stamarodi Susanna Tamaro

Provo un po' di imbarazzo a tornare a parlare di un argomento già molte volte affrontato, e che sembra sempre cadere in un vuoto di azioni. Un argomento, tra l'altro, che dovrebbe rientrare nel normale e banalissimo buonsenso: il cibo non si butta via, perché è frutto del lavoro dell'uomo e dello sforzo generoso della terra.
Sprecare ciò che ci mantiene in vita - e che milioni di persone non hanno - è qualcosa di molto vicino a un atto sacrilego. Alla mia generazione non veniva permesso di buttare via nulla, neppure una briciola di pane; l'esperienza della guerra era troppo vicina, la terra era ancora terra, e i prodotti erano solo quelli primari e necessari. Ma poi, in tempi rapidissimi, tutto è cambiato, e il rapporto con il cibo è stato travolto da una frenesia di consumo e di offerta che ci spinge a nutrirci con la tristezza degli animali in cattività.
Non c'è gioia, non c'è convivialità, non c'è piacere nelle esigenze alimentari indotte dalla società dei consumi, ma soltanto un anonimo riempirsi, sulle cui ragioni dovremmo prima o poi interrogarci. Il cibo ha perso ogni valenza etica, ogni memoria di sacralità. Un nutrimento «senza anima» che proviene da un vuoto immaginativo - ignoriamo infatti come venga prodotta la maggior parte dei cibi che afferriamo dai banconi del supermercato - e che, per questa ragione, spesso finisce nel vuoto distruttivo dello spreco.

«Puzza di sporco». Ora, per fortuna - come si vede dai risultati del sondaggio dell'Osservatorio nazionale dello spreco domestico - la sensibilità delle persone sta cominciando a cambiare. Ma perché questo cambiamento diventi concreto, ha bisogno di azioni precise. Soprattutto sui bambini che sono, per natura, particolarmente sensibili alla natura e alle ingiustizie. Da venticinque anni produco una buona parte della verdura e della frutta che mangio, e proprio per questo sono convinta che, in ogni scuola che ha a disposizione un lembo di terra, sarebbe estremamente importante poter creare dei piccoli orti curati
direttamente dai bambini. In una scuola di Orvieto le insegnanti hanno già cominciato a farlo, e dopo la perplessità e i timori iniziali - «puzza di sporco, non so cosa fare» - i bambini sono stati presi dalla febbre dell'orticultura. E che soddisfazione la prima volta che hanno potuto mangiare il primo finocchio e la prima carota prodotti da loro.

Ecco, spesso le grandi rivoluzioni richiedono gesti semplici e mirati.
Se si sa quanto lavoro ci vuole per fare un pomodoro, un cespo di insalata o una verza, forse la prossima volta non la si getterà più nel cassonetto come fosse una cartaccia. Educare con le parole, ma senza esempi, è come lanciare polvere nel vento. Ai bambini bisogna dedicare tempo e attenzione. Il tempo trascorso insieme e l'attenzione mirata sono gli unici semi capaci di germogliare, trasformando la coscienza delle persone. Ci vuole per prima cosa la buona volontà dei singoli - che in moltissimi casi già c'è, perché nelle primarie abbiamo insegnanti bravissimi - ma ci vuole anche l'immediata e concreta disponibilità
delle istituzioni.

Se ogni Comune fa da sé. L'edilizia scolastica certo è importantissima, ma è anche, e forse più importante, ciò che all'interno di quelle pareti succede, o non succede. Per anni, ho insegnato alle bambine che vivono con me a dividere i rifiuti seguendo le leggi del riciclo. Ormai sanno quanto ci vuole per smaltire una bottiglia di plastica, una cicca di sigaretta, una lattina di
alluminio e un foglio di polistirolo. «Pensate, tra cinquecento anni, i vostri eredi troveranno questa bottiglia...». Perplesse come Amleto, stavamo per ore con il tetrapak in mano, chiedendoci: «Ma questo dove andrà? Carta, plastica, o generico?». Già perché, follia tutta italiana, ogni comune italiano, anche il più piccolo, smaltisce secondo regole tutte sue; regole che il più delle volte non si premura di far sapere ai suoi abitanti.

«Ma perché allora abbiamo fatto tanta fatica?». Non ho saputo cosa rispondere.

Immaginatevi la nostra delusione quando, passando in macchina vicino alle zone di raccolta, abbiamo visto arrivare il camion, sollevare le campane e mescolare allegramente nel suo interno quella carta, quel vetro, quelle lattine e quelle plastiche che, con tanta fatica e tanta attenzione, avevamo per mesi separato. Dopo un lungo silenzio, le bambine, perplesse, mi hanno guardato. «Ma perché allora abbiamo fatto tanta fatica?».
Non ho saputo cosa rispondere .

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