regione pumicea, e che va a finire coll’estrema punta dell’isola al Nord, col Capo Castagna; al Sud Est, formando l’estrema ala del vasto semicerchio che circonda la città di Lipari è Monte Gallina o Giardina , cratere estinto che separato dalla catena principale da una stretta valle che è la Valdimuria , va collegato dal lato Sud Est ad altre minori elevazioni, termina l’Isola da quel lato che uno stretto canale, di 2 kilom. circa, la separa dalla vicina Isola di Vulcano. Il versante occidentale insensibilmente cala nei piani a cui accennai di Castellaro, di Maduro etc. che terminano verso il littorale di Ovest Sud-Ovest con delle orride rocce vulcaniche di una grande elevazione, e che rendono quella regione dell’Isola deserta selvaggia, è la spiaggia che bagna il Canale di Salina, inospitale, pericolosa e quasi inaccessibile. Fa questo littorale un contrasto sensibilissimo col littorale orientale tanto ameno, sicuro e popolato.

Pria di visitare più esattamente la parte Sud-Ovest, volsi i miei passi verso il Nord dell’Isola, e scendendo dal S. Angelo, non senza dare un ultimo sguardo all’incantevole panorama che si gode, mi trovavo giù fra la nuda pomice che sotto i miei passi rimbombava, come se di sotto a me si trovasse qualche immenso vuoto.

La regione merita ogni più attento esame del geologo, ma il botanico ne resta desolalo, non offrendo quelle terre la benché minima vegetazione, o per essere più veritiero la sola Cupularia graveolens, volgarmente Prucàra che sembra l'unica pianta che sappia accomodarsi a quello ingrato suolo, avendola incontrala anche sulle aridissime lave di Vulcano. Volsi dunque la mia attenzione alle particolarità della terra, e fu allora che dovette lamentare in me la poca conoscenza delle scienze geologiche al cospetto di tanta varietà di pietre che io non sapevo caratterizzare. Notai Ira il candido manto della pomice i grossi ciottoli ed anche le immense masse di una sostanza la più nera che si possa immaginare, e che non era che la ben nota ossidiana di cui è coverta l’Isola tutta. La compattezza di quella pietra e meravigliosa, e non c’ è modo di poterne strappare dai massi, che sempre si scontrano erratici, e come se fossero statevi trasportale o buttate da forze sovrumane, il benché minimo frammento. Sulla liscia parete dell’ossidiana, vegeta non pertanto qualche Lichene. E strano l'osservare, le stratificazioni che spesso vi si veggono immedesimale, sono strali esilissimi di pomici alternati dalla medesima sostanza sottoforma di minute lenticelle, io non saprei spiegare in qual modo due sostanze tanto eterogenee possano riscontrarsi e formare un unico blocco, e su tale riguardo non posso che riferire il lettore alle belle pagine che l’illustre Spallanzani scrisse nel suo viaggio alle Eolie.

Osservate le miniere di pomice, le cui buche strette si internano nel seno del monte per considerevoli traili di profondità, e sembrano delle tane di mostruosi animali, uno sguardo alle Rocce Rosse è cosa interessante, e volgendo i passi verso il Nord si affaccia ad uno spaventevole baratro, che non si saprebbe dire in qual modo fosse stato formato; senza che la vista abbia il tempo di prevenire i passi, tulio ad un trailo il suolo manca ai vostri piedi, ed un abisso di un 150 m. si presenta, in fondo al quale evvi un discreto piano lutto intersecalo di culture (per lo più vigneti,) in capo al quale una lingua di terreno, si vede disegnarsi sulla bianca pomice tutta differente per colore, e per natura, dalle rocce circostanti in mezzo alle quali è incastrala. E una corrente di lava di un color mattone che tende al rosso il più vivo, e che si allunga formando il Promontorio della Castagna. È un punto il più interessante dell’Isola, e pel geologo un vasto campo di belle osservazioni e di interessanti raccolte.

Il ritorno a Lipari pel Pelato è anche una gita di vivo interesse, il M. Pelato è pure pomice pura—per questa via si scende al Canneto ed è questa la rotta che seguono i poveri trafficanti di pomice nel trasporto della loro mercanzia a Canneto, ameno e pittoresco villaggetto che sta sulla spiaggia di una piccola baia, e che è l'emporio del traffico della pomice.

Una via piana e la più facile nell’Isola porta a Lipari, ma a chi vuole osservare ed il suolo e le sue produzioni non é lecito il seguirla, ed io pei boscosi fianchi del versante del M. Rosa, salii sulla cima di quel pittoresco promontorio che geologicamente, è senza dubbio un vero tesoro, per la svariala quantità di lave di ogni colore dal bruno nerastro al rosso ed al giallo sulfureo, che passa al verde chiaro che lo compongono. — Il nome di M. Rosa è mollo bene adattato. Però anziché esplorarne la cima, chi vuole studiarne la struttura deve indagarne gli diruti fianchi che propendenti sul mare ad ogni istante minacciano volervisi precipitare.

La ricchezza delle vetrificazioni del M. Rosa non è inferiore a quelle del Capo Castagna, sono lave ridotte allo stato di vetro per la potenza del calorico che un tempo le eruttò.

La Chirica, il Pelalo, Campo Bianco, e tutto il nucleo pumiceo dell’Isola, credo debbano occupare 1j5 della intera superficie dell’Isola che resta perciò nudo di ogni vegetazione, poiché sembra che la pumice e tutte le vetrificazioni siano i terreni i più refrattari alla decomposizione per mezzo del tempo e degli agenti atmosferici. Privo quel suolo del benché minimo strato di terriccio vegetale, ogni vegetazione per necessità vi è bandita.

Credo però che ove la pomice si trovi frantumala a guisa di ceneri, e non poco profonda la cultura della vite, possa riuscirvi, avendo osservato dei campi di pura pomice sin sulla cima di S. Angelo, ove si coltivava la vile ed il salice. Non potrei dire se quest’ultimo attinge quelle dimensioni nelle quali si mostra da noi sulle rive dei torrenti, poiché allora in aprile cominciava a sbucciare.

Il litorale occidentale come dissi non è meno inospitale della parte settentrionale, se questo è il dominio della pomice, quello è tutto erto di rocce scoscese di crude lave, le cui sommità elevansi a ben 350 metri sul mare, formando le Punte di Mazzacaruso, di Patàsa e di Palmeto, ed una serie di aride colline che scendono ripide sino alla riva. Le lave sono più recenti, non offrono alcun segno di decomposizione, e sembrano eruttale da ieri, e se la loro antichità è incontestabile, deve però ritenersi che questa parte dell’Isola conta una più recente data di sollevamento, e l’attività sotterranea che non è del tutto spenta, si rileva ad ogni passo, nelle impronte delli sassi, e nei fenomeni che tuttora si manifestano. Sono questi locali desolali, ma pur troppo imponenti nella loro selvaggia grandezza, questo lato dell’Isola rammenta in tutto le squallide scene di Vulcano e di Stromboli. Dai fianchi di un colle dirupato e lutto tinto dalle esalazioni solforose ha origine una calda sorgente termale, che scorrendo precipitosa per la china, e seguendo le sinuose crepature del suolo di lava, va a scaricarsi nel mare. — E questa sorgente intesa il Bagno Secco, forse perchè un tempo esistettero colà delle stufe, ma se le stufe sono scomparse, l’acqua esiste, onde il nome è poco adatto ; salvo che la sorgente non fosse venuta meno in epoche remote, e quasi a disseccamento, e che ora fosse di nuovo ricomparsa, ed ora il nome di Bagno Secco è rimasto a dispetto del capriccioso ruscello che silenzioso ed inosservato continua a portare il suo tributo di acque termali.

Tutt’intorno, le pietre sono di colore sulfureo, anzi in gran parie contengono lo zolfo in perfetto stato di purezza. — La Punta del Palmeto, colle a 300 m. circa, che si trova a poca distanza dal Bagno Secco, e che sovrasta la spiaggia dei Morti, (infausta riva ove un temporale fracassò or sono molti anni un legno, ed ove il domani galleggiavano i miseri resti di 120 annegati), attrasse la mia attenzione, curioso di sapere se mai il nome che questo colle portava, avesse relazione alcuna colle Palme che un tempo forse vi cresceano.

Fui fortunato nelle mie ricerche su quei balzi taglienti che sovrastano pericolosi precipizii, trovai un piede di Chamaerops humilis L., la nostra Scoparina come volgarmente noi l’intendiamo, un sol piede che forse era l’unico allora esistente, e ogni mia ricerca susseguente fu vana. Ma il fatto era chiarito, il Palmeto chiamasi cosi per essere un tempo un locale produttivo di Palme, era quanto io voleva saperne, oltreciò avevo constatato crescere il Chamaerops anche sulla più ruvida lava.

Di là mi dii essi all'altra sorgente termale di maggior rilievo che alimenta i celebri bagni di S. Calogero, che se ai tempi di Spallanzani erano in tale stato tenute da non potere gli ammalati approfittare di quelle acque miracolose, ora presentano un bello e vasto edifizio fornito di tutte le comodità che richiede la vita, eretto per cura del Municipio di Lipari, che in quell’azione ha saputo dare una vera sorgente di traffico e di benessere a tutta l’Isola.—Il sito ove sorge l’edifizio è ridente, la sua vista sul mare e sulle isole vicine è pittoresca, e fa di questo locale una amenissima residenza per gli invalidi.

Impiegai sette giorni ad esplorare Lipari, il versante Orientale è fertile ed ogni angolo di terra offre svariale produzioni vegetali, i dintorni di S. Angelo il M. Rosa la contrada Valle la Guardia e le Coste del Cappero offrono buona messe al Botanico. Le roccie marittime di quest’ultima località producono la rara Centaurea aplolepis Moret, l’Helichrysum liltoreum Guss. e la Cineraria bicoIor Guss. piante quasi esclusive di Lipari e delle Eolie.

Restai molto sensibile alle tante gentilezze dei Liparoti che colle loro informazioni e colle cortesi esibizioni resero più facili le mie ricerche, la bontà la buona fede di quegli abitanti è estrema ed io non saprei quali termini usare per esprimere loro la mia gratitudine.

Fo voti assieme a loro, che il Governo Italiano pensi alla fine di migliorare le condizioni di tulle le popolazioni delle Eolie, procurando di connetterle più intimamente colla Sicilia, e col resto del Regno, e faciliti le comunicazioni, provvedendo Lipari di una stazione telegrafica, e di un cordone sottomarino che la riunisca col promontorio di Milazzo.

La scarsezza delle comunicazioni, la segregazione dal mondo intero, son queste i soli mali che si lamentano a Lipari. Le spese per siffatta istituzione non sarebbero gravi, il cordone sottomarino tra Lipari e Milazzo non potrebbe oltrepassare la lunghezza di 40 kilom., in ogni modo è un beneficio che quei buoni cittadini italiani che pagano le imposte meglio che ogni altro cittadino del Regno, che non hanno in cambio tutti gli altri vantaggi delle altre popolazioni, poiché non hanno ne potrebbero pretendere nè strade rotabili, nè tanto meno ferroviarie, è un benefizio replico che dovrebbesi ad ogni costo loro concedere.

 

 

 

 

Avevo scoperto M. LOJACONO POJERO quando, facendo ricerche sul Cappero, trovai riferimenti in FLORA SICULA, testo del 1888-1908, sulla pianta alle Eolie, ….”sulle rupi vulcaniche Stromboli Salina….”. Successivamente ho avuto modo di trovare in formato digitale il testo: LE ISOLE EOLIE E LA LORO VEGETAZIONE del 1878 di cui ripoterò a puntate alcuni stralci.

M. LOJACONO LE ISOLE EOLIE E LA LORO VEGETAZIONE 1 parte

RECATOMI a visitare il Gruppo delle Eolie per incarico avutone dal mio maestro Prof. Agostino Todaro, allo scopo di esplorare i loro prodotti vegetali in quel breve tempo che io potei dedicarvi giunsi a percorrere piuttosto esattamente tutte le Isole, meno di Alicuri e Filicuri a causa della loro posizione eccentrica dal gruppo di Lipari, e della incostanza del mare, e ciò con grande mio rammarico .

Ciò non pertanto il numero delle raccolte fu piuttosto ragguardevole, e nel loro complesso danno un'idea esatta della vegetazione spontanea del Gruppo, tanto interessante, parte della nostra regione Mediterranea . La parte seconda di questo mio scritto, dà un catalogo delle specie da me rinvenute .

La prima racchiude idee forse un po ' troppo lontane dallo scopo a cui mirò la mia escursione, sono osservazioni fatte e notate sul luogo, e valgono a dare un succinto prospetto della natura di quel suolo speciale, e tanto degno delle più serie investigazioni, del clima che tanta parte si ha nel carattere della vegetazione, su alcuni punti di geografia che è strano tutt'ora siano mal conosciuti, sullo stato di cultura , e di vegetazione che l'uomo vi ha importato, e sui costumi degli abitanti di tanta pregevole parte della nostra Sicilia.

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Dedito al disimpegno della mia missione, nel percorrere quei fioriti sentieri, o ascendendo quelle roccie corrose dal fuoco io ebbi l'agio di acquistare nuove idee, e di seguire una serie di osservazioni , che io qui riunisco in un assieme, che spero varrà a completare le linee di un passaggio che io a grandi tratti espongo al mio lettore; del resto avrei temuto da un canto sembrare troppo arido, se mi fossi limitato alla semplice enumerazione delle specie da me raccolte, lungo le mie esplorazioni , e sebbene della botanica direi che io avessi fatto la mia speciale occupazione, avrei creduto essere pur troppo specialista se mi fossi tenuto negli stretti limiti di una nomenclatura, che alla maggior parte dei lettori resta incompresa.

Questo mio scritto è non per tanto dedicato a quei che come me si occupano di una scienza tanto vaga ed interessante che disgraziatamente fra noi non ha molto cultori; mira a far conoscere la Flora di questa regione che per la sua posizione geografica dimostrerebbe avere una individualità propria. E di questi studii parziali in date circoscritte regioni io opino potranno essere d’interesse e di aiuto, e saranno mi lusingo tanti briccioli di scienza che dovremmo tutti a gara portare alla formazione dui quel grande edifizio che uno dei più dotti nostri botanici sta elevando, colla compilazione di una completa Flora della nostra Italia. E tutte quelle osservazioni che io non ho temuto pubblicare sulla regione da me percorsa, io non credo potranno sembrare superflue, anzi mi fa piacere il pensare che siano tali da portare più luce sulla enumerazione delle specie da me rinvenute.

Una parola di scusa verso coloro che potrebbero attendersi la completa raccolta di una Flora Eolica.

Il Gussone che credo fu il primo che visitò il gruppo di Lipari, nella sua opera la Synopsis Florae Siculae dà la enumerazione completa (se mai tal parola può adoprarsi in investigazioni di simile fatta) delle specie che crescono alle Eolie. Le mie osservazioni mi hanno messo al caso di assicurarmi che le ricerche del Gussone non poteano essere più esatte e precise. E tutto ciò che noi ci abbiamo sul Gruppo per quanto riguardi il lato della Botanica; poichè quei che seguirono le sue ricerche nulla ci lasciarono da aggiungere alle prime del Gussone, il Calcara sia per vantare piuttosto una scienza geologica a quella delle piante, il barone Mandralisca per avere voluto, e ciò a sua lode, tentare sul gruppo le più svariate ricerche scientifiche su tutti i rami di Storia Naturale, a quale vasta mira non per tanto quegli riuscì egregiamente, e ancora Lipari e la nostra Sicilia parlano di quel genio pur troppo presto rapito alla sua terra , e che tanto illustrò quelle interessanti isolette.

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Dal catalogo che io presento si scorge che il numero delle specie che io raccolsi si eleva a' più di 500 circa, tendo a far rilevare ciò unicamente allo scopo di accertare che perciò alla Flora Eolica si deve attribuire un maggior

numero di specie che non è quello che l'Illustre Gussone cita nella sua Flora di Sicilia, che non supera il numero di 600. Se le mie ricerche avrebbero potuto effettuarsi per una più lunga parte dell' anno o almeno se mi riuscirà altra volta recarmi in quelle Isole in stagioni diverse da quella in cui io le visitai, v'è dunque ragione di ritenere che la Flora Eolica, se non è delle più speciali, è certamente più ricca di quanto sinora noi abbiamo potuto ritenere.

L'esposto gioverà io spero a scusare l'esistenza di alcuni vuoti, che in appresso mi auguro giungere a colmare ed a far ritenere questo scritto un frammento della Flora delle Isole Eoliche…………………….

Il Gruppo comprese le Isole di Alicuri di Filicuri conta 13 isole, delle quali 5 cioè: Dattolo, Liscanera, Bottaro o Tilanavi, Lisca Bianca e Strombolicchio sono scogli.

Nessuna di queste ultime è abitata , nè potrebbe mai esserla , Dattolo e Strombolicchio sono scogli a picco , Liscanera , Panarelli , acute guglie spazzate dalle onde, e spauracchi dei naviganti , Bòttaro o Tilanavi , e Lisca Bianca due scogli piuttosto piani che assieme a Basiluzzo hanno una miserabile vegetazione, e quest'ultimo vasto baluardo di rocce a picco , una magra cultura che potrebbe sostentare qualche famiglia, e che un tempo senza dubbio fu abitata, osservandovisi tuttora vestigie di antiche fabbriche.

Lipari è la più grande del gruppo, dista dal Capo di Milazzo 22 miglia circa, Vulcano è la più vicina alla Sicilia, Stromboli la più lontana, Alicuri la più distante dal gruppo, è l'estrema ad Occidente. Salina sarebbe il centro dell'Arcipelago, e per la sua estensione e per la sua importanza è la seconda dopo Lipari. Tutte sono di origine vulcanica, le leve, le scorie, le pomici, i tufi vulcanici, e le materie vetrificate, come gli smalti e le ossidiane s’incontrano ad ogni passo, ed in vario modo ammassate e stratificate formano le montagne le più strane.

Che queste Isole sorsero dal mare in seguito alle più violenti convulsioni non v’ha dubbio, ma quando questi grandi fenomeni avvennero, nesuno lo sa, ed il fatto delle loro apparizioni sulle acque si perde nella notte dei secoli: lipari, Salina, Panaria, Alicuri e Filicuri debbono però ritenersi più antiche. Stromboli e Vulcano che tuttora mostrano i più spaventosi segni della loro attività sono di origine più recente. La comparsa di Vulcanello è l’ultimo fatto più recente dell’azione vulcanica del gruppo e questo fu secondo Posidonio e Plinio, 426 anni pria dell’era volgare.

La ipotesi di molti geologi che tutte le Isole, avessero avuta unica origine, e che formavano pria un'isola sola che potè sfracellarsi , e dai cui frantumi sono nate tutte quelle che noi vediamo oggidi , e ciò a furia di cataclismi o per l'azione distruggitrice delle onde , è un'ipotesi senza base e strana , dappoichè noi veggiamo che quasi ognuna di queste Isole ha un cratere , o un centro di eruzione, e le loro forme coniche, i segni evidentissimi che sovra ognuno di questi coni, si osservano delle estinte bocche , ora addimostrano chiaramente che ogni isola ebbe un'origine propria , ebbe le sue eruzioni, per le quali fu sollevata dal mare.

La posizione del Gruppo circondato dal mare battuto da tutti i venti fece dire che queste isole fossero quelle d'onde scaturissero i venti, e la favola die un corpo a queste ingenue espressioni dei nostri padri, creando Eolo re dei venti, che a suo maggior comodo li scagliava in ogni direzione.

Per le condizioni derivanti dalla posizione topografica delle Isole, la vegetazione di queste ha l'impronta la più caratteristica delle regioni essenzialmente marittime, e sebbene molte di esse elevano le loro cime, a delle considerevoli altezze sul mare, la natura del suolo, l'influenza di un vasto Oceano, che come tutti i mari , mitiga li eccessivi salti di temperatura dando un clima più uniforme e temperato, fanno si, che le loro cime non si vestono di una vegetazione il cui carattere ci potesse far credere , che dalla prima zona marittima noi ci elevassimo ad una regione collina superiore, ove noi potremmo riscontrare , le essenze sue caratteristiche come la querce ed il castagno ; e sebbene io abbia incontrato a Salina sull'alto monte che quasi elevasi a 1000 metri il Castagno , per la scarsità sua, io dovrei ritenere che questo albero non può es servi del tutto spontaneo, e che perciò questo non segna l'apparizione di una zona vegetativa più elevata , che in Sicilia vedesi produrre il Castagno appena a 500 m. sul mare. Onde i boschetti che i nativi non possono fare a meno di chiamare col nome pomposo di boschi , e che ora non come una volta vestono quelle colline ove la vanga ancora non è giunta , sono composti dell ' Erica arborea, dei Cisti, delle Ginestre (Spartium Cytisus , Genista), e dell'Arbutus unedo L. offrendo così il pieno carattere dei fruticeti marittimi.

Sino ai principii di questo secolo, ricordano i vecchi nativi che la maggior parte dei terreni (massime nell’Isola di Salina) eran coverti di dense boscaglie, l’Erica arborea di cui ora i più robusti campioni non vidi elevarsi al di là dell’altezza di un uomo, faceano gran quantità di legna non solo da ardere ma di costruzione, lo stesso dell’Arbutus unedo della quercia Elce che oggi osservasi in modo sparuto a Stromboli, a Lipari, alla Forgia Vecchia ed alla Serra.

La Phylliraea altro arbusto proprio del littorale Mediterraneo , si scontra ben di rado , il gigante dei Citisi il C. aeolicus Guss . di cui Vulcano e Stromboli sono la patria , specie endemica dell'Isole Eolie , è divenuto oramai una rarità , ed anche questo era una volta la più grande risorsa del legnajuolo, formando delle boscaglie assieme ai suoi congeneri gli Sparti , la Genista ephedriodes , il Cytisus candicans , e le Calycotome , di una tinta proprio locale . Un saggio di tali generi di boschetti é da osservarsi tuttora al Piano di Vulcano .

Si lamenta in tutte le isole la totale assenza dell'acqua , in un paese ove le piogge debbono ritenersi scarse , ove il suolo al massimo grado poroso , prestasi assai avida mente all'assorbimento delle acque piovane, e la evaporazione attivata da un sole cocente e da una stagione di siccità che si prolunga da aprile ad ottobre , e dalla natura stessa del suolo che tanto attira i raggi solari, la vegetazione graminacea deve essere magra, ed i prati di lieve durata, composte di erbe stentate, mal si prestano ad essere pascolati anzi di questi non ci è da tenerne alcun conto, ed i coloni che tutti posseggono chi il bove, chi la sua mandriuola di pecore, seminano al proposito i foraggi da apprestarsi a queste bestie, che sono la Fava comune ed il Lupino bianco.

Da ciò l'uso di alimentare nella stalla Te-specie bovine e le ovine, uso che non ritrovasi qui in Sicilia nonostante che i pascoli relativamente alla estensione dell’Isola, sono anche scansi e poveri, ma alle isole Eolie letteraImente manca lo spazio ove far vagare quelle bestie, ognuno procura trar profitti maggiori del suolo in molte parli insufficienti ai bisogni di u n'estesa popolazione, e Io industria colla vigna, col frumento a con l'ulivo, l’animale è dunque necessariamente confinato in ovili raramente in muratura costruito, ma aperti al sole ai venti, fatti alla meglio con delle siepi. delle spino di Ginestra, o del li massi di pietre sconnesse.

La mancanza dell'acqua bandisce dunque da queste regioni molte classi di piante paludose o che non possono fare a meno di una costante umidità.

Si potrebbe credere che tante culture dovrebbero non esistere alle Eolie, come l'arancio ed in generale gli agrumi, le piante ortalizie, e la massima parte degli alberi fruttiferi, ma la necessita è una seconda natura, e l'arancio prospera, mollo meglio i limoni, senza acqua, Cosi è di lutti gli alberi fruttiferi che non sono grandemente abbondanti ma che non mancano, e danno anzi fruiti molto saporiti.

Non tralascio di fare osservare che parte principale, nell'aspetto generale delle campagne Eolie tanto serie, e di una monotonia che potrebbe sembrare attristante, se non fosse sublime la sua semplicità, e per la fedele espressione di una natura grandiosa la cui storta misteriosa della sua origine è impressa ad ogni passo sulle sue arene, sulle sue roccie strane, si è dovuta all’assenza di quel gajo elemento che infonde la vita, ed è la parola della natura; sconosciuti i ruscelli che mormorano, i torrenti dai corsi tortuosi che nelle mille pieghe alimentano la frescura, e le ombre benefiche dei salici, dei pioppi anch’esse bandite da codeste Isole ove se mi si permette tale espressione il paesaggio è petrificato. Aggiungiamo alla mancanza dell’acqua, il difetto di alberi in massa che variano le tinte, che alterano gli effetti del paesaggio, e che danno ricovero ai mille ucceli cantori dei nostri folti boschi, e tuttociò basterà a dare un’idea di una campagna eolia, muta, severa, ma sublime sempre nella sua austerità

Il Vallone Bianco è il solo letto di rusciello che io avessi visto, è a Lipari e raccoglie lutti gli scoli piovani che dalle alte cime della Chirica, il più alto monte dell'isola e di S. Angelo scorrono sul centro dell'isola e vanno a sboccare sulle spiagge selvaggie del Palmeto e di Cala Sciàbica. Per quanto arido, e per la natura primiera del suo letto, o perchè in aprile già da un mese mancavano le piogge, pure i suoi fianchi tratteneano una certa umidità che dava ricetto a multe piante che altrove nelle Eolie non ho riscontrato.

Altrove, e a Lipari e neIle altre Isole, le acque si aprono delle vie fra le arene, fra li tufi e non hanno letto stabile, mancando il macigno e le argille e tulio ciò che ostacolando l'impeto delle correnti costringe le acque a crearsi un letto. Tulle le vie di Lipari (parlo di quelle rustiche e trazzere corno da noi si chiamano), asciutte ilo per la massima parte dell’anno nelle piogge diventano ruscelli più o meno torrentuosi e scoli naturali.

AI difetto di veri boschi potrebbero supplire quegli artificiali, dì ulivi, di carrubbi di cui questa sarebbe la zona produttrice, ma non è cosi, e non saprei spiegare pur qual ragione l’ulivo meno che a Stromboli ed a Panaria, e tanto poco diffuso, da non potere bastare il suo prodotto al consumo interno, è cosi il carrubbo.

Comunissimo è invece il Fico che nelle arene profonde di Stromboli mostrasi quasi spontaneo.

La vite è la base dell’economia delle Eolie, è la fonte della prosperità degli abitanti. Coltivati in modo stupendo, ed in niun luogo io ho visto le viti tanto bene coltivate come nelle Eolie, in suo luogo parlerò delle prodighe cure che il colono appresta a pianta tanto pregevole. Producesi in tutto il Gruppo la Passolina che è tanto rinomata quanto quella che apprestano le Isole dell'Arcipelago Greco. La Malvasia, i vini più squisiti ed alcoolici al massimo grado sono i prodotti di terre vulcaniche che parrebbero tante ingrate e sterili.

Il Cactus opuntia è diffuso anche dapertutto, il Cappero è una risorsa delle più importanti dell'Industria Eolica.

Le Ginestre, l’Erianthas Ravennae che è una alta pianta graminacea propria del litorale Mediterraneo e che assieme allo Spartitium junceum L. è comunemente adoperato ad uso di siepi per proteggere dai forti venti i vigneti che si scorgono lussureggianti sino alle più alte cime del monte S. Angelo a 600 metri circa, ed a Salina anche al di sopra di tale limite, addimostrano chiaramente quanto io dissi; che nelle Eolie difficilmente si potrebbe far distinzione di zone di vegetazione. E’ l’influenza marina che da ogni lato inviluppa tutte le pieghe del paese, e che dà a questo unico tuono ed analoghe produzioni.

Dalle condizioni su espsote si può rilevare che Flora Eolica, non può essere delle più svariate e ricca di forme, ed infatti poco offre di spedale e distinto alla vegetazione Siciliana. Ciò non pertanto, per la condizione insulare di codesta regione l’esame della sua Flora non può essere che interessante il confronto con quella di Sicilia che su questo caso potrei chiamare continentale, ci è dei più Istruttivi, si nell’esame delle specie di un identico genere ad insegnarci quali sono i suoi rappresentanti nelle stazioni marittime, si nell’esame delle identiche specie a farci rilevare quali effetti produce sulle forme, l'influenza della località.

E d’uopo che dopo aver fatto rilevare in riassunto le condizioni più salienti della vegetazione delle Eolie in generale io torni a dire gualche parola rispettivamente per ciascuna isola non senza prima far cenno di quegli abitanti la cui bontà di animo, e severi costumi fa senso ai forestieri che son venuti in contatto con loro. — Li non mi rammento quale sommo antico scrittore assicurava in latino aforisma, in generalo essere gli abitanti delle Isole, e della Sicilia in ispecie, cattivi per peccato originale. — Il solo accertarsi della patria di un individuo, se circoscritta o no dal mare, era per questi ragione a preconizzare sulla buona o sua cattiva indole. — Fu questi un di quei tali che scrisse di un luogo senza averlo visitalo.

Passiamo di sopra ai nativi di Sicilia pei quali la mia condizione, non mi farebbe essere giudice imparziale, e parliamo di quelli delle Eolie, non senza prevenire che per quanto io senta escissi dallo scopo non fare a meno di attirare un po’ l'osservazione, su cose die tanto attrassero la mia.

Ritornato di quella breve escursione in contrade tanto analoghe per tutti i riguardi alla mia terra nativa, e che solo un breve tratto di mare separa dalla Sicilia, io mi sono dimandato se è vero che la civiltà è la prerogativa delli grandi centri popolati, mi son chiesto se è vero che la buona indole é in ragione diretta del grado di istruzione di un popolo, e a tali dimande piane a prima vista io non ho saputo dare una buona risposta, e sono rimasto nel dubbio, tanta eccezionalità alla regola io ho trovato nei paesi che visitai. — Non è il momento di discuter problemi tanto filosofici, nè io sarei capace a trattare tale quistione; ma in ritengo che là ove meno l'uomo ha da ambire, più facilmente si può essere contenti — e che là ove è la calma felicità di una vita domestica menata fra i campi, al cospetto di tutte le bellezze di una natura selvaggia, alcuni istinti che l'uomo trae sin dalla nascita e che sono innati nel genere umano non si sviluppano per difetto d’incentivi, s'attutiscono, rimangono in istalo latente— Nelle piccole isole ove i costumi sono primitivi, ove la miriade di civiltà che l'uomo vi apporta sono sconosciute, i desiderii, anzi le ambizioni sono limitale; non cosi nelle grandi città ove la gerarchia sociale è estesa, e vasta è la scala delle ambizioni umane.

Bandite tante vane aspirazioni, le idee ristrette in una cerchia limitatissima, il paesano Eolico non desidera che quel che Dio solo può dargli, il pane quotidiano che si presenta al contadino sotto forma di una buona raccolta, e la stagione propizia, e per aver ciò bisogna mettere del suo, il sudore della sua fronte. — Chi lavora ha meno occasioni di cadere nel vizio. — Lavora egli dunque e con amore, perchè ogni colpo di vanga può accrescere il suo patrimonio, essendo il campo sua proprietà; è libero egli perciò più del nostro contadino. — E’ un gran bene la estrema suddivisione della proprietà fondiaria. — Se l’economia politica ne ritrae i suoi grandi vantaggi, la morale del popolo grandemente ne acquista! Se una legge potesse imporla alla Sicilia, e dapertutto ! Quanto bene noi ne avremmo!

Allo Eolie non è l'uomo solo che lavora, lavorano le donne e sono le più contadine, eseguiscono i lavori i più virili; zappano, fanno quel che richiede una cultura la più ragionata alle loro vigne, ogni cura del raccolto dei capperi, delle Uve, della Passolina è la loro. A Panaria le donne remano sulle loro barchette, e vanno alla pesca, a Lipari (ed è qui doloroso dirlo) giovanette ancora tenere portano sul dorso i gravi carichi di pietre pomici che dal Pelato e dal Campo Bianco cioè a dire da un’altezza di più che 300 m. scendono al villaggetto di Canneto, che ne è il caricatore.

L’attività del loro corpo giova al loro morale, vanno sole per tutta l'Isola svelte ed allegre, a pie’ scalzi sempre, e ciò non è segno come si potrebbe credere di estrema miseria, sembra fosse uso consigliato, o dalla natura dei terreni, o dal clima stesso. — Non fuggono il forestiere, tutt'altro gli si mostrano amabili, se questi loro rivolge la parola rispondendo gentilmente, procurano essergli utili. Lo guardano con estrema curiosità, tanto è nuovo per loro lo spettacolo di un signore che giri pei loro monti, ma tutto ciò con disinvoltura senza quell’aria di sfiducia, e di estrema suscettibilità a cui vanno soggette quelle di Sicilia e di altrove.

L’ingenuità, e credo di non errare, è la toro forza — quanto belle giovanette dalle mosse eleganti, dalle vesti variopinte, e dal rosso fazzoletto sul capo come pittorescamente si addobbano te donne delle Eolie per gli avvallati sentieri vedevo scorrere agili, e per i boschetti di Eriche o di Cisti balzare fiduciose in quelle solitudini come se fossero accanto alle loro mamme, di una fiducia che non può ispirare che il candore dei costumi che io chiamerei patriareali. — A Salina le donne non faceansi scrupolo alcuno di mostrare la maggior parte delle loro gambe, io non saprei dire se questi usi che da noi non esistono sono l’estremo della impudicizia, o la massima innocenza!

E sempre al lavoro che devesi attribuire la bontà d’animo di quelle popolazioni. Da noi la donna limitata fra quattro mura, poltrisce e spesso è cattiva.

Le statistiche provano quel che io ho asserito: gli attentati alla proprietà, i reati di sangue poi, sono sconosciuti, e non rammento in quale Isola mi si dica che da un ventennio non si contava un delitto! e l'argomento ha una prova nel vedere i 3000 abitanti di Stromboli, i 600 di Panaria i 2000 di Filicuri i 600 di Alicuri amministrati politicamente e spiritualmente da Curati, senza che si risentisse il bisogno della vigilanza del carabiniere — o d’ogni altro genere di forza che in quell’Isole benedette è sconosciuta.

Per chi come me proveniva da contrade che soggiacevano all’incubo fatale di un tremendo brigantaggio, l’andare per quei luoghi tranquilli era un piacere insolito. Potrei citare i più bei tratti della più larga ospitalità, tralascio però dal dilungarmi, sebbene il parlarne mi sarebbe dolce, risvegliando in me tutti i sensi della più vera gratitudine; passo a discorrere perciò di alcuni dettagli sulle varie isole.

 

 

EPOCA 21 GIUGNO 1964 EOLIE LE LEGGENDARIE ISOLE DELLE SIRENE

foto di Giac Casale testi di Guido Gerosa.

I 117 chilometri quadrati delle Isole Eolie racchiudono un sogno millenario: dalla più remota antichità queste sette gemme del mare (Lipari, Vulcano, Stromboli, Panarea, Salina, Filicudi, Alicudi, incastonate a nord-est della Sicilia nel purissimo azzurro del Mediterraneo, sono la terra del mito. Qui, forse, Ulisse invocò una tregua alle sue peregrinazioni senza fine, rifugiandosi presso Eolo dio dei venti, in un’isola “cui tutta un muro d’infrangibil rame – e una liscia circonda eccelsa rupe”. Il paesaggio vi appare veramente omerico: le monumentali masse grigieparlano di un mondo perduto, quando queste pietre erano squassate dalla furia dei vulcani e le pareti a picco strapiombavano sul mare ruggente e le caverne misteriose erano popolate da mostri. Cos’ Virgilio immaginò “Lipari aspra dai sassi fumanti”.

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Ma questa terra, ieri come oggi, accanto alle smisurate ombre del mito esprimeva la luminosa serenità dei grandi spazi mediterranei. Queste isole erano la superba dimora degli dei, di Eolo e di Vulcano: e, secondo la leggenda, le anime del dei morti, nel compiere il viaggio senza ritorno, passavano accanto ad esse, per capitarvi un’ultima volta il fulgore della natura, mentre di scoglio in scoglio, nella luce abbagliante, si levano sulle acque le voci incantatrici delle divine Sirene.

Giac Casale è nato a New York il 1° dicembre 1926. Fotografo e regista, è laureato in storia dell’arte alla Wesleyan University, Connecticut e in Cinematografia alla U.C.L.A. California. Prima pittore, negli anni ‘50 si appassiona alla fotografia, “un’arte più attuale, tutta da scoprire”.

Giac è cresciuto professionalmente nella sua città fotografando per le famose riviste come LIFE, LOOK, Vogue e Harper’s Bazaar e per le grandi agenzie che hanno rivoluzionato la comunicazione pubblicitaria negli anni ‘60. Con Anna Marina, sua moglie veneziana e “bellissima modella preferita” (da ragazza lei ha lavorato con Orson Wells) nel 1963 si sono trasferiti a Milano. Hanno quattro figli e 7 nipoti, una famiglia d’artisti fra cui la cantante e compositrice Rossana Casale.

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Nella sua lunga carriera, 60 anni, ha ottenuto i più importanti premi e riconoscimenti internazionali fra cui il GRAN PRIX KODAK, un “LEONE” a Cannes, i premi europei EUROBEST, EPICA, e il PREMIO ALLA FOTOGRAFIA dall’Art Directors Club italiana, Per tre anni, dal ’94 al ’96, Giac ha ricevuto il PREMIO AFIP PER LA RICERCA (per “I FUOCHI”, per ”STORIES OF GOLD”e per “JAZZ”) e al New York Festivals ’93 il GRAND AWARD, primo premio a livello mondiale alla fotografia.

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SICILIA AMOROSA Giuseppe Patanè 1946

I GIGANTI TRANQUILLI E LE BELLE PESCATRICI

(operai pomice e pescatrici panara)

SETE, nella valle della pomice. Una sete che luccica sulla polvere bianchiccia dei crateri e delle cave aperte nei fianchi del monte Pelato e del monte Chirica, sui tetti zincati e ondulati dei cantieri, sulle case basse di Canneto.

Sete e solitudine. Un aridore immobile dinanzi al mare blu che bagna la riviera liparese di tramontana, la verde isola di Salina, a ponente, e lassù, lontano, Panarea, gialla, simile a un bosco di ginestre e, ancor più lontano, lo Stromboli, cinereo, il cui fumo placido serpeggia sotto un corteo di candide nubi che naviga scompigliato verso oriente.

Stormi di colombi selvatici si levano dal cratere della Forgia Vecchia contornato di raggiere di capperi giganti nitide nel sole alto. I colombi si spargono sul luccichio rossigno delle vetrose lastre di ossidiana fasciami dalla cima in giù il, monte Pelato, poi si sbandano nella densa azzurrità del cielo.

Nel gran silenzio lo stridio delle macchine che tagliano e triturano la secca e acre pietra grigia dentro i cantieri dai portoni serrati sulle stradette polverose, sembra suscitato da un tenace rancore dei liparesi dediti all’aspra fatica (tagliatori, crivellatori,- impacchettatori), sembra la voce di un tormento antico di tutta la gente eolia isolata presso i vulcani dell’arcipelago.

Ma dentro i cantieri, nel lacerante stridio delle macchine, nel polverio che si sventaglia dalle ruote delle spezzataci, delle triturataci, delle limatrici e dei rastrelli girevoli, si scopre lo spettacolo della più vera natura dell’isola, lo spettacolo della serenità del lavoro liparese, della sana energia, dello spirito alacre e lieto della gente rimasta attaccata alla sua montagna.

Un capannone improvvisamente spalanca la sua porta.

Guardati dalla soglia, i pomiciai sembrano, a prima vista, nella luce dorata che cala dai lucernari, file di statue solenni. Grigi, gagliardi, taluni addirittura giganteschi, fanno subito pensare al mito di Vulcano che insieme coi Ciclopi fece sentire, precisamente dalle isole Eolie, il peso della potenza terribile della sua officina, sulle città e sulle marine tirrene e ioniche. Sono però Vulcani miti, Ciclopi tranquilli. Stanno presso le macchine come musici intenti al risonare dei loro strumenti. Laceri, con le brache cascanti, il petto grigio di polvere di pomice, le maniche della camicia rimboccate, il parabocca legato dietro la nuca, parlano con gli occhi che hanno la ciglia anch’esse grigie. Salutano dietro il parabocca. Scuotono ripetutamente il capo. « Sì... Sì... Parleremo. Benvenuti. Abbiate un tantino di pazienza », ci dicono con l’ardore lucido e cordiale degli occhi e guardano l’orologio appeso a un’alta parete, un grande orologio di cui si vedono le sole sfere unite sul mezzogiorno. A poco a poco le macchine rallentano 1 loro giri, lo stridio si calma, un frastuono di piccozze si leva dai banchi ad avvisare che è l’ora della colazione, la pioggia di polvere si quieta. Vecchie e corpacciute operaie addette alla raccolta e alla cernita delle scaglie di pomici, drizzano la schiena e sospirano:

« San Bartolo sia lodato », sorridendo con dolcezza, poi si dirigono verso il fondo del capannone, in un brusio allegro, verso un breve corridoio che conduce nel refettorio che è anche cucina e dove la minestra fuma entro i calderotti e il pesce frigge nei padelloni. Lesti i garzoni corrono ad aprire le finestre: appare la valle, intorno, assolata, il mare con Panarea lontana, il monte Pelato coi suoi luccicori rossigni e le bocche delle sue cave, dalle quali escono, lentamente, gruppi di cavatori che si spargono sugli spiazzi, nei sentieri, sugli scogli, a ricrearsi.

— Benvenuti a Lipari. Che cosa possiamo offrirvi?

Il capomastro Carruggio apre le braccia come se volesse aprire il cuore.

— Una scodella di minestra. Due alici. Un bicchiere di malvasia temperata.

— La pomice raschia i metalli ma non è grattugia per i nostri polmoni, — dice lo Sparanello, un pomiciaio riccio, dalle sopracciglia a freccia sulle tempie larghe.

— Qua, — esclama il Brigio con ingenua e sonante spavalderia, battendosi la cassa toracica col pugno (i compagni ridono ma sono fieri del Brigio.) — Qua. Tonnellate di polvere di pomice son passate per questo crivello. E ho settant’anni. Quando sarò morto, sopra la mia fossa' cresceranno alberi di ginestre alti quanto questi cavalieri.

— Cavalieri?! — interrompe il Gabelloto torcendo il muso in un sorriso dimesso.

— Cavalieri. Sissignore. Cavalieri di Lipari. Senti, tu che non vuoi mai capire. Quando sarai morto, sulla tua fossa non crescerà neanche un’ortica. Senti. Vulcano fu fulminato da Giove perchè non era mai sazio di oro. Tutti i crateri delle Lipari servivano a serbare l’oro che egli rubava nelle città dopo averle distrutte con i terremoti e con le eruzioni. È vero o non è vero? È vero. — (E chi oserebbe contraddire il Brigio?) — Giove lo fulminò e trasformò l’oro dei crateri in pomice. Poi venne Dio e disse ai liparesi: l’oro vero è il pane che vi guadagnerete col sudore della vostra fronte. E questo, com’è vero Dio, è il nostro oro. — Muove con le scarpacce la polvere di pomice godendo nel sentirla fina e soffice sotto i suoi piedi. — Pomiciai liparesi partirono, di poi, per le Crociate accompagnati dalla Peppa Maria, la moglie del pomiciaio Alicudi, paladina e santa.

—La minestra si fredda! — grida un vocione dalla soglia del refettorio.

I pomiciai non si scompongono. Continuano a discorrere.

— Assassina, sicuro, la pomice. Una pietra che ti vuol far morire di mal sottile e pare chieda pietà.

— È come le pescatrici di Panarea.

— Ragazzi, la creanza, — raccomanda il capomastro.

— Le pescatrici di Panarea hanno i mariti in Australia e in America, — brontola arrochito Giuttù che ha l’abitudine di caricare pianamente la pipa, prima di mettersi a tavola.

— Il liparese Giuttù sa il dover suo, sempre, — inter-viene, con voce nasale, il Brigantino, il solo pomiciaio tozzo e sbilenco della compagnia. — Il liparese, piano piano, prende il diavolo per mano e lo posa sul canterano. Piano piano si assetta sul terremoto e ferma il terremoto. Piano piano suona l’ocarina davanti alla lava che scorre c ferma la lava.

Trae dal petto villoso un’ocarina rabescata. Le rughe della faccia storta gli si spianano. Si toglie la calotta dal bastone e la butta sopra un banco, e poggia l’ocarina con delicato gesto sulle labbra che si socchiudono rimpicciolite. Una luce verdemare scaturisce all’improvviso dai suoi occhi, una melodia dallo strumentino, una canzone a ballo rusticana, vispa, trillante. Di tanto in tanto egli strizza l’occhio agli astanti allegrati. Poi borbotta con la bocca umida:

— Questo è il ballo della Reseda. (La Réseda : una giovane pescatrice di Panarea). E riprende a sonare.

Dalla cucina, le cuciniere gridano :

— Si fredda, la minestra!

— Meglio fredda che niente, — rispondono pacatamente, in coro i pomiciai, deliziati dalla musica del Brigantino. (« Piano piano mangeremo anche la minestra. Piano piano la pomice mangia la lima. ») Una musica che pizzica le gambe e chiama, dalle finestre cariche di sole e di odor d’alghe, le pescatrici di Panarea, che ogni giorno, all’ora della colazione dei pomiciai, sbarcano sulla riva di Canneto con le ceste colme di pesce pescato di fresco.

Le barche sono già sulla riva piene di nasse. Davanti a ogni barca, brulica una folla di cavatori vocianti. Le pescatrici strillano, vogliono spazio, minacciano di tornarsene a Panarea.

Giuttù, il Brigio, il Brigantino, si sporgono dalla finestra, chiamano:

— O Résedaa!. O Pollàraa!. O Scoglittaa!. O Strombolicchiaa!...

— La minestra s’è freddata!

— Suona, Brigantino! È qui, è qui, la Rèseda!... Guarda!.., Non le hai detto che ha un passo da regina?... Guarda come cammina, la furbona!

— Ragazzi, la creanza, — torna ad ammonire il capomastro.

La Resèda, la Pollàra, Scoglitta, Strombolicchia, lentamente arrivano sotto le finestre del capannone traendo per mano i loro bambini. Giovani, prosperose, odorose di mare, scarmigliate, sbrindellone, le gambe nude sotto le vesti bagnate, strette come calzoni fin sulle ginocchia.

I pomiciai le accolgono raggianti ma quasi intimiditi, quasi in silenzio. Aprono un largo passaggio. Le donne consegnano i loro piccoli dai musetti selvatici, a Giuttù, a Sparanello, al Brigio, che se li pongono solleciti sulle spalle come fossero anfore, e li fanno saltellare al suono dell’ocarina del Brigantino; quindi li portano nel refettorio e li mettono a sedere alla lunga tavola, in mezzo a loro. All’opposto lato della tavola, le pescatrici si seggono tutte sulla stessa panca, tra le vecchie operaie, e restano vigilate dalle vecchie operaie austere come gendarmi. Si asciugano il viso fresco di salsedine, si legano il fazzoletto attorno alla testa. Poi il capomastro reca le scodelle per le ospiti e per i loro bambini.

— Capomastro, sono inquieta, — dice la Rèseda.

— Che cosa è successo? — domanda il Carruggio.

— Guardate mio figlio. Guardate come è brutto e pallido. Ha sette anni ed è un vagabondo.

— E mio figlio no? — aggiunge Strombolicchia. — Questo screanzato che vuol dormire con le tartarughe e non più con me...

— Anche il mio, Carruggio, — fa la Poliàra. — Ieri sera è andato a nascondersi nella Grotta del Mulino a Vento, il malfattore...

— Vagabondi... — continua la Réseda. — Come i loro padri. Scappano ogni giorno. Si sperdono nei crateri. Vogliono andarsene. Partire. Lontani. Carruggio, prometteteci che li terrete qui nel cantiere, con voi.

Carruggio non risponde. Gli altri pomiciai guardano i monellucci con simpatia quasi paterna, mangiando.

A un tratto il Brigio sentenzia :

— La Peppa Maria che partì per le Crociate era di Panarea. — E alza il bicchiere traboccante di malvasia. — Se i vostri ragazzi un giorno vorranno partire, lasciate, figliuole, che partano. Il liparese sta nella sua isola o in capo al mondo.

E beve, il Brigio, alla salute dei liparesi emigrati.

La Rèseda depone il cucchiaio sull’orlo della scodella.

— Su, Reseda!

Le compagne la esortano a mangiare, ma hanno deposto il cucchiaio anch’esse.

— E brave! E brave! — scoppia a dire il Brigantino. — Avete fatto cattiva pesca, stamane?

— No — balbetta la Rèseda.

— E allora? Perchè non ci avete portato niente da Panarea?

— Vi abbiamo portato i nostri bambini. Non vi bastano? — dice la pescatrice, risedendosi. I lacrimoni le rigano le guance.

I pomiciai accarezzano e rimbrottano i piccoli liparesi diventati subitamente smaniosi di scappare, di volare sul soffiar del grecale che porta, attraverso alle finestre, fremiti vaghi di lontananze misteriose. Poi guardano le belle pescatrici di Panarea, con tenerezza, e sono così puri, così fraternamente coniugali i loro occhi, che sembrano gli occhi dei mariti lontani.

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