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Categoria: Cultura

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di Attilio Princiotto

La città di Ravenna,  prima parte:  la Storia del prof. Attilio Princiotto

È questa la prima di una trattazione in tre parti che la complessità e la grandezza degli argomenti trattati esigono di necessità.

Oggi Ravenna è una città non molto grande, ma il suo porto canale, con i tredici milioni di tonnellate annue di merci in partenza e in arrivo, è il più importante dell'Adriatico del nord. Negli ultimi decenni infatti, lungo i sobborghi e la periferia della Ravenna antica, prevalentemente agricola, è nata una seconda città, la Ravenna industriale e commerciale, soprattutto dopo che è stato individuato un imponente giacimento di metano ad una profondità di circa duemila metri; e così, accanto alle raffinerie, alle industrie chimiche e dell'abbigliamento, agli zuccherifici, sono stati costruiti una cinquantina di pozzi per lo sfruttamento di questo gas. Nonostante il vorticoso sviluppo, la città antica rimane intatta, immobile, quasi fissata nella sua bellezza, agli ideali civili e religiosi che esprime, pronta a sfidare i secoli sicura che questi ideali non moriranno mai.

Ravenna ha una lunga storia; secondo lo storico greco Strabone è stata fondata nel secondo millennio avanti Cristo da un gruppo di Greci provenienti dalla Tessaglia che qui trovarono un luogo sicuro, facilmente difendibile, trattandosi di una laguna, e riparato dalle maree dell'Adriatico da una linea di dune. Naturalmente le abitazioni sorgevano su palafitte.

Nell'VIII sec. a.C. vi giunsero gli Umbri dal centro Italia e nel V sec. a.C. gli Etruschi che vi soggiornarono per breve tempo. In seguito arrivarono i Galli Senoni e infine venne conquistata dai Romani che ne rispettarono l'autonomia e le leggi.

Nell'89 a.C. diventa "municipio" romano e, in seguito, l'imperatore Ottaviano Augusto la sceglie come base per la flotta del Mediterraneo Orientale. A questo scopo costruisce un grande porto in un bacino a sudest della città, il porto di Classe per l'appunto (Classis Praetoris, cioè Flotta Militare).

Il periodo di massimo splendore della sua plurimillenaria storia cade nei sec. V e VI e coincide col periodo in cui Ravenna è capitale degli stati indipendenti e dura fino a quando Bisanzio le attribuisce il ruolo di difesa contro i Longobardi. E' proprio durante questo periodo che sono stati

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stati costruiti i numerosi edifici civili e religiosi i cui interni sono adorni di stupendi mosaici che lasciano a bocca aperta il visitatore per la loro luminosità, per la varietà di colori, per il potente e chiaro significato simbolico, per la perfezione tecnica rivelatrice di un’arte raffinata.

Queste opere sono in generale omogenee sia come soggetto sia per tecnica compositiva, come se si trattasse di un'unica fonte di ispirazione. Eppure in quel periodo relativamente breve Ravenna ha vissuto tre momenti della sua storia ben diversi, anzi, per certi aspetti non secondari, contrapposti.

Nel 395 alla morte di Teodosio, l'Impero Romano viene diviso tra i suoi due figli: Arcadio, cui spetta la parte orientale con capitale Costantinopoli, e Onorio cui spetta la parte occidentale con capitale Milano. Sappiamo che in questo periodo le frontiere dell'impero ormai praticamente senza difesa, erano varcate ripetutamente e con grande facilità dalle cosiddette popolazioni barbariche. Onorio, per sfuggire a uno di questi popoli, i Visigoti che avevano assediato poi conquistato Milano, nel 402 aveva trasferito la capitale dell'Impero Occidentale proprio a Ravenna, imprendibile perché protetta dalla laguna mentre nel suo porto potevano giungere dal mare aiuti e rifornimenti.

Da questo momento, e soprattutto proprio a causa della presenza dei barbari in Italia e in tutto il territorio dell'Impero, si allacciano e col tempo si intensificheranno i rapporti con l'oriente bizantino. Si tratta di rapporti non solo commerciali e militari, ma soprattutto culturali che riguardano le concezioni politiche, la sensibilità religiosa, il gusto artistico.

Nel 476, allorché Odoacre, re degli Eruli, depone l'ultimo imperatore Romolo Augustolo e si intitola Re d'Italia anche formalmente ha termine l'Impero Romano d'Occidente. Nel 493 poi, dopo un lungo assedio, Teodorico alla testa dei suoi ostrogoti, sconfigge e uccide Odoacre e Ravenna diventa la capitale di un regno romano-barbarico governato da un re abile e intelligente, ammiratore della civiltà bizantina e di quella romana, ma di religione ariana come tutto il suo popolo, fatto che rese difficili i rapporti con la Chiesa di Roma e con la popolazione Latina. Egli si fece costruire un mausoleo secondo la poderosa struttura dell'architettura romana, ma con una copertura, consistente in un blocco monolitico, alla maniera barbarica. Alla sua morte però si disse che il re, ancora vivo, fosse stato rapito da un demonio presentatosi a lui in forma di cavallo e fatto precipitare nel fuoco di Stromboli. E' certo comunque che, alla conquista bizantina, i suoi resti mortali furono dispersi per le campagne.

Nel 540 Ravenna veniva conquistata dal generale bizantino Belisario, nell'ambito della guerra gotica voluta dall'imperatore Giustiniano che intendeva ricostruire l'unità dell' Impero Romano. Per la nostra città inizia il periodo bizantino ed essa sarà la sede dell'esarca che da capo militare assumerà in seguito la funzione di governatore in nome di Bisanzio con il compito di difendere la "Romania" dagli assalti dei Longobardi.

Nel 751 con la conquista del re longobardo Astolfo e con la fine del suo ruolo di capitale, Ravenna inizia una profonda crisi. La città subisce frequenti e rovinose inondazioni per opera di fiumi e torrenti appenninici che coi loro depositi stravolgono il sistema di canali esistente; inoltre viene meno l'operazione di pulitura degli stessi sicché la laguna diventa palude; il Po si è ritirato più a nord e il porto di Classe si interra: il mare si allontana sempre più da Ravenna.
D'altra parte era già nata Venezia che proprio in quei secoli stava costruendo la sua potenza economica e marittima, sostituendosi proprio a Ravenna, la quale conoscerà un nuovo, ma relativamente breve, periodo di floridezza dal 1441 al 1509 allorché viene conquistata e governata direttamente dalla stessa Venezia. Numerose sono le testimonianze di questo periodo, quale il Palazzetto Veneziano che sorge nell'odierna Piazza del Popolo e tutto quello che rimane della Fortezza Brancaleone

 

L’ULTIMA SPERANZA: LA FEDE NELLA BONTA’ DELLA NATURA UMANA

del Prof. Attilio Princiotto

Quando nelle notti più buie brilla improvvisamente una stella, che probabilmente non esiste più secondo le affermazioni degli astronomi, ciò che noi vediamo è come il ricordo di un corpo luminoso, un ricordo che però penetra nella nostra coscienza comunicandoci qualcosa di misterioso, di conturbante, soprattutto perché quella luce proviene da una distanza immensa; il suo tremolio sembra il codice di un linguaggio arcano che voglia comunicarci qualcosa di straordinario.
Il filosofo tedesco Emanuele Kant si soffermava spesso a contemplare il cielo stellato che gli appariva sempre più affascinante e incantevole e suscitava in lui grande stupore. L’esempio di Kant è stato seguito da molti: contemplare il firmamento pieno di stelle commuove e spinge il pensiero sempre più lontano. Chi si intrattiene a guardare il cielo e a contare le stelle rivela un animo sensibile e buono, anche se gli tocca vivere nel male, quel male che l’uomo stesso si procura: basta questo segno per dirci che nell’uomo il lume della sua natura non si è spento e chi riesce a seguire la strada che la sua umanità gli indica vuol dire che si può salvare dall’abisso in cui è stato fatto precipitare e può diventare un esempio per la salvezza di tutti coloro che sembrano perduti.

Tutti gli anni trascorro un breve periodo estivo a Madonna dei Fornelli, una frazione di San Benedetto Val di Sambro, sull’Appennino Emiliano, a ottocento metri di altitudine, situato più o meno tra la Statale della Futa e l’Autostrada del Sole, strade entrambe che portano, provenendo da Bologna, verso la Toscana. E’ un piccolo centro, ma molto bello e confortevole, dove si respira un’aria piacevolmente fresca e asciutta, grazie alla continua ventilazione e ai boschi fitti e dove mi sono fatto costruire una villetta. Ma io non intendo fare pubblicità; dico subito che qualche tempo fa vi ho conosciuto una persona del posto che fra l’estate e l’autunno del 1944 aveva compiuto undici anni; su sua autorizzazione scrivo che si tratta del signor Giuseppe Lollini..

Brevissimamente ricordo che nell’autunno del 1944 l’Appennino, da Rimini a La Spezia, era attraversato dalla “linea gotica” una delle linee che i Tedeschi, alleati con la Repubblica Sociale di Salò, avevano organizzato contro gli alleati; Hitler aveva preteso da Mussolini, dopo averlo fatto liberare dalla prigionia del Gran Sasso, la fondazione di un nuovo stato fascista per combattere gli Anglo-Americani che avanzavano verso Nord lungo la penisola e che si erano alleati con il Regno d’Italia. Le truppe nazifasciste tentarono di fermare gli Alleati lungo le diverse linee che man mano stabilivano e che rapidamente poi erano stati costretti ad abbandonare ritirandosi sempre più verso nord. Nell’autunno del ’44 gli Inglesi decisero di non tentare di sfondare subito la “linea gotica” e così i nazifascisti, sentendosi al sicuro, si impegnarono a combattere i partigiani che si erano rifugiati soprattutto sulle montagne, operando stragi feroci nei confronti di chiunque li sosteneva, in particolare le loro famiglie.

A Madonna dei Fornelli non vi furono grandi concentrazioni di truppe. I Tedeschi vi avevano costituito un piccolo presidio militare, abbastanza modesto: evidentemente non prevedevano in quella zona azioni in grande stile. Nel cielo terso la gente vedeva con ansia e timore le formazioni di fortezze volanti puntare verso il nord ad alta quota ed altre che si abbassavano e andavano a bombardare Bologna; qualche volta vedevano innalzarsi alte colonne di fumo nero anche se i boati delle esplosioni non giungevano fin lassù. Il presidio tedesco aveva il compito di pattugliare la zona per verificare che non accadesse nulla a loro danno.
Il comandante del presidio era un uomo che si dedicava con passione a guardare le stelle che nel cielo particolarmente limpido di Madonna dei Fornelli apparivano meravigliosamente risplendenti. Quel tedesco aveva cercato e trovato i punti migliori per appagare il suo interesse. Perché questo grande interesse per le stelle? Era un astronomo che aveva bisogno di chiarire qualcosa riguardo alle costellazioni? O era un poeta che cercava di dialogare col firmamento? Oppure piuttosto un asceta che cercava di trovare il divino in tanti mucchi di stelle? Forse era un discepolo di Kant. Il signor Lollini non me l’ha saputo spiegare: certi problemi non si pongono a un bambino di undici anni: mi ha comunque riferito che quell’uomo era molto gentile e cordiale verso tutti, specie nei confronti dei bambini, tutti più piccoli di Lollini, i quali forse si può dire che gli volessero bene e stavano insieme a lui a guardare le stelle e forse era questo che lui voleva.

Ma quell’uomo era al servizio di quell’altro tedesco che aveva scatenato la seconda guerra mondiale, la quale avrebbe causato circa sessanta milioni di morti, la maggior parte civili e innocenti, la tragedia più grande che la storia ricordi. Una contraddizione? Si direbbe di si. Penso però che si possa sostenere che l’umanità dei singoli, in alcuni casi almeno, può resistere al male: basta una stella per mantenere viva la speranza nella vita e nel bene.

Tra l’estate e l’autunno eravamo ancora in piena guerra mondiale; in particolare nel Nord-Italia si combatteva un’aspra guerra civile tra i partigiani e i nazifascisti. In questo periodo nel nord, nelle città, nelle campagne e soprattutto sulle montagne avvennero fatti di una ferocia incredibile: basti pensare in Emilia a Marzabotto, tanto per ricordare una delle tragedie più dolorose. Anche Madonna dei Fornelli non è diventata per poco teatro di una grande tragedia. Il signor Lollini mi ha raccontato come si stesse verificando una strage di adulti e di bambini, dei quali lui era il maggiore di età. Il signor Lollini non ricorda esattamente la data dell’evento; io ritengo che sia avvenuto tra il Settembre e l’Ottobre del 1944.

I fatti sono stati questi: due soldati tedeschi tornavano speditamente verso la base, dopo aver perlustrato il territorio loro assegnato, percorrendo la strada sterrata e tutta sassosa di Cedrecchia ai lati della quale erano cresciute fitte siepi. Ad un tratto da dietro una di esse partì una scarica di fucile verso i due tedeschi che però non furono colpiti. Correndo, in pochi minuti essi raggiunsero la sicurezza nella loro base. Dall’altro lato della strada, distante da essa poche centinaia i metri c’era allora e c’è tutt’oggi una casa colonica abitata da più nuclei familiari che lavoravano i campi per il proprio sostentamento e per quello delle bestie che tenevano nelle stalle. Tutti udirono gli spari e videro i due partigiani fuggire nella boscaglia vero i loro nascondigli sicuri. Spaventati si chiusero in casa compreso Lollini che intanto portò le mucche nella stalla. Nonostante la giovane età infatti il ragazzo badava alle bestie per guadagnarsi un pezzo di pane. Tutti credevano che non ci sarebbero state ritorsioni perché non c’erano stati né morti né feriti; lo credevano o forse lo speravano; ma come stare tranquilli dopo le spaventose notizie dei fattacci che ogni giorno arrivavano da luoghi non molto lontani? Infatti improvvisamente videro arrivare di corsa i tedeschi del presidio, bene armati e diretti alla loro casa, urlando con la voce rauca nella loro lingua che nessuno capiva ma che tutti intendevano. Col calcio del fucile sfondarono la porta, spingendo tutti fuori e costringendoli a schierarsi contro il muro della casa. Quando imbracciarono il mitra subito tutti compresero: era la fine. Alcuni urlavano disperatamente perché innocenti, altri sembravano istupiditi per il terrore e non riuscivano ad emettere nessun lamento; una mamma diede in braccio a Lollini la propria figlioletta di sei o sette mesi, sperando forse in un prodigio. E il prodigio si verificò.

Improvvisamente arrivò di corsa il comandante del presidio, il contemplatore del cielo stellato, probabilmente allertato da qualcuno del luogo accortosi che stava per consumarsi una tragedia; ordinò ai suoi soldati di abbassare i mitra perché non dovevano uccidere quella gente e nemmeno spaventarla poiché nessuno di loro aveva commesso alcun crimine, in particolare i bambini, e quindi non dovevano subire alcuna rappresaglia. I soldati obbedirono e si allontanarono da quel luogo da dove quella notte si videro brillare le stelle come non mai: si era evitata una strage di innocenti e soprattutto di bambini, che erano stati restituiti a quella vita che per un momento terribile avevano creduto di perdere.

La rappresaglia per episodi simili era per i nazisti una norma obbligatoria? Oppure era il frutto della crudeltà efferata di certi capi? Forse il comandante del presidio aveva violato una legge impostagli dai suoi capi, una legge spietata e ingiusta perché sarebbe ricaduta su vittime del tutto innocenti. Egli ebbe il coraggio e la forza di infrangere questa legge, ispirato dalla sua umanità illuminata dalle stelle.

 

LA VOCE DI MARZABOTTO

A Marzabotto mi sono recato parecchie volte in occasione della commemorazione delle vittime della terribile strage di innocenti consumata nei giorni fra settembre e ottobre del 1944 per il potente richiamo che quel paesino, che sorge nella vallata del fiume Reno tra i primi contrafforti dell’Appennino tosco-emiliano, a una trentina di chilometri a sud di Bologna, esercita nelle coscienze più sensibili, che aprono l’animo ai valori più alti del vivere civile.

Nel sacrario di Marzabotto non tutti i loculi sono occupati, sia perché alcuni parenti hanno voluto seppellire i loro cari nei cimiteri delle proprie residenze, sia perché vi sono tombe comuni per il fatto che i corpi, quando sono stati ritrovati alla fine della guerra, erano del tutto indistinguibili; ci sono però i nomi di tutte le vittime. Numerose sono le famiglie intere trucidate; accanto ai nomi c’è anche l’età: come si può non rimanere turbati nel leggere accanto al nome 6 anni? 2 anni? o addirittura 2 mesi? Di alcuni sono indicati persino 6 giorni, 2 giorni. La nostra guida ci ha narrato le tante dolorose vicende; ci ha raccontato di una giovane incinta a cui hanno fatto nascere il bambino in modo inenarrabile, ha lasciato che ognuno immaginasse come.

Nel pomeriggio si sale sul Monte Sole, che è la cima più alta del sistema collinare della zona. La strada è stretta e molto ripida e si ha la sensazione di trovarsi in un luogo selvaggio; eppure nel corso dei secoli e dei millenni gli uomini si sono insediati su quelle pendici scoscese disboscando e dissodando e così nacquero numerosi piccoli centri; l’uomo si diede a coltivare la terra, ad allevare il bestiame, a piantare alberi da frutto mentre il bosco forniva legname da costruzione e legna da ardere.
La Valle del Reno era una comoda via di comunicazione tra la Toscana degli Etruschi e la Pianura Padana meno abitata e sviluppata; attraverso questa via gli etruschi conquistarono vaste zone della pianura fondandovi molti centri per praticare i loro commerci. Certamente gli abitanti della valle dovettero raggiungere un discreto benessere. La storia delle popolazioni appenniniche è indubbiamente interessante, ma non possiamo parlarne qui.

Diciamo solo che Marzabotto e i centri vicini si trovarono, verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, alle spalle della Linea Gotica lungo la quale i tedeschi, nonostante apparisse ormai ineluttabile e vicina la loro sconfitta, tentarono di fermare gli Anglo-Americani i quali, dopo la liberazione di Roma e l’occupazione di Firenze, avanzavano, sia pure lentamente, verso il Nord dell’Italia.

Il generale degli alleati Alexander decise di non proseguire in quel momento l’operazione di sfondamento della linea Gotica (che andava da Rimini a La Spezia) ma di stazionare lungo di essa in attesa della primavera.
Intanto, invitando tutte le formazioni partigiane a ritornare a casa, concedeva una sorta di tregua non annunciata ai Nazifascisti, i quali non sentendosi attaccati, si diedero ad azioni di ripicca e alla ricerca indisturbata dei partigiani.
La Resistenza, però, subito comprese che seguire l’invito di Alexander sarebbe stato un autentico suicidio, un consegnarsi spontaneo e incomprensibile nelle crudeli mani del nemico che ancora controllavano i loro paesi. Pertanto restarono nelle montagne per resistere e reagire agli attacchi spietati nei loro confronti.

Così i nazifascisti, sotto la feroce guida del comandante delle SS Walter Reder, detto “il monco” perché mancante di una mano, si diedero alla purga dei partigiani nei territori sotto il loro controllo ma non riuscendo a colpirli direttamente iniziarono vili azioni nei confronti dei civili, delle loro famiglie e di chiunque cercasse di aiutarli. Reder, a guerra finita, fu definito dal pubblico accusatore durante il processo che si celebrò a Bologna, un esemplare inconfondibile di quella sottospecie umana prodotta dal fascismo Hitleriano: “freddo, insensibile, fanatico, pieno di ostinata alterigia, educato al cinismo e all’odio di razza”. Egli operò a Sant’Anna di Stazzema in Toscana il massacro di 570 persone innocenti ed inermi, distrusse il paesino di Vinca, a Valla fucilò tutti gli abitanti (solo una bimba di 8 anni scampò al massacro) e, infine, tra il 28 e il 2 ottobre del ‘44 compì il suo capolavoro di criminalità a Marzabotto. Fu una vera strage di quasi 1000 persone, dal prete trucidato mentre celebrava la messa, a vecchi e bambini, rinchiusi nel camposanto; nemmeno i cadaveri furono risparmiati: impregnati di benzina furono bruciati.

Le popolazioni della Valle del Reno si trovarono a dover subire la spietatezza, unita all’assenza di qualsiasi principio morale e a un sadismo senza limiti, di individui che di umano conservavano solo la forma fisica. E’ vero, si era in zona di guerra e soprattutto su quelle montagne agiva la Brigata Partigiana Stella Rossa, il cui capo era Mario Musolesi detto “il lupo”, che dava molto fastidio ai nazifascisti; e se rientra nella logica della guerra che le zone delle operazioni belliche siano sgombre da qualunque cosa costituisca un ostacolo per lo svolgimento delle stesse operazioni, nulla può giustificare la distruzione totale, l’annientamento, crudele e violento, di popolazioni civili, spesso totalmente ignare e incapaci di opporre qualsiasi resistenza, come sono appunto i bambini, anche in tenerissima età e i vecchi.

Le donne a loro volta faticavano a coltivare la terra, ad accudire il bestiame, per dare da vivere alla propria famiglia, anche ai loro uomini, mariti, padri, fratelli, figli, diventati partigiani per sfuggire ai rastrellamenti che significavano morte o deportazione in Germania e alle conseguenze della renitenza alla leva obbligatoria, uomini animati altresì dal bisogno di difendere la propria terra e di liberarla da una dominazione straniera feroce e assurda, appoggiata da una dittatura altrettanto feroce e assurda.

Questi sentimenti, questi ideali non potevano venire soffocati, spenti; i tedeschi e i loro alleati italiani, molti dei quali indossavano addirittura la divisa delle SS naziste, scelsero allora la eliminazione totale dei loro portatori e così sulle pendici del Monte Sole si ebbero tante tragedie terrificanti le cui vittime furono in grande maggioranza donne e bambini.
Su quelle pendici è cresciuto oggi un bosco fitto dal verde intenso, regno di animali selvatici; Ogni tanto quasi nascosto dal fitto verde, appare al visitatore un rudere, un pezzo di muro annerito dal fumo: fino alla fine di settembre del 1944 era una casa, abitata da molte persone, in cui si udivano voci allegre di bimbi e di giovani e forse canti di donne al lavoro. Improvvisamente si odono spari; voci rauche, minacciose si sostituiscono a quelle allegre che subito diventano strilli di terrore, qualche volta anche di implorazione. Poi più nulla. Seguono scoppi di bombe a mano, raffiche di mitraglia e tutto viene avvolto dal fumo nero dell’incendio. I cadaveri vengono recuperati l’anno successivo.

La natura col tempo si è riappropriata di ciò che era suo ricoprendo di verde fitto, quasi per pudore o forse per pietà, le nefandezze che la belva umana ha commesso. Ma da quel verde, da quel silenzio, da quella pace si leva la voce di tutti coloro che lì, come nella chiesa di San martino o nel cimitero di Casaglia, sono stati barbaramente trucidati, in una forma aberrante assimilabile forse solo a quella praticata dai primitivi, ossia quegli esseri che non si possono chiamare uomini, perché uomini non erano ancora, non essendosi ancora accesa nel mondo la luce della ragione e il calore del sentimento: il cammino della civiltà non era ancora iniziato.

La voce dei martiri di Marzabotto, voce corale in cui prevalgono le voci argentine dei bambini e delle donne, si leva dal luogo del supplizio e giunge nell’animo, nella coscienza, nel cuore dei visitatori per testimoniare che quel dolore, quella vita brutalmente spezzata, che il grande e ingiusto torto subito sono costi eccessivi che non si devono più pagare per conquistare e mantenere la libertà.
Se non si ascolta quella voce, il rischio che tutto si ripeta rimane.

*Professore

 

L 'ITALIA DA SCOPRIRE: LA ROMAGNA COLLINARE

La Romagna è ben nota anche all'estero per il turismo rivierasco: chi non conosce Rimini, Riccione, Cervia? Chi non conosce Ravenna con la sua arte e i suoi splendidi monumenti che testimoniano la sua grandezza di capitale dell'Impero Romano e degli Ostrogoti? Meno noti al contrario i centri sparsi all'interno della regione, adagiati sui primi contrafforti dell'Appennino.
E' difficile trovare in Italia una zona che non dica nulla al visitatore di oggi, che non parli, attraverso importanti monumenti o semplici reperti archeologici, di antichi insediamenti e di civiltà vecchie di millenni. Tuttavia le località note non dico nel mondo, ma anche solo a tutti gli italiani, non sono poi molte. Bertinoro probabilmente gode di una vasta notorietà fra gli amanti del buon vino grazie al suo ottimo Albana, Castrocaro è rinomata come passerella e trampolino di lancio per giovani cantanti o anche per le sue acque termali, il cui potere terapeutico è stato scoperto e sfruttato a partire dal 1830 e lo sfruttamento su vasta scala è iniziato nel 1871. Eppure entrambe le cittadine esistevano negli ultimi secoli dell'Impero Romano. Ma quanti conoscono Galeata? Quanti Terra del Sole? Certo non molti. Ovviamente ci sono gli studiosi, gli specialisti, ma non è a loro che si allude.

Esiste una grande parte dell'Italia, poco o per nulla conosciuta, che è ricca di storia, di arte e soprattutto di documenti che ci dicono come vivevano quali problemi avevano e come li hanno risolti, come erano organizzati gli uomini e le donne vissuti anche molti millenni or sono; in breve si tratta delle civiltà di cui noi siamo gli eredi, i continuatori. Ecco perché conoscere il nostro passato non solo appaga la nostra curiosità intellettuale e arricchisce la mente di notizie, ma soprattutto ci fornisce una chiave indispensabile quando vogliamo comprendere correttamente il presente e in particolare i problemi che esso ci pone e se vogliamo sperare di trovare ad essi una soluzione adeguata dobbiamo sapere come e perché sono sorti e per quale motivo alcuni si ripresentano con una certa frequenza. La conoscenza storica quindi ci può aiutare a costruire un futuro migliore: bisogna conoscere gli errori del passato per non ripeterli.
Una buona parte dell'Italia quindi deve essere ancora scoperta : la sua conoscenza significa progresso civile, perché altresì significa conoscenza reciproca di tanti Italiani che vivono in zone diverse.

E' chiaro infatti che la conformazione geografica dell'Italia, in particolare il suo sistema montuoso e il suo essere una lunga penisola e la presenza di numerose isole, rendendo difficili le comunicazioni e quindi anche gli scambi culturali, ha impedito la formazione di un popolo del tutto omogeneo; al contrario ha favorito il sorgere di differenze culturali ed economiche anche profonde che ancora oggi creano incomprensioni. Si può affermare che queste incomprensioni non hanno ragione di esistere, che anzi le differenze culturali e i differenti modi di vivere costituiscono elementi di ricchezza di una civiltà e non il sintomo di una presunta superiorità di un gruppo umano nei confronti di un altro. Conoscere il passato di una "gente" può spiegare il suo comportamento attuale, i suoi costumi, perfino il suo modo di sentire, i suoi gusti, le sue abitudini.

L'Appennino Tosco-Romagnolo, essendo facilmente valicabile, ha rappresentato sempre un'importante via di comunicazione dell'Italia centrale verso il nord-est della Pianura Padana e l'alto Adriatico; naturalmente il suo controllo è sempre stato l' obiettivo dei potenti che si sono succeduti e combattuti per secoli in questo settore dell'Italia.

Castrocaro, il centro più importante della zona, probabilmente era in origine un accampamento fortificato, fondato nel III secolo dall'imperatore romano Caro, come sembra si possa ricavare dal suo nome. Fino al 1403 fu sotto il dominio del Vescovo di Ravenna per poi passare sotto Firenze assumendo la funzione di capoluogo della Provincia di Romagna e fu sce1ta come sede del Capitano di Giustizia prima e del Commissario Generale poi. Numerose e significative sono le testimonianze del ruolo storico svolto da Castrocaro nei secoli: palazzi signorili, fortificazioni militari e naturalmente chiese che custodiscono pregevoli opere d'arte.

Una menzione particolare merita Terra de1 Sole che sorge a quasi tre chilometri da Castrocaro. Si tratta di una città totalmente "nuova", nata "a tavolino", progettata e costruita dall'architetto Baldassarre Lanci a partire dal 1564 per volontà del granduca Cosimo I de' Medici che aveva bisogno di un nuovo e razionale centro amministrativo, militare e giudiziario per la Romagna toscana. Nasce proprio col Rinascimento l'esigenza di una perfetta città terrena, una dimora adeguata alla nuova visione che si ha della vita umana. L'uomo infatti vive e si realizza su questa terra e proprio nel costruire la sua vita attua la sua somiglianza con Dio creatore; pertanto questo mondo materiale e tutto quello che in esso l'uomo costruisce hanno un grande valore e un alto significato. Ecco perché si cerca di realizzare un ambiente, una società, delle strutture corrispondenti ai più alti ideali. Da qui l'isola di "Utòpia" di Tommaso Moro, da qui la "Città del Sole" di Tommaso Campanella, da qui appunto anche "Terra del Sole” di Cosimo I de' Medici.

Ma perché "'Città o Terra del sole"? Il microcosmo è capace di accogliere in sè il macrocosmo; ciò che crea l'uomo su questa terra è simile all'Universo, alla creazione divina; l'intelligenza umana è un raggio dell'intelligenza divina: sostanzialmente quindi non si tratta di entità diverse. E' necessario che nelle opere dell'uomo regni la stessa armonia del sistema solare. Terra del Sole risponde proprio a queste esigenze e forse ne costituisce l'unico caso di realizzazione completa mai attuata; è perfettamente conservata e ad un'osservazione un po' attenta testimonia in modo chiarissimo gli ideali della civiltà rinascimentale e insieme gli obiettivi per cui è stata costruita. E' soprattutto una città-fortezza; essendo il più settentrionale dei domini di Firenze doveva pertanto provvedere in primo luogo alla difesa di quel settore e Monte Poggiolo, un colle alto poco più di 200 metri, sulla cui cima fra l'altro di sono state trovate tracce di un insediamento umano risalente al Paleolitico Inferiore (quasi un milione di anni fa), costituiva una specie di sentinella, di osservatorio da cui si domina un vasto tratto di pianura, fino all'Adriatico.

Non è il caso nemmeno di abbozzare una dettagliata descrizione della cittadina che richiederebbe molto spazio; ci limitiamo a poche cose solo per dare una sia pur pallida idea, sufficiente, ci si augura, a far nascere il desiderio di visitarla. E' di forma rettangolare, cinta di mura, con ai quattro angoli altrettanti bastioni a forma di cuneo per la difesa, divisa parimenti in quattro quartieri; vi si accede da due porte, quella fiorentina, verso la Toscana, e quella romana volta a nord verso Ravenna. All'interno numerosi edifici pubblici e civili; le abitazioni private non superano l'altezza di nove metri, pari alla larghezza delle strade su cui si affacciano. Nella piazza centrale, proprio di fronte al Palazzo dei Commissari, sede del potere civile, sorge la Chiesa di Santa Reparata a dimostrazione che il mondo deve essere governato anche dal potere spirituale e che i due poteri, lungi dal combattersi reciprocamente, devono operare di comune accordo per il bene degli uomini. La chiesa è grandiosa per l’architettura sia all'esterno che all’interno e ricca di opere d'arte. Tra gli edifici vanno ricordati il Castello del Capitano e quello del Governatore nonché il Palazzo dei Provveditori, tutti caratterizzati da linee nobili ed eleganti, grandiose e insieme armoniose, tipiche dell'architettura rinascimentale. Oltre a provvedere alla difesa militare i funzionari di Firenze riscuotevano le tasse e amministravano la giustizia; gli edifici pubblici erano pertanto attrezzati per svolgere questi compiti. Tutte le attività sono documentate da un ricco archivio storico.

Naturalmente le colline romagnole non abbondano solo di storia: a Castrocaro e a Terra del Sole fiorisce un ricco artigianato rivolto soprattutto alla ceramica e alla pietra dura. Ottima e caratteristica è la cucina romagnola accompagnata da vini di alta qualità prodotti localmente. Per il visitatore è importante anche il carattere gioviale e aperto dei Romagnoli che fanno sentire subito a casa propria, come se si fosse amici da sempre.

 

 

LA COSTA AZZURRA

Quando, dopo una permanenza a Nizza di quattro giorni con alcuni amici, sono partito per Avignone, riflettendo sul fatto che quella era l’ennesima volta che visitavo la capitale della Costa Azzurra, mi è costato uno certo sforzo spiegarmi la strana sensazione di quel momento, sensazione che rassomigliava tanto alla malinconia che si prova allorché ci si allontana da un luogo caro a cui ci si sente legati e dove si desidera tornare ma non si sa quando.
Nizza era la base da cui al mattino si partiva in pullman verso i luoghi più rinomati della Costa Azzurra, i cui nomi, solo a pronunciarli, accendono lampi nella fantasia ed evocano immagini e paesaggi da sogno. Non è il caso di parlare a lungo de1 Principato di Monaco, le cui strade, curve, tornanti, il tunnel, le salite e le discese su cui si snoda il circuito della Formula Uno ogni anno sono visti in tutto il mondo; fa però ugualmente un certo effetto camminarci sopra. Abbiamo assistito al tanto decantato "cambio della guardia": spero di non offendere nessuno, ma non ha niente di solenne, anzi, sembra un teatrino, uno spettacolo per bambini. A Montecarlo c'è comunque molto di bello e di interessante: l'Acquario, il Museo Oceanografico, il Giardino Botanico ricco di circa settemila specie di piante esotiche, i1 Casino, la Straordinaria concentrazione di edifici che si sviluppano in altezza per ovviare all'esiguità del territorio e il grandioso panorama che si può ammirare dall'alto dei monti.

Chi poi non conosce Cannes, la sua Croisette, il Palazzo del Festival del Cinema, i sontuosi alberghi dove si pagano cifre da capogiro solo per dormire? Tuttavia a visitare luoghi da cartoline illustrate si provano sensazioni nuove, si arricchisce l'esperienza e tutto acquista una dimensione realistica, più veritiera. Particolarmente suggestivo si è rivelato il periplo in battello intorno alle due isolette di Santa Margherita e di Sant'Onorato che chiudono i1 porto di Cannes: Santa Margherita era abitata già al tempo dei Romani; il Richelieu vi fece costruire un castello adibito ben presto a prigione il quale, nel corso dei secoli, ha avuto "ospiti" illustri a cominciare dalla misteriosa "maschera di ferro" la cui esistenza è certa anche se ne è rimasta ignota l’identità. Nel 410 il monaco Onorato ha costruito nell’isoletta che porta il suo nome il primo monastero dell’Occidente, passato in seguito ai Benedettini; oggi è proprietà dei frati Cistercensi. E’ consentito il turismo, ma solo durante il giorno. Le due isole hanno una ricca vegetazione di eucalipti, pini, ulivi e macchia mediterranea.

Altra località del nostro itinerario, celebre per le sue periodiche manifestazioni musicali; e sportive, è stata Antibes, antica città fondata dai Greci nel III sec. a.C.; il Castello dei Grimaldi, che vi si trova ospita oggi il Museo Picasso. E' ancona esistente la fortezza costruita dall'architetto militare di Luigi XIV, generale Vauban, come difesa poichè si era sul confine con lo Stato dei Savoia. Capo Antibes, che si protende sul mare per qualche chilometro, ha avuto nel tempo una notevole importanza militare per l’avvistamento di navi nemiche la cui comparsa è stata sempre tutt’altro che rara. Lungo tutta la Costa Azzurra incontriamo ancora oggi molte torri e castelli-fortezza costruiti per la difesa e l'avvistamento dai popoli potenti che si sono succeduti nel dominio del 1itorale. Se si tiene presente il fatto che per millenni, ossia fino alla fine del Medio Evo quando fu introdotta in Occidente la bussola, la navigazione si effettuava vicino alla costa per motivi di orientamento, possiamo facilmente capire che cosa significasse avere a disposizione porti sicuri per sfuggire agli attacchi nemici, in modo particolare a quelli dei pirati che numerosi e ben organizzati infestavano tutti i mari, e un riparo contro le tempeste a cui le navi piccole e abbastanza fragili non potevano resistere.
La Costa Azzurra è complessivamente alta e frastagliata e presenta insenature ben riparate, strette e profonde, che ricordano i fiordi norvegesi, e frequenti promontori che si protendono nel mare a mò di sentinelle. Procedendo verso ovest ci si imbatte in due massicci montuosi di notevole altezza, l'Esterel le cui rocce rosse cadono a picco sul mare, e il Maures, di grigie, scure rocce vulcaniche. Dal mare lo spettacolo si presenta incomparabile. Alle spalle, nell'entroterra collinare, accanto ad un'attiva fioricultura, rimane una lussureggiante vegetazione spontanea: boschi di pini ad ombrello, lunghe file di affusolati cipressi e, più in alto, larici e abeti; dappertutto poi la tipica macchia mediterranea dai mille colori e profumi. Le palme, gli eucalipti, le mimose, che contribuiscono a rendere ricco e vario il paesaggio, non sono piante originarie della Costa Azzurra, bensì importate da altri paesi. E' proprio per questa sua prepotente bellezza fatta di colori forti e netti e di un paesaggio che non finisce di stupire per la grande varietà che va dall’azzurro intenso del mare, attraverso immagini tropicali, fino alle alte cime delle Alpi biancheggianti di neve, per l’aria tersa e luminosa, intensamente profumata, proprio per tutto ciò la Costa Azzurra è stata amata e frequentata da molti dei più celebri pittori del nostro secolo che vi hanno soggiornato a lungo ed hanno trovato ispirazione per molti capolavori. Tanto per fare qualche nome ricordiamo Picasso, Matisse, Chagall, Renoir e, nei vari Musei che si trovano in alcune città, oltre che nelle chiese e in edifici pubblici, addirittura nelle trattorie che frequentavano (ne è un esempio la "Colombe d'or" di Saint Paul de Vence) sono conservate molte loro opere.
Lungo l'arco di un'ampia baia, chiamata Baia degli Angeli, delimitata ad est da Cap Ferrat e ad ovest da Cap d'Antibes, incorniciata dalle ultime propaggini delle Alpi Marittime che degradando giungono fino al mare, in uno scenario di incomparabile bellezza che abbiamo potuto ammirare dal Mont Boron che domina da est tutta la baia, si adagia Nizza, una vera metropoli con i suoi 500.000 abitanti. Della lunga storia della città ricordiamo solo che è stata fondata dai Greci di Marsalia (Marsiglia) nel V sec. a. C. col nome di Nicaia, la Vittoriosa, ed è passata intorno al 150 a.C. sotto i Romani che si preparavano a conquistare la Gallia e successivamente la Spagna e che a tale scopo prolungarono fino a Marsiglia la Via Aurelia. Anche Nizza subì le invasioni barbariche e in seguito fu unita alla Contea di Provenza; dal 1388 fece parte dello Stato dei Savoia fino al 1860 allorchè, in applicazione degli accordi di Plombiers, tra Cavour e Napoleone III, passò alla Francia con un formale plebiscito, fatto che, come era naturale, suscitò la furibonda ira di Giuseppe Garibaldi: Garibaldi, uno dei protagonisti dell'unità d'Italia, era nato proprio a Nizza il 4 luglio 1807, in una casetta sul vecchio porto che oggi è ricordata solo da una 1apide, ma al suo nome è intitolata una piazza della città dove si erge anche il suo monumento.
Da quando, nel 1764, il Conte di York scelse Nizza per le sue vacanze e vi si fece costruire una villa, il suo esempio fu seguito da molti suoi connazionali, al punto che oggi si sostiene che siano stati proprio gli Inglesi a scoprire e quindi a valorizzare la Costa Azzurra. A testimonianza di ciò, quello che forse è il più famoso lungomare d'Europa, sul quale si affacciano lussuosi alberghi, ville, edifici pubblici, adorno di una fila ininterrotta di lussureggianti palme, un viale largo di otto corsie di marcia, che corre per ben sette chilometri lungo l'arco della baia, si chiama appunto "Promenade des anglais". La Promenade inizia a est nella zona del vecchio porto mentre nell'ultima parte fiancheggia le piste dell' Aeroporto Internazionale, il secondo della Francia per grandezza e volume di traffico dopo quello di Parigi. L’aeroporto praticamente è costruito sul mare e gli aerei arrivano e partono appunto lungo il mare, in parte accanto alla Promenade. Anche questo costituisce una attrattiva ed esercita un suo fascino sui turisti. Con buona pace di Garibaldi, dobbiamo riconoscere che il diventare francese probabilmente è stata una fortuna per la città, la quale, a partire proprio da quella data, ha conosciuto un imponente sviluppo edilizio espandendosi special mente lungo i dolci pendii dei rilievi che la circondano. Sono sorte così stupende ville, giardini, tra cui l'orto botanico che sfoggia una grande varietà di piante esotiche, è stata costrui1ta l'Acropolis, un vasto centro per congressi e manifestazioni, nonchè quartieri residenziali e lussuosi alberghi.
L'albergo che ci ha ospitato, il Grand Hotel Aston, ottimo sotto tutti i punti di vista, si affaccia sulla Piazza Massena, forse la più bella piazza di Nizza, occupata in gran parte da un insieme di fontane che costituisce un vero e proprio spettacolo con la varietà dei giochi d'acqua. A Nizza è rimasta anche la città vecchia, che è proprio quella italiana, meta preferita dei turisti, non solo italiani. Sinceramente fa un certo effetto constatare che le strade, i negozi, perfino le chiese portano nomi italiani; i piatti. che i ristoranti offrono o le specialità esposte nei bar, nelle pasticcerie si riferiscono a gusti siciliani, napoletani, toscani, veneti, piemontesi. In questo quartiere il passato italiano di Nizza è una realtà palpabile e un Italiano lo avverte più di altri turisti. E' negativo provare questa sorta di sentimento? Direi proprio di no, anzi. Se un italiano per un certo tempo si trova tra individui con cui ha in comune gli antenati, la civiltà e il luogo dove essi vivono un tempo era italiano (ammesso che questo si possa veramente sostenere), avvertendo per questo motivo un legame più profondo con quegli individui, significa soltanto che esiste una maggiore possibilità di intendersi, di solidarizzare, di collaborare per risolvere problemi comuni e tramite loro, conoscere meglio il popolo a cui essi ormai appartengono; insomma anche questo è un mezzo di progresso civile. Il vero grande male, invece, si verifica quando qualcuno pretende che tutti i territori su cui vivono gruppi umani appartenenti a uno stesso popolo devono costituire un solo Stato. E' un'idea folle questa, ma purtroppo non ha avuto sostenitori solo nel passato. Ma, per tornare all’assunto iniziale, questo legame con Nizza io l'ho avvertito profondamente, proprio al momento della partenza.
Dunque i moti vi che legano noi Italiani alla Costa Azzurra e a Nizza in particolare sono molteplici e rendono auspicabili altri soggiorni' nel Midi Francese: c'è ancora tanto da scoprire, da imparare e che può arricchire la nostra vita. Ma la nostra vita si arricchisce anche e soprattutto con lo stare insieme; è sempre un grande piacere trovarsi con gli amici di lunga data e forse è ancona più importante stringere nuove amicizie dal momento che questo non significa altro che conoscere persone che sentono e pensano come te, con le quali ci si può intendere facilmente e che ti potrai trovare accanto in qualsiasi circostanza.

 

PELLEGRINAGGIO A REDIPUGLIA

Fino alla metà degli anni settanta, il 4 novembre, festa nazionale, si celebrava la fine della Grande Guerra e la vittoria dell'Italia sull'Impero Asburgico e i suoi alleati tedeschi. Era un giorno festivo, era "il giorno della vittoria", ci si esaltava per il valore dei soldati italiani che avevano trionfato su quello che era considerato uno degli eserciti più potenti e avevano portato a compimento l'unità nazionale.
Tuttavia l'avere abolito la solennità del giorno festivo per quella ricorrenza e averla intitolata "giornata delle forze armate" è stata una cosa saggia e insieme un atto di civiltà, poiché la celebrazione della vittoria rinnovava tutti gli anni l'amarezza della sconfitta in quelle popolazioni italiane che allora erano sull'altro fronte e si erano sentite conquistate, assoggettate dagli italiani; il che aveva contribuito a ritardare la loro integrazione e aveva reso talvolta difficili i rapporti con lo Stato Italiano: non è un caso che proprio negli ultimi decenni la situazione è migliorata.

Oggi "la giornata delle forze armate" consiste nell'aprire a tutti le caserme con la visita alle nostre truppe, spesso schierate in bell'ordine, e nel dare la possibilità di osservare da vicino gli armamenti, i micidiali strumenti di morte, certo con grande gioia dei bambini; ma soprattutto, in quel giorno si commemorano i caduti.
Una domenica 4 novembre di qualche anno fa ho avuto occasione di presenziare a una cerimonia a Redipuglia, dove non ero mai stato prima.
Purtroppo sono tanti nel nostro paese i luoghi che ricordano eventi dolorosi e che sono mete di pellegrinaggio; ma il Sacrario di Redipuglia, che custodisce i resti mortali di centomila uomini, suscita delle emozioni, dei sentimenti e fa nascere pensieri e riflessioni che investono e scuotono nel più profondo il tuo essere, la tua coscienza.

Il Sacrario occupa l'intero pendio meridionale di una delle numerose colline che rendono ondulato il terreno a sud-est di Gorizia, fino alla cima del colle è tutta una serie di gradoni e gradinate che consentono l'ascesa alla sommità dove sorge la chiesa sormontata da tre grandi croci; è possibile comunque accedervi anche percorrendo sentieri laterali.
La natura quel giorno è stata estremamente generosa: io che mi ero premunito contro la pioggia battente e contro le raffiche gelide della bora, fenomeni non rari in queste zone, mi sono trovato a godere dei raggi caldi di un sole splendente in un azzurro terso, e in un'aria limpida, luminosissima, un po' frizzantina e solo leggermente mossa, quasi per impedire che in pieno autunno il sole potesse scottare.

A oriente si intravedeva il Carso, mentre poco ad ovest sapevo che scorreva l'Isonzo, due nomi gloriosi che nella mia fantasia si tingevano di rosso ed erano punteggiati di grigio-verde: ero al centro di quelle zone che furono il teatro di gran parte delle azioni militari di quella che per noi doveva essere la "quarta guerra di indipendenza", e lo fu anche in concreto, malgrado i risvolti imprevisti.
Dal luogo ove mi trovavo ho ascoltato i discorsi politici e le omelie religiose, ma soprattutto penetravano nell'animo mio le note della "Leggenda del Piave", di "Monte Grappa tu sei la mia Patria", di "Fratelli d’Italia" che alcune fanfare ripetevano, quasi si inseguissero. Quelle esecuzioni erano solenni, garbate, non chiassose come qualche volta capita di sentire, e spingevano la fantasia dietro alle immagini che suscitavano.
Il Carso e l'Isonzo non hanno trovato un musicista, per quanto io ne sappia, che trasformasse in canzoni che tutti cantano l'alto significato che essi hanno per tutti gli italiani e il valore militare profuso e gli immensi sacrifici sostenuti da un esercito veramente nazionale, espressione cioè di tutti gli italiani, a qualunque regione e a qualsiasi classe sociale appartenessero.
Hanno però trovato voce sublime nelle splendide liriche del poeta Ungaretti, soldato anche lui, qui, in questi luoghi. La lunga esperienza di soldato combattente ha consentito al poeta di penetrare nel più profondo della natura umana e intravederne l'ultima essenza che egli ha espresso in potenti immagini folgoranti. Così lo vediamo meditare con l'animo "mutilato" nel silenzio notturno, in fondo a una dolina, mentre di San Martino del Carso non è rimasto che "qualche brandello di muro".
L'Isonzo, poi, nelle cui acque spesso si bagnava, tra i diversi fiumi che hanno segnato le fasi salienti della sua vita, è quello più importante, poiché gli ha dato la possibilità di guardare nel profondo del suo essere riconoscendosi una "docile fibra dell'universo", ossia una particella di un sistema universale, non solo, ma di provare la vera, grande, autentica felicità allorché si è sentito "in armonia" con tutte le altre particelle. Grandiosa intuizione questa che nasce proprio dal suo meditare sulla guerra che sta dolorosamente vivendo.
Ma la mia mente correva al pensiero sempre più dominante che proprio lì, attorno a me ma sotto terra, giacevano centomila miei simili, quasi tutti caduti nel pieno della giovinezza e dei quali solo sessantamila hanno nome e cognome. Certamente i più sono le vittime del Carso, degli aspri combattimenti svoltisi sulle colline che tutto intorno rendono mosso e vario il paesaggio, e delle tante e sanguinosissime "battaglie dell'Isonzo", attacchi frontali con cui il generale Cadorna era convinto di poter sfondare lo schieramento nemico.
Ma quei giovani che, obbedendo agli ordini, si lanciavano coraggiosamente contro le postazioni nemiche, e molti dei quali rimanevano sul terreno, erano tutti consapevoli e convinti del perché di questo loro sacrificio?
Dobbiamo ricordare che buona parte degli effettivi provenivano dall'Italia meridionale e molti erano analfabeti, poiché il sistema scolastico in quelle regioni, ma non solo in esse, non raggiungeva i numerosi piccoli paesi sparsi per le vaste campagne e lungo le pendici dei monti, con scarse e malagevoli vie di comunicazione.
E' quindi ragionevole pensare che non tutti comprendessero appieno il significato degli ideali, il valore degli obiettivi che si intendeva conseguire, che giustificavano quella guerra e rendevano "santo e lagrimato il sangue per la patria versato", per dirla con Ugo Foscolo.
Purtroppo gli obiettivi e gli intendimenti non erano omogenei e nemmeno del tutto chiari persino in coloro che avevano voluto e poi governato quella guerra: le conseguenze furono tragicamente evidenti a guerra finita.
I Sacri Confini della Patria furono raggiunti, ma la vittoria apparve subito "mutilata". Naturalmente i ceti popolari e in special modo i contadini che vivevano nella miseria, nonostante il duro lavoro, erano sensibili alle promesse di necessarie riforme sociali, di divisione delle terre con la fine dei vasti latifondi spesso incolti o mal coltivati, riforme che si sarebbero dovute realizzare con la fine della guerra vittoriosa, attuando un ideale di giustizia sociale che aveva nutrito le loro speranze. Sappiamo tutti che cosa è avvenuto dopo la vittoria ottenuta col sacrificio di oltre seicentomila giovani vite. Cosa intendo con queste riflessioni?
Non certo che quel sacrificio è stato inutile. Si tratta piuttosto di un giudizio storico che dovrebbe insegnare molte cose ai nostri attuali governanti: la classe dirigente, prima, durante e dopo la Grande Guerra, si è rivelata poco preparata per quegli eventi che essa stessa aveva promosso, scarsamente lungimirante, qualità indispensabile ai politici, indecisa e poco coraggiosa nell'assumersi certe responsabilità: un politico, se sceglie di governare un popolo, specie in momenti particolarmente delicati, deve possedere capacità e doti adatte alla situazione: diversamente, dovrebbe avere almeno l'intelligenza e la dignità di farsi da parte.
Gli ideali di patria, di libertà dei popoli, di giustizia sociale, di progresso civile e democratico, che hanno richiesto e giustificato il sacrificio di tante vite, sono valori sempre validi poiché senza di essi il cammino della storia potrebbe non essere un vero progresso e non portare quindi a condizioni di vita sempre migliori, come ciascuno di noi auspica e come auspicavano i soldati che lì sono sepolti.
La commemorazione dei caduti di tutte le guerre e i pellegrinaggi nei sacrari che simbolicamente li raccolgono tutti hanno il significato e lo scopo di ravvivare e qualche volta recuperare quei valori che soli rendono possibile e danno significato ad una convivenza autenticamente umana; le tombe di coloro che li hanno testimoniati col sacrificio della propria vita, per ricorrere ancora ai versi di Ugo Foscolo "bella e santa fanno al peregrin la terra che le ricetta".
E il pendio che guarda a mezzogiorno del colle di Redipuglia. 

*Professore

 

 

Perché è scoppiata la Prima Guerra Mondiale

Il 28 giugno del 1914, con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, l'Europa era in fiamme: le maggiori potenze riunite nei due schieramenti contrapposti (Intesa e Alleanza) si fronteggiavano con potenti eserciti che da alcuni anni preparavano; e, tra agosto e settembre si erano combattute sanguinose battaglie: l'invasione della Serbia, la battaglia dei Laghi Masuri e quella sulla Marna, quest'ultima su un fronte di 330 km. Dove i tedeschi impegnarono gran parte del loro potenziale perché intendevano eliminare la Francia con la "guerra lampo" che li portò a occupare il Belgio e il Lussemburgo, stati sovrani e neutrali; volevano sconfiggere la Francia prima che potessero intervenire i suoi alleati, cioè la Russia e l 'Inghilterra. Ma sbagliarono le previsioni.

Subito il conflitto assunse dimensioni mondiali, sia perché il 23 agosto entrò in guerra anche il Giappone, interessato ad impadronirsi dei possedimenti tedeschi in Cina e nel Pacifico, sia perché l' Inghilterra, affiancata dai suoi Dominions sparsi nei vari continenti, attaccò subito le colonie tedesche. Ma quali furono i motivi che determinarono una così immane catastrofe che causò circa 10 milioni di morti e un numero maggiore di feriti e di mutilati?
Per rispondere a questa domanda sono stati scritti migliaia di volumi e tutte le cause sono state analizzate e vagliate; nonostante ciò 20 anni dopo la sua conclusione è scoppiata la seconda Guerra Mondiale ben più tragica con i suoi oltre 60 milioni di morti e con le immani distruzioni di città e lo sperpero di tante risorse. Allora è inutile studiare la storia se essa non ci aiuta a evitare tanto dolore e a migliorare le condizioni della vita umana?

 

Chiediamolo a Machiavelli e ascoltiamo il suo pensiero quale si trova espresso in un brano famoso della "Lettera a Francesco Vettori" del 10 dicembre 1513 di cui si riporta solo qualche stralcio a proposito dell'insegnamento della storia e della disposizione spirituale di chi vuole apprendere da essa l'essenza autentica della propria natura: "Venuta la sera... entro nel mio scrittoio... e mi metto panni reali e curiali, e rivestito condecentemente entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio... dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro 

umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia: dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro".

Proviamo adesso a cercare di capire come sia stata possibile una così immane sciagura. La causa non è certo l'assassinio di Sarajevo, dove, vittima di un attentato, perì insieme con la moglie l'Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austroungarico di Vienna. Oltretutto l'arciduca non era molto amato dall'imperatore Francesco Giuseppe perché aveva sposato una donna nobile si ma di grado inferiore; il fatto è che l'attentatore Gavrilo Princip era serbo e in Serbia pare fosse stato preparato l'attentato e il governo di Belgrado non aveva fatto nulla per fermarlo.

In realtà tutto ciò rivela il contrasto latente all'interno delle vane nazionalità che costituivano l'Impero Asburgico, le quali aspiravano a una loro libertà e indipendenza e la Serbia, sostenuta dalla Russia, era a capo dei movimenti di indipendenza delle popolazioni slave.

A sua volta l'Austria, dopo la sua estromissione dell'Europa centro-occidentale, voleva continuare ad esistere come Impero espandendosi nei Balcani. La Serbia quindi era di grande ostacolo al suo imperialismo: doveva perciò essere eliminata e il fatto di Sarajevo fu un'occasione che non doveva sfuggire e non sfuggì.

E come l'Austria tutte le altre potenze che entrano in guerra hanno un obiettivo: la creazione di un Impero. Il periodo della realizzazione degli Stati Nazionali sulla base del principio di nazionalità dei vari popoli era stato superato dall'imperialismo. Che cosa era avvenuto? Come si spiega questo fenomeno?

E' difficile dare una risposta esauriente data la complessità dell'argomento, che richiederebbe tempi e spazi molto ampi; mi limiterò a brevi cenni ma importanti per capire. Penso che tutti possiamo accettare che l'economia è alla base dell'attività umana essendo nata per rispondere alle esigenze dell'uomo sin dalla sua comparsa sulla Terra; dal soddisfacimento dei bisogni fondamentali, quali la ricerca del cibo e la difesa della propria esistenza, essa si è via via sviluppata e modificata costantemente in relazione agli obiettivi che attraverso i millenni si sviluppavano e si modificavano. 

Si è passati così alla ricerca delle comodità, del benessere, della ricchezza fino a giungere alla seconda metà del secolo XIX allorché la borghesia, impadronitasi del potere politico, favorisce un poderoso sviluppo commerciale e industriale. La borghesia ha sempre guidato l'economia formulando le sue leggi e presentandole come immutabili; così nel secondo '800 costruisce il sistema economico fondato sul capitale, il capitalismo la cui legge fondamentale consiste nell'investire il capitale per produrre un guadagno che va a sua volta reinvestito con lo stesso obiettivo.

A questo scopo la borghesia capitalista stimola ricerca scientifica e i risultati vengono subito sfruttati dall'industria: in questo periodo formidabile è lo sviluppo tecnologico, imponente il potenziamento del processo industriale che si realizza a partire dal 1870 soprattutto con la scoperta di nuove fonti di energia, in primo luogo il petrolio e l'elettricità. Abitazioni private e città vengono illuminate e tanti sono gli usi che l'elettricità consente. Il petrolio, a sua volta, permette la nascita del motore e la costruzione di mezzi di trasporto, e da un potente impulso alla costruzione di vie di comunicazione, quali le strade, le ferrovie, le vie navali. Sembra che non ci siano ostacoli ad impedire questo sviluppo; basti pensare alla costruzione di canali navigabili che mettono in comunicazione gli Oceani (Panama e Suez) e di gallerie che annullano la difficoltà di comunicazione costituita dalle catene montuose. La vita appariva sempre più facile e piacevole, specie quando venne scoperta, attraverso l'anestesia la possibilità di annullare il dolore fisico negli interventi chirurgici: i miti della "belle epoque" esprimono proprio questo stato d'animo.

Purtroppo esisteva un'altra realtà che non tutti scorgevano o che si cercava di non far trapelare.

Il capitalismo aveva bisogno di produrre a costi sempre più bassi per tenere testa alla libera concorrenza, sempre più spietata; d'altra parte i prezzi dei beni in vendita sul mercato erano stabiliti dalla legge della domanda e dell'offerta e il mercato nazionale era sempre meno in grado di assorbire i prodotti specie se si trattava di beni i cui potenziali acquirenti disponevano di risorse che diminuivano sempre più. Così si assiste abbastanza di frequente a crisi di sovrapproduzione, che generano fallimenti di impresa, disoccupazione e miseria. E' evidente che occorrono nuovi mercati nonché la disponibilità di sempre nuove forme di energia e di materie prime. I nuovi mercati sono costituiti dalle popolazioni extraeuropee nei cui territori si trovano anche le materie prime; consideriamo il fatto che i mezzi di trasporto sempre più potenti e più veloci riducono le distanze: è la colonizzazione. 

Si comincia con l'Africa e si prosegue con l'Asia e l'Oceano Pacifico. D'altra parte le colonie sono spesso anche causa di conflitti fra le stesse potenze colonizzatrici. La Germania, a causa della politica di Bismark, che si era interessato quasi esclusivamente dell'Europa, non aveva molte colonie; ma, estromesso il grande cancelliere il nuovo Keiser Guglielmo II, spinto dal suo dinamismo, dalla sua spregiudicatezza, dalla sua sfrenata ambizione, dalla voglia di primeggiare, cercò di fare della Germania un impero mondiale, naturalmente dopo aver sconfitto l'Inghilterra che potenza mondiale era da tempo. Molta responsabilità dello scoppio della 1a Guerra Mondiale spetta proprio a Guglielmo II (ricordiamo che era molto amico e stimatore di Von Krupp, il potente magnate dell'industria degli armamenti). Anche il Giappone aveva bisogno di un suo impero nel Pacifico, non solo per motivi commerciali e industriali, ma anche per trovare uno sbocco alla sua popolazione troppo numerosa, al punto che l'agricoltura non produceva sufficienza per sfamarla; mirava quindi alla decrepita Cina, alla Corea, a Formosa, alle tante isole del Pacifico.

Anche l'Italia conquista nel 1911-12 la Libia, per porre fine all'emigrazione delle nostre popolazioni, con la speranza che avrebbero trovato "terra da dissodare e far fruttare".  La Libia viene dichiarata la "Quarta Sponda", quindi territorio metropolitano e così gli Italiani trasferiti in Libia per lavorare non erano più emigranti in paesi stranieri. Purtroppo come ebbe a dire Gaetano Salvemini, la Libia si rivelò "una scatola di sabbia".

Come si sa con la grande industria e tutte le altre attività lavorative (miniere, costruzione di ponti e vie di comunicazione, ecc ... ) e quindi con i milioni di lavoratori impiegati, nasce il "Quarto Stato", cioè una nuova classe sociale, quella degli operai quasi tutti proletari. Questi, guidati da alcuni personaggi illuminati e successivamente dal Marxismo si uniscono in associazioni di lavoratori, cioè formano sindacati e partiti socialisti. Gli Stati sono spesso scossi da questi gruppi politici e i magnati dell'economia chiedono ai governi di bloccarli con la forza. Molti partiti socialisti, allo scoppio della guerra, si dichiarano interventisti perché sono convinti che il capitalismo ne sarebbe uscito sconfitto. Dal canto loro alcuni paesi si propongono di acquistare tramite essa la piena indipendenza, o di completare la propria unità nazionale (come avvenne per l'Italia).

Come si vede, le ragioni che portano alla prima Guerra Mondiale sono molteplici e complesse; è certo però che il ruolo predominante l'ha svolto il capitalismo, ossia quel sistema economico che rappresenta il vertice dell'egoismo umano. Il cardinale Richelieu già nel 1600 aveva affermato che "di fronte alla politica bisogna chiudere la porta alla pietà", il che significa che per l'economia non c'è alcuna 

legge morale che conti. L' "homo oeconomicus" che è un aspetto essenziale della natura umana, col tempo ha separato nettamente, come incompatibili la morale dalla politica e a maggior ragione dall'economia. E così ha elaborato delle leggi ritenute naturali e immutabili, ma che tali non possono essere se, dopo che il potere economico è diventato anche potere politico ha provocato sì grandi sciagure per l'umanità.

Bisognerebbe che la politica e l'economia non ignorassero l'etica. Sarà possibile? Se avverrà si tratterà di un miracolo.

*Professore

 

Il lavoro, nobilita l'uomo?
La disoccupazione in Italia ha sempre costituito un cruccio per i vari governi repubblicani, che non sono mai riusciti a debellarla al punto da far nascere il sospetto che non abbiano saputo o voluto affrontarla seriamente.
Eppure il primo articolo della Costituzione recita che la Repubblica Italiana "è fondata sul lavoro...". "Chi non lavora non mangia" si è predicato per molti decenni a milioni di uomini; e questa è una verità incontrovertibile, perché soltanto col lavoro l'uomo riesce a procurarsi i beni atti a soddisfare i suoi bisogni primari materiali, il nutrimento, la difesa contro l'aggressione dell'ambiente, la continuazione della specie.
Ma chiediamoci subito: è tutto qui l'uomo? Ha forse ragione il filosofo Feuerbach quando afferma che "l'uomo è ciò che mangia"?

Nel 1776 il filosofo ed economista scozzese Adam Smith, ritenuto il fondatore del Liberalismo moderno e l'iniziatore della scuola della cosiddetta Economia Classica, nella sua "Ricerca sull'origine della ricchezza delle Nazioni", riflettendo sul pensiero economico precedente ed esaminando le condizioni della nascente industria del suo tempo, affermò che il lavoro, appunto, è ciò che produce la ricchezza. E per rendere il lavoro più produttivo, tale cioè che si possa avere la maggiore produzione di beni nel minor tempo possibile, teorizzò la divisione del lavoro con la conseguente specializzazione e aprì così la strada alla successiva e alienante "catena di montaggio".

Smith sostenne ancora che la base dell'attività lavorativa, ossia ciò che spinge l'uomo ad arricchirsi, è l'egoismo; tuttavia, mentre l'individuo si preoccupa solo di se stesso, la sua attività crea lavoro anche per gli altri, cioè opera il bene della società; quindi, conclude Smith, "vizi privati, pubbliche virtù". Alla fine, però, forse meditando sul fatto che, in ultima analisi, il lavoro trae la sua origine da un aspetto negativo della natura umana che ogni religione ha sempre condannato, o forse considerando le conseguenze possibili o già in atto dell'egoismo, il sostenitore del liberalismo giunge a riconoscere l'utilità di "interventi" integratori e moderatori dello Stato nella vita economica. Questo significa che la concorrenza più sfrenata e l'assoluta libertà del mercato, riconosciute e accettate dal Liberalimo come leggi naturali e quindi immutabili, devono al contrario sopportare delle limitazioni.

Ma chi ha potuto affermare l'assioma che il lavoro nobilita l'uomo?
Non potevano certo pensarlo i milioni di schiavi che per millenni con la loro fatica e sofferenza, quasi sempre disumane, hanno accompagnato e, loro malgrado, sostenuto il fiorire degli Stati che si sono succeduti sulla faccia della terra; non lo potevano dire le generazioni di contadini che, legati alla terra in una condizione di vita di vero abbruttimento, si vedevano puntualmente portar via dai padroni il frutto del loro duro lavoro; ma nemmeno potevano pensarlo, all'avvento dell'era industriale, gli eserciti di uomini, donne e bambini che quotidianamente, prima della luce dell'alba, si recavano nelle fabbriche o nelle miniere per svolgere un lavoro estenuante, in condizioni malsane, pericolose, faticose, in massacranti giornate lavorative lunghe anche sedici ore.
Quell’affermazione è certamente scaturita dall'egoismo dell'uomo di cui parla Adam Smith, per giustificare, per ammantare di moralità il profitto economico, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

Quanti credono nella Bibbia o hanno trovato in essa i principi che ancora oggi sono alla base del vivere civile, hanno dimenticato o addirittura non hanno considerato abbastanza quello che sta scritto proprio nelle prime pagine del Sacro Libro. Nel Paradiso Terrestre Adamo ed Eva vivevano felici, liberi da qualsiasi bisogno, alimentandosi dei copiosi frutti che la natura offriva loro spontaneamente ed essi non dovevano sostenere altra fatica se non quella di raccoglierli. Ma quando, dopo il peccato che li privò di questo stato felice, Dio, offeso e adirato, li cacciò dall'Eden, disse ad Adamo: "...Col sudore della tua fronte mangerai il pane...", ossia dovrai lavorare per vivere. Il lavoro, quindi, è dato come punizione, come pena; e così in effetti è stato fino a non molto tempo fa per la quasi totalità degli uomini.

Forse però questo significato del lavoro lo si può scorgere in ciò che dicono i genitori al figlio che non si impegna adeguatamente a scuola: "Se non studi andrai a lavorare!". Ma allora, il lavoro nobilita veramente l'uomo? E' soltanto grazie al lavoro che l'uomo realizza pienamente la sua natura? Non siamo piuttosto in presenza di una caduta di valori, di una mistificazione per cui il mezzo è stato trasformato nel fine e il vero fine è stato smarrito?
Fino ad oggi il progresso umano è stato identificato con la crescita economica, con l'aumento della ricchezza materiale, ma, come conseguenza, il lavoro produce beni superflui, non necessari, in tale quantità che risulta impossibile consumarli tutti; e così spesso dobbiamo distruggerli, buttarli via quando ancora sono in buono stato. Bisogna sprecarne! E' veramente assurdo!

Anche nelle scuole le discipline tecnico-economiche trovano uno spazio sempre maggiore, naturalmente a scapito di quelle umanistiche. Ci siamo dimenticati che il termine "scuola" presso gli antichi Greci significava "tempo libero", libero dalle occupazioni di ogni giorno, dal lavoro produttivo, tempo durante il quale si assisteva alle rappresentazioni teatrali, si ascoltavano i ragionamenti di famosi maestri di pensiero, si partecipava a dibattiti sui più disparati argomenti, si meditava, si curava, insomma, la cultura, si produceva la vera, grande ricchezza che è quella spirituale.
Abbiamo perduto la nozione dell' "otium" dei Romani antichi, durante il quale sono stati elaborati quei principi che ancora oggi ispirano la società civile e sono state composte opere che continuano a commuovere anche ai nostri giorni.
Restituiamo dunque al lavoro il suo significato strumentale e dedichiamo ad esso solo il tempo e le energie sufficienti per avere quei mezzi che ci consentono il miglioramento della qualità della vita; convinciamoci però che il lavoro che nobilita veramente l'uomo è quello spirituale, quello che produce una ricchezza che non è mai troppa perché ci fa sentire il bisogno di comunicare con gli altri al fine di scambiarci pensieri e sentimenti, problemi e soluzioni, quello che promuove la realizzazione di una civiltà sempre più umanamente completa, il solo che può dominare l'egoismo e consentire un'autentica solidarietà fra tutti gli uomini.

 

 

 

 

“Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” Dante, Inferno, XXVI, 118-120

Nel canto XXVI dell’Inferno Dante attraversa l’ottavo cerchio dell’ottava bolgia, dove sono puniti i consiglieri fraudolenti. La punizione divina per questi peccatori consiste nell’essere imprigionati ciascuno in una fiamma che li nasconde agli altri e, allo stesso tempo, arde le loro anime.
Il poeta rimane colpito e incuriosito alla visione di una fiamma biforcuta, con una punta più alta dell’altra.

Per questo chiede spiegazioni alla sua guida, Virgilio, il quale, dopo avergli spiegato che i peccatori potrebbero non rispondere ad un personaggio a loro ignoto, si fa carico di interrogare la più alta delle due punte di fuoco per far sì che il peccatore al suo interno narri la propria storia. In quella fiamma, infatti, si paga l’astuzia che indusse Achille ad abbandonare la moglie Deudamia, che per quel dolore morì, e prendere parte alla guerra contro Troia, l’inganno del cavallo di legno che costrinse la stessa città alle fiamme e ancora altre ingannevoli imprese. 

Dall’alta cima infatti, scaturisce la voce di Ulisse che inizia la narrazione delle proprie peripezie.
Sfuggito alle grinfie della Maga Circe, che lo aveva trattenuto presso il monte Circello per più di un anno, il Re di Itaca prese il mare con una sola nave e i più fedeli dei suoi compagni. Dopo la cattività alla quale era stato assoggettato dalla Maga, arde in lui il forte desiderio di riprendere il suo viaggiare per poter esplorare e conoscere tutto il mondo fino ad allora visitato.
Dopo aver esplorato le coste settentrionali e meridionali e tutte le isole del Mediterraneo, la compagnia giunse alle Colonne d’Ercole (l'attuale Stretto di Gibilterra), così chiamate perché ivi Ercole appunto aveva posto i suoi riguardi, ossia i due monti sulle due coste, affinché nessuno li oltrepassasse mai. Trattenuti dal sacro terrore che quella immensa distesa di acque incuteva al solo pensiero di doverla navigare, infatti, gli uomini non avevano mai osato oltrepassare quel confine, trasgredendo quello che, non volendo ammettere la loro enorme paura, avevano trasformato in un divieto divino.
Giunti a questo punto, dunque, Ulisse e i suoi compagni si trovano costretti ad affrontare una scelta suprema.
La celeberrima terzina fa parte del discorso che Ulisse rivolge ai suoi compagni per convincerli a non interrompere il loro cammino e, dunque, spingere il loro viaggio verso occidente, oltre il limite imposto dall’uomo e dalle sue divinità.
Il desiderio di conoscere direttamente quel mondo “sanza gente”, misterioso, ignoto, mai visitato e, forse per questo, così affascinante, è talmente forte in lui che, dopo averlo costretto a non ascoltare la voce di alcuni dei sentimenti più elevati della natura umana quali l'amore coniugale, l’amore verso il figlio e la pietas verso il vecchio padre, lo spinge violare la legge divina che è di ostacolo, almeno in questa circostanza, alla conoscenza. L’eroe greco riesce nel suo intento di risvegliare nei compagni lo stesso suo desiderio di conoscenza ed è questo il consiglio fraudolento che, per Dante, gli vale la dannazione eterna.
Li convince, ha la meglio sull'incertezza dovuta anche all'età avanzata. Vanno, anche se sono consapevoli che il loro può essere un viaggio senza ritorno.
“e volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino” vv. 124-126
Così Ulisse e i suoi compagni, presi da nuovo entusiasmo, navigano nell’Atlantico verso Sud-Ovest, seguendo il corso del Sole. La notte appaiono le stelle sconosciute dell’inesplorato emisfero meridionale mentre quello settentrionale, avendo loro superato l’Equatore, scompare sotto l’orizzonte. Dopo cinque mesi di navigazione in un mare deserto da uomini, scorsero all’orizzonte una montagna altissima come non ne avevano mai vista nessuna, “bruna per la distanza”. Subito si rallegrarono per la scoperta, ma improvvisamente da quella stessa montagna si levò un turbine violentissimo che tramutò la gioia in pianto in quanto si gettò sulla prora della nave e la fece girare tre volte su se stessa, creando un vortice che la precipitò nell’abisso. Solo forza devastatrice e improvvisa della natura potè fermare Ulisse e la sua sete di conoscenza, annegandolo con la sua compagnia, “come altrui piacque”.
La voce di Ulisse è come una luce potente che infrange le tenebre del mito, della preistoria, per giungere intatta, attraverso i millenni, fino a noi e rivelarci chi siamo, qual è la ragione ultima che giustifica la nostra esistenza rendendola degna di essere vissuta. Ulisse invita i compagni a riflettere sulla loro natura e a cercare dentro di sé, e non possono non trovarle, le ragioni e il fine del loro esistere.
Da questa riflessione emergono delle verità immutabili, che riguardano l'uomo di tutti i tempi e di qualsiasi luogo. Prima di tutto la diversità della sua natura da quella dei bruti, i quali obbediscono solo alle ferree leggi dell'istinto e di conseguenza non si tacciano di colpe e nemmeno acquisiscono meriti con le loro azioni. L'uomo, al contrario, in tutti i momenti della sua vita, è chiamato a scegliere fra diverse e spesso contrapposte possibilità. Logicamente sceglie sempre il bene, anche se a volte quello egli crede tale non lo è affatto oppure cade in errore nella scelta dei mezzi per raggiungerlo.
Ecco allora il monito dell'Ulisse dantesco: "Fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza". E' proprio della natura umana, realizzare la conoscenza in qualunque campo, gettare su tutto la luce della sua intelligenza. Anzitutto l’uomo deve conoscere sé stesso e valutare l'oggetto delle sue volizioni, se il bene che vuole raggiungere è veramente tale e, nello stesso tempo, se ha dentro di sé delle negatività che deve sforzarsi di correggere. Troverà altresì in sé stesso le norme che deve seguire, quei valori, quei principi che non devono mai essere dimenticati e attenendosi ai quali è sicuro di non sbagliare, quelle regole che vengono definite "virtù naturali".
La terzina dantesca, nella sua sublime sinteticità, esprime il senso e l'impegno dell'uomo su questa terra e insieme ne esalta le gesta spiritualmente virtuose. Se vogliamo indicare un'espressione che comprenda nella sua interezza e pienezza morale la natura umana, senza dubbio dobbiamo riferirci ai due versi danteschi "fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza".
Se diamo uno sguardo alla storia umana, dovunque e sempre, dobbiamo ammettere che l'uomo ha dimenticato di non essere fatto per vivere come un bruto e così si è comportalo molto peggio dei bruti perché ha praticato la violenza, il sadismo, la crudeltà e altro ancora. Nemmeno l'età nostra è scevra di terribili nefandezze: in questo caso la voce di Dante suona come una condanna senza appello. Lascia però la speranza in un riscatto, perché la natura umana merita pur sempre fiducia nelle sue potenzialità positive. I poeti riescono spesso a intuire e a rivelarci verità che la scienza, coi suoi metodi razionali, non riesce ad attingere.

Tornado a Palermo, in tutti i suoi monumenti si legge chiaramente la storia della Sicilia tutta: la coesistenza e il sovrapporsi in essi di diversi stili, di diversi gusti, di diverse forme architettoniche e artistiche, espressione di civiltà differenti, narrano la serie delle invasioni e il conseguente dominio di popoli diversi che la Sicilia ha dovuto subire nel corso dei secoli, ma rivelano anche che quella siciliana era una grande e solida civiltà, al punto da conquistare a sua volta i nuovi dominatori, creando così una sintesi, ossia una civiltà sempre più ricca e complessa.

Nei tre secoli dopo il Mille in Sicilia si è realizzata una civiltà raffinatissima per opera soprattutto degli Arabi, dei Normanni e degli Svevi, e Palermo ne è stata la culla.
Nella vita politica di fatto veniva praticato il principio della tolleranza, sul quale soltanto è possibile costruire uno Stato laico e moderno, veramente sovrano, che tiene conto e sostiene tutto quanto c'è di positivo e di vantaggioso alla società che esso deve governare.

 

 

Così a Palermo, mentre con la Scuola Poetica Siciliana nasceva la Letteratura Italiana, in politica si anticipavano di parecchi secoli taluni principi, strutture e organizzazioni della società.
Ancora un'altra considerazione: il sovrapporsi delle invasioni straniere ha determinato un aspetto almeno del carattere dei Siciliani: la convinzione di essere oggetto di sfruttamento e, nello stesso tempo, la sfiducia in uno Stato che si è dimostrato incapace di difenderli; e, come avviene in simili situazioni, nasce ancora la convinzione che bisogna fare da soli, che non bisogna illudersi di ricevere aiuti dall' esterno; da qui un accentuato individualismo e la tendenza a organizzarsi in gruppi più o meno segreti per proteggersi reciprocamente.
Probabilmente nasce da qui, almeno in parte, il forte senso dell'amicizia dei Siciliani.
Questo sentimento è presente anche nei confronti dei forestieri quando questi appaiono come veri amici: allora diventa forte senso di ospitalità, con l'instaurarsi subito di rapporti cordiali e premurosi, come alcuni di noi hanno potuto sperimentare durante questa sia pur breve gita. In quei sei giorni siamo venuti a contatto con delle realtà che ignoravamo: abbiamo conosciuto molte cose, ma molto di più rimane ancora da scoprire.
Ci siamo resi conto che la Sicilia che i mezzi di informazione ci fanno vedere più spesso, e perfino con troppa insistenza, non è quella vera: ad esempio è stata accreditata la notizia che la famosa Valle dei Templi fosse stata deturpata dalla speculazione edilizia, ma non è affatto vero.
C'è da scoprire seriamente la storia della Sicilia, la quale sola ci può spiegare la sua difficile e complessa attualità e insieme darci delle utili indicazioni sulle soluzioni adeguate ai suoi problemi: c'è da scoprire una grande civiltà, un anello molto importante che congiunge l'antica cultura greca con quella del mondo occidentale di oggi; ci sono da scoprire le bellezze di certi paesaggi suggestive e un po' misteriose, ma ancora ignorate da molti.
Tutti noi siamo rimasti soddisfatti ed alcuni hanno espresso il proposito di ritornare in Sicilia.

 

 

Una gita in Sicilia non può non comprendere un'escursione su quello che è il più alto vulcano attivo della Europa.
L'Etna è un imponente massiccio il cui culmine, il cratere centrale, raggiunge i 3350 metri circa di altezza, destinato ad innalzarsi continuamente data l'ininterrotta attività del vulcano, salvo frequenti crolli all'interno del cratere che determinano un suo abbassamento. Con mezzi motorizzati, naturalmente non propri, si possono raggiungere i 3000 metri, ossia si arriva alla base del cratere centrale. Nelle prime fasi della salita sembra di trovarsi sulle pendici di una comune montagna, amena ed accogliente, con frutteti prima, poi con boschi di conifere e ginestre, ma dopo tutto è diverso: a osservare quelle pendici nere, cosparse di crateri spenti, testimonianza delle tante eruzioni, e la lava che si è pietrificata conservando il suo aspetto di corrente liquida, si ha l'impressione di una costante minaccia.

Qui la natura domina incontrastata, manifestando tutta la sua forza e l'ineluttabilità delle sue leggi che l'uomo non sempre riesce a controllare; qui anzi egli non può non riconoscere i propri limiti e non sentire la necessità di rispettare realmente la natura che lo sovrasta.
Col tempo quella lava, che raffreddandosi diventa un ottimo materiale da costruzione, perché più leggera di una pietra comune, si trasforma in terreno fertilissimo.
La gita è iniziata a Palermo e qui si è conclusa; soffermiamoci adesso un momento su questa bellissima città.

Come si sa Palermo è stata fondata dai Fenici i quali, da abili navigatori quali erano, sapevano individuare i siti più adatti, più comodi ed anche più belli per le loro basi: in quel golfo, delimitato ad est e ad ovest da rilievi collinari, tra cui spicca il Monte Pellegrino, è stato così costruito uno dei porti più importanti di tutto il Mediterraneo. La città poi si è sviluppata verso est e verso ovest, lungo strade rettilinee che corrono, parallele al mare, per molti chilometri, ed anche verso l'interno, verso gli alti monti delle Madonie che incorniciano a sud quel grandioso anfiteatro che è la Conca d'oro: il paesaggio è incantevole e il clima dolcissimo.

Non a caso infatti Palermo è stata scelta come capitale del Regno di Sicilia, che per un certo periodo si è esteso a tutta l' Italia Meridionale e Federico II di Svevia, imperatore del Sacro Romano Impero, il quale a lungo vi ha soggiornato, ne ha fatto uno dei più importanti centri dell'Impero.

I numerosi e magnifici monumenti di Palermo raccontano la lunga storia della città: il Palazzo dei Normanni, con la splendida Cappella Palatina, la chiesa della Martorana, San Giovanni dei Lebbrosi, San Giovanni degli Eremiti, Piazza Pretoria, la Zisa, la Cattedrale e il Duomo di Monreale che custodiscono i resti mortali di alcuni dei più grandi protagonisti della storia della Sicilia, e altri ancora.

Ma la città ha anche altre attrattive, come il Teatro Massimo, piazza Politeama, l'Orto Botanico, il Parco della Favorita, Monte Pellegrino con il santuario dedicato a Santa Rosalia, la "santuzza" patrona di Palermo, che trova ne palermitani una profonda devozione e un culto tra i più peculiari e sentiti di tutta l‘isola, al pari di Santa Lucia a Siracusa e Sant’Agata a Catania.

Un altro culto che merita menzione, perché particolarmente sentito da parte di molti siciliani della provincia di Messina: è quello che riguarda la Madonna del Tindari. Il Santuario a Lei dedicato si trova tra i Comuni di Patti e di Falcone, su un promontorio, a picco sul mare e altro circa 280 metri.

Il panorama è mozzafiato: si ha la sensazione di poter abbracciare il mare e le Isole Eolie, così vicine da sembrare a portata di mano. Ma Chi è la Madonna del Tindari?

È la statua di una donna straniera con bambino in braccio, scolpita nel legno e, probabilmente, originaria dell’Asia Minore, dalla quale fu salvata per mare nel periodo della persecuzione iconoclastica indetta nel 726 d.C. dall’Imperatore Romano d’Oriente Leone III l’Isaurico e durata quasi due secoli.

Proprio in questo periodo detta statua arrivò sotto il promontorio di Tindari e fu lei stessa, così narra la leggenda tramandatasi, a scegliere di rimanervi. La nave che la trasportava, infatti, si era messa al riparo da una tempesta proprio sotto la scogliera del promontorio ma quando il mare si calmò non riuscì comunque a ripartire finché i marinai non scaricarono a terra la statua nel contenitore. Venne presa dalla popolazione autoctona come una vera manifestazione di volontà, un miracolo, il primo di una lunga serie. Così venne collocata in una piccola chiesa in cima al promontorio, intorno alla quale è poi sorto l’imponente Santuario che vediamo oggi.

Da allora il culto di questa Madonna nera è così sentito, grazie anche a presunti e numerosi miracoli, che il Santuario è meta abituale di numerosi pellegrinaggi dalle zone limitrofe. Molto comuni e caratteristici della zona sono i nomi Tindaro e Tindara, pure se non se ne rintracciano importanti fondamenti etimologici se non nel nome del Re di Sparta, Tindaro, padre putativo di quell’Elena che causò la guerra di Troia. (Continua)

 

L'ITALIA DA SCOPRIRE: LA SICILIA (parte 1)

Può sembrare quanto meno strano affermare che la Sicilia è una parte dell'Italia che non si conosce e che perciò deve essere scoperta.
Infatti la nostra isola è conosciuta in buona parte del mondo grazie ai tanti siciliani emigrati; le arance poi e i limoni, prodotti sulle pendici dell'Etna e nella Conca d'oro, sono gustati e apprezzati in molti paesi e non solo europei; anche i dolci tipici siciliani, quali i cannoli e la cassata, appagano la golosità non solo degli isolani.
Ma c'è dell'altro: quando si pronunciano le parole "Sicilia" e "Siciliani" dove corre il pensiero? A cosa spontaneamente vengono associate quelle due parole? Diciamolo francamente: mafia! Le cose stanno proprio così: la Sicilia è ben nota! Ma è tutta qui la Sicilia? Assolutamente no; anzi, chi crede che la Sicilia sia solo questa, non solo ignora molte cose, ma finisce col non conoscere realmente e obiettivamente anche ciò che crede di sapere. E allora che cosa c'è da scoprire?
La sua vera e autentica realtà, la sua identità.
E ancora: la Sicilia è ricca di famosi monumenti che documentano i diversi momenti della sua storia plurimillenaria; eppure spesso si parla di essi come se si trattasse di qualcosa di diverso, di distinto, di estraneo quasi alla civiltà siciliana e si fa fatica a pensare che i Cartaginesi, i Greci, i Romani, i Bizantini, gli Arabi, i Normanni, gli Spagnoli, stanziatisi nell'isola in tempi diversi, sono gli stessi Siciliani.

Infatti la civiltà siciliana risulta costituita da molteplici elementi, facilmente individuabili, derivanti dalle civiltà d'origine dei diversi popoli che si sono succeduti nell'isola e che si sono fusi in una originale e ricca civiltà, quella siciliana appunto. Ma anche questa deve essere scoperta.
In un viaggio di diversi anni fa, ho potuto visitare e godere di luoghi e monumenti della Sicilia sconosciuti pure a un Siciliano d’origine come me.
E' stato come un viaggio in un lontano passato che però è ancora vivo e palpitante: in certi antichi templi sembrava essere in mezzo alla folla dei fedeli, sentire le voci degli officianti, i versi strazianti delle bestie sacrificate e quei sassi, proprio quelli che noi toccavamo, sporcarsi di sangue.
Non si possono visitare certi luoghi, certi monumenti e rimanere indifferenti, senza provare particolari emozioni.
Segesta, Selinunte, la Valle dei Templi non sono più nomi imparati nei libri: quei templi, con la loro imponenza grandiosa, con la bellezza del loro impianto architettonico e persino nelle loro rovine, sono la testimonianza più comprensiva di una civiltà poiché, attraverso il culto religioso, si esprimono gli ideali politici, culturali, militari che sono alla base della convivenza civile.
E cosa si può dire della Villa Romana di Piazza Armerina? Una cosa è certa: ci siamo fermati troppo poco.
Infatti tutte le raffigurazioni, le tante scene rappresentate nei mosaici andrebbero esaminate più attentamente per scoprire i loro significati profondi e per certi aspetti ancora misteriosi.

Obbligatoria, a Siracusa, la visita al famoso Orecchio di Dionisio, il quale in realtà non è altro che una cava di pietra dalla quale i prigionieri di guerra erano costretti a estrarre il materiale con cui sono stati costruiti i templi, gli edifici pubblici e le dimore signorili della città-stato.
E così nelle viscere della terra si è venuta formando questa grande voragine; sulle pareti sono chiaramente individuabili i segni dei colpi di piccone che testimoniano la durezza di quel lavoro e l'enorme fatica costata a tanti uomini; e quelle pareti, quelle volte che oggi riproducono con un'eco perfetta le voci e i canti dei numerosissimi visitatori, hanno ripetuto, forse amplificandoli, i sospiri, i lamenti di quegli schiavi e spesso le urla di dolore dei moribondi, vittime inevitabili degli incidenti sul lavoro che certamente dovevano essere molto frequenti.
Che questa fosse una prigione costruita da Dionisio con queste caratteristiche per poter ascoltare i discorsi dei suoi nemici imprigionati e carpire loro eventuali piani e progetti, è una pura leggenda. Infatti sulla volta è stata sì scoperta una piccola apertura, formatasi probabilmente nel tempo per erosione naturale, ma attraverso essa all'esterno non giunge alcun suono dall'interno.
Significativo è tuttavia il seguito della leggenda: i prigionieri ateniesi ivi rinchiusi per passare il tempo, si dilettavano a recitare qualche dramma dei loro grandi scrittori. Ascoltando quella recitazione il feroce tiranno si è commosso e quindi ha liberato i prigionieri. Si dimostrerebbe con ciò la potenza educatrice dell'arte, specie del teatro.
Era questo un principio fortemente sentito dai Greci al punto che favorivano in ogni modo l'attività teatrale costruendo dovunque teatri e obbligando i cittadini ad assistere gratuitamente alle rappresentazioni. Per i Greci il teatro era la più alta espressione culturale, accessibile, diremmo oggi, al grande pubblico: sulla scena prendevano corpo i grandi temi religiosi, quelli della vita politica e dell'esistenza umana.
Basti ricordare i nomi di Eschilo, Sofocle ed Euripide.
Proprio nel teatro di Taormina, che abbiamo visitato dopo quello di Siracusa, appare evidente la profonda differenza fra la civiltà greca e quella romana. In origine questo era un teatro greco, costruito, in uno scenario naturale stupendo, con il mare come sfondo, adatto alle grandiose scene delle tragedie greche dopo la conquista della Sicilia i Romani hanno modificato il teatro per adattarlo ai loro spettacoli sanguinari; i Greci dalle rappresentazioni teatrali erano stimolati ad affrontare i temi più importanti della vita umana; i Romani invece evidentemente scaricavano i loro istinti feroci nel vedere versare sulla scena il sangue di uomini (i gladiatori) costretti a uccidersi fra di loro proprio lì, davanti a quel pubblico esaltato, urlante, e che solo così sembrava divertirsi.

 

 

La Voce Dei Poeti: OMERO del Prof. Attilio Princiotto - Seconda Parte

L'incontro di Ettore e Andromaca è come una grande luce che si è accesa oltre tremila anni fa per illuminare il cammino degli uomini e che scaturisce da loro stessi e che non si spegnerà "finché il Sole risplenderà sulle sciagure umane".

“Così detto, distese al caro figlio
l’aperte braccia. Acuto mise un grido
Il bambinello; e, declinato il volto,
tutto il nascose alla nutrice in seno,
dalle fiere atterrito armi paterne,
e dal cimiero, che di chiome equine
alto sull’elmo orribilmente ondeggia.
Sorrise il genitor, sorrise anch’ella
La veneranda madre; e dalla fronte
L’intenerito eroe si tolse
L’elmo, e raggiante sul terren lo pose.
Indi, baciato con mmenso affetto,
e dolcemente tra le mani alquanto
palleggiato l’infante, alzollo al cielo,
e supplice sclamò: - Giove pietoso,
e voi tutti, o Celesti, ah! Concedete
che di me degno un dì questo mio figlio
sia splendor della patria, e de’ Troiani
forte e possente regnator. Deh! Fate
che il veggendo tornar dalla battaglia,
dell’armi onusto de’ nemici uccisi,
dica talun: Non fu sì forte il padre:
e il cor materno nell’udirlo esulti.”

Iliade, libro VI, vv. 608-631.

Tutta l’umanità contenuta in questi pochi versi è sconvolgente.
Ettore, probabilmente, rimane turbato dalla reazione del bambino, anche se sorride. Il bimbo respinge quell’uomo così accuratamente e terribilmente armato, non lo riconosce più come il suo papà affettuoso tutto baci e carezze; al contrario, così conciato, è un essere spaventoso e incute solo terrore: il sorriso dei due genitori è forse un sorriso amaro.
Il padre si toglie subito di dosso quegli oggetti orribili che servono a far la guerra e non per gioco: il bambino, nella sua innocenza, lo avverte e vuole sfuggire subito, nascondendosi. Forse con un minimo di forzatura si potrebbe dire che l'innocenza più pura rifiuta la guerra perché l'uomo adulto per combattere diventa mostruoso.

Dopo che il padre si è liberato delle armi più terrorizzanti, tuttavia, il pargolo si lascia prendere in braccio, accarezzare e baciare ripetutamente. Ettore, dal canto suo, non può che affidarlo alla protezione degli dèi affinché diventi un ottimo governatore della città e un forte guerriero che possa vendicare la probabile morte del padre, far risorgere la patria ricca e potente e rendere orgogliosa la madre, il cui amore coniugale, pure in questo momento tragico e incerto, è estremamente tenero e profondo.

A questo punto Andromaca, prende il bambino dalle braccia del padre, consapevole che il principe troiano non può sottrarsi dal dovere di combattere per la salvezza della patria.
Riconsegnato il bambino alla madre, Ettore parte in fretta verso il campo di battaglia senza voltarsi più indietro, al contrario di Andromaca che si volta più volte verso il marito che si allontana.

Perché Ettore non si volta? Non certo per mancanza di amore; piuttosto perché deve recuperare a pieno la concentrazione e lo spirito guerriero. Guardare la persona più amata al mondo, infatti, ed essere convinto di vederla per l 'ultima volta sarebbe un dolore troppo forte e gli potrebbe togliere l’energia, il coraggio e la determinazione necessari per il combattimento che va ad affrontare anche e soprattutto per lei.

A sua volta Andromaca lo vuol guardare finché le è possibile per fissarselo meglio in mente, quasi temesse di dimenticarlo nella sua precisa figura, nei suoi movimenti.
Andromaca è una figura di donna dolcissima, dal sorriso che comunica tutta la sensibilità della sua anima delicata e profonda, che gli uomini dall'animo nobile e generoso come Ettore sognano, per avere qualcuno a cui dare totalmente se stessi.

 

La Voce Dei Poeti: OMERO  

"E tu onore di pianti, Ettore, avrai ove fia santo e lacrimato il sangue per la patria versato, e finché il Sole risplenderà su le sciagure umane."
Nell' ipotesi che tra coloro che leggeranno questo brano ci sia qualcuno che non ha mai avuto occasione di incontrare o ha dimenticato di avere riflettuto sui quattro versi che io ho collocato all'inizio di questo breve scritto, penso sia opportuno ricordare che si tratta della chiusura del “Carme Dei Sepolcri” di Ugo Foscolo; uno dei grandi della letteratura italiana.
La sublime poesia non ha bisogno di molte parole per creare immagini grandiose ed esprimere concetti potenti, di grande suggestione. Nei versi precedenti a quelli sopra citati è rappresentato il simbolo stesso della poesia nella figura di un mendicante cieco che sa comprendere il dolore dei grandi ma sfortunati uomini che egli consola col canto della sua arte e rende immortali per i valori che essi rappresentano e per i quali sono morti.

E' Omero, il mitico cantore della guerra di Troia. Egli rende immortali i Greci perché sono stati alla fine i vincitori, grazie al loro spirito guerriero, rappresentato al massimo grado dal "Pelìde Achille", spirito guerriero che deve essere comunque accompagnato dall'intelligenza che può anche assumere la forma dell'astuzia: esempio mirabile il re di Itaca, Ulisse.
Si direbbe tuttavia che Omero abbia una maggiore stima per i Troiani, portatori di valori umani ben superiori a quello guerriero.

Foscolo, nei quattro versi riportati, parla del sangue offerto alla patria sul quale verranno versate lacrime, fino a quando il Sole, risplendendo dal cielo illuminerà le sciagure umane, sciagure che colpiscono spesso esseri innocenti, anche se il più delle volte sono gli uomini stessi a provocarle, a causa di concetti errati o di comportamenti sbagliati.
Nel libro VI dell'Iliade, in particolare, Omero presenta un episodio che ancora oggi commuove ed è tale che chi l'ha concepito non poteva non commuoversi a sua volta. Ci troviamo veramente in presenza della fondazione della civiltà e sensibilità occidentali, un complesso organico di valori, di ideali, di sentimenti che ancora oggi ci guida nella realizzazione di una vita autenticamente umana, ricca e capace di creare quella situazione che noi potremmo chiamare col suo vero nome, tranquillamente, felicità.

Dell'episodio è protagonista Ettore, figlio del re Priamo, guerriero di grande valore, che, in mezzo a tante stragi, accoglie il suggerimento del proprio fratello Eleno di andare in città per chiedere alle donne troiane, in particolare alla regina Ecuba, di fare delle offerte importanti nei templi per ingraziarsi le divinità ed ottenere il loro favore.
Ettore, allora, corre in città e si reca anche dal fratello Paride per stimolarlo a tornare a combattere per recuperare il valore guerriero che, con la sua fuga, aveva mortificato. Poi, prima di tornare nel campo di battaglia dove la sua presenza è indispensabile, non può non andare ad abbracciare la moglie Andromaca e il figlioletto Astianatte: potrebbe non vederli più, se il destino non vorrà.
A casa non li trova. Corre alle porte Scee e lì li incontra sulla torre da dove si domina il campo di battaglia.
Siamo in presenza di un episodio sublime per ciò che esprime, per la ricchezza umana che contiene. Ci possiamo chiedere se Omero ha creato con la sua poesia e ha indicato come possibile in questo mondo una vita perfetta, fatta dalla realizzazione di quegli ideali che, secoli dopo, Platone chiamerà "mondo delle idee".

Ettore stringe al petto Andromaca e le sorride e con questo sorriso le manifesta tutto il suo amore, certamente molto profondo se, sia pure per brevi momenti, riesce a fargli dimenticare la guerra che lo coinvolge totalmente. Il sorriso di Andromaca, invece, è bagnato di copiose lacrime che derivano anche dalla consapevolezza del suo possibile destino; diventare schiava. Non ha più nessuno al mondo grazie alla crudeltà del feroce Achille; Ettore è tutto per lei, ha preso il posto di suo padre, dei suoi fratelli, di sua madre. Essendo egli il più valoroso guerriero troiano, tutti i greci si accaniranno contro di lui. Solo con la sua morte potranno sconfiggere i troiani e distruggere Troia. Se questo si verificherà, sarebbe meglio per lei essere sotto terra per evitare di diventare la schiava di un re acheo.

Andromaca fa di tutto per cercare di convincere Ettore a non tornare nella battaglia, rivelando la dolcezza di una femminilità che giunge fin nel profondo del cuore per far vibrare le corde più sensibili: se tu vieni meno "che altro mi resta che perpetuo pianto?".
Ettore cerca di consolarla sostenendo che in fondo il destino di ciascuno di noi nessuno lo conosce. Inoltre, egli va a combattere con tutte le sue capacità e le sue forze proprio per salvare la patria e con essa tutti i suoi abitanti, la loro civiltà, le loro leggi, il loro benessere. Sembra dire che la guerra si può giustificare solo per questi obiettivi. Così detto, allunga le mani per prendere dalle braccia della nutrice il figlioletto Astianatte. (Continua…..)

 

 

ALLA RICERCA DELLA PACE (seconda parte)

Da duemila anni il Cristianesimo predica la pace, la tolleranza, l'amore, eppure non ha eliminato la guerra; forse non ha insistito abbastanza sulle parole di Gesù Cristo "Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia”. Non può esistere pace vera e duratura senza giustizia. Quando manca la giustizia, in qualsiasi campo della vita, a tutti i livelli (tra singoli individui, tra categorie sociali, tra società diverse, tra gruppi etnici, tra Stati) inevitabilmente si genera un malcontento, una insoddisfazione diffusa, una voglia di ribellione, si crea insomma uno stato conflittuale che può avere sbocchi imprevedibili. La giustizia, è vero, è un ideale e come tale rientra nell'ambito morale e nella sfera della coscienza, quindi non si riesce ad applicarla in tutti i rapporti umani, nella vita concreta. Come conseguenza, è convinzione consolidata che essa non possa operare efficacemente in talune attività, come nella politica e nell'economia che obbediscono a leggi proprie.

Da tempo il mito del "sacro egoismo" informa di sè i comportamenti umani. Dai fatti risulta evidente che senza un profitto, un vantaggio economico nessuno è disposto a sacrificare risorse solo per porre fine ad atroci sofferenze. Vediamo anche che la tolleranza, figlia primogenita della giustizia, trova oggi vita difficile proprio perché è incompatibile con l'egoismo.

Il cammino umano non può essere definito un vero progresso in tutti i suoi aspetti perché, distinguendo e separando le diverse attività e attribuendo a ciascuna di esse leggi e finalità proprie, l'uomo ha creato confusione, per cui lo stesso fatto viene applaudito o approvato in un campo e in un altro campo riprovato e condannato. Nel corso della Storia si è verificata la scissione, la frantumazione della coscienza umana; ma l'entità uomo non è separabile in parti spesso contrapposte e indipendenti: ne sono prova i drammi intimi, le !acerazioni delle coscienze in presenza di taluni eventi, di talune decisioni che impongono una scelta.

Questa è la realtà di oggi, la stessa di cinquant'anni fa, di un secolo, di due secoli, di tanti secoli fa. L’uomo, magari sinceramente commosso di fronte a tante situazioni dolorose, condanna la violenza perché assurda, come ha sempre fatto, ma poco o nulla fa per eliminarla perché alberga nel suo animo la convinzione fatalista che non si può far niente.
Allora, possiamo fare qualcosa? Che cosa? Ascoltiamo ancora Quasimodo: "Dimenticate o figli le nuvole di sangue/salite dalla terra, dimenticate i padri ... ".

Sì; dimentichiamo il male ricevuto in eredità, non prima però di averlo analizzato nelle sue cause, poiché queste sono da eliminare se vogliamo veramente interrompere la nefasta catena di lutti. Dobbiamo ricostruire l'unità della coscienza individuale nella quale devono trovare sede e alimento gli ideali, i principi, i valori più alti che soli possono dare un senso alla vita rendendola degna di essere vissuta.

Concludendo, dobbiamo ricordarci in ogni momento che un principio, come la giustizia, deve essere universale, valido cioè per tutti gli uomini, e deve poter essere applicato in tutte le realtà, nei confronti di chiunque; non deve tollerare eccezioni, non deve ammettere zone franche pena la sua astrattezza e la conseguente scarsa credibilità. Il fine di ogni sforzo deve essere lo stesso uomo nella sua interezza, nella realizzazione piena della sua natura, libero nelle sue scelte perché consapevole, non lacerato fra sentimenti e convinzioni razionali. Un'utopia? Forse; ma qui è il fondamento della speranza e dell'impegno civile.

 

ALLA RICERCA DELLA PACE 

Tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1945 un sospiro di sollievo si levò dai petti di centinaia di milioni di uomini: era finita la seconda guerra mondiale, almeno in Europa. Si combatteva ancora nel settore del Pacifico, dove il Giappone, pur malridotto, resisteva strenuamente. Ma questa appendice dell'immane conflitto doveva segnare l'inizio di una nuova epoca; l'umanità, inorridita, dovette assistere alla più tremenda tragedia della sua storia: intorno alla metà di agosto l'Impero del Sol Levante si arrese, ma solo dopo aver subito il primo bombardamento atomico.

Inaudite erano state le sofferenze della guerra, le distruzioni, impressionante il numero dei morti (circa sessanta milioni) e accanto ad essi molti milioni di invalidi; e questa volta i morti e gli invalidi non erano solo soldati che avevano combattuto su vari fronti, ma anche donne, bambini, vecchi, insomma la popolazione civile. Tutti i principi, i valori, gli ideali del progresso civile erano stati dimenticati, vanificati, messi da parte, e avevano lasciato il posto all'odio, e alla violenza, alla sopraffazione alla distruzione, alla sete di sangue. L’uomo era ritornato, per dirlo con Quasimodo " ... quello della pietra e della fionda ... ".

Dunque, fra la primavera e l' estate del ‘45, gli uomini si sono sentiti come liberati da un incubo; potevano di nuovo sperare, guardare al futuro senza eccessivo timore; sentirono rinascere il piacere e la voglia di vivere. Era naturale che tutti, dopo una tale esperienza, ardentemente desiderassero e si adoperassero per costruire un mondo che rendesse impossibile il ripeterla, poiché è contro natura desiderare il dolore, volere consapevolmente il proprio male. E così, spinti da un vero bisogno di pace, gli uomini hanno dato vita a numerosi organismi internazionali, più o meno ampi, talvolta con obiettivi particolari, ma tutti volti ad impedire il formarsi dei presupposti di nuovi conflitti, a risolvere con negoziati i problemi eventuali tra gli Stati, a salvaguardare la pace anche, se necessario, ricorrendo alle armi. Ci sono riusciti?

Hanno soddisfatto il bisogno di pace definitiva degli uomini del 1945? Sono state realizzate condizioni di vita almeno accettabile per tutta l'umanità?
Oggi, a 75 anni di distanza, quando la seconda guerra mondiale dovrebbe essere una pagina chiusa, un evento concluso per sempre, e lo si dovrebbe ricordare solo per il rispetto delle sue vittime e soprattutto per l'insegnamento, e il monito, che ci vengono dal loro sacrificio, la risposta non può essere affermativa. Se diamo uno sguardo rapido ma attento al periodo trascorso, non riusciamo a trovare un solo anno di pace su tutto il pianeta. Certo, si è trattato sempre di guerre locali, limitate, spesso di guerre intestine. Si dice: "si è evitata la terza guerra mondiale"; è vero, ma questa affermazione che per molti vuole essere motivo di soddisfazione, è in buona misura ipocrita o quanto meno cinica.

Nel deserto del Sinai si sono combattute battaglie che, per violenza e per mezzi bellici usati, hanno superato quelle pur terribili del conflitto mondiale; e c'è proprio da inorridire di fronte ai guasti causati dal napalm così largamente utilizzato. Quanti sono stati i morti in Corea, nella tormentata Indocina, nel Medio Oriente, in Africa, nell'America Latina e nella stessa Europa? E l'odio e la ferocia che si sono scatenati all'interno di tanti paesi tra diverse etnie sono forse inferiori, meno terribili di quanto è avvenuto fino all’ 1945? Com'è possibile? Sono proprio inevitabili, ineliminabili le cause del-le guerre? Ai tanti uomini che hanno o hanno avuto nelle loro mani le sorti dei popoli e che possono o potevano scegliere la strada da intraprendere per la soluzione dei loro problemi, la storia non ha insegnato niente? Forse è più veritiero dire che costoro ignorano la Storia o la conoscono superficialmente o, peggio, la manipolano piegandola ai loro interessi.

In tanti, in troppi, c'è la convinzione che, essendo sempre andate così le cose, sempre andranno così, quasi si trattasse di leggi immutabili. È una sorta di fatalismo che il più delle volte è un alibi che copre interessi particolari o la cattiva coscienza di chi non vuole o non sa impegnarsi per cambiare il corso degli eventi. Costoro ignorano o fingono di non sapere che queste cosiddette leggi immutabili sono state pensate ed elaborate dallo stesso uomo in particolari momenti e situazioni, attribuendo loro il carattere dell'immutabilità. Diceva Einstein: "Nessuno scopo è, secondo me, così alto da giustificare dei metodi indegni per il suo conseguimento. La violenza può avere talvolta eliminato con rapidità degli ostacoli, ma non si è mai dimostrata capace di creare alcunché" e a queste affermazioni ha fatto eco anche papa Wojtyla quando ha detto che "la guerra non risolve alcun problema".

E’ vero tutto questo? Bisognerebbe riflettere seriamente prima di rispondere, soprattutto da parte dei "signori della guerra” che oggi sono tanti, noti e meno noti, e molti ancora sconosciuti, altri nascosti: bisogna riflettere seriamente perché la risposta deve comportare l'assunzione di gravosi impegni, di grandi responsabilità, non si può dire sì solo a parole. A questo punto chiediamoci: se non esiste un obiettivo tanto alto da giustificare il ricorso alla guerra, se la guerra lascia irrisolti i problemi anzi li aggrava, come mai l'uomo vi ricorre così spesso? [continua….]

 

Questa benedetta pace

Il 10 giugno del 1990 mi trovavo in visita all’Abbazia di Montecassino. Ero tutto assorto nella considerazione di quel luogo così carico di suggestioni e veramente unico nella storia della nostra civiltà; nella mia mente sfilavano le tante generazioni di monaci che lì si erano succedute pregando e lavorando e insieme elaborando i più alti valori spirituali, quelli cioè che devono guidare l'uomo non solo verso Dio, ma anche nel suo cammino terreno, nella costruzione di una società autenticamente umana, nella quale egli possa attuare tutte le sue potenzialità positive... All'improvviso fui come svegliato dal suono delle campane, suono che ridestò in me vivissimo il ricordo di altre campane, di altri rintocchi uditi esattamente cinquantanni prima, il 10 giugno 1940, in un pomeriggio caldo, luminosissimo, sotto il sole cocente della Sicilia.

Ricordo che io, bambino di non ancora sei anni, giocavo con altri coetanei in un boschetto dì castagni poco lontano da casa; improvvisamente udimmo suonare le campane; interrompemmo i giochi e ci guardammo negli occhi: quel suono, a quell'ora, ci parve strano. Subito dopo vidi mia madre che coi gesti e con la voce rotta dal pianto ci chiamava. A casa c'erano altre donne; piangevano invocando la Madonna, ci prendevano in braccio, ci accarezzavano, ripetevano: "Povero figlio!" Quelle campane annunciavano che l'Italia era entrata in guerra.

Ero triste e piangevo anch'io, pur non potendone comprendere la ragione; ma quel pianto, quelle campane, quel sole si sono impressi indelebilmente nell'animo mio, come il peso di una grande disgrazia: avevamo perduto la pace .

Le campane di Montecassino, di questo luogo che è stato teatro e testimone di una delle più terribili tragedie provocate dalla guerra, sembrava ammonissero a non dimenticare gli avvenimenti tragici e i tanti lutti che a partire dal giugno 1940 si sono abbattuti sul popolo italiano e sull'umanità intera: la memoria dei mali passati e la conoscenza delle cause che li resero possibili sono gli elementi indispensabili per evitare il loro ripetersi.

Si parla tanto di pace e molti ne parlano anche a sproposito e qualcuno potrebbe essere perfino in malafede. Viene spontaneo chiedersi: ma è solo oggi che se ne parla tanto? L'uomo ha capito solo adesso che la pace è un bene tanto prezioso?

Certamente oggi, rispetto a non molto tempo fa, c'è più informazione, più dibattito, quindi è più facile comprendere i termini di alcuni problemi, avere concetti più precisi, idee più chiare intorno a qualche questione; ma che coloro che parlano di pace la intendano tutti allo stesso modo, che tutti ne abbiano un'idea precisa ed esaustiva, che soprattutto ne conoscano la complessità e le implicazioni e le condizioni che la rendono possibile, è molto difficile da sostenere. Molti hanno considerato la pace e la considerano tuttora come la condizione di "non guerra", senza che si rendano conto costoro che proprio nei periodi di pace così intesa si preparano le guerre.

“I’ vo gridando: pace, pace, pace!" scriveva il Petrarca intorno alla metà del secolo XIV e quanti l'hanno gridato prima e dopo di lui! Ma questo grido è rimasto sempre inascoltato; le ansie, le aspirazioni, le speranze delle sterminate masse di uomini che nel corso dei millenni sono passate su questa terra, sempre sono state deluse. E allora, rimarrà delusa anche la nostra generazione? Insomma, la pace è un miraggio? È un'illusione?

Se cerchiamo nella storia la risposta, questa non può essere che affermativa: gli uomini non hanno mai goduto di vera pace. Ciò tuttavia non significa che dobbiamo rinunciare all'idea, alla speranza di vedere un giorno regnare una pace autentica. Quasi sempre gli insuccessi sono dovuti a un errore nel fissare taluni obiettivi o ad una scelta errata dei mezzi per raggiungerli; e la storia ci insegna anche come evitare dì ripetere certi errori.

¦Ma che cos'è, dunque, questa benedetta pace? Perché non si è mai attuata in modo duraturo?

Il Pontefice Giovanni Paolo II, inaugurando, alcuni anni or sono, l'anno internazionale della pace, ebbe a dire "La giustizia è il vero nuovo nome della pace"; ma già quasi tremila anni prima il profeta Isaia aveva scritto: "Opus iustitiae pax" la pace è l'opera, il frutto, il risultato della giustizia. Di questa affermazione però, del suo altissimo e, per certi aspetti, sconvolgente significato, non c'è traccia nella storia, nemmeno nell'azione della Chiesa che pure si è sempre proclamata la depositaria della "vera scientia” e che, istituzionalmente, si sarebbe dovuta ispirare alle Sacre Scritture.

Riflettiamo sulle poche parole di questa frase sublime, cerchiamo di cogliere tutte le connotazioni, e se la riconosciamo vera e la accettiamo come tale, allora vedremo il mondo e gli uomini da un'angolazione nuova, ogni cosa ci apparirà in una luce diversa. La pace, a questo punto, non ci appare più come una condizione di vita che si attua autonomamente da noi, indipendentemente dalla nostra volontà, come una sorta di paradiso nel quale ogni tanto l'uomo riesce ad entrare e nel quale si augura di rimanere per raccogliere i frutti di alberi che altri ha piantato e coltivato; essa è piuttosto un modo di essere, necessariamente legato ad altre condizioni, all'esistenza cioè tra gli uomini di alti valori, di rapporti corretti, tali che non mortifichino l'individuo, ma che al contrario lo esaltino consentendo la piena affermazione ed esplicitazione della sua umanità.

Nel mondo ci sarà pace solo quando ci sarà giustizia. Ovviamente non si tratta di quella giustizia che, raccolta nei codici, viene amministrata nei tribunali e in nome della quale, qualche volta, si commettono orrendi delitti; la vera giustizia è quella che vive e opera costantemente in ciascuno di noi, che ci fa sentire gli altri simili a noi e, proprio in quanto simili a noi, detentori dei nostri stessi diritti, tra i quali quello di non venirne privati. Da essa discende il riconoscimento della dignità di ogni singolo uomo, dignità che tutti devono rispettare nelle sue peculiarità, giustizia, in ultima analisi, significa autentico spirito democratico.

Ora, se noi consideriamo con attenzione la storia umana, ci accorgiamo che in nessuna epoca è stato affermato e difeso nella pratica il principio dell'eguaglianza fra tutti gli uomini e quindi imposto il rispetto della persona umana senza alcuna riserva, tranne in qualche raro caso e in modo assolutamente episodico; sempre la pace è stata la pace del vincitore, del più forte. E questa era una vera pace? poteva durare? Infatti, non è mai durata molto: mancava la condizione che la rende possibile: la giustizia!

 Dobbiamo convincerci del fatto che, fino a quando ci sarà un uomo che opprime e sfrutta un altro uomo, fino a quando una parte dell'umanità vive nell'opulenza sperperando risorse mentre l'altra parte si dibatte nella miseria, fino a quando rimarremo indifferenti e inerti di fronte all'immane tragedia di milioni di bambini che annualmente muoiono di fame, o al deprimente spettacolo di folle miserande che si umiliano a chiedere elemosina, che vivono di espedienti, che ricavano guadagni miseri, ancorché incerti, da attività lavorative pesanti e prolungate; fino a quando neppure ci interessiamo di conoscere le condizioni di vita in quei paesi retti da regimi autoritari le cui carceri sono piene di persone colpevoli solo di avere una dignità che vorrebbero venisse rispettata; fino a quando queste e simili  infamie avranno luogo sulla terra, allora non ci sarà posto per una pace vera, autentica, definitiva e che interessi tutta l'umanità, per il semplice motivo che mancheranno i fondamenti su cui essa necessariamente dovrebbe poggiare

Mi piace concludere queste considerazioni con un pensiero del poeta russo Evtushenko: "Anche la soppressione di un solo individuo è una guerra mondiale perché ci riguarda tutti".

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di Attilio Princiotto*

Com'è noto, l'armistizio di Cassibile del 3 settembre 1943, tra il Governo Italiano e il Comando Supremo dell'esercito anglo-americano, fu fatto conoscere al mondo l’8 settembre, rispettivamente alle ore 18:30 dal Comandante in capo generale Eisenhower attraverso Radio Algeri, e alle ore 19:42 dal Capo del Governo Italiano maresciallo Pietro Badoglio attraverso l'EIAR. In entrambi i messaggi si dava ordine di cessare le ostilità tra i due eserciti; Badoglio in particolare disponeva che le truppe italiane dovessero reagire con le armi solo se attaccate da qualsiasi altra parte.

I tempi della divulgazione non erano stati concordati sicché l'annuncio di Eisenhower colse di sorpresa sia Badoglio che il re, i quali furono così costretti a divulgare per radio la notizia il più presto possibile. D'altra parte non furono rese note le condizioni dell'armistizio che si rivelò presto una vera capitolazione; e tanto meno furono comunicati piani e impartiti ordini alle truppe che combattevano su tutti i fronti: in terra, in mare e, per quel poco che era rimasto, in aria. Erano milioni di uomini, molti dei quali all'estero, che vennero abbandonati a se stessi e così tanti di essi, convinti che la guerra fosse finita, abbandonarono le armi e, quando fu loro possibile, anche la divisa per non essere riconosciuti, e affrontarono lunghi, faticosi e pericolosi percorsi, a piedi o con mezzi di fortuna, per ricongiungersi alle loro famiglie; ma questa meta non fu per tutti.

Intanto, saputo che le truppe tedesche di stanza lungo il Tirreno si muovevano verso l'interno, il re e la corte abbandonarono precipitosamente Roma alla volta di Pescara, ma con destinazione Brindisi. Immensa fu la confusione che l'armistizio determinò in quei giorni; troppo in basso precipitarono le istituzioni che gli Italiani si erano date e per le quali si erano sacrificate tante vite. Mancavano persone degne, capaci e adatte alla situazione, e che avessero a cuore il bene del popolo italiano.

Non è possibile in breve tempo (ma non è nemmeno la mia intenzione) esaminare ln dettaglio gli avvenimenti di quei giorni per cercare di comprenderli : si tratta di uno dei momenti più amari che l'Italia ha vissuto, momenti bui, tragici, in cui non si scorge, tranne che nelle vittime e in pochi altri casi, nemmeno un barlume di quei principi, di quei valori, di quegli ideali che dovrebbero illuminare le menti di chi ha nelle proprie mani i destini di milioni di uomini. Dei tanti episodi tragici che si verificarono nelle ore che seguirono la divulgazione dell'armistizio, quello che mi è rimasto profondamente impresso quando l'ho incontrato, naturalmente nelle pagine di un libro, è stato l'affondamento della corazzata "Roma".

Fatti bellici più gravi, più sanguinosi, più terribili la Seconda Guerra Mondiale ne annovera tanti (proviamo a immaginare il fondo dell'Oceano Pacifico, le vittime delle bombe atomiche, la città di Dresda, tanto per citarne alcuni); questo però non solo ci riguarda da vicino (forse a qualcuno dei lettori sarà capitato quello che è successo a me: conoscere dei familiari di un marinaio morto in quel disastro, il che ci spinge a un impegno per evitare l'oblio), ma ha stabilito anche, purtroppo, due tristi primati; i tedeschi che già sospettavano la resa unilaterale dell'Italia e che avevano occupato più della metà della penisola, non persero tempo a preparare le loro rappresaglie sugli italiani, uccidendo e deportando, depredando armi e ricchezza; e così i 1.393 marinai che si inabissarono con la loro nave furono le prime vittime dell'ira germanica. Inoltre la "Roma" venne colpita da due missili teleguidati, nuovissima arma che la Germania aveva appena realizzato e che sperimentò contro la corazzata italiana (ed è la prima volta nella storia che vengono impiegati ordigni simili).

La nave era stata progettata dall ' ammiraglio Umberto Pugliese; costruita nei cantieri San Marco di Trieste, era stata varata il 9 giugno 1940. Il suo completamento era stato effettuato nei cantieri di Monfalcone ed era stata consegnata alla flotta il 14 giugno 1942; impiegata solo nel Mediterraneo a causa della sua autonomia limitata, non ha potuto dar prova delle sue potenzialità in azioni importanti. Era dotata dei dispositivi tecnologici più avanzati: era un vero gioiello. Era lunga 240 metri e larga 32 con una stazza di 46.000 tonnellate; l'armamento consisteva in più di 70 bocche da fuoco tra cannoni e mitraglieri, la formidabile corazzatura la rendeva quasi inaffondabile; era vulnerabile solo se colpita dall'alto. Il suo comandante, designato già al momento del varo, era il Capitano di Vascello Adone del Cima, l'equipaggio previsto era di 180 ufficiali e 1.880 marinai.

L'8 settembre la corazzata, con l'insegna della nave ammiraglia, era ancorata a La Spezia, pronta a salpare verso sud con l'intera squadra navale costituita di 23 navi tra incrociatori, cacciatorpediniere ecc., con l'obiettivo di affrontare la flotta americana la quale doveva proteggere dal mare lo sbarco alleato a Salerno, previsto per il giorno dopo. Nel pomeriggio 1 ' ammiraglio Bergamini, comandante in capo della squadra, ricevette via telefono dal Ministro della Marina Militare, Gen. De Curten, la comunicazione del tutto inaspettata che quanto prima sarebbe stato reso noto il testo di un armistizio, già firmato, tra il Governo italiano e Eisenhower, recante la clausola che la flotta doveva essere consegnata agli inglesi; le disposizioni erano di condurre la squadra alla Maddalena dove avrebbe trovato il re e Badoglio. Fu questo un boccone amarissimo per Bergamini che ha dovuto, in nome dell'onore e del giuramento di fedeltà al re d'Italia, ed essendo questo il suo preciso dovere, convincere all'obbedienza gli altri ufficiali, molti dei quali non volevano obbedire a un ordine che giudicavano infamante; alcuni proponevano addirittura l'auto affondamento o la ricerca di una battaglia disperata. Bergamini comprendeva i loro sentimenti che certamente condivideva; alla fine, suo malgrado, li persuase e riportò l'ordine. E così il 9 settembre, alle tre di notte, le navi salparono per unirsi con il resto della squadra tra Genova e Savona. Sulla corazzata "Roma" però veniva inalberato il Gran Pavese, mentre l'ordine ricevuto era di issare pennelli neri e dipingere cerchi neri sulle tolde in segno di resa. Superato il Capo Corso, la flotta puntò verso sud nel mare di Corsica,

mantenendosi a una ventina di kilo- metri dalla costa. Ma quando le navi si preparavano ad attraversare le Bocche di Bonifacio, proprio quando si accingevano ad attraversare il punto più stretto, quindi già vicini alla meta, Bergamini, tra le 15:30 e le 15:45 ricevette dal Ministero l'ordine di invertire il più rapidamente possibile la rotta e di dirigersi a Bona in Algeria perché la Maddalena era stata occupata dai tedeschi. Nasce spontanea la domanda, inquietante forse, ma legittima: non fu comunicato troppo tardi all’ Ammiraglio Bergamini che la Maddalena era in mano tedesca? Alla Maddalena si dovevano rifugiare la corte e il governo e non lo fecero proprio perché l'isola era stata occupata dai tedeschi. Saputa la notizia dell'occupazione il re e il Governo abbandonarono Roma già nella notte fra l'8 e il 9 settembre per mettersi in salvo a Brindisi.

Allora, a Roma quando appresero la notizia della Maddalena? Certamente molte ore prima delle 14.30, quando fu comunicata a Bergamini! Incuria? Inefficienza? O si tratta di qualcosa d'altro, qualcosa di molto più grave? Se da Roma avessero comunicato subito a Bergamini una notizia che tanto riguardava lui e la Marina Italiana, alle 15.15 del 9 settembre la flotta non sarebbe stata avvistata in quella posizione da uno stormo di bombardieri tedeschi che poco più di un'ora prima si erano alzati in volo da un aeroporto nei pressi di Marsiglia con l'ordine di colpire solo le corazzate italiane. 

E' vero, la storia non si fa con i "se", ma è anche vero che la storia non si può ridurre ad un elenco di nomi, di date, di fatti: la storia così intesa non servirebbe a nessuno poiché si tratterebbe di arido nozionismo. Nella storia va cercato il perché dei fatti e se nel comportamento umano sono stati commessi errori e negligenze, e soprattutto va capito in che cosa questi consistono; solo a queste condizioni la conoscenza storica può guidarci verso un autentico progresso e per operare in tal senso, per non uscire dalla via maestra, le ipotesi, purché frutto di seria riflessione, sono necessarie.

Dunque gli aerei avvistati sembravano dirigersi verso la "Roma" che esponeva il Gran Pavese e le insegne dell'ammiraglia; volavano altissimi, oltre 6.000 metri; bombe tradizionali , sganciate da quell'altezza, difficilmente avrebbero colpito nel segno e per di più gli aerei erano andati oltre il punto ideale di sganciamento: sembrava che quegli aerei non dovessero bombardare. Quando poi venne lanciato uno strano oggetto bianco, affusolato, simile a un siluro e con la coda luminosa, sulle navi si pensò a un segnale; ma l'incertezza e la perplessità durarono solo alcuni secondi: si trattava del micidiale razzo tele-guidato FX/1400, arma recentissima che veniva lanciata per la prima volta, come ho già riferito.

La prima bomba, lanciata alle ore 15:30, cadde in acqua; solo allora fu dato l'ordine di aprire il fuoco in ottemperanza alle disposizioni armistiziali; a nulla valsero i tanti cannoni la cui gittata non raggiungeva quell'altezza e i tedeschi lo sapevano bene. Alle 15:37 una seconda bomba colpì la corazzata Italia ma senza causare danni irreparabili. Alle 15:42 una terza bomba colpì la poppa della "Roma" a un metro dalla murata e scoppiò sott'acqua dopo avere trapassato lo scafo. Alle 15:52 un altro razzo colpì la "Roma" nella prua fra la torre numero due e il torrione di comando generando un inferno.

Secondo la testimonianza di qualche sopravvissuto, la bomba penetrò all'interno della nave esplodendo nel reparto macchine e facendo esplodere il grande deposito delle polveri e delle munizioni della torre di prua che venne lanciata in aria "come tappo di bottiglia", nonostante l'enorme peso di circa 1.500 tonnellate, e cadde in mare a circa 500 metri di distanza scomparendo subito. Si sprigionò un incendio che avvolse ogni cosa, con fiamme che raggiunsero un altezza di oltre 400 metri, mentre si succedevano gli scoppi delle granate dei cannoni di grosso calibro distruggendo ogni cosa. Dei sopravvissuti affermano che si sviluppò un calore altissimo, al punto che alcune strutture si sono liquefatte e che questo calore causò la morte di molte centinaia di uomini tra cui l'ammiraglio Bergamini e il comandante Del Cima, morte terribile ma per fortuna rapida.

Molti marinai, che poi furono salvati dalle altre navi, presentavano ustioni gravissime. La corazzata "Roma" esplose e, dopo essersi inclinata su un fianco e poi spezzata in due tronconi, alle ore 16 e 11 minuti si inabissò al largo dell'Asinara nel Mar di Sardegna e oggi giace a una profondità di circa 500 metri, tomba di 1.393 uomini, tornati in grembo alla Madre Terra, in una condizione di pace e di silenzio che speriamo nessuno andrà a turbare.

I naufraghi che avevano avuto il coraggio e la fortuna di abbandonare la nave in tempo, allontanandosi da essa con qualsiasi mezzo, dalle scialuppe ai salvagente, aggrappandosi ad ogni corpo galleggiante o semplicemente a nuoto, molti feriti e con gravi ustioni, furono recuperati in mare dalle altre unità della squadra; furono 622. Vennero sbarcati a Porto Mahon nell'isola di Minorca, territorio spagnolo e quindi neutrale. Nove morirono durante il tragitto e altri sedici nell'ospedale; oggi riposano nel cimitero di Porto Mahon.

Pertanto i caduti a causa dell'affondamento della corazzata "Roma" furono complessivamente 1.418. Questo tragico evento si verificò, ripetiamolo, il 9 settembre 1943, ossia ottantadue anni dopo . Ritengo doveroso ricordare quei nostri caduti.
Rimane l'amara consapevolezza che furono vittime non solo di coloro che appena 20 ore prima erano i nostri alleati, ma vittime anche della disorganizzazione, della incapacità e dell'inerzia delle istituzioni italiane, caratteristiche che sembrano permanere nella nostra classe politica.

*Professore a Bologna

L'INTERVENTO

DA RAVENNA IN LINEA MASSIMO RISTUCCIA

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di Massimo Ristuccia

Da appassionato della seconda guerra mondiale ho letto con piacere l'articolo del Sig.
Attilio Princiotto. Vorrei aggiungere, notizia che ebbe ampio risalto sui quotidiani e riviste specializzate, la notizia del ritrovamento del relitto avvenuto anni fa, riportando un piccolo stralcio di una intervista di chi fu l'artefice del ritrovamento.

Il relitto della corazzata Roma è stato infine trovato il 17 giugno 2012 dall'ingegnere Guido Gay grazie all'ausilio del ROV filoguidato Pluto Palla da lui stesso inventato e comandato da bordo del catamarano Daedalus.

Un catamarano commerciale, come quelli che si usano per fare diporto, un veicolo sottomarino grande poco più di un pallone e un ingegnere caparbio.

II catamarano si chiama Daedalus, l'uomo Giuda Gay ed il ROV Pinto Palla: sono loro che hanno trovato il relitto della corazzata Roma, nel mare di Sardegna a 16 miglia dall'Asinara, dopo 69 anni dall'affondamento.

MARE: Dov'è il Roma?:›

GAY: Dentro uno dei canaloni che si trovano sul fondale a Nord di Castelsardo, non proprio vicino alla posizione che era stata stimata come luogo dell'affondamento. Lungo uno di quei canyon che scende verso Nord/Ovest.

MARE : Un relitto introvabile che hanno cercato in molti, (cosa ha fatto di diverso Guido Gay?

GAY: Avevo già battuto quel punto, quell'oggetto, in due campagne distinte, nel 2005 e nel 2007, ma il fondale é segnato da profondi canyon con rocce di basalto che confondono le tracce.

Non avevo, all'epoca la strumentazione adatta, così ho dovuto inventarla. Poi dai 17 giugno di quest'anno con il Pluto Palla (un piccolo veicolo dì soli sessanta chili che può scendere oltre i 4 mila metri ho iniziato a lavorare sul contatto più importante e su di un'area di mezzo chilo-metro quadrato, sino a realizzare il filmato attualmente in rete, Non sono nuovo a trovare relitti, ma questo è stato certamente il progetto più importante.

Ad esempio, sempre con il Pluto Palla ho trovato ii relitto del Transylvania davanti la costa savonese (un piroscafo trasporto truppe affondato nelle I° GM. ndr

MARE: A che profondità siamo? Noi avevamo stimato poco oltre i mille metri?,

GAY : Si poco oltre i mille metri si tratta di un canalone sottomarino dove non è facile muoversi con i ROV di grosse dimensioni e dove il sonar imbarcato su di un battello non potrà mai dare gli stessi risultati di uno strumento che lavora direttamente sul fondo.

MARE : Come sono le condizioni del

GAY Non è un relitto integro, ci sono parti di nave, abbiamo trovato una parte del ponte, quella dove erano i cannoni antiaerei, poi ci sono altre immagini di eliche, ma la nave deve essersi divisa in molte parti e questo vuol dire che non possiamo cercare due tronconi soli, ma tanti pezzi dello scafo.

Sarà un lavoro lungo. Forse molte parti sono sotto il fango…

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