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di Salvatore Agrip

Canneto 21 gennaio 1981
Sono passati 40 anni, quel giorno, come tutte le mattine, la mia sveglia era verso le sette, quale studente diciassettenne presso l’Istituto Tecnico di Lipari dovevo avere il tempo di arrivare a prendere, anche dopo una buona colazione, il bus delle ore 7,40 che transitava sulla C. Battisti, mio papà invece si svegliava sempre prima delle 6 per andare a lavorare alle cave di pomice, prendendo il bus alle 6,30 che transitava sulla Marina Garibaldi e di già Lui era a lavoro.

Abitavo nel vicolo Oberdan “u strittu di Tauru”, dietro la prima cortina di fabbricati che si affacciavano sul mare e appena svegliatomi aleggiava un sostenuto vento di levante, quasi prospicente alla mia casa c’erano due fabbricati con uno spazio libero in mezzo, da dove si vedeva la spiaggia e affacciandomi vidi il mare che aveva invaso la spiaggia per diversi metri, nulla di preoccupante, volevo solo capire se gli aliscafi viaggiavano ( a quel tempo, non era come oggi che in qualsiasi momento si potevano consultare le previsioni meteo-marine, per questo, ci si affidava negli orari previsti ai bollettini da radio e televisione), in quanto, buona parte dei miei insegnanti facevano i pendolari giornalmente da Milazzo, ed ebbi la sensazione che l’aliscafo di Milazzo verso Lipari poteva avere delle difficoltà a viaggiare, nell’incertezza mi

preparai per andare a scuola e quando, dopo circa mezzora, usci per andare a prendere il bus vidi, dallo stesso punto di prima, che il mare era salito in modo notevole, rispetto a prima, forse altri 10/15 metri in più sulla spiaggia e a quel punto capì che molto probabilmente, l’aliscafo che portava gli Insegnati non veniva, ritornai dentro casa e dissi a mia mamma, che era il caso che non andassi a scuola perché 2 o 3 ore di lezioni non li avrei fatto per mancanza degli insegnati, fiduciosa come sempre di quello che le dicevo, anche perché era successo altre volte, acconsentì.

A quel punto, capendo che era in atto una potenziale mareggiata, il primo pensiero era “pu vuzzurieddu” (per il gozzetto in legno) che stazionava sulla spiaggia e bisognava andare a vedere se era messo a sicuro dalle onde che incalzavano, temporeggiai circa 20 minuti per cambiarmi e indossare indumenti più consoni per andare in spiaggia. Il vento era più forte e si sentiva sempre più il rumore delle onde, frettolosamente imboccai il vicolo in discesa e appena girato l’angolo nella parte finale del vicolo c’erano già diverse persone allarmate, in quanto il mare era, in breve tempo, arrivato sulla sede stradale e in quel momento, vidi che un onda sormontava il marciapiedi lato monte e invadeva l’imbocco del vicolo, di corsa tornai a casa, sempre con il pensiero “du vuzzarieddu”, per indossare gli stivali a mezza gamba, altrimenti mi sarei immediatamente impantanato con scarpe e pantaloni in mezzo all’acqua di mare e la sabbia.

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Altri 10 minuti e riscesi di corsa il vicolo e a quel punto la scena era già quella di una vera mareggiata, appena arrivato sul lungomare, vidi tanta gente che si adoperava per mettere a sicuro la propria barca e anche quelle di chi non era ancora arrivato (a quel tempo le barche erano tante, tutte di legno, ma era anche tanta la solidarietà tra i proprietari delle barche), davanti al varco del muraglione che solitamente imboccavamo per entrare e uscire dalla spiaggia vidi la nostra barca già sul marciapiedi, legata ad un albero insieme ad altre due barche, sicuramente qualche amico di mio papà si era preoccupato di farlo.

Erano circa le 8,30, le onde incalzavano sempre impetuose, sollevavano e sballottavano le barche più piccole e travolgevano tutto ciò che si trovava davanti per arrivare a lambire i muri dei fabbricati. Fino a questo punto erano scene che a volte si erano viste e personalmente ricordo qualcosa del genere qualche anno prima di allora e nulla in quel momento, poteva far pensare a quello che di lì a poco sarebbe successo. Guardando verso la piazza vedevo le stesse scene di gente che si dimenavano, principalmente per mettere a sicuro le tante piccole barche.

Con il mio spirito giovanile e forse anche per curiosità mi avventurai con i miei stivali ai piedi verso la piazza, cercando un percorso più a ridosso dei fabbricati per evitare che il livello delle onde superasse i miei stivali e se l’arrivo dell’onda era più alta anch’io dovevo cercare una quota più elevata, come qualche gradino di scala, come fu nella casa Mobilia (allora non c’era ancora il cancello), mi fu d’aiuto anche quel lungo gradino sovrapposto al marciapiedi, prospiciente l’ex Ufficio Postale e il fabbricato delle Suore.

I cavalloni crescevano di intensità aumentando la propria potenza distruttiva e appena arrivai al primo vicolo, via N. Sauro “u strittu i Calummu”, per ripararmi in salita c’era proprio il Signor Giovannino Merlino con lo sguardo fisso verso le onde, che invadevano la piazzetta con i giochi e sballottavano le barche messe a riparo all’interno del muraglione e con il peso dei suoi anni diceva, che una mareggiata del genere non la ricordava.

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Erano circa le ore 9 e il mare con la sua forza si era impossessato di tutto il litorale della Baia di Canneto e a quel punto risali il vicolo, per proseguire verso la Piazza, attraverso la C. Battisti e riscesi dalla via Cavour che sboccava davanti al molo, dove la scena era veramente surreale, nell’aria c’era una nebbiolina salina prodotta dalle onde che impattavano sulla banchina e il muraglione ormai era sormontato da onde di 3/4 metri.

Le onde arrivavano ormai fino ai fabbricati e tra un onda e l’altra la piazza sembrava un lago salato, mi incamminai verso la Chiesa a ridosso delle parete dei fabbricati, non avevo assolutamente paura, i miei passi erano in mezzo a l’acqua che con il moto ondoso si abbassava e si rialzava, sembra quasi inverosimile, ma ero affascinato dalla forza del mare e i miei occhi erano al centro della mia persona, in prossimità della sede della Polisportiva Canneto, dove adesso c’è l’edicola i miei stivali furono inondati di acqua e vidi arrivare altre onde più alte e in quel momento, quasi d’istinto per non finire bagnato fradicio con un balzo mi aggrappai a un albero di quelli che ornavano la piazza e decisi di salirci sopra per appollaiarmi a circa due metri e mezzo d’altezza, non fu difficile farlo ero molto agile a quel tempo.

Credo che erano quasi le ore 10 e grosso modo la mareggiata aveva raggiunto una virulenza veramente devastante con una forza in crescendo il mare offriva una scena impensabile che mai ho dimenticato. Il muraglione che ornava la piazza a protezione della stessa era scomparso, inghiottito letteralmente dall’acqua, il mare, quindi, aveva sottomesso il muraglione e conquistato piazza, strada, marciapiedi era il padrone assoluto di qualsiasi cosa che si trovava in esse, barche, auto, panchine, ecc… riuscì persino ad andare oltre sventrando anche parecchi ingressi di fabbricati e inondando tutto ciò che si trovava al loro interno. Rimasi in quella posizione quasi un ora e mezza come se stessi vedendo un film, per gran parte di questo tempo sotto di me il mare aveva una altezza mediamente e costantemente di circa 80 centimetri, il mio amico mare mi aveva imprigionato su l’albero.

Non sapevo cosa succedeva in quel momento sul resto del lungomare, guardando verso Boccavallone non si vedeva tanto, come ho detto prima, l’aria era impregnata di salsedine, a un certo punto capii che la mareggiata aveva raggiunto il picco della sua forza e le onde piano piano perdevano forza, aspettavo il momento giusto per scendere dall’albero, volevo tornare a casa.

Questo momento arrivò e con un salto scesi dall’albero, l’acqua c’era ancora ma era più bassa, mi incamminai verso casa e cominciai a realizzare il disastro di quella mareggiata, percepì che i danni erano ingenti, barche distrutte completamente e in quelle che erano resistite si vedevano i danni, le onde avevano sfondato diverse porte e dove erano resistite alla furia del mare gli interni erano ugualmente tutti allagati, anche i vicoli, per buona parte, erano stati invasi, nel vicolo Galilei “u strittu i Carvuni u nicu”, ad angolo del Bar Tano, essendo con poca pendenza e un po’ più largo, il mare riuscì a lambire la carreggiata della C. Battisti.

Quando arrivai nella zona dove c’era il vicolo di casa mia vidi mio padre, che davanti quel disastro, aveva lasciato il lavoro alle cave di pomice per venire a Canneto, era con altri suoi amici cercavano di recuperare le proprie barche e fortunatamente, chi di più chi di meno erano solo danneggiate.

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La tempesta scemava e intorno a mezzogiorno le onde arrivavano prima del muraglione e di li a qualche ora la mareggiata si era già pacata. Per quello che si vedeva davanti ai nostri occhi era tanta l’incredulità e lo sgomento, ma sin da subito, chiunque si mobilitò per dare aiuto a chi aveva avuto più danni, quelli che avevano avuto le case allagate furono aiutati per primi e non tutti poterono entrare in casa prima che venisse notte. Per la maggior parte dei Cannetari quella non fu una notte di sonno, ma di attesa dell’alba, di un nuovo giorno, dove lo scenario, con il mare ormai pacato, era inverosimile, praticamente tutta la strada, con la piazza e con tutti i marciapiedi apparivano come un'unica spiaggia.

Dalla Piazza a Unci la mareggiata aveva prodotto i danni più ingenti ( la forma concava del litorale di Canneto, poneva quel tratto di costa verticalmente al quadrante dei venti del greco e levante che ha alimento la mareggiata), circa 300/400 metri di carreggiata con tutto il muraglione erano stati spazzati via, le scogliere (cinque o sei non ricordo bene) di massi in conglomerato e di forma parallelepipedi, perpendicolari alla spiaggia erano state scompigliate e sparite sotto il mare, solo pochi massi erano sparsi lungo la battigia, i muri di alcuni fabbricati erano stati sventrati, compreso quello della piccola chiesetta di Unci.

La solidarietà fu tanta e immediata, allora non esisteva la Protezione Civile o altri aiuti Istituzionali, ma solo la volontà e le braccia di noi abitanti e di chi ci veniva in aiuto. Molti aiutarono a ripulire con pale e carriole le abitazioni invase da sabbia e acqua, c’erano da spostare mobili e in certi casi, si dovevano buttare non erano più recuperabili, a tal proposito ricordo un fatto bizzarro, raccontatomi da alcuni miei amici, che erano stati chiamati da una anziana signora che viveva da sola in un vicolo in prossimità della Piazza, per farsi spostare mobili e suppellettili inondati dal mare, entrati in casa incominciarono, su indicazione della

signora a sistemare rassettare le varie stanze, a un certo punto furono portati nella camera da letto dove inaspettatamente videro una cassa da morto che la Signora aveva già da tempo in casa in attesa della sua morte, il fuggì, fuggì fu immediato e per tanti anni fu motivo di risate quando ne parlavamo. Insomma ognuno faceva quello che poteva e anche di più , mio padre con pialla, martello, chiodi e ascia si mise a riparare la barca , modellando i pezzi rotti, visto il buon risultato continuò con le barche degli amici, praticamente si era improvvisato “Mastro d’ascia”.

Nella stessa giornata del dopo mareggiata vidi i politici del tempo camminare in mezzo a tutto quel disastro, dando sostegno morale e speranze che non furono disattese, infatti la ricostruzione di strada e muraglione non tardo a venire insieme alla diga foranea costruita con i massi delle scogliere e i famosi tetrapodi a protezione dell’abitato nella parte del litorale che era stato più colpito.

Quella esperienza vissuta in prima persona ha lasciato tanto in me e spesso penso e rivivo, come ho fatto adesso, quei fatti, con il ricordo di un paese diverso come società, quelle persone come mio padre che sapevano darsi aiuto e superare i problemi della vita con coraggio e determinazione, erano forgiati davanti al peggio, sicuramente perché nella vita l’avevano visto e vissuto davvero. Quella esperienza, paradossalmente, mi ha portato, ancor più, ad amare e rispettare il mare, che considero la cosa più bella per me che vivo le mie Isole e lo ritengo un rifugio e allo stesso tempo un amico.

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