acorriere.it

di Eva Perasso

shadow carousel
Addio alla scuola sul mare
Tre anni dietro la cattedra, con una telecamera

Ma come si fa a fare scuola ad Alicudi? Per raccontare questa straordinaria esperienza, per due anni un documentarista, Alberto Bougleux del gruppo di ZaLab, ha filmato la vita in classe dei tre alunni che fino allo scorso anno frequentavano la scuola. Si chiamano Mirko, Valentino e Gabriele, e da maggio 2011 a marzo 2014 sono stati filmati in diversi episodi per arrivare al prodotto finito: un documentario di trenta minuti, «L’ultimo giorno», che racconta il duro lavoro degli insegnanti, e in particolare della maestra Teresa che li ha seguiti anche alle medie con il supporto di due prof esterni, la solitudine e le difficoltà di insegnare in una classe che classe non è, in un luogo lontano, dove a farla da padrone e da sottofondo sembra essere più il mare con la sua grandezza. Il documentarista ha usato una telecamera fissa, posizionata dietro alla cattedra, per raccontare parte delle lezioni di Teresa ai suoi tre alunni, per testimoniare la rabbia, le difficoltà ma anche il piacere di stare insieme. Dopo la chiamata in Rete attraverso il crowdfunding, oggi Alberto ha raccolto i 6500 euro necessari per proseguire con il suo progetto e coprire i costi di montaggio, post produzione, comunicazione legati al documentario. «Il progetto nasce da lontano – racconta il regista -. Nel 2004 ho inventato una piattaforma di formazione sui mestieri del cinema, Lapa TV , rivolta agli alunni delle scuole dell’arcipelago ed entrata nella offerta formativa dell’istituto comprensivo di Lipari. Nel marzo 2008 i laboratori sbarcarono anche ad Alicudi su richiesta della maestra Teresa e fu così che ebbi l’occasione di scoprire questa scuola cosi speciale».

Quando una maestra diventa lo Stato

Le riprese sono cominciate a maggio 2011, quando si iniziò a parlare di una chiusura della scuola, e durate fino al 2014. I protagonisti sono gli ultimi tre studenti, oggi ne rimane uno solo, Mirko, impegnato negli esami di licenza media, mentre «Gabriele è uscito e non ha più proseguito e Valentino continua a studiare a Spoleto alle superiori», racconta al telefono da Alicudi, dove è difficile anche prendere la linea per la forza del vento che impedisce le comunicazioni, la loro maestra Teresa Perre, arrivata da Milano 15 anni fa e mai più ripartita. La maestra non è l’unica insegnante sull’isola, ma solo lei vi abita in pianta stabile. Vi sono poi, per permettere lo svolgimento delle lezioni della scuola secondaria, una insegnante per le materie letterarie e una per le discipline scientifiche.Come spiega ancora il regista, «l’obiettivo del documentario era quello di collocare sulla mappa della scuola italiana questa esperienza di una maestra simbolo della scuola in bilico. I ragazzi di Alicudi sono estremamente ribelli e la scuola torna a scoprire il suo ruolo di trasformazione sociale. In un luogo come Alicudi la scuola rappresenta lo Stato, le istituzioni». Teresa infatti, in un’isola dove non ci sono nemmeno i Carabinieri, diventa l’avamposto delle istituzioni, insieme con le altre due insegnanti «forestiere», che affrontano disagi incredibili, vengono dalla costa, da Milazzo, da paesi dell’interno, passano la settimana lavorativa ad Alicudi quando il mare permette di arrivare e il venerdì ritornano a casa dalle loro famiglie.

Lavagne interattive e computer arrivati a dorso d’asino

Ma la scuola di Alicudi, tra le sue mille difficoltà, è anche un esempio virtuoso di insegnamento nel panorama scolastico italiano: grazie alla lungimiranza di una dirigente, la stessa che a febbraio decise di ospitare una moschea nella scuola di Salina, e all’impegno della maestra Teresa. «Sono arrivata ad Alicudi per sbaglio 15 anni fa. Nel corso degli anni la scuola ha ottenuto un obiettivo grandissimo: far continuare a studiare i bambini in questa realtà dove non c’era una parola scritta, libri, giornali, nulla. Arrivando qui ho trovato un’unica classe in una stanza con soppalco, ragazzini che non sapevano leggere né scrivere. Ho raccolto la sfida di dare diritti minimi di cittadinanza a chi vive in situazioni così marginali». Negli anni, in collaborazione con l’istituto comprensivo, Teresa è riuscita a far acquistare una doppia casa eoliana con un terrazzo immenso che dà sul mare, oggi sede della scuola, a ottenere lavagne interattive, e prima di altre scuole in luoghi civilizzati qui sono arrivati i computer: era il 1997 e salivano lungo i sentieri con gli asini. Per Teresa, lavorare qui non è solo essere insegnante: «Questa è una realtà difficile in cui fare l’insegnante vuol dire anche essere psicologa, assistente sociale, unico riferimento per ragazzini il più delle volte abbandonati a loro stessi. Un lavoro molte volte fatto in solitudine, qualche volta con l’apporto di colleghi volenterosi. Chi arriva qui è alla sua ultima spiaggia, anche se qualcuna è rimasta un paio di anni, anche tre, prendendosi a cuore al situazione». E ora cosa accadrà a questa piccola scuola? Quest’anno i due bimbi di sei anni si trasferiranno e dunque non inizieranno le elementari, vi sono bambini molto piccoli figli di coppie romene che abitano sull’isola, ma ancora è presto per la scuola. L’idea della maestra Teresa e della dirigente è di continuare con i corsi di formazione per gli adulti e costruire nei locali scolastici un archivio della memoria.

di Roberta Scorranese

Dove abita la modernità? Nel caos di Wall Street, dove governa il lato oscuro della matematica, inconosciuto persino agli stessi adepti, oppure nel cosmos di Times Square, non distante dal centro finanziario newyorkese, dove periodicamente migliaia di persone si radunano in armonioso silenzio e praticano lo yoga davanti allo sfavillio di luci cittadine?

Forse in entrambi i luoghi. Forse i due lati dell'universo si completano e hanno ciascuno bisogno dell'altro. Come la radice stessa dello yoga, che non rifugge l'oscurità e il caos, anzi, ne è un dichiarato, intimo superamento. Così, proprio quell'America devastata da anni di disordine finanziario ospita la prima grande mostra occidentale sullo yoga, dal titolo-manifesto The art of transformation, curata da Debra Diamond. Ha appena lasciato lo Smithsonian di Washington e sta per arrivare (21 febbraio-25 maggio) all'Asian Art Museum di San Francisco.

Da dove parte? Ovviamente, dalle radici. Perché se è vero che circa 250 milioni di persone al mondo (20 solo negli Stati Uniti) praticano yoga, è anche vero che poche discipline rischiano di essere fraintese come questa antichissima pratica, dalle origini misteriose e dibattute. Ci sono le icone, innanzitutto, perché lo yoga è simbolo , segno, messaggio metafisico, come aveva intuito uno degli intellettuali che ha studiato questo mondo con più attenzione, Mircea Eliade.
Ci sono raffigurazioni ottocentesche, immagini ornate d'oro e dipinte su carta che rappresentano il chakra (semplificando, «il centro collettore dell'energia»); c'è una statua in bronzo che raffigura Vishnu (antica divinità maschile vedica); e ancora: preziosi manoscritti provenienti dall'India, incisioni che riproducono la divinità Shiva dalle cinque facce (dal Victoria &Albert Museum), dei Buddha in avorio, un numero non meglio precisato di dipinti, acquerelli, incisioni. Una mostra, insomma, che poggia sulle basi rigorose della ricerca, anche se, in fondo, conta su un interesse trasversale, fluviale.

ioga1

Soprattutto da parte di quel mondo che si è ritrovato improvvisamente impoverito, nello spirito e nelle tasche. La californiana Lauren Imparato, ex manager di Morgan Stanley, ha lasciato l'azienda per diventare maestra di Vinyasa Yoga; nel gigantesco complesso di Menlo Park (California), l'ideatore di Facebook, Mark Zuckerberg ha voluto allestire delle aree apposite dedicate alla meditazione e alla respirazione controllata.

Ecco, forse sta qui la necessità di una mostra come quella che si sta per aprire a San Francisco: un fermo ritorno alle origini dello yoga, perché non si confonda più questa disciplina con altre pratiche di meditazione o di rilassamento. Ma si cerchi la verità nel rigore, nello studio. Nel mettersi alla prova.
Il 7 luglio 2013 a Wimbledon c'era un sole da quelle parti inusuale. Nel pomeriggio Novak Djokovic avrebbe giocato la finale con Andy Murray - per la cronaca: vincerà Murray, per la gloria della regina, ma questa è un'altra storia -. Che cosa avrà fatto Djokovic la mattina della finale di un torneo del Grande Slam? Allenarsi, studiare l'avversario?

Probabilmente. Ma è certo che si è recato al tempio Buddhapadipa. C'è un bel giardino. Lì, tra le foglie, nel silenzio, ha passato un po' di tempo, un'ora o giù di lì. A fare cosa? Assolutamente niente. Se non stare fermo, occhi chiusi e portare l'attenzione sul respiro. La meditazione è una roba così. Vi sedete abbastanza comodi, non immaginate contorsioni yoga dolorosissime, chiudete gli occhi e aspettate che i pensieri vi passino per la testa. Non ci vuole molto, ne arrivano a sciami. E voi li osservate, notate che vi passano per la mente e li lasciate scivolare via, dicendovi «non ora». E riportate l'attenzione al semplice dato primordiale che state respirando.

Perché Djokovic, uno che per inciso di tornei dello Slam ne ha vinti sette, invece di dedicarsi completamente al tennis, in un giorno così importante passa del tempo ad accorgersi che respira?

E non è il solo. Ricky Martin, sì quello di Livin' la vida loca , bello da fare impazzire o morire di invidia, tutta una questione di punti di vista. Un successo senza limiti. Lo immaginate uno che la vida loca la vive veramente. Eppure anche Ricky Martin, tutti i giorni, medita. Sì, quella cosa del respiro.

Lo fanno anche The Edge, Oprah Winfrey, Kobe Bryant. E molti altri. Perché? Perché quest'arte del non fare niente, ma con dedizione assoluta, come dicono alcuni dei maestri che ho ascoltato, è arrivata sulla copertina di «Time»? Moda? Forse. Ma è una spiegazione insufficiente. Può essere si tratti di qualcosa che cambia la vita. Muove la mente. Modifica il funzionamento del cervello. In meglio. Entro certi limiti naturalmente.

Di che si tratta? Molti dei moderni meditanti occidentali ne praticano una forma - derivata dal tipo buddhista chiamato Vipassana - definita mindfulness. In italiano tendiamo a non tradurla, ma significa consapevolezza intenzionale , attenzione consapevole , pienezza mentale .

Avete mai pensato che suono fa un acino d'uva passa? No, non sapore, forma, consistenza. Quelle sono cose che più o meno pensate di sapere. Ma, il suono, quello non vi viene in mente. Un tipico esercizio di mindfulness è portare l'acino d'uva presso l'orecchio. Poi lo si sfrega dolcemente tra le dita. E si ascolta. Emette un suono tutto suo. Fatelo. Vi verranno parole per descriverlo, non le avreste immaginate mai.

Ma quelle parole si formeranno nella vostra mente solo se staccate l'attenzione via da tutto il resto. E vi rendete conto che in quel momento esistete voi, l'acino e i vostri polpastrelli che gentili lo sfregano.

La mindfulness è l'esercizio del momento presente, del qui e ora. Seduti comodi. Chiudete gli occhi. Respirate. L'aria entra nel naso, attraversa la trachea, riempie i polmoni, il diaframma si solleva e si abbassa. È il vostro corpo vivo, attivo, funzionante. In quel momento lo sentite.

Ma la mente non dà scampo. Arriva l'angoscia, la litigata col coniuge, una multa da pagare, controllare l'email, la riunione che vorremmo evitare, controllare ancora l'email, Facebook, Twitter, Facebook, non valgo niente, non mi amano. Rabbia, rancore, angoscia, lo stomaco si stringe, il cuore batte più forte.

Mentre voi siete lì seduti, a badare al respiro, di pensieri come questi ne arrivano a frotte, stormi agguerriti di caccia. Ma voi non vi muovete. Lasciate scorrere il pensiero, senza combatterlo. Vi dite: «Penso all'abbandono. C'è dell'ansia dentro di me». La osservate allontanarsi finché ne resta l'eco. E tornate a concentrarvi sul respiro.

Tutto qui? Quasi. Più altri esercizi. La meditazione camminata: badate al piede che si solleva, al tallone che poggia a terra, alla pianta che morbida tocca il pavimento. Immaginate di essere avvolti da una nube di gentilezza. Già a nominarla fa sentir bene. Che senso ha? Che effetto fa? Ci vuole pratica, esercizio, allenamento. A un certo punto fate scoperte.

La principale è che i pensieri non sono oggetti; descrivono la realtà, ma fino a un certo punto. Che il timore che vi attanagliava fino a un minuto fa, ora non è più nella vostra mente. Al suo posto l'ombra di un olmo in un giorno in cui passeggiavate in campagna d'estate. E un attimo dopo anche quel ricordo è andato via. I pensieri li prendete sul serio. Ci credete, possono avvelenarvi l'esistenza. La mindfulness mai li combatte. Li accompagna gentilmente verso le periferie della coscienza, toglie loro le luci della ribalta, li fa scivolare via.

L'impazienza del lettore ora si affaccia. E una volta che abbiamo privato i pensieri della luce per cui si dibattevano come trote in un lago di pesca artificiale, che succede di così buono? Molte cose a quanto pare. La mindfulness, soprattutto nella forma iniziata da Jon Kabat-Zinn, si è mostrata efficace nel ridurre ansia, stress, dolore cronico, nel prevenire le ricadute della depressione, migliorare la risposta immunitaria e via dicendo. Le applicazioni cliniche sono in aumento. E fa davvero effetto sul cervello.

Un esempio: Véronique Taylor, del Centre de Recherche en Neuropsychologie et Cognition di Montréal, ha pubblicato una ricerca su «Social Cognitive and Affective Neuroscience» che mostrava come nei meditatori esperti rispetto ai novizi si disattivassero quelle aree cerebrali (per amor di rigore: il Default Mode Network) che portano il cervello a riposo a focalizzarsi automaticamente su di sé. Se iper-attivate non ci si stacca mai dal proprio ombelico. Grazie alla mindfulness, la mente si allena a smorzarne l'azione e di conseguenza riprende a guardare il mondo. A vederlo davvero.

Studi simili di neuro-immagini mostrano come la pratica mindfulness aiuti a calmare le emozioni negative e migliori l'empatia. Una moda? Forse. Una panacea? No. Molti non ne saranno incuriositi o, semplicemente, non ne beneficerebbero se la praticassero. È un sostituto della psicoterapia? Non lo è. È un'alternativa. Un complemento. Una sua declinazione. Ma, di solito, quelli che la praticano provano gratitudine.

Ero con il mio amico Edoardo. I piedi immersi nell'acqua del torrente che delimita il suo casale nelle campagne della Sabina. Lui medita da decenni. In quei giorni era affannato dalla ristrutturazione. Muratori, piastrelle, il tagliaerba si era rotto, i costi lievitavano. Ci ha meditato su. L'acqua scorreva vivace, portandosi foglie che sembravano animate. Rami di nocciolo sporgevano dalle rive. Edoardo mi dice: «Ho capito. Io di questa casa non sono il proprietario. Sono il custode. Ora la vivo con più serenità».

Guardo il sole che filtra tra una vegetazione che era lì milioni di anni prima di noi e sarà lì molto dopo che noi non ci saremo più. Ha ragione. Respiro. Sento l'acqua che scorre sulle caviglie. È fresca.

airpanarea.jpg