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di Massimo Ristuccia

EPOCA 21 GIUGNO 1964 EOLIE LE LEGGENDARIE ISOLE DELLE SIRENE

foto di Giac Casale testi di Guido Gerosa.

I 117 chilometri quadrati delle Isole Eolie racchiudono un sogno millenario: dalla più remota antichità queste sette gemme del mare (Lipari, Vulcano, Stromboli, Panarea, Salina, Filicudi, Alicudi, incastonate a nord-est della Sicilia nel purissimo azzurro del Mediterraneo, sono la terra del mito. Qui, forse, Ulisse invocò una tregua alle sue peregrinazioni senza fine, rifugiandosi presso Eolo dio dei venti, in un’isola “cui tutta un muro d’infrangibil rame – e una liscia circonda eccelsa rupe”. Il paesaggio vi appare veramente omerico: le monumentali masse grigieparlano di un mondo perduto, quando queste pietre erano squassate dalla furia dei vulcani e le pareti a picco strapiombavano sul mare ruggente e le caverne misteriose erano popolate da mostri. Cos’ Virgilio immaginò “Lipari aspra dai sassi fumanti”.

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Ma questa terra, ieri come oggi, accanto alle smisurate ombre del mito esprimeva la luminosa serenità dei grandi spazi mediterranei. Queste isole erano la superba dimora degli dei, di Eolo e di Vulcano: e, secondo la leggenda, le anime del dei morti, nel compiere il viaggio senza ritorno, passavano accanto ad esse, per capitarvi un’ultima volta il fulgore della natura, mentre di scoglio in scoglio, nella luce abbagliante, si levano sulle acque le voci incantatrici delle divine Sirene.

Giac Casale è nato a New York il 1° dicembre 1926. Fotografo e regista, è laureato in storia dell’arte alla Wesleyan University, Connecticut e in Cinematografia alla U.C.L.A. California. Prima pittore, negli anni ‘50 si appassiona alla fotografia, “un’arte più attuale, tutta da scoprire”.

Giac è cresciuto professionalmente nella sua città fotografando per le famose riviste come LIFE, LOOK, Vogue e Harper’s Bazaar e per le grandi agenzie che hanno rivoluzionato la comunicazione pubblicitaria negli anni ‘60. Con Anna Marina, sua moglie veneziana e “bellissima modella preferita” (da ragazza lei ha lavorato con Orson Wells) nel 1963 si sono trasferiti a Milano. Hanno quattro figli e 7 nipoti, una famiglia d’artisti fra cui la cantante e compositrice Rossana Casale.

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Nella sua lunga carriera, 60 anni, ha ottenuto i più importanti premi e riconoscimenti internazionali fra cui il GRAN PRIX KODAK, un “LEONE” a Cannes, i premi europei EUROBEST, EPICA, e il PREMIO ALLA FOTOGRAFIA dall’Art Directors Club italiana, Per tre anni, dal ’94 al ’96, Giac ha ricevuto il PREMIO AFIP PER LA RICERCA (per “I FUOCHI”, per ”STORIES OF GOLD”e per “JAZZ”) e al New York Festivals ’93 il GRAND AWARD, primo premio a livello mondiale alla fotografia.

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SICILIA AMOROSA Giuseppe Patanè 1946

I GIGANTI TRANQUILLI E LE BELLE PESCATRICI

(operai pomice e pescatrici panara)

SETE, nella valle della pomice. Una sete che luccica sulla polvere bianchiccia dei crateri e delle cave aperte nei fianchi del monte Pelato e del monte Chirica, sui tetti zincati e ondulati dei cantieri, sulle case basse di Canneto.

Sete e solitudine. Un aridore immobile dinanzi al mare blu che bagna la riviera liparese di tramontana, la verde isola di Salina, a ponente, e lassù, lontano, Panarea, gialla, simile a un bosco di ginestre e, ancor più lontano, lo Stromboli, cinereo, il cui fumo placido serpeggia sotto un corteo di candide nubi che naviga scompigliato verso oriente.

Stormi di colombi selvatici si levano dal cratere della Forgia Vecchia contornato di raggiere di capperi giganti nitide nel sole alto. I colombi si spargono sul luccichio rossigno delle vetrose lastre di ossidiana fasciami dalla cima in giù il, monte Pelato, poi si sbandano nella densa azzurrità del cielo.

Nel gran silenzio lo stridio delle macchine che tagliano e triturano la secca e acre pietra grigia dentro i cantieri dai portoni serrati sulle stradette polverose, sembra suscitato da un tenace rancore dei liparesi dediti all’aspra fatica (tagliatori, crivellatori,- impacchettatori), sembra la voce di un tormento antico di tutta la gente eolia isolata presso i vulcani dell’arcipelago.

Ma dentro i cantieri, nel lacerante stridio delle macchine, nel polverio che si sventaglia dalle ruote delle spezzataci, delle triturataci, delle limatrici e dei rastrelli girevoli, si scopre lo spettacolo della più vera natura dell’isola, lo spettacolo della serenità del lavoro liparese, della sana energia, dello spirito alacre e lieto della gente rimasta attaccata alla sua montagna.

Un capannone improvvisamente spalanca la sua porta.

Guardati dalla soglia, i pomiciai sembrano, a prima vista, nella luce dorata che cala dai lucernari, file di statue solenni. Grigi, gagliardi, taluni addirittura giganteschi, fanno subito pensare al mito di Vulcano che insieme coi Ciclopi fece sentire, precisamente dalle isole Eolie, il peso della potenza terribile della sua officina, sulle città e sulle marine tirrene e ioniche. Sono però Vulcani miti, Ciclopi tranquilli. Stanno presso le macchine come musici intenti al risonare dei loro strumenti. Laceri, con le brache cascanti, il petto grigio di polvere di pomice, le maniche della camicia rimboccate, il parabocca legato dietro la nuca, parlano con gli occhi che hanno la ciglia anch’esse grigie. Salutano dietro il parabocca. Scuotono ripetutamente il capo. « Sì... Sì... Parleremo. Benvenuti. Abbiate un tantino di pazienza », ci dicono con l’ardore lucido e cordiale degli occhi e guardano l’orologio appeso a un’alta parete, un grande orologio di cui si vedono le sole sfere unite sul mezzogiorno. A poco a poco le macchine rallentano 1 loro giri, lo stridio si calma, un frastuono di piccozze si leva dai banchi ad avvisare che è l’ora della colazione, la pioggia di polvere si quieta. Vecchie e corpacciute operaie addette alla raccolta e alla cernita delle scaglie di pomici, drizzano la schiena e sospirano:

« San Bartolo sia lodato », sorridendo con dolcezza, poi si dirigono verso il fondo del capannone, in un brusio allegro, verso un breve corridoio che conduce nel refettorio che è anche cucina e dove la minestra fuma entro i calderotti e il pesce frigge nei padelloni. Lesti i garzoni corrono ad aprire le finestre: appare la valle, intorno, assolata, il mare con Panarea lontana, il monte Pelato coi suoi luccicori rossigni e le bocche delle sue cave, dalle quali escono, lentamente, gruppi di cavatori che si spargono sugli spiazzi, nei sentieri, sugli scogli, a ricrearsi.

— Benvenuti a Lipari. Che cosa possiamo offrirvi?

Il capomastro Carruggio apre le braccia come se volesse aprire il cuore.

— Una scodella di minestra. Due alici. Un bicchiere di malvasia temperata.

— La pomice raschia i metalli ma non è grattugia per i nostri polmoni, — dice lo Sparanello, un pomiciaio riccio, dalle sopracciglia a freccia sulle tempie larghe.

— Qua, — esclama il Brigio con ingenua e sonante spavalderia, battendosi la cassa toracica col pugno (i compagni ridono ma sono fieri del Brigio.) — Qua. Tonnellate di polvere di pomice son passate per questo crivello. E ho settant’anni. Quando sarò morto, sopra la mia fossa' cresceranno alberi di ginestre alti quanto questi cavalieri.

— Cavalieri?! — interrompe il Gabelloto torcendo il muso in un sorriso dimesso.

— Cavalieri. Sissignore. Cavalieri di Lipari. Senti, tu che non vuoi mai capire. Quando sarai morto, sulla tua fossa non crescerà neanche un’ortica. Senti. Vulcano fu fulminato da Giove perchè non era mai sazio di oro. Tutti i crateri delle Lipari servivano a serbare l’oro che egli rubava nelle città dopo averle distrutte con i terremoti e con le eruzioni. È vero o non è vero? È vero. — (E chi oserebbe contraddire il Brigio?) — Giove lo fulminò e trasformò l’oro dei crateri in pomice. Poi venne Dio e disse ai liparesi: l’oro vero è il pane che vi guadagnerete col sudore della vostra fronte. E questo, com’è vero Dio, è il nostro oro. — Muove con le scarpacce la polvere di pomice godendo nel sentirla fina e soffice sotto i suoi piedi. — Pomiciai liparesi partirono, di poi, per le Crociate accompagnati dalla Peppa Maria, la moglie del pomiciaio Alicudi, paladina e santa.

—La minestra si fredda! — grida un vocione dalla soglia del refettorio.

I pomiciai non si scompongono. Continuano a discorrere.

— Assassina, sicuro, la pomice. Una pietra che ti vuol far morire di mal sottile e pare chieda pietà.

— È come le pescatrici di Panarea.

— Ragazzi, la creanza, — raccomanda il capomastro.

— Le pescatrici di Panarea hanno i mariti in Australia e in America, — brontola arrochito Giuttù che ha l’abitudine di caricare pianamente la pipa, prima di mettersi a tavola.

— Il liparese Giuttù sa il dover suo, sempre, — inter-viene, con voce nasale, il Brigantino, il solo pomiciaio tozzo e sbilenco della compagnia. — Il liparese, piano piano, prende il diavolo per mano e lo posa sul canterano. Piano piano si assetta sul terremoto e ferma il terremoto. Piano piano suona l’ocarina davanti alla lava che scorre c ferma la lava.

Trae dal petto villoso un’ocarina rabescata. Le rughe della faccia storta gli si spianano. Si toglie la calotta dal bastone e la butta sopra un banco, e poggia l’ocarina con delicato gesto sulle labbra che si socchiudono rimpicciolite. Una luce verdemare scaturisce all’improvviso dai suoi occhi, una melodia dallo strumentino, una canzone a ballo rusticana, vispa, trillante. Di tanto in tanto egli strizza l’occhio agli astanti allegrati. Poi borbotta con la bocca umida:

— Questo è il ballo della Reseda. (La Réseda : una giovane pescatrice di Panarea). E riprende a sonare.

Dalla cucina, le cuciniere gridano :

— Si fredda, la minestra!

— Meglio fredda che niente, — rispondono pacatamente, in coro i pomiciai, deliziati dalla musica del Brigantino. (« Piano piano mangeremo anche la minestra. Piano piano la pomice mangia la lima. ») Una musica che pizzica le gambe e chiama, dalle finestre cariche di sole e di odor d’alghe, le pescatrici di Panarea, che ogni giorno, all’ora della colazione dei pomiciai, sbarcano sulla riva di Canneto con le ceste colme di pesce pescato di fresco.

Le barche sono già sulla riva piene di nasse. Davanti a ogni barca, brulica una folla di cavatori vocianti. Le pescatrici strillano, vogliono spazio, minacciano di tornarsene a Panarea.

Giuttù, il Brigio, il Brigantino, si sporgono dalla finestra, chiamano:

— O Résedaa!. O Pollàraa!. O Scoglittaa!. O Strombolicchiaa!...

— La minestra s’è freddata!

— Suona, Brigantino! È qui, è qui, la Rèseda!... Guarda!.., Non le hai detto che ha un passo da regina?... Guarda come cammina, la furbona!

— Ragazzi, la creanza, — torna ad ammonire il capomastro.

La Resèda, la Pollàra, Scoglitta, Strombolicchia, lentamente arrivano sotto le finestre del capannone traendo per mano i loro bambini. Giovani, prosperose, odorose di mare, scarmigliate, sbrindellone, le gambe nude sotto le vesti bagnate, strette come calzoni fin sulle ginocchia.

I pomiciai le accolgono raggianti ma quasi intimiditi, quasi in silenzio. Aprono un largo passaggio. Le donne consegnano i loro piccoli dai musetti selvatici, a Giuttù, a Sparanello, al Brigio, che se li pongono solleciti sulle spalle come fossero anfore, e li fanno saltellare al suono dell’ocarina del Brigantino; quindi li portano nel refettorio e li mettono a sedere alla lunga tavola, in mezzo a loro. All’opposto lato della tavola, le pescatrici si seggono tutte sulla stessa panca, tra le vecchie operaie, e restano vigilate dalle vecchie operaie austere come gendarmi. Si asciugano il viso fresco di salsedine, si legano il fazzoletto attorno alla testa. Poi il capomastro reca le scodelle per le ospiti e per i loro bambini.

— Capomastro, sono inquieta, — dice la Rèseda.

— Che cosa è successo? — domanda il Carruggio.

— Guardate mio figlio. Guardate come è brutto e pallido. Ha sette anni ed è un vagabondo.

— E mio figlio no? — aggiunge Strombolicchia. — Questo screanzato che vuol dormire con le tartarughe e non più con me...

— Anche il mio, Carruggio, — fa la Poliàra. — Ieri sera è andato a nascondersi nella Grotta del Mulino a Vento, il malfattore...

— Vagabondi... — continua la Réseda. — Come i loro padri. Scappano ogni giorno. Si sperdono nei crateri. Vogliono andarsene. Partire. Lontani. Carruggio, prometteteci che li terrete qui nel cantiere, con voi.

Carruggio non risponde. Gli altri pomiciai guardano i monellucci con simpatia quasi paterna, mangiando.

A un tratto il Brigio sentenzia :

— La Peppa Maria che partì per le Crociate era di Panarea. — E alza il bicchiere traboccante di malvasia. — Se i vostri ragazzi un giorno vorranno partire, lasciate, figliuole, che partano. Il liparese sta nella sua isola o in capo al mondo.

E beve, il Brigio, alla salute dei liparesi emigrati.

La Rèseda depone il cucchiaio sull’orlo della scodella.

— Su, Reseda!

Le compagne la esortano a mangiare, ma hanno deposto il cucchiaio anch’esse.

— E brave! E brave! — scoppia a dire il Brigantino. — Avete fatto cattiva pesca, stamane?

— No — balbetta la Rèseda.

— E allora? Perchè non ci avete portato niente da Panarea?

— Vi abbiamo portato i nostri bambini. Non vi bastano? — dice la pescatrice, risedendosi. I lacrimoni le rigano le guance.

I pomiciai accarezzano e rimbrottano i piccoli liparesi diventati subitamente smaniosi di scappare, di volare sul soffiar del grecale che porta, attraverso alle finestre, fremiti vaghi di lontananze misteriose. Poi guardano le belle pescatrici di Panarea, con tenerezza, e sono così puri, così fraternamente coniugali i loro occhi, che sembrano gli occhi dei mariti lontani.

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