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di Pippo Pracanica*

Un coraggioso giornalista della Gazzetta di Messina e delle Calabrie,

Scrive Vinci “La massima parte dei concessionari ha così deviato dai fini veri della concessione. Vi sono stati dei fortunati che hanno saputo strappare  un’area ad un prezzo irrisorio nel cuore della nuova città sfruttando tutti i benefici di legge, promulgati per gli intraprendenti, costruito con poche migliaia di lire edifici importanti, e qualcuno è arrivato a costruire un castello medievale per poi finire nella più, usuraia delle speculazioni. […] Si può quindi calcolare che le aree comprese tra il torrente Portalegni fino al curvone ferroviario di Gazzi siano costate agli utenti dalle 12 alle 13 lire al mq e quelli oltre il curvone da 4 a 16 lire. […] borghesi abitano, nel centro della città sfruttando anche loro per abitazioni - che altrimenti dorrebbero pagare migliaia di lire al mese - locali che per il loro esiguo costo avevano altra utile destinazione”.  Altrettanto scandalosa appariva, a Vinci, la situazione esistente nella zona Falcata, dove il Comune di Messina aveva dato in concessione ben 29000 mq, degli 86000 di cui disponeva, alla Società Italo-Americana per i petroli “ad un prezzo ‘tenue’, per 29 anni, concessione che, peraltro, non poteva essere rilasciata in quanto l’attività svolta dalla società richiedente era commerciale e non industriale e ne ricordava anche le tappe. Il 9 aprile 1919 concessione di 19.000 mq a fronte di un pagamento di 4500 lire, cioè 10 centesimi al metro quadro, elevata a 29000 mq, con un ulteriore canone di 8000 lire l’anno. A fronte di tale scandalosa concessione invitava l’Intendente di Finanza ad intervenire, ma, ovviamente, quest’ultimo si guardò bene dal fare alcun che. Giunsero, quindi, contemporaneamente, il decreto di scioglimento dell'Unione Edilizia, che comportò l’immediato licenziamento di tutti gli impiegati, e quello che sbloccava la pratica di finanziamento per la riedificazione della Cattedrale. Ma già il 29 luglio Mussolini inviava all’Arcivescovo un telegramma in cui era scritto “Desidero sapere se lavori incominciati e numero operai”.

Dalla data del telegramma si evince chiaramente che Mussolini aveva autorizzato l’Arcivescovo ad iniziare i lavori prima che il Consiglio Superiore dei LL.PP., il successivo 27 agosto 1923, approvasse il progetto di ricostruzione del Duomo, redatto dal prof. ing. Aristide Giannelli, docente di scienze delle costruzioni presso l’Università La Sapienza, per la parte statica e dall’arch. Francesco Valenti, Sovrintendente ai Monumenti per la Sicilia, per la parte artistica. Due furono le ditte incaricate dei lavori: Domenico Vitali, per il transetto e le navate ed i fratelli Cardillo. Direttore dei lavori fu l’ing. Francesco Barbaro, dell’Ufficio Tecnico della Curia.

 Paino non rispose direttamente al telegramma di Mussolini. Infatti non aveva iniziato i lavori perché era ancora alla ricerca dei soldi necessari per la realizzazione delle “opere di decorazione”, che erano escluse dal finanziamento statale.  

 Per prendere tempo l’Arcivescovo aveva inviato a Mussolini un generico comunicato stampa senza fornire le notizie richieste, per cui il 31 agosto successivo Mussolini telegrafava nuovamente: “Approvo testo suo comunicato stampa per quanto riguarda cattedrale voglia dirmi se lavori iniziati e quanti operai impiegati“.

Così, Guido Ghersi, molto vicino agli ambienti della Curia messinese, immaginò, nel suo libro La città e la selva, ma essendo molto addentro alle segrete cose della Curia è molto probabile che quanto ha scritto non sia solo frutto della sua immaginazione, che l’Arcivescovo vi sopperisse: ”«Credo che lei sappia» disse monsignore «quali sono le condizioni che noi facciamo, prima di prendere ogni altro accordo. » «Provvigione?» fece con un sorriso d'intelligenza l'imprenditore giunto quella mattina dal nord. « Il governo ci da quanto basta a fabbricare le chiese; ma a decorarle e ad arredarle ci dobbiamo pensare noi. » «Allora? » «Noi domandiamo il venti per cento sulla spesa totale.» «E così per un lavoro di tre milioni io dovrei sborsare l'inezia di seicentomila lire.» L'imprenditore lanciò al vescovo un'occhiata, tra rabbiosa e ammirativa. Con un largo fazzoletto si asciugò il sudore che imperlava la sua calvizie, rimise il fazzoletto in tasca e appoggiò le grosse mani pelose sulle ginocchia, piegando il capo da un lato come per sentir meglio.

*Medico

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