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di Massimo Ristuccia

IL SECOLO XX 1924 LO STROMBOLI NELLE RECENTI ERUZIONI VULCANICHE

di Filippo EREDIA

Ai naviganti che traversano il tratto Napoli – Messina appare Stromboli, la più celebre isola del gruppo delle Eolie, a guisa di una montagna quasi regolarmente conica, emergente dalle azzurre acque tirreniche. Sin dalla più remota antichità, avvampa in essa un vulcano la cui attività mai è cessata; e spesso, con calma atmosferica, si distingue, sull’unico cono vulcanico, un bianco pennacchio che maestosamente sovrasta l’isola. Di notte, non è raro notare il riflesso rossastro del suo fuoco interno, che a guisa di un faro naturale rischiara l’ampio orizzonte che ad esso si affaccia.

Nelle epoche di maggiore attività, quando cioè la lava pastosa ribollente entro il cratere, si gonfia in capaci bolle che poco dopo si rompono, dando luogo a detonazioni, il vulcano brilla di una luce purpurea, che ad ogni gettito di pietre diviene più accesa e scintille  e guizzi luminosi appaiono nel polverizzamento delle pietre che si urtano e si frantumano.

Quando il magma è abbondante, la lava spumeggia, diviene pomicea e viene lanciata a grande distanza in brandelli che cadendo sul mare vi galleggiano.

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L’isola ha la superficie di Kmq. 12,6 e sui rari lievi pendii si adagiano bianche casette contornate da rigogliosi vigneti frammisti a macchie di Fichi d’India, dai tronchi succolenti, e di sempre verdi olivi, I 2200 abitanti dell’isola sono riuniti in due villaggi posti in vicinanza della spiaggia. Il principale, chiamato San Vincenzo, è a N-E e poco distante da esso, trovasi un gruppo di casette che formano la borgata S. Bartolomeo. A S-W vi è l’altro villaggio, detto Ginostra, che dista dal cratere attivo  m. 2000 mentre il primo ne dista m. 22250; ma né dall’uno, né dall’altro, si distinguono le bocche eruttive. Il cratere è visibile in parte dal Semaforo, posto a circa m. 100 sul livello del mare e a soli m. 1700 dal teatro eruttivo.

Veduti dall’alto i villaggi, con la snella chiesetta, dolcemente si staccano sul verde tappeto e il delicato profumo delle piante erbacee e dei fiori, quali gemme di svariate tinte, è frammisto ai dolci accidenti delle acque salate che sospinte da Eolo si infrangono sui neri scogli, sulle rupi angolose e sulle scogliere pittoresche formate dalle lave.

La cima del vulcano è formata da due creste quasi semicircolari, ma non del tutto concentriche, di cui la più meridionale, detta Serra di Vancora, è la più alta (m. 925) ed è separata dall’altra, più settentrionale, per mezzo di una valle profonda oltre 100 m. Da tempo immemorabile il cratere terminale e centrale dello Stromboli è spento, e quello attivo è un cratere laterale o eccentrico che si apre a N-W della seconda cresta a oltre m. 200 sotto di essa. Ed è limitato a E e a W da due robuste masse, costituite da conglomerato vulcanico, e dette faraglioni o torrioni rispettivamente di levante e di ponente. Sotto e sopra dell’apparato eruttivo, esiste un pendio molto ripido e a partire dai crateri in giù, prende il nome di Sciara del Fuoco, ed è limitata a E e a W da due altre pareti a picco formate di potenti banchi di lava, attraversati in più posti da dischi ora massicci, ora vuoti. Esse vanno divergendo verso il mare e prendono il nome quella a W:  Filo di Baraonda e quella a E: Filo del Zolfo.

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La lava allorchè trabocca dai crateri sulla Sciara, difficilmente può formare correnti continue, e ciò non solo per la poca viscosità, per la lentezza del deflusso e per la ripidità  del pendio, ma anche, e specialmente, per la mobilità del materiale incoerente sottostante.

Solo quando la lava è abbandonante e fluisce rapidamente, si arriva a consolidare in correnti continue discendenti dai crateri al mare, come avvenne nel 1918.

Sebbene molte correnti di lava, che scendono dall’alto, sugli altri fianchi dell’isola, appaiono fresche e indecomposte, si ritiene generalmente che esse siano tutte preistoriche, e che l’apparato eruttivo attuale, da tempo immemorabile sai stato la sola sede di manifestazioni eruttive dello Stromboli.

Le bocche del cratere attivo dello Stromboli cambiano facilmente di posizione e di numero, ma da qualche tempo se ne distinguono quattro, indicate nella prima figura 2 con le prime quattro e denominate rispettivamente: A) cratere della sciara del fuoco, B e D) crateri del filo di zolfo, C) cratere del Torrione, nel giugno 1921 il Malladra notò la persistenza di dette bocche che si aprivano sul fondo di una vasta conca che egli stimò profonda un’ottantina di metri sotto l’orlo  della sciara, di forma ovale, con asse maggiore fra i due Faraglioni di levante e di ponente. Le tre bocche erano allineate presso a poco secondo questo asse.

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Suggestive sono le emissioni che come fontane di fuoco si disegnano sull’orlo del cratere; sono scorie luminose frammiste a nuvolette bianche rosate che contornano le vivide fiamme e uno stridore sibilante, susseguito dal fruscio e dai tonfi delle scorie cadenti, chiude il meraviglioso quadro. Esso si ripete ad intervalli e tra una emissione e la successiva, rumori interni, come boati e rombi talora tamburellanti, accompagnano i conati di vomito che agitano l’interno del cratere.

Lo Stromboli, al contrario di quanto avviene in altri vulcani, presenta lunghi periodi di attività varia, ma per lo più moderata, interrotti da intervalli di riposo relativamente brevi. Dalla storia delle variazioni di attività e di forma dell’apparato eruttivo, esaminate da Gaetano Platania si rileva che nella gola del vulcano ribolle continuamente, o quasi, la lava, ora affiorante alla superficie e traboccante da fratture e dagli orli dei crateri, ora  coperta da un mantello più o meno potente di scorie, ora invece rimanendo a una certa profondità entro la gola.

Allorchè la lava è molto fluida, ma povera di acqua, e così abbondante da affiorare alla superficie, si hanno eruzioni nettamente stromboliane, e spesso colate di lava traboccanti quietamente; se invece l’afflusso è scarso e la lava si mantiene in basso nella gola, si ha una fase di calma relativa, tendente alla fase solfatariana.

Allorchè lil magma è molto ricco di vapore e la quantità è grande in modo da venire fino agli orli, si hanno violente esplosioni stromboliane, addirittura di tipo pliniano. Se invece tale lava si mantiene in basso nella gola, le sue violenti esplosioni sconquassano l’apparato eruttivo soprastante e i vapori trascinano via i vecchi materiali che ne ostacolano lo sfogo provocando frane e scoscendimenti, e si hanno eruzioni vulcaniche.

Questi 4 tipi di attività si avvicendano, o si frammischiano fra loro, a seconda della quantità maggiore o minore di lava, e della ricchezza di vapore acqueo, il quale ultimo però allo Stromboli è molto abbondante. Le variazioni di forma nell’apparato eruttivo dipendono appunto dal succedersi delle diverse fasi di attività.

Molte eruzioni in passato si verificarono allo Stromboli con intensità varia e quantunque non sia possibile fare la storia completa del vulcano, si hanno notizie sufficienti per i parossismi più importanti.

Così nel marzo 1744 lo Stromboli eruttò tanta quantità di scorie che formarono un secco in mare presso la Sciara del Fuoco.

Nell’ottobre 1882 lo Stromboli si mise in forte attività nella quale persistè 14 mesi. Nell’ottobre 1855 lanciò scorie su tutta l’isola. Nel giugno 1874 lo Stromboli lanciò pietre fino all’abitato; e fiamme straordinarie si elevarono dal cratere.

Dal 1879 al 1888 lo Stromboli, interruppe 14 volte la sua solita e moderata attività con parosismi più o meno violenti. Questa singolare attività del vulcano, fu fedelmente tramandata dal personale del locale semaforo, mentre in precedenza nessuno si curava di tenere nota. Nell’ottobre 1888 l’eruzione si iniziò con una violenta esplosione accompagnata da terremoto avvertito in tutta l’isola. La lava in massa sgorgava lentamente all’esterno da una piccola bocca laterale aperta sul fianco del conetto rivolto a mare.

Nel giugno 1891, si ebbero due violentissime eruzioni di tipo esplosivo; diedero delle pomicette galleggianti sul mare e dopo cominciò a sgorgare la lava in corrente.

Nel luglio 1896 e 1897 forti esplosioni; altre esplosioni negli anni successivi; e nel 1907 una grandisosa eruzione che fu minutamente studiata da Gaetano Platania.

Nel giugno 1915 si ebbe un’intensa eruzione di lava in colata che si protrasse per alcuni giorni, apportando non pochi danni e di essa si occupò il compianto Annibale Riccò.

Nel febbraio 1919 si iniziò un periodo di attività straordinaria che culminò la sera del 22 maggio alle 17.45 con una esplosione di violenza eccezionale per quel vulcano. Accompagnata da un vorticoso movimento aereo e da un risucchio delle acque del mare per circa 200 metri, ebbe luogo una violentissima eruzione con detonazioni senza precedenti per intensità ed emissione di enormi colonne di fumo nero a grosse volute, che invase in breve tutta l’isola.

Contemporaneamente si ebbe abbondantissima eruzione di gran quantità di blocchi lavici di eccezionali dimensioni, varianti fra le 30 e 60 tonnellate, lanciati, come descrisse il signor Curulli capo semaforista, a considerevole altezza. Altra eruzione susseguente di grosso materiale igneo, scorie, pietre, grosso lapillo, provocava incendi alle falde del monte in parecchi punti, mentre quella dei grossi blocchi incandescenti cagionava la distruzione di parecchie case.

Per effetto poi della detonazione violentissima la totalità delle abitazioni del paese, ebbe tutti gli infissi e le porte scardinate e con violenza sbattute lontano, e rotte a scheggie; tutti i vetri delle finestre rotti. Seguì quasi contemporaneamente una invasione delle acque del mare che sommersero per due minuti la spiaggia tutt’intorno capovolgendo e trascinando tutte le barche per circa 300 metri fino ai vigneti adiacenti.

Il rombo dell’esplosione fu udito anche a Marechiaro, presso Napoli; e da uno interessante studio compiuto dal vulcanologo Gaetano Platania, risulta che il rombo fu percepito fino alla distanza massima di 240 km. a N-NW.

I barografi di Messina, Mileto, Ischia e Stromboli, registrarono l’onda esplosiva aerea. Il maremoto è molto probabile che sia stato prodotto dalla pressione dell’aria sulla superficie del mare, anziché da scossa di terremoto propriamente detta, o, se avvenne questa, dovette essere di piccola intensità. Le onde di maremoto si propagarono, con velocità variabile a seconda della diversa batimetria del bacino, come onde progressive che suscitarono oscillazioni stazionarie di risonanza.

Ad Ischia non fu avvertita niuna impressione acustica  e mentre nulla si notò di eccezionale sul mareogramma, si ebbe invece sugli apparati sismici una perturbazione il cui inizio avvenne 12 minuti dopo avvenuta l’esplosione dello Stromboli. Come ebbe a provare Gaetano Platania, essa fu provocata dall’urto dell’onda aerea; e i 12 minuti di differenza indicano il tempo necessario perché le onde acustiche percorrano con la velocità 342 m/8 la distanza Stromboli – Ischia.

Nel giugno 1921 si ebbero fortissime esplosioni simili allo sparo simultaneo di molti cannoni di grosso calibro, precedute da un profondo e prolungato boato. Come osservò il Malladra, queste due detonazioni furono accompagnate da lancio di enormi ed imponenti quantità di materiali incandescenti strappati al condotto vulcanico e furono proiettati a 600 e più metri sopra il cratere, mentre nembi di fumo in grande colonne erano vomitate dalle diverse bocche del cratere. Copiosa corrente di lava eruppe dalla parte elevata della Sciara, ne percorse tutto il pendio e giunse fino al mare. Quanto alla distribuzione e frequenza dei parossismi nell’anno, sembra che esista un massimo sensibile nell’estate; e più della metà dei parossismi notati del 1881 al 1907 si verificarono, secondo Annibale Riccò, in condizione da indicare possibile una azione luni-solare.

Lo Stromboli non ha mostrato né coincidenza, né antagonismo coll’attività i vulcano, dell’Etna e del Vesuvio; e nessuna relazione si è constata fra l’attività dello Stromboli e i terremoti calabro-siculi.

Nel marzo scorso, 1924, una nuova fase di attività si verificò a Stromboli e il Capo Semaforista, signor Spina, comunicò al R. Ufficio Centrale di Meteorologia e Geofisica le varie manifestazioni vulcaniche.

Dal I a tutto il 27 marzo rare esplosioni dai crateri del Torrione e Sciara del fuoco, con proiezione di scorie e pietre ed emissioni di fumo bianco senza bagliori. Rumori mediocri dall’11 al 14 e dal 20 al 24, il 25 pochi un po’ forti e negli altri giorni deboli.

Nei giorni successivi l’attività aumentò e il giorno 28 al 3h 34m si ebbe una fortissima esplosione dal cratere della Sciara del Fuoco, con eruzione di abbondante materiale igneo, e di blocchi di pietre che caddero per la campagna, un po’ più su del paese, ed a mare dalla parte della Sciara. Abbondantissima pioggia di cenere, lapillo e sabbia fino alle ore 7 circa, invase l’abitato e inoltre emissione di lava che scorrendo lungo la Sciara del Fuoco, con eruzione di abbondante materiale igneo, e di blocchi di pietre che caddero per la campagna, un po’ più su del paese, ed a mare, innalzò dense nubi di vapore che misto alle enormi colonne di denso fumo oscuro a grosse volute emesso dai crateri, avvolse quasi tutta l’isola diradandosi gradatamente nel pomeriggio. Fino alla sera del 31 la lava ancora scese lentamente.

Durante il resto del 28 e il 29 e 30 rare esplosioni senza rumori con lunghe fiammate visibili di notte.

Il 31 due esplosioni un po’ forti sentite anche in paese, una alla 15h 40m e l’altra alle 16h 30m, con emissione di pietre e scorie. Bagliori vivissimi dopo lo scoppio che durarono fino a giorno. Dal 28 al 31 vivi bagliori notturni, pennacchi di fumo denso oscuro di mattina che si fece tenue nel pomeriggio.

Dalla parte della Sciara la lava scese fino al mare, il 28 un po’ rapida e poi più lentamente fino al 31 e si fermò a circa metà delle discesa. Pietre e scorie caddero abbondanti a mare dalla parte della Sciara, mentre dalla parte opposta caddero massi incandescenti in diversi punti, però fuori dell’abitato. Alcuni si frantumarono nella caduta, altri produssero delle enormi fosse, una delle quali, misura circa 60 m°.

Queste notizie furono comunicate ai giornali politici la mattina del I aprile e molti le annoverarono fra i soliti scherzi che sogliono farsi in tale data.

Nelle Americhe l’interessamento per la nuova attività dello Stromboli fu grande e molte discussioni, fecero eco, sulla veridicità delle notizie giunte al riguardo. E accolta con interesse la cinematografia e la proiezione di belle fotografie che il signor Alberto Romagnoli ritrasse il giorno 5 aprile, essendosi recato sul posto con i mezzi più rapidi..

Lo Stromboli, attiva fucina delle manifestazioni vulcaniche, è ora rientrato nella sua normale attività e continuerà a segnalare ai naviganti i grandiosi effetti di quelle forze endogene, che ancora ci appaiono come un mistero nelle continuate convulsioni della terra abitata.

di FILIPPO EREDIA LO STROMBOLI.JPG

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Due immagini dei riti pasquali a lipari del 1974

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L'isola della Pomice, Colutta Flavio 1954.
Volevo vistare le cave di pomice di Canneto, attendevo che un gruppo di amici mi presentasse al dirigente di una miniera. Stavo seduto in un caffè guardando il via vai della folla lungo il “corso”, una strada civile, familiare, e dignitosa, di bottegucce e di basse case dai muri grigiastri. Lipari mi riusciva molto piacevole.

Appena fuori dall’albergo, la capitale delle Isole Eolie sotto il turchino del cielo mi aveva mostrato un’aria, come dire guerriera, con quel suo castello corrucciato e qualche altro resto di muraglia e di bastioni. La città vecchia è tutto un intrinseco di strette calli quasi sempre deserte, dalle porte aperte esce un violento odore di soffritto. Nella parte alta c’è, al sommo una larga e lunga scalea, dominante la pianata dei tetti, la cattedrale, attorno ad essa vi sono altre chiese con basse cupole al di là dei cornicioni.

Vista singolare è quella della rada, con la costa alta e scoscesa; il colore del mare, ordinariamente irrequieto, è di un azzurro profondo. Dall’altra parte la vista si spalanca sopra una conca d’un verde prepotente dappertutto. Vi sono orti e campi e una miriade di piccole case tipicamente liparote, cioè di un bellissimo bianco africano tra siepi di di fichidindia, al sole. I colori sono splendenti. Mai visti al mondo colori più netti e accesi. Il sole rimbalzante della Sicilia accalorava la terra.

La città termina con le case dei pescatori, distese bianche lungo la spiaggia sassosa ventilata dal mare che risale fino al porto dei velieri. Si godeva del sole che riscaldava il volto e non si pensava a nulla. Il sole e l’aria, cioè la salute, riuscivano a spegnere il desiderio di ritornare a casa propria.

L’attesa di vedere l’”inferno bianco” era troppo vampante; combinato il viaggio per il giorno seguente, alle prime ore del mattino si accorse a Canneto. La strada è buona la corsa in macchina giovò anche per godere della vista di Lipari sottoposta, velata di una tenue nebbia. L’automobile si fermò sulla spiaggia di Canneto, all’altezza di una grossa barca già carica di persone. I miei compagni apparivano silenziosi, stavano immobili e composti, quasi immalinconiti, coi visi pervasi da una profonda umiltà. Vestivano poveramente. Una giovane donna mi sorrise. Certamente costoro erano ospiti addetti alle cave di pomice. Ma nessuno mi disse niente. Mi lusingai di farmeli amici e offersi sigarette in giro. Si animarono e subito uno di essi, giovane e spiccio di modi, mi chiese se ero diretto alle miniere, e perché ci andavo. Ritorsi la domanda, poi lo pregai di parlarmi della loro vita.

Alle mie spalle allora si fece vivo un altro, dal fare modesto, e con tranquillità disse (gli altri erano tutti attenti): “La nostra vita è organizzata intorno alla pomice, la pomice per noi rappresenta l’unica salvezza, mentre la nostra speranza è di poterci rendere un giorno indipendenti, cosa tutt’altro che facile, siamo poverissimi, dovremmo prendere a prestito le somme necessarie, e gli interessi che pretendono”.

Le paghe (condenso il discorso), sono misere, specie se messe in rapporto al costo della vita. Nelle cave dell’”inferno bianco” il salario giornaliero – otto sante ore di lavoro – dell’operaio al disopra dei ventun anni è di lire 150, che per la donna scendono a 600 lire. L’unica gioia è la donna. Questi uomini non conoscono altra voluttà. Ignoti sono i piaceri mondani. I piaceri intellettuali sono resi impossibili dalla ignoranza e dalla miseria.

Il lavoro: è un lavoro durissimo. Pregai quell’operaio di parlarmene, mi rispose prontamente, mi parlò per tutto il resto del viaggio. La lotta con la pomice è una delle più difficili e pericolose e si svolge nel caldo soffocante delle miniere, nelle sorde viscere della montagna, o all’aperto sui bianchi abissi. Il fiato si fa grosso, la polvere acceca, penetra dappertutto. Le forze che bisogna dominare sono molteplici, la silicosi duramente prova anche i fisici più robusti, gli incidenti sono frequenti.

Intanto, doppiata una punta, il Monte Pelato era davanti a noi, con le sue pendici coperte di pomice, candide come campi di neve, a picco sul mare blu di chiesa, traforate dalle mille orbite delle gallerie che penetrano nelle viscere del monte. Di giorno ha una certa spettacolosità lunare, un aspetto impressionante il cui ricordo indugia a lungo nella memoria. Presto fummo sottovento e toccammo la riva dell’isola, di fronte a uno dei tanti stabilimenti.

Scesi sulla breve spiaggia rivestita di polvere di pomice. Frattanto imparavo che dalla miniera la pomice, dopo una prima selezione, viene avviata ai “silos” e da questi alle frantumazioni, alle cernite, ai forni, infine alle macchine, le quali attraverso tutta una serie di complicate operazioni ne cavano una grande varietà di prodotti industriali.

La meccanizzazione è però ancora allo stato primitivo. Per quanto possa parere strano, non si può dire che qua gli industriali abbiano messo a frutto gli splendidi risultati che sono stati raggiunti pel potenziamento delle ricchezze del nostro sottosuolo. D’altra parte ( non dobbiamo abbandonarci ad esagerate generalizzazioni in un sol senso, è anzi doveroso esaminare a fondo ogni aspetto della questione) le possibilità commerciali - riporto le parole di uno dei maggiori produttori di Lipari – sono assai diminuite. Per quanto la pomice interessi un campo d’impiego molto più vasto che per il passato, capace di assorbire varie centinaia di migliaia di tonnellate all’anno (coi detriti, che un tempo si buttavano, oggi si producono elementi per l’edilizia che nulla hanno da invidiare al materiale di cotto), e nonostante che non esistono altre fonti di produzione di pomice, per cui in linea teorica i giacimenti di Lipari potrebbero largamente rifornire l’economia mondiale, allo stato attuale il consumo è ancora inferiore a quello d’anteguerra.

Comporta questa asserzione l’esame delle vendite sui mercati esteri ammontò a 105.667.866 di lire, passate nel 49-50 a 142.114.095 e nel 50-51 a 197.630.908, pari a un totale 519.730 quintali di minerale. All’interno si sono avuti, rispettivamente, i risultati seguenti: 102.000.000 di lire, 191.000.000 e 220.500.000, pari a un totale di 1.083.880 quintali di minerale.

Stando ai si dice, il problema offre due aspetti: quello propriamente industriale e quello della mano d’opera. Che cosa si rimprovera agli industriali? L’insufficienza degli impianti, elettrificando la zona pomicifera e impiegando su più vasta scala la forza motrice, di cui l’isola attualmente difetta. Qui si riflette anche la voce dei medici che, così come sono costretti a lavorare gli operali, vedono nell’ambiente saturo di pomice la causa della silicosi, di cui paventano la diffusione, la gravità la complessità.

La ricchezza nascosta è senza dubbio un tesoro per l’economia di lipari e anche della nazione, eppure se da una parte i minatori non sono assistiti sufficientemente, sia dal punto di vista igenico-sanitario che da quello tecnico, è degno di nota anche quanto si dice dagli industriali, i quali, dopo in rilievo che non vi è possibilità di dubbio sulla opportunità di sviluppare il patrimonio produttivo dell’”inferno bianco”, propongono che lo Stato venga loro incontro con sussidi e facilitazioni, facendosi l’ispiratore dell’iniziativa e del rischio.

E’ questo il problema più dibattuto. I dirigenti di aziende private sottolineano che lo intervento dello Stato consentirebbe la trasformazione in attrezzatura elettrica di tutta la attrezzatura esistente. Ma, nonostante le forti pressioni dell’opinione pubblica, i sussidi statali si fanno sospirare; con la conseguenza che, almeno per il momento, gli operai, la cui esistenza in definitiva dipende dalle aziende pomicifere, ancora considerano l’arrosto di manzo un piatto prelibatissimo.

Dopo questi preliminari sociali e economici, prendemmo a percorrere i sentieri per capre che risalgono la montagna, oltrepassando le installazioni meccaniche e issandoci fino a una bianca terrazza a picco sul mare, e che sembrava ammantata di nevischio. Era con tetra disperazione che un gruppo di giovani donne col capo celato entro fazzolettoni a vivaci colori rapidissimamente badavano – povere spigolatrici della pomice – alla cernita del minerale, separando la pomice dall’ossidiana. Misteriosi carrelli, sospinti dalle gallerie, rotolavano sui binari, rovesciando presso il gruppo delle donne il loro carico.

Visitammo anche gallerie traversate di corsa dai carrelli. Girammo nella notte buia dei sotterranei. Massicce travi sostengono le volte. Sono migliaia di gallerie a rompere nella montagna bianca questo lavoro quotidiano. Una sull’altra, per molti versi, le gallerie forano le viscere del monte, raggiungono e collegano le falde aggredite dal piccone. E sopra quel mare di materiale bianco, ondoso e lattescente, si levano i più alti gradini del monte. Sulle candide pareti i diavoli seminudi, rubano per così dire il materiale utile, e nel biancore che preme la montagna da tutte le parti, le loro forme si distinguono appena.

L’uomo lavora con specie d’impeto misurato, che fa venire in mente il lavoro della talpa. In molti punti hanno quasi raggiunto la sommità della montagna.

Il lontano rumore prodotto dai picconi e della corsa veloce dei detriti accompagna chi sale per l’erta dove l’ammasso della pomice i passi dei minatori hanno formato un arditissimo sentiero. Si cammina su un elemento malsicuro, si ha l’impressione di masse disgregate imponenti. E’ già un lavoro salire quel sentiero di dove si scorge di sotto la distesa del mare, in alto le grotte delle cave in un panorama dantesco. I primi scivoloni mi insegnarono presto a procedere con occhio verso il basso; imparai a stare in equilibrio.

A guardare verso lo strapiombo era la vertigine.

Era mattino fatto ormai. Vedevo uscire la “cariche” di pomice appena cavata dai budelli delle gallerie. Gli operai si aggrappavano ai carrelli badando a regolarne la corsa mano a mano che avanzavano. Lo scenario cavò una riflessione a uno che era con me:

“Ottimi operai”, disse, “nessuno meglio del minatore sa e ricorda che il lavoro costa caro. Costa caro a lui in fatiche e sudori, costa caro agli industriali in cure e denaro”.

Lassù, nelle cave, ho veduto quegli uomini e quelle donne attendere al mestiere al mestiere loro, gente che capisce e apprezza i disegni dei dirigenti nello scegliere le vie più acconce per sottrarre il materiale alla montagna, compitamente, senza inutili sprechi. Tanti ne ho veduti, e sempre sui loro volti ho scorto una gravità dignitosa. Come di gente condannata a una sempiterna condizione di uomini lasciati soli, osteggiati da un destino crudele in un troppo piccolo mondo; mondo che per divenire allegro abbisognerebbe della patria, di aiuti generosi. Ho visto le giacche “buone” dei cavatori, povere vecchie giacche stinte e consunte, vere spoglie della fatica e del tempo. Ho veduto il loro pane e il companatico. Li ho veduti, a sera, dopo una giornata sotto un sole ribollente, in bilico sugli abissi o gobbi e chini sui carrelli, pieni di pomice, gli occhi brucianti, disfatti dalla fatica, far ritorno alle loro case. Ho veduto le case di quegli uomini, spesso diroccate, sempre poco accoglienti, non sempre in grado di offrire loro nemmeno lo stretto necessario.

E intorno, intorno ho veduto un paesaggio irreale, di sorprendente bellezza. L’unico tesoro, è stato scritto, di cui la gente delle Eolie può godere.

Scendevamo il sentiero, la barca che ci avrebbe riportati a Lipari ci attendeva, non si stava a osservare troppo e il mare, un mare stupendo che si distendeva lontano color blu carico, lo si guardava con odio per la pena che quel piccolo mondo ci aveva messo indosso.

Flavio Colutta

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Festa degli alberi lipari 17.03.1962

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Grazie ad Angelo Sidoti, un libricino e delle foto originali di Giuseppe Curreli e famiglia, alcune a Canneto.

Giuseppe Rag. Curreli, direttore, rappresentante della ditta J.H. Rhodes e C. – Escavazione, Industria, Commercio Pietra Pomice, con ufficio in Canneto Lipari e abitazione in Canneto Lipari e Messina.

Dal libricino di cui immagine: VITA ED IMPRESA è un gioco da combattente e gli ostacoli e gli handicap sono ad ogni angolo della strada per mettere alla prova il nostro coraggio. Se così non fosse, le cose verrebbero troppo facili e diventeremmo tutti derelitti umani. Ci sono due modi per affrontare gli ostacoli e gli handicap. Un modo è combattere il demone fino alla fine, e l'altro è battere una frettolosa e disonorevole ritirata.

Fare del bene è meglio che trovare una scusa; e devi avere le cose per sopportare la raffica.

JAMES W. ELLIOTT EFFETTO DELLA GUERRA ITALIANA SULLA SITUAZIONE DELLA PIETRA POMICICE

ULTIMO il vortice sempre più ampio della grande guerra europea ha inghiottito la piccola isola di Lipari-fonte della migliore fornitura di pietra pomice al mondo.

Adesso è impossibile dirlo esattamente quali saranno le conseguenze—se le spedizioni saranno completamente o solo parzialmente spente. In ogni caso ecco i fatti come esistono e la questione che coinvolge un così piccolo investimento come la pietra pomice, suggeriamo da lontano di vedere la cosa è considerare le peggiori conseguenze possibili che potrebbero essere chiamati ad affrontare e prepararci per loro finché c'è ancora tempo. Le navi mercantili italiane sono ora soggette ad attacchi sottomarini o cattura in alto mare. Tutta l'Italia è ora sotto il pugno di ferro della legge marziale.

Lipari e la sua città principale, Canneto, sono praticamente isolati. Il fatto è che l'Italia deve affrontare una grave carenza di carbone e per economizzare la nave postale che collega alla terraferma funziona solo tre volte a settimana. Questa situazione del carbone inoltre si rivelerà grave handicap per i molini italiani. Ci vuole carburante per macinare la pomice, non importa quanto povera possa essere, e con prezzi di questa materia prima possiamo aspettarci un ulteriore deterioramento della pomice macinata italiana.mix curreli.JPG

Inoltre, Canneto non è un porto di scalo regolare per le navi così com'è Messina, Napoli, ecc. Le uniche navi che visitano Canneto sono quelli che ci vanno espressamente per la pomice. Non c'è alcuna possibilità di ottenere una consegna di pietra pomice su altre barche, anche se molte lasciano l'Italia senza un carico completo. Puoi starne certo che fintanto che è umanamente possibile spedire la pomice dall'Italia lo faremo. Curreli, il compratore di Rhodes a Canneto, è nativo italiano gode quindi di un enorme vantaggio sugli acquirenti stranieri di pomice. Come è naturale, tutti gli stranieri sono soggetti di sospetto quando un paese è in stato di guerra. L'atteggiamento dei funzionari governativi nei confronti degli stranieri è che sono colpevoli fino a prova contraria.

Ad esempio, poco dopo che l'Italia dichiarò guerra, vendemmo una partita di pomice ad una ditta inglese per la spedizione a Londra. Ora l'Inghilterra è alleata dell'Italia in armi, ma ciò non ha impedito la dogana ufficiale italiana caricando ogni barile nella spiaggia ed esaminando prima di lasciarlo andare. Curreli, essendo cittadino italiano, è naturalmente liberato dalla maggior parte di questi fastidi. Inoltre è un membro delle riserve militari ed è stato chiamato ai colori allo scoppio della guerra. Sono stati chiamati in servizio anche altri cinque uomini del nostro magazzino di Canneto.

Tuttavia Curreli per accordi particolari non sarà convocato lontano da Canneto; ma vi servirà come capo dei gendarmi, incarico che non gli impedirà di adempiere ai suoi doveri abituali di compratore di Rhodes.

Il gendarme in Italia è l'equivalente del "poliziotto" di Chicago o di New York. Il suo titolo italiano di Ragusta significa uno che è di intelligenza e istruzione superiori. Naturalmente il Ragusta non pranza con il re ogni giovedì ma solo ogni due giovedì, ma allo stesso tempo è in stretto contatto con i poteri: per avere in anticipo qualche idea sul corso che prenderanno gli eventi. Fu così che settimane prima della dichiarazione delle ostilità eravamo pienamente preparati all'eventualità di una partecipazione italiana alla guerra. Riforniamo quindi tutti i nostri vecchi clienti a prezzi contrattuali e anche prendersi cura di quei nuovi che gli eventi hanno cambiato la nostra strada - e che stanno stipulando contratti con noi contro contingenze future, perché ovviamente, la consegna dei contratti è la nostra prima considerazione.

L'illusione con la quale tanti americani si sono consolati - vale a dire che ci sarebbe stata una rapida fine della guerra - è ora piuttosto esplosa. Tutti i segnali indicano una lunga e prolungata lotta, e mentre continua e per mesi la situazione della pomice non migliorerà. La pietra pomice non è una merce che si imbatte in una grande quantità di denaro, eppure è un fattore indispensabile in molte industrie manifatturiere. Costa relativamente poco, quindi, per l'acquirente medio di pomice assicurarsi una fornitura per molto tempo. Se una cessazione totale delle importazioni di pietra pomice è una possibilità e lo è, dovremmo prepararci e prepararci ora.

Do questo consiglio coscienziosamente come ho dato quello riguardante i prodotti chimici tedeschi lo scorso ottobre, dopo il mio viaggio attraverso le linee di guerra. Coloro che allora acquistarono prodotti tedeschi ai prezzi dello scorso autunno furono fortunati oltre ogni aspettativa, e alcuni di coloro che non acquistarono lo furono da allora abbastanza da ammettere che noi avevamo ragione e loro torto. Un'ultima parola: il fatto che la comunicazione con la fonte di approvvigionamento italiana sia stata resa così difficile è allo stesso tempo una tentazione di sostituzione e di adulterazione.

Potremmo aspettarci di vedere un intero diluvio di pomice impura, granulosa e insoddisfacente gettata sul mercato, pomice che è tutt'altro che la cosa genuina che pretende di essere. In tempi come questi nessun utilizzatore di pomice dovrebbe contrattare con un'organizzazione senza esaminare la capacità di tale organizzazione di mantenere le sue promesse contrattuali. Abbiamo l'organizzazione, abbiamo le connessioni, abbiamo le merci e siamo pronti a consegnare al tuo comando. L'altro giorno dei Membri più recenti per abbellire il personale addetto alle vendite di Rhodes stava parlando dei meriti del nostro cloruro di calcio e magnesio con un cliente. Una delle domande del potenziale acquirente faceva riferimento al peso specifico del nostro Calcio. Per un secondo il discepolo di Sheldon rimase perplesso, poi, con l'aplomb che caratterizza il venditore vigile, rispose: "Peso specifico? Perché, mio caro signore, rimuoviamo tutto questo dal nostro prodotto quando lo raffiniamo."

LA NUOVA SEDE DI RHODES A NEW YORK CITY AVANTI! L'organizzazione che sta ferma in questo mondo di eventi in movimento si sta perdendo nella polvere sollevata dal destino. Quindi noi della House of Rhodes abbiamo il piacere di diffondere la buona notizia che la nostra sede di New York è stata spostata dall'85 di Front Street al 162 di William Street, dove occupiamo circa 7.000 piedi quadrati di superficie. Questo in aggiunta al nostro magazzino e stabilimento a Brooklyn dove la nostra pomice grezza italiana viene macinata e raffinata. La rapida crescita del nostro ramo orientale ha reso necessari quartieri più ampi e meglio attrezzati…

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LE ISOLE DEL VENTO E DEL FUOCO dal nostro inviato Piero Studiati Berni

LE VIE D’ITALIA N. 3 MARZO 1966

Gli italiani hanno a portata di mano per tutto l’anno uno degli ultimi paradisi terrestri. Vulcano, Lipari, Salina, Panarea, Stromboli, Alicudi e Filicudi sono isole meravigliose. Ma il turismo è ancora ai primi passi, lo spirito insulare, la tradizione, l’abitudine non hanno fino a oggi trovato e forse non vogliono trovare il modo per una decisa mutazione ai tempi e alle nuove esigenze.

Appena mollati gli ormeggi, l’aliscafo si scostò dalla banchina e lentamente fece manovra per uscire dal porto. Poi i motori ebbero un ringhio e lo scafo prese velocità sollevandosi sull’acqua e poggiando sui “coltelli” come un trampoliere. Dagli oblò si vedevano sfilare, prima distintamente, le strutture portuali di Messina poi, in maniera sempre più confusa, la terra di Sicilia che, alla distanza, tendeva all’azzurro e al violetto mentre l’arsura estiva, dopo averla scolorita del verde, l’aveva dipinta di giallo spento.

Quando l’aliscafo rallentò la sua corsa sul pelo dell’acqua davanti all’isola di Vulcano, risentimmo il mare scorrere lungo le fiancate dello scafo con un fruscio troppo modesto per quell’abisso di azzurro che ci circondava. Gli oblò inquadrarono le rocce nere e bruciate dell’isola.

L’aliscafo non s’era ancora fermato che già si era staccato da riva un barcone a remi dipinto di rosso e di blu, e puntava verso di noi scivolando più che sull’acqua sul barbaglio di luce sfaccettata che il sole faceva cangiante come scaglie di pesce. C’era un odore profondo e denso di alghe e di mare e la spiaggia sullo sfondo, nera, tagliata tra le rocce, pareva l’orlo di un piatto di ceramica campana, anch’essa nera e anch’essa con un sottofondo rosso di brace come se vi covasse ancora una combustione che non vuole spegnersi.

Ci fu un complicato trasbordo di passeggeri dal barcone all’aliscafo e dall’aliscafo al barcone, poi i motori ripresero a rullare e dietro di noi si riformò una scia lunga e schiumosa mentre il barcone si perdeva senza fretta negli infiniti riflessi cangianti del mare portando verso le sabbie nere nuovi turisti con vecchi desideri.

Vulcano, la prima delle Eolie che si incontra venendo dalla Sicilia, insieme con Lipari e Salina, forma come il corpo di un immaginario scorpione le cui tenaglie sono rappresentate da Filicudi e Alicudi da un lato, a sinistra, e da Panarea, Basiluzzo e Stromboli dall’altro. Le rocce di Vulcano sono nere e a contatto con l’acqua pare che debbano ancora torcersi e cigolare per una secolare incandescenza; c’è l’alito di un fuoco che cova sotto tutte queste isole accovacciate nel mare Tirreno, non lontano dalle coste della Sicilia.

E il fuoco fa bollire l’acqua a Vulcano e lo zolfo affiora con i suoi fiori neri rivestendo le pietre di una patina viscida e verdastra che con avidità i villeggianti salutisti si spalmano sul corpo e sul viso fidando in benefici epidermici straordinari. Tra le rocce vulcaniche, colorate da preistoriche incandescenze, grandi pozze di acqua solforosa ribollono fumigando e tra i vapori si muovono nel fango giallastro, come ippopotami, grassi signori che combattono la sciatica e la pinguedine. Anche il mare in certi punti vicino alla costa è opaco per la presenza dei soffioni e dello zolfo, ma più a largo, dai fondali, riaggalla un colore cupo che non vela la trasparenza dell’acqua.

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L’albergo “Les sables noirs”, basso e bianco sulla riva di ponente, ha una fama maggiore dei suoi meriti, ma l’atmosfera è piacevole e accogliente e la notte è trapuntata dalla luce delle candele: sull’isola infatti manca l’elettricità come in quasi tutte le Eolie, esclusione fatta per Lipari che è divisa da Vulcano soltanto per uno stretto braccio di mare.

Lipari è la più grande delle Eolie: 38 chilometri quadrati e il paese di Lipari è il centro principale dell’isola e di tutto l’arcipelago. Sotto il Castello il paese si estende tra le due insenature di Marina Lunga e di marina Corta, su un bastione naturale di lava liparitica che contrasta violentemente con le bianche montagne di pomice che scendono in mare più a nord-est: otto chilometri quadrati di candore che trasformano una parte dell’isola in un curioso paesaggio di alta montagna che va a specchiarsi non in un lago gelato, ma in un mare caldo e pescoso. Lipari è bella, ma chiassosa, disordinata: ha la pretesa di una città, ma il carattere di un paese.

A Lipari ci sono i negozi, le strade, le automobili, si può comprare la carne e andare al cinema e tutto questo, nella mentalità degli isolani, è più che sufficiente a rendere funzionale l’isola e a trasformarla in un vero centro residenziale e turistico: non importa se mancano le fogne, se manca l’acqua e se lo sviluppo urbanistico procede con regole empiriche. A Lipari sembra che tutte le isole debbano una sorta di rispetto perché Lipari si sente capitale: storia leggenda e natura l’aiutano a mantenere questo privilegio; persino i suoi dodici vulcani, oggi quieti come vecchie cucine, sono stati generosi dando a Lipari la pomice e l’ossidiana che nel passato raggiungesse tutti i mercati del Mediterraneo orientale. Ancora storia e leggenda nel suo bellissimo museo e negli scritti di Omero, di Diodoro Siculo, di Virgilio, di Plinio, di Platone, di Callimaco, di Carducci e l’otre pieno di venti che Eolo donò in un tempo remoto a Ulisse sembrava che volesse aprirsi una seconda volta mentre eravamo ormeggiati alla banchina del porto: sui monti bianchi della pomice le nuvole si gonfiarono e il mare si frangiò di schiume sottili, ma soltanto per poco, perché la burrasca trascorse rapida trascinandosi dietro le grida roche dei gabbiani. Riprendemmo il largo e Panarea col suo Pizzo del Corvo alto sul mare e Basiluzzo, Lisca Bianca, Dattilo e le Formiche ci vennero incontro.

All’orizzonte fumava Stromboli. Intorno al molo facevano ressa le barche dei pescatori ormeggiate, le altre erano state tirate in secco sulla riva ghiaiosa. Più che un mondo pareva un piano inclinato per varo di pescherecci: mi dissero che era franato prima ancora di essere finito perché era stato costruito male e lì, appena sceso a terra, il sole schiacciò la mia ombra facendola penetrare nei buchi e nelle crepe del cemento rovente. La luce rimbalzava tra il bianco dei muri a calce e, mentre l’aliscafo si allontanava continuando il suo rapido giro delle isole, quell’abitudine oramai antica e quella consuetudine quotidiana che per poco si erano interrotte intorno all’evento sempre nuovo di un battello che approda portando persone e cose, si richiuse lasciando soltanto una alternativa: accettare la realtà forse scomoda e poco accogliente, ma autentica e piena di una sconcertante e aspra poesia e poter essere qui, felici, seguendo una misura già stabilita dalla natura, o pretendere di imporre un proprio standard di organizzazione e abitudini e restare degli estranei, illudendosi di non averla determinata con la propria, personale civiltà ed educazione.

Appena sbarcati si va in giro, per cercare una camera, qualche piccolo albergo ci sarebbe, qualche locanda, ma è sempre tutto esaurito, e poi in queste isole si vuol vivere una verità e una originalità locale si deve andare nelle case dei pescatori che affittano le stanze anzi affittano i letti. Ottocento lire a letto per ogni notte: è la tariffa. Una viuzza in salita, scalette, muri bianchi e fichidindia. Il sole rotea come una girandola; il mare più in basso è bellissimo, liscio come una tavola e d’un azzurro cupo che fa intuire la freschezza dell’acqua e poi, a tratti, una ventata carica di salmastro e di profumo: odore di pesce e di terra bruciata. “Da questa parte”. La donna vestita di nero che mi precedeva scostò una tenda nel vano di una porta in cima a una scala esterna: dentro era buio. Guardai alla soglia e la stanza mi parve piccola e ingombra di mobili: appoggiata a una vecchia cucina economica c’era una brandina con un materasso. “Questa è la camera” mi disse la padrona in fretta. “Ottocento al giorno e una settimana anticipata, perché lunedi arriva la nave da Napoli e ci sarà molta gente che cerca posto”. “E… il bagno?. “Quale bagno?”. “Il bagno: dove ci si lava. E la toilette…” “Ah , volete dire il gabinetto? Si, dietro la casa, vicino al pollaio. E per l’acqua, se volete lavarvi c’è secchio. Il pozzo sta proprio sotto la scala”.

Trovai un’altra casa, ma per un caso fortunato: una camera imbiancata di fresco con una grande terrazza che dava sul mare. Davanti vedevo l’isolotto di Basiluzzo e più lontano Stromboli incappucciato di fumo bianco. Di notte vedevo gli spruzzi di lava incandescente aprirsi a ventaglio sul cratere sempre vivo. Rigagnoli di lava scivolano lungo la “sciara del fuoco” e finiscono in mare.

Quando i rumori della giornata si smorzano, oltre il fruscìo della risacca, si sente come un tuono lontano, si sente come un tuono lontano, un temporale all’orizzonte: è il ventre di Stromboli che brontola e fa tremare l’isola; piccola porzione emergente di un cono vulcanico alto più di duemila metri dal fondo del mare. Nelle casette bianche, appollaiate come gabbiani sulle piccole spiagge nere e a ridosso della montagna scoscesa anch’essa nera e bruciata, la gente riposa tranquilla, mentre un cresta luminose un fascio di strani bengala arrossa il cielo e la scarpata occidentale dell’isola, aspra e tetra; mentre sul versante orientale cresce l’olivo, cresce il glicine, e la ginestra.

A Stromboli prosperano vigne che hanno le radici vicino al fuoco e a Stromboli vivono cicale che ogni giorno pare impazziscono d’amore sotto il sole. Il lido di Scari, arabo nell’impronta per le sue palme, e la spiaggia di Ficogrande dove approdavano i velieri e i 700 metri della “sciara del fuoco” con le colate di lava infuocata e i blocchi incandescenti che rotolano sulla cenere rimbalzano finchè spariscono in mare con un tonfo sordo e con uno sbuffo di vapore. Le barche non si accostano troppo alla riva: lassù c’è, tra le nuvole bianche del vapore e i bagliori sinistri, un gigante che scaglia pietre enormi e Strombolicchio, lo scoglio che affiora come un castello medioevale irto di guglie e traforato di grotte, sembra il più grosso dei macigni che il ciclope ha buttato in mare. I gabbiani tagliano l’aria con gemiti rochi e la loro ombra passa veloce sull’acqua in cerca di una preda e poi ancora su, tra le rocce, nelle spaccature dove entra soltanto il vento.

L’alba è piena di voci e di rumore: è l’ora dei pescatori. Di notte scesi sulla spiaggia con le lampade a petrolio. I bambini hanno nei movimenti una serietà adulta: vanno anche loro a pescare e portano le ceste per il pesce. Guardano con una curiosità superficiale e non sorridono perché sono già lontani e la notte e il mare hanno per loro un sapore che li divezza presto. Torneranno con poco pesce. Ma non cambiano né le reti, né le abitudini perché non sanno e non possono farlo. Vedranno i pescatori subacquei tornare a riva con canotti piene di cernie: 15, 20, anche 40 chilogrammi. Guardano con rassegnazione quel loro mare violato da estranei che vengono da lontano, soltanto per poco: pescano, si divertono, vendono il pesce e se ne vanno via di nuovo.

Per loro c’è un inverno lungo e povero, senza risorse, la speranza di trovare lavoro nel continente o in Sicilia; ma c’è sempre un filo, che li tiene legati alla loro isola che non amano, che non capiscono, ma tutto sommato che considerano indispensabile per una necessità crudele. Qualche volta il filo si strappa e allora, liberati come da un dovere, non tornano più. Poi viene la primavera dolce e solitaria, piena di profumi e di una voglia di vivere che non trova riscontro nella ispida rosa delle abitudini isolane.

E poi l’estate, con la possibilità di un buon guadagno concentrato in poco tempo; un’idea confusa dell’economia e l’importanza di quelle che sono le necessità primarie di un turismo anche poco esigente; una mancanza assoluta di ambizioni e di programmi lungimiranti; soltanto l’urgenza e quella molto chiara, di guadagnare il più possibile perché il tempo delle “vacche grasse” dura soltanto un paio di mesi.

Il sole poi rintana gli isolani, come piccoli animali che diffidano della luce che scopre la loro vita. L’animazione dell’alba finisce, le donne vestite di nero tornano alle loro faccende, gli uomini vanno a lavorare sulla montagna la poca terra che hanno. Qualcuno traffica intorno alle barche o aspetta il cliente da portare in mare. Le botteghe cominciano la vendita dei generi alimentari e di consumo di prima necessità e si vuotano presto. Burro, pasta, formaggio, frutta, verdura sono esauriti. Bisogna aspettare i rifornimenti: arriverà la nave l’”Eolo”, porterà tutto e i prezzi intanto aumentano con una legge economica invariabile: le scorte sono limitate e persino l’acqua potabile diventa più cara del vino. La giornata sale insieme al caldo, eguale in tutto l’arcipelago; è il mare che segna il ritmo e determina la vita in queste isole. Il mare domina tutto, anche i pensieri, e ci si tuffa in questo diluvio di azzurro con una serietà che somiglia a un impegno di lavoro. Da un’isola all’altra il paesaggio cambia: più aspro, più drammatico, infernale: Alicudi, l’isola delle eriche e Filicudi, l’isola delle felci, solitarie e inquietanti. E poi di nuovo un paesaggio verde e riposante, con le agavi e i fichi selvatici; cortine d’ombra sotto gli scogli più alti e dove finisce il taglio dell’ombra di nuovo il barbaglio del sole sull’acqua che si copre dome di scaglie di pesce, cangianti. E con la barca, lentamente, si trascorre sotto il sole finchè tramonta e quando si tira in secco la barca è già buio. Ci si ritrova da “Verbinshac” sotto la tettoia di stuoie in faccia al mare dove si mangia al lume di candela e alla luce delle lampade a petrolio perché l’elettricità non c’è sull’isola, Pesce in tutti i modi, ogni tanto una bistecca e spaghetti col pomodoro fresco, l’olio crudo e il prezzemolo. Il conto? Si pagherà domani con una cernia di quelle che ancora pascolano qui nei fondali freddi sui banchi di alghe. E il padrone, che ha il tratto e i modi da signore, l’unico che per ora abbia costruito a Panarea con gusto e intelligenza un bar-ristorante simpatico e accogliente, scrive su un libro dei nomi e dei numeri che spesso rimangono tali. Torneremo domani sera per mangiare e guardare ancora il mare con il solito “Plantes punch” davanti, una maglietta scolorita, i calzoni con le toppe e una fame pari soltanto alla stanchezza, una stanchezza che regalerà un sonno facile. Sulle altre isole, a Lipari e a Vulcano specialmente, la sera si balla e ci sono alberghi con l’acqua corrente e la prima colazione in camera. Le “Rocce azzurre” con la darsena gremita di motoscafi e le tende di cretonne a fiori, “Les sables noirs” con la clientela raffinata e con l’orchestra inglese; ma la camera con grande terrazza sul mare davanti a Stromboli affittata da un pescatore a ottocento lire per ogni letto, senza bagno, senz’acqua, con la “toilette” fuori di casa dietro a un “cactus” e la candela accesa su una scatola che fa da comodino, fa sentire molto meno estranei in un’isola dove questa è la normalità. La mattina poi verrà Maria, la ragazza a ore, per pompare un po’ d’acqua dal pozzo e lavare qualcosa. Ha gli occhi neri e vivi con le ciglia folte e diritte come due siepine di stipa: guarda senza alzare il viso, sorride appena e arrossisce per nulla .

Prima di partire per le Eolie, ero andato a trovare il dottor Colajanni, direttore dell’Ente provinciale per il turismo di Messina. Volevo chiedergli del turismo nelle isole, del carattere degli isolani, delle risorse di questo arcipelago così vicino alla Sicilia eppure piuttosto sconosciuto e circondato di leggende. “E’ uno strano destino quello delle isole in Italia, lei lo sa” mi disse “ sono gli stranieri a scoprirle e gli italiani a ignorarle, compreso lo Stato che non fa quasi niente per valorizzarle, eppure oramai tutti hanno capito che il turismo porta in Italia fior di quattrini. In certe isole c’è ancora un turismo da pionieri: manca l’acqua, i trasporti non hanno orario alcuno, non ci sono coincidenze, non ci sono i porti e i battelli, le navi, gli aliscafi buttano l’ancora e aspettano che un “bragozzo” a remi si accosti sotto bordo per fare le operazioni di imbarco e sbarco. A Salina, quando devono imbarcare degli animali, li fanno nuotare in mare fino alla nave e poi li tirano su per le corna. Lipari è la sola isola, infatti, che ha un porto e un molo efficienti per il solo motivo che c’erano i confinati politici e quindi certi lavori parevano necessari….”. Ma i moli?. “I moli sono le opere marittime a costruirli e non si capisce perché ma finiscono sempre per sprofondare. E poi la tragedia estiva è l’acqua, l’acqua dolce. E’ portata nelle isole con le navi-cisterna ed è insufficiente persino durante l’inverno, si immagini d’estate. In risposta ai drammatici appelli rivolti alle autorità per mancanza d’acqua durante una estate particolarmente torrida, giunse un telegramma dal ministero “Ridurre i consumi”. Lei può capire perché le cose qui vadano male. Il turismo non è più un fenomeno naturale o emotivo. Il turismo va costruito come un’industria vera e propria. Su queste isole, che sono fra le più belle del mondo, vi sono attrezzature ricettive addirittura primordiali, caro signore; roba da pionieri, e ci si meraviglia che il flusso turistico negli ultimi due anni sia dimezzato: nel 1962 tra esercizi alberghieri, ostelli e villeggi turistici si sono registrate 74.404 presenze, nel 1964 le presenze sono calate a 33.840. A Lipari, per esempio, nel 1962 furono registrate 37.161 presenze, e già nel 1963 erano scese a 15.391 e sempre meno fino a quest’anno, e ciò grazie alla situazione particolare di quest’arcipelago: sistema di comunicazioni, per esempio, che al massimo, ha un carattere ordinario destinato esclusivamente a soddisfare le esigenze della popolazione locale, che supera i 17.000 abitanti. La popolazione va diminuendo a causa delle condizioni di vita sempre più precarie, col conseguente esodo dei giovani e quindi della mano d’opera verso zone di lavoro più produttive. Ne deriva che la maggior parte dei proprietari di terreni di queste isole è in America o in Australia.

“E qui nasce l’altro problema della frammentarietà della proprietà privata e della testardaggine insulare: è difficile poter comprare terreni abbastanza grandi per l’impianto di alberghi e attrezzature ricettive veramente valide. La ridotta iniziativa privata locale si esaurisce in opere molto modeste che riescono forse a far quadrare meglio un bilancio familiare ma non di certo un piano di incremento turistico. A Vulcano e a Lipari, poi, dove questo fenomeno è meno sensibile, industriali del nord, ma anche siciliani che disponevano di capitali, sono riusciti a comprare intere zone utilizzabili e non ai fini turistici immediati, col risultato di bloccare le piccole e medie iniziative di pronto impiego e facendo alzare incredibilmente i prezzi degli altri terreni eventualmente disponibili. A Lipari e Vulcano, tuttavia, una discreta attrezzatura ricettiva è stata impiantata grazie a alcuni privati che da anni operano con una clientela quasi fissa. C’è poi da aggiungere la mancanza di piani regolatori: anche semplici piani di fabbricazione e perfino di norme circa i limiti e i criteri di costruibilità, che viene a impedire qualsiasi modesto investimento poiché ogni progetto deve essere sottoposto all’esame e al parere non solo della Commissione edilizia (che è unica per tutte le isole e risiede a Lipari), ma q quello della Soprintendenza ai monumenti per il vincolo panoramico. Tutto questo naturalmente influenza e determina i prezzi, che sono l’effetto di una tale situazione: per prima cosa perché quasi tutti quelli che si occupano di turismo e di mercato nelle isole sono persone inesperte, e poi perché si cerca di mantenere immutato uno stato di fatto che giova a quelli che io chiamerei i fossili delle isole Eolie. Personaggi che per tradizione fanno il buono cattivo tempo e cercano di conservare una posizione che li avvantaggia personalmente ma che nuoce allo sviluppo del paese.

“Conclusione: se le cose continueranno così, fra non molto le Eolie saranno disertate e resteranno la residenza estiva di pochi avventurosi e di quei fortunati che vi possiedono una villa o una casa che amano questo arcipelago per la sua solitudine , per il suo carattere aspro, per la sua straordinaria e inquietante bellezza, per la sua voce primitiva e mitologica, per i suoi difetti che, se presi in piccole dosi e per poco tempo possono essere considerati straordinarie qualità. Ci vada e se ne renderà conto da solo. Ma allora non si potrà parlare né di economia, né di turismo, né di un cambiamento delle condizioni di vita locali, che rimarranno primitive da un lato e pioneristiche dall’altro. Lei mi chiede se io credo che ci sarebbero invece delle possibilità per l’avvenire? Certo e molte. Le grandi possibilità di sfruttamento sono infatti ancora intatte e si tratta di rivedere oggi la loro utilizzazione in una dimensione nuova, e cioè nazionale. I problemi relativi alle comunicazioni, alle attrezzature portuali, alle infrastrutture in genere non possono essere risolti in chiave locale. L’iniziativa privata deve essere sollecitata a nuove e più idonee attrezzature ricettive, sbloccando certi immobilismi, anche panoramici, con opportuni e ben piani regolatori che tolgano incertezza e rischio nell’investimento del capitale.

“Ci vuole la luce elettrica su tutte le isole e non soltanto a Lipari; le lampade a petrolio saranno romantiche, ma poco funzionali. Ci vogliono alberghi, strade, porti acqua, e comunicazioni bene organizzate, non locande, camere in affitto, viottoli, bottiglie d’acqua minerale che arrivano a costare qualche volta anche mille lire l’una e mezzi di trasporto che non si sa quando partono né quando arrivano”.

Il dottor Colajanni è un esperto di turismo, conosce bene il suo mestiere e il paese dove vive; la sua è una visione moderna ed è la giusta realizzazione a una situazione di immobilismo che dura da sempre in molte zone della Sicilia e soprattutto nelle isole che soffrono anche di una particolare dimenticanza dello Stato. E quella che può sembrare una deformazione professionale, altro non è che l’esasperazione di tutti coloro che vorrebbero veder migliorare certe situazioni tradizionalmente disagevoli e improduttive, vorrebbero sanate le piaghe sociali, rinvigorita un’industria turistica che langue, ma si trovano di fronte il muro della tradizione dell’incomprensione, della testardaggine e del tornaconto di pochi.

Il dottor Colajanni mi elencava le attrezzature e gli alberghi esistenti nelle Eolie: duecentosessanta letti tra alberghi (soltanto due di seconda categoria), pensioni e locande; ed è facile capire perché le camere in affitto e le case private rappresentino la voce più importante per la ricezione turistica e possano essere considerate la forma più autentica di un soggiorno in queste isole che così esprimono la loro originalità. Non è ancora avvenuta infatti quella fusione e quella intesa tra l’indigeno e il forestiero che permette il mutamento di certe situazioni: sono due mondi ancora lontanissimi. Lo spirito insulare, la tradizione, l’abitudine non hanno ancora trovato e forse non vogliono trovare il modo per una mutazione consona ai tempi e alle nuove esigenze. Chi arriva da fuori o accetta e penetra la realtà senza opporsi, e trova così la misura di una libertà e di una felicità diversa da quella abituale, o rimane un estraneo che cerca di piegare alla propria volontà e alle proprie abitudini una realtà che ha un altro metro di vita e un’altra misura per la felicità e per il tempo. E in queste isole effettivamente non servono gli stessi mezzi che diventano quasi indispensabili in altre spiagge, in altre isole oramai trasformate, diverse dalla loro originaria natura, come Capri e Ischia, che appartengono oggi più ai turisti che a loro stesse e che quindi offrono e impongono un tenore e un ritmo di vita appositamente ideato e creato per lo svago, per la comodità, per riempire le ore vuote e per vincere la solitudine che non abbiamo più l’animo di affrontare. Nelle Eolie tutto questo è ancora lontano e la caratteristica dell’arcipelago è proprio quella di avere riservato a se stesso la parte maggiore di sé, utilizzando tutto ciò che viene dal di fuori come un bene provvisorio da sfruttare. Gli uomini e la terra sono rimasti fedeli a una loro storia che è vecchia come gli dei dell’antica Grecia, come i miti e le leggende.

 

 

 

Foto importante dalla collezione di Vincenzo Maiorana.

Canneto. Foto stazione schermografica per rilevare eventuali lesioni della silicosi polmonare nei lavoratori delle zone di Canneto e Acquacalda e nella popolazione grazie all’Istituto Nazionale Infortuni e al Dott. Di Perri.

Scrisse il dottor Di Perri (che si vede anche nella foto):

“Questa di Lipari è una forma sostanzialmente diversa dalla silicosi che si riscontra in altre zone minerarie e dalla miner’s phatisis delle miniere del Transval. Male mi spiegherei che la pomice possa agire solamente e semplicemente per ragioni meccaniche. Non è da escludersi che, nella sua trasformazione in silice, solubile, la pomice liberi una sostanza tossica che agisca in loco e a distanza, intaccando e menomando la vitalità delle cellule cardiache, vascolari patiche e renali.

E questo potrebbe anche avvenire con l’assorbimento attraverso la mucosa gastrica, perché l’operaio che lavora nei mulini la pomice non solo la respira, ma la mangia e le beve: la mangia col pane e beve con l’acqua, perché non gli è consentito che di dissetarsi con acqua che attinge dalle cisterne alimentate con acqua piovana raccolta sulle terrazze, sempre abbandonate provviste di polvere di pomice. Sul lavoro gli operai bevono una sospensione di polvere di pomice in acqua piovana”.

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Il giornale italiano di Sydney 31 mar 1928 SOLENNE CELEBRAZIONE RELIGIOSA A MALFA. In Onore di S. Lorenzo

(Isole Eolie) Malfa, 18-1-1928.

Il Sacerdote Giovanni Marchetti ci invia un elaborato articolo su questa fausta circostanza.

Siamo spiacenti di non poterlo pubblicare per intero ed aggiungervi la splendida fotografia che rappresenta il momento della benedizione della campana nuova e della statua del Santo.

Il sacerdote Marchetti, dopo aver narrato una accurata storia del Martire S. Lorenzo ed aver descritto minutamente le circostanze determinanti gli improvvisi festeggiamenti, passa ad esaltare commosso le provvidenze che il Governo Nazionale ha voluto estendere su tutta l'Isola di Salina compresa Malfa, col decretare gli stessi provvedimenti finanziari adottati per Messina in dipendenza del terremoto.

Pubblichiamo pertanto la parte che ci sembra interessare maggiormente la Colonia degli isolani residenti in Australia dispiacendoci sinceramente di non poter pubblicare di più'.

La Campana e la Statua

La campana più' grande della parrocchia (Kg.385) per ignota causa, dopo 55 anni di età' si era rotta il 24 maggio 1926 mentre veniva suonata a stormo durante la Messa funebre a pro dei caduti nella Grande Guerra. E per la liberalità' dei coniugi Lo Schiavo Giuseppe ed Ins. Bongiorno Concetta, che elargirono L. 10,000, torno' in parrocchia più' grande (Gg. 960) e più' canora, riconoscendosi in essa la voce più' potente di Lorenzo, che anche la Madre di Dio Maria, vuole più' onorato e più' lodato in Malfa, riconoscente anche Lei di avere confessato tra i più' atroci dolori del fuoco lento il suo divin Figliuolo Gesù'. Anche l'Immagine di S. Lorenzo, opera pregevolissima dello scultore Citarelli, capo scuola napolitano, per i suoi 150 anni di vita ed il tarlo era ridotta in pessimo stato, ed ora a spese dei nostri emigrati in Boston, Mass. (America Sett.) tornava da Roma restaurata, ed in più ricca veste, ridonata al primo splendore artistico dalla Ditta Rosa & Zanazio.

Festeggiamenti

Essi ebbero principio il giorno 7 Agosto, quando sulla banchina Galera furono benedetti col sacro rito la campana e la Statua di San Lorenzo. Quivi convennero tutti i fedeli di Malfa e dei paesi vicini dai poveri, dai vecchi ai piccoli, ed espressamente anche la Signora Ins. Bongiorno Concetta maritata Lo Schiavo giunta il giorno

avanti dall'Australia. Ella volle testimoniare colla sua presenza il suo patriottismo e la sua Fede cristiana non paga della sua cospicua elargizione di L. 10,000. Degna figlia di quel venerando padre, Bongiorno Giuseppe; fu Felice, il quale ai suoi verd'anni non impone altro ideale che l'amare il suo paese nativo, che, per vedere indipendente ed elevato a più alti destini non si risparmiò sacrifizi. Ed ora sebbene in età avanzata ed acciaccato in salute, si sentì elettrizzato dalle narrate circostanze, e raccolte le sue forze volle venire lui stesso a, dare il primo tocco alla benedetta e grande campana, gustando: una sacra voluttà nell'ammirare il graduale compiersi degli auspicati grandi destini di Malfa.

Parlarono applauditi il Parroco, il quale spiegando il senso patriottico della cerimonia invocò la protezione dell'eroico Santo sulle anime, su i corpi, su S. Ecc. Mussolini capo del nostro Governo che saviamente ha voluto le opere di protezione del nostro approdo e le rotabili ad assicurare lo scambio commerciali delle derrate di Malfa, le più' abbondanti e preziose di tutta l'Isola, tratte solo dalla coltivazione della sua terra. Ed il Rev. Can. Giuseppe Pavoni il quale diresse la sua parola al sentimento religioso cristiano ai fedeli presenti ed assenti, con mai abbastanza lodata filantropia, destinano parte del frutto delle loro fatiche, alla maggiore gloria di Dio, procurandosi così una rinomanza che il tempo rinvigorisce più che consumare.

Dopo si formo' il corteo preceduto dalla campana che posta su di un carrello della ditta Miloro-Tauro, impresari dei lavori portuali di Malfa, tirato da un lungo e grosso cavo di canape che era tiralo da mani gentili di donne, piccoli e vecchi e da mani incallite di operai. Seguivano le Pie Unione in divisa sacra, con le loro insegne e bandiere, il Clero e la bara colla Statua del Santo, ed infine la interminabile sfilata di tutti coloro che non avevano potuto trovare posto a prestare la loro opera.

Fu un vero trionfo che l'entusiasmo della Fede cristiana sa improvvisare. Le grida del popolo di Viva il Santo nostro, Viva S. Lorenzo, si alternavano continuamente senza interruzione col fragore di detonanti bombe in aria ed a terra e colle armoniose note musicali di ben accordata fanfara da Barcellona trovatasi casualmente sul luogo. Grandi furono le offerte di denaro e di fiori da restare completo il lungo nostra rosso pendente dal braccio del santo e ricoperta di fiori la bara.

Ma i festeggiamenti veri e propri avrebbero dovuto avere luogo giorni 9 e 10 e somme disponibili non ve ne erano ancora. Come fare? Due operai, il Signor Quadara Francesco ed il murifabbro Naso Antonino, animati da Fede viva, girano il paese, ed ottenute L. 600 dal Signor Carra' Gaetano fu Felice  L. 900 dalla anzidetta Sig. Ins. Bongiorno Concetta, si fanno arditi, ed in men che si dica tra il resto dei fedeli di Malfa e dei sobborghi Pollara, Capo e Gramignazzi le somme sono al completo per impegnare il ben noto Corpo musicale di Lipari distintosi per il suo scelto programma al palco, e per assicurare un'ora di giuochi pirotecnici del peritissimo Luigi Fiume. La festa riusci' come un Inno di Fede, che spontaneo volle cantare, tutto il popolo da un confine all'altro del Comune di Malfa, per glorificare il servo di Dio ed il Protettore speciale. Voglia Lorenzo dalla destra di Dio ove siede, accettare tanto amore dei suoi figli in terra, e sorreggendoli durante il cammino nel tempo, assicurare il suo sorriso nell'eternità.

Si chiuda questa lunga recensione di Cronaca malfitana, con una ben meritata lode alla Ditta Rosa e Zannazio, la quale con gustò speciale si e' data all'arte sacra.

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Due piccoli stralci di numeri del Notiziario delle isole Eolie sul Carnevale a Lipari, 1959.

Grazie alla Biblioteca Comunale di Lipari.

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CERIMONIA DI ADDIO A PADRE PAINO DA PARTE DELLA SCUOLA O3.02.1958
(un piccolo stralcio del Notiziario delle isole Eolie del tempo con foto a cui aggiungo 3 foto dai ricordi di mia madre).
Da un vecchio numero del Notiziario delle isole grazie alla biblioteca comunale di lipari, da foto di famiglia, che pubblichiamo, desumiamo che la data dell’evento è 03.02.1958.CERIMONIA DI ADDIO A PADRE PAINO DA PARTE DELLA SCUOLA O3.02.1958 (2).jpg

Tributo d’affetto dell’Istituto Tecnico Commerciale al Rev. Prof. Don Onofrio Paino, che lascia l’insegnamento.

Nel corso di una cerimonia del tutto intima, soffusa di mistica grazia e della più suggestiva commozione, i Professori dello ordine Medio e la scolaresca dell’Istituto Tecnico hanno rivolto il saluto di commiato e l’augurio di ancora lunghi anni di vita felice al Reverendo Prof. Don Onofrio Paino, che per raggiunti limiti di età lascia l’insegnamento di Religione, che egli ha brillantemente…

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sostano nell’atrio dell’edifico scolastico per assistere alla benedizione impartita da S.E. il Vescovo alla sala dell’”Auditorium” oggi completa di ogni attrezzatura che consente adunanze collettive della scolaresca, proiezioni di films e filmine di sussidio e completamento alle discipline di programma, audizione di radiotrasmissioni, di dischi di musica classica o di recitazioni...

Questa Scuola la sua Parrocchia, comprendente il quartiere più misero della nostra Cittadina e questa palestra di gioventù.

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La Scuola gli è grata, ha soggiunto il Preside, anche per la sua singolare ed efficace didattica “scevra da ogni astrattismo; per lui educare la Religione era educare alla vita o, meglio inserire la Religione nella vita…

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DIAVOLI - VULCANI - LEGGENDE - SICILIA - EOLIE In tanti testi si racconta di “diavoli, vulcani, leggende”, alcuni brevi riferimenti. In Generale

Il fondamento storico generale per tutte le leggende riguardanti il diavolo è il trionfo totale e definitivo del cristianesimo sul paganesimo, per cui il diavolo, nell’immaginazione popolare, diventa « la brutta bestia » (’u bruttu bestia), o « l’avversario » (’u virseriu) scornato e debellato; e talvolta la figura del diavolo viene perfino ridicolizzata e beffata, come già nella leggenda di san Giorgio.

In maniera particolare le leggende diaboliche vengono localizzate sull’Etna, e il motivo è evidente. Se l’Etna, come già abbiamo visto per l’età classica, aveva colpito le menti e acceso le fantasie dei greci e dei latini, non è da stupire che, nell’età medioevale, abbia originato fantasiose leggende e meravigliose storie, che il cristianesimo infarcì di diavoli, mettendo quasi sempre il fuoco etneo in relazione col fuoco infernale.

Nessuna meraviglia, quindi, se il medioevo cristiano considerò l’Etna come una porta dell’inferno, e ne popolò le viscere e i contrafforti di diavoli, di anime dannate, di streghe e di folletti a guardia di tesori incantati. Una poesia popolare, però, dice che i diavoli dell’Etna sono buoni lavoratori, e infatti così li invita alla loro caratteristica attività di fabbri:

Diavuli, ch’abitati Mungibeddu calati eh’aviti a fari ’na jurnata; purtativi l’incunia e lu marteddu, c’è di vuscari ’na bona jurnata

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Niccolò Speciale, cronista siciliano del quattordicesimo secolo, che assistette all’eruzione etnea del 1329, asserisce di aver visto i diavoli uscire dal cratere dell’Etna, assumendo vari aspetti, e di averli sentiti predicare orribili menzogne, trascinando così molta gente nell’inferno; e lo storico di Castiglione di Sicilia, Anton Giulio Filoteo De Amedeo, che visse nel sedicesimo secolo, narra (ma con una punta di scetticismo) la leggenda delle anime dannate, convertite in macigni di ghiaccio sulla cima dell’Etna, e rotolanti a valle con lunghi gemiti, finché non cadano nel mare che li inghiotte per sempre.

E il teologo tedesco Praetorius, che scrisse nel 1566, ricorda un’apparizione diabolica sul cratere centrale, sotto forma del dio Vulcano e del suo corteo di ciclopi, poco prima di un’eruzione. Che non soltanto il popolo, ma anche la Chiesa credesse che il cratere dell’Etna fosse una bocca infernale, è provato dal fatto che nella vita di san Filippo d’Agira, scritta dal monaco Eusebio nel settimo-ottavo secolo, è detto che questo santo, sul cadere del quarto secolo, fu consacrato prete in Roma ai tempi dell’imperatore Arcadio, e subito fu mandato in Sicilia per esorcizzare i demoni etnei...

EOLIE. Per quanto concerne le Eolie da vari testi con qualche piccola differenza:

a) la leggenda di Teodorico accolta e descritta da Giosue Carducci nelle sue Rime nuove, per cui il re goto, per le crudeltà commesse contro i cristiani, vien fatto salire su un nero cavallo (che altro non è che un diavolo) e, dopo una corsa vertiginosa, è scaraventato dentro lo Stromboli : Ecco Lipari, la reggia di Vulcano ardua che fuma e tra i bombiti lampeggia de l’ardor che la consuma: quivi giunto il cavai nero contro il del forte springò annitrendo; e il cavaliero nel cratere inabissò.

b) GIOSUÈ CARDUCCI, La leggenda di Teodorico (Rime nuove, 1906). opera originale, solo il riferimento al cavaliere gettato nel vulcano eoliano:

Ecco Lipari, la reggia

di Vulcano ardua che fuma

e tra i bòmbiti lampeggia

de l'ardor che la consuma:

quivi giunto il caval ner

contro il ciel forte springò

annitrendo; e il cavaliero

nel cratere inabissò.

Ma dal calabro confine

che mai sorge in vetta al monte?

non è il sole, è un bianco crine;

non è il sole, è un' ampia fronte

sanguinosa, in un sorriso

di martirio e di splendor:

di Boezio è il santo viso,

del romano senator.

Altra versione riporta: la leggenda di Teodorico accolta e descritta da Giosue Carducci nelle sue Rime nuove, per cui il re goto, per le crudeltà commesse contro i cristiani, vien fatto salire su un nero cavallo (che altro non è che un diavolo) e, dopo una corsa vertiginosa, è scaraventato dentro lo Stromboli :

Ecco Lipari, la reggia di Vulcano ardua che fuma e tra i bombiti lampeggia de l’ardor che la consuma: quivi giunto il cavai nero contro il del forte springò annitrendo; e il cavaliero nel cratere inabissò.

San Calogero. Durante la sua permanenza nell'isola di Lipari, ebbe anche la visione della morte del re Teodorico († 526) che negli ultimi anni aveva preso a perseguitare quei latini che riteneva un pericolo per il suo regno, fra i quali furono vittime il filosofo Boezio (480-524) suo consigliere, il patrizio romano capo del Senato, Simmaco († 524) e il papa Giovanni I († 526).

Ciò è riportato nei 'Dialoghi' del papa s. Gregorio I Magno, la visione si era avverata nell'esatto giorno ed ora della morte del re, e Calogero vide la sua anima scaraventata nel cratere del vicino Vulcano.

In seguito ad altra visione, Calogero lasciò Lipari per sbarcare in Sicilia a Syac (Sciacca), chiamata dai romani 'Thermae' per i bagni termali, presso i quali sorgeva; convertì gli abitanti e poi decisi di cacciare per sempre “le potenze infernali” che regnavano sul vicino monte Kronios, consacrato al dio greco Kronos, che per i romani era il dio Saturno.

Sul monte Giummariaro, altro nome derivante dagli arabi che lo chiamavano monte “delle Giummare”, dalle palme nane che crescevano sui suoi fianchi e che poi prese il nome di Monte San Calogero, come oggi è conosciuto insieme al nome Cronio, il santo eremita prese ad abitare in grotte e spelonche e intimo ai demoni di lasciare quei luoghi.

Gli 'Atti' dicono che il monte sussultò fra il fragore di urla e poi tutto si quietò in una pace di paradiso; Calogero si sistemò in una grotta adiacente a quelle vaporose, che come a Lipari, anche qui esistono abbondanti.

In detta grotta vi è murata sulla roccia, l'immagine in maiolica di s. Calogero, posta sopra un rustico altare, che si dice costruito da lui stesso; l'immagine è del 1545 e rappresenta l'eremita con la barba che tiene nella mano destra un libro e un ramo-bastone, ai suoi piedi vi è un fedele inginocchiato e una cerbiatta accasciata e ferita da una freccia.

L'immagine si rifà ad un episodio degli ultimi suoi giorni, essendo ormai ultranovantenne, egli non trovava più a cibarsi, per cui Dio gli mandò una cerva, che con il suo delicato latte lo alimentava; un giorno un cacciatore di nome Siero, scorgendo l'animale, prese l'arco e trafisse con una freccia la cerva, la quale riuscì a trascinarsi all'interno della grotta di Calogero, morendo fra le sue braccia.

Il cacciatore pentito e piangente, riconobbe nel vegliardo colui che l'aveva battezzato anni prima, chiese perdono e Calogero lo portò nella vicina grotta vaporosa, dandogli istruzioni per le proprietà curative di quel vapore e delle acque che sgorgavano da quel monte. Il cacciatore Siero, divenuto suo discepolo, salì spesso sul monte a visitarlo, ma 40 giorni dopo l'uccisione della cerva, trovò il vecchio eremita morto, ancora in ginocchio davanti all'altare; secondo la tradizione era morto nella grotta fra il 17 e il 18 giugno 561 ed era vissuto in quel luogo per 35 anni.

Diffusasi la notizia accorsero gli abitanti delle cittadine vicine, che lo seppellirono nella grotta stessa, poi trasferita in altra caverna di cui si è persa la memoria lungo i secoli...

Leggende specifiche siciliane

a) Il diavolo può essere anche beffato, come dimostrano le leggende relative ai « diavoli pinnulini », cioè ai diavoli che stanno sospesi in aria, che si raccontano ad Acireale e dintorni.

b) Vi sono quelle sono quelle che riguardano Pietro Baelardo, o Baialardo, il quale, ancor ragazzo, era capace di imporsi ai diavoli.

c) Per esempio a Ragusa si racconta una leggenda che presenta un’evidente analogia con quella di Pietro Baelardo, perché si narra di un maestro di scuola che teneva i diavoli dentro una tabacchiera e un giorno, avendo dimenticato la tabacchiera a casa, mandò uno dei suoi giovani allievi a prenderla. Il giovane andò ma, come avvenne a Pietro Baelardo, fu vinto dalla curiosità ed aperse la tabacchiera; uscitine i diavoli, egli comandò loro, dato che si trovava in un luogo scarso d’acqua, che costruissero subito cento pozzi: il che fu immediatamente fatto.

SANTI solo due brevi citazioni:

La leggenda di S. Giorgio e il diavolo

a) S. Giorgio è un santo molto venerato in Sicilia, specie nella parte orientale dell’Isola e su di lui v’è una leggende, quasi una fiaba, che ha degli aspetti interessanti.

b) SAN MICHELE ARCANGELO E LUCIFERO. Questa leggenda, nonostante la sua brevità, è densa di significati. L'episodio più rilevante è la lotta fra San Michele Arcangelo e Lucifero, il cui valore simbolico è la lotta del bene contro il male.

Il racconto, come tutti i racconti popolari, denota semplicità ed ingenuità. Sembra, infatti, che tutta la vicenda si svolga nel cielo sovrastante la Sicilia e che al di fuori della Sicilia non esista nulla.

Non ci viene difficile capirne la ragione. Per i nostri antenati, che non avevano i mezzi per viaggiare con tanta rapidità come facciamo oggi, il loro mondo era l’isola.

Epica Cavalleresca del ciclo Carolingio

Direi che merita menzione anche Malagigi o Malagigio, personaggio dell'epica cavalleresca: un ladruncolo burlone e astuto, abilissimo nel trasformarsi, dotato com'è d'arti magiche e in buon accordo con i diavoli. È tra le figure più felici del Morgante di L. Pulci, dell'Orlando innamorato di M. M. Boiardo e dell'Orlando furioso di L. Ariosto.

Attinto da: vari testi di Giuseppe Pitrè - LEGGENDE DI SICILIA Santi Correnti longanesi editore 1975 - LEGGENDE MEDIOEVALI SICILIANE Francesco Purpura. Trinakria Editrice - Leggende e racconti popolari della SICILIA Nino Muccioli.

la grotta del diavolo in lipari. LEGGENDE POPOLARI IN SICILIA 1904 GIUSEPPE PITRE'.JPG

Le isole di Eolo di Gustav Renker con 8 tavole del professore Franz Kienmayer.

Traduzione di Valeria Giaquinto 3 parte

I crateri sono tutto in queste isole, la lava e le ceneri riposano sotto un metro di strato di humus. L’ho potuto osservare grazie ad un sentiero in una gola che da Lipari sale sul crinale tra Monte Sant'Angelo e il Monte Guardia. Il sentiero ha uno strano nome: “Via Muensinger”. Nessuno è riuscito a spiegarmi l’origine di questo nome. Cosa c'entri questo nome tedesco con il sentiero di Lipari resta per me un mistero. Ho percorso “Via Muensinger” in buona compagnia: il segretario di nome Paternò, a cui ho già accennato, alcuni giovani e persino due carabinieri. Volevano sparare ad alcuni cani di campagna malati di rabbia. Come al solito la giornata era calda ed il sole pungente. Questo ha fatto sì che l'ospitalità liparota sottovalutasse le capacità di un alpinista svizzero-tedesco.22222 persone lipari.jpg

E così per “lo Scrittore svizzero” era stato portato sul posto un asinello. L’asino era visibilmente soddisfatto quando ho dichiarato di voler camminare da solo senza il suo aiuto. Mi ha guardato con gratitudine, ha mosso le orecchie e ha mordicchiato i fichi d'India rossi che brillavano pungenti sui cespugli di cactus. Ma la gioia dell'asinello non durò a lungo. Uno dei giovani liparoti saltò audacemente in groppa al grigio animale, colpì i fianchi dell’animale con i talloni e così per l’asinello finirono le leccornie delle siepi di opunzia.

L'asino fu costretto a salire al trotto la ripida “Via Meunsinger”. Nel frattempo, lo Scrittore svizzero è riuscito a decifrare il libro sulla storia di quella terra, che si era aperto improvvisamente davanti ai suoi occhi. La zappa e la vanga che avevano scavato quel sentiero nella gola della montagna tradivano una storia antica. Era la storia di una catastrofe. Molte migliaia di anni fa, la cima del Monte Sant'Angelo era un cratere incandescente. Forse non ha distrutto città e culture come ha fatto il Vesuvio in seguito. Ma piante e animali antidiluviani sono stati totalmente ricoperti dalla lava, che a quel tempo tesseva una rete rovente attorno ai fianchi del Monte Sant'Angelo.

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Prima arrivò la lava che formò lo strato di terreno che è l’attuale “Via Muensinger”. Al di sopra della lava si trova uno strato di cenere alto circa due metri. Questo materiale è lo stesso che è stato estratto dagli scavi di Pompei. La lava e la cenere hanno formato il terreno in cui è stato scavato il sentiero di montagna che stavamo percorrendo. E con straordinaria chiarezza potevo leggere, osservando i diversi strati, ciò che era accaduto qui in tempi lontani. Le erbe e gli arbusti affondano le loro radici nell'ultimo strato di cenere e qui inizia lo strato di humus.

Sopra di esso troneggia la brulla cima del Monte Sant’Angelo, nelle cui conche del cratere ora pascolano le capre. Come un’enorme salma la montagna sovrasta l’isola di Lipari. Ma chi può dire che il cratere rimarrà spento in eterno? La terra siciliana impone ai suoi abitanti un continuo Memento mori. E questo richiamo arriva anche fino alle isole Eolie.

 

Ne avevamo parlato con Gennaro Leone nella rubrica sul Notiziario delle Isole Eolie, ora pubblichiamo per intero la poesia di Peppino Bonica Calandra, Grazie alla Biblioteca Comunale di Lipari dal numero del Notiziario delle isole eolie del nov. Dic. 1978:

Odo, sul silenzio austero dei campi, la voce del grano: è l'agreste invito all'uomo, è la gioia della terra nel suo inno al Sole !

Scintillano, le contrade, di graminacee impulsi, e l'uomo, felice, Ie contempla. I sentieri esultano di gioia e le erbe verdeggiano su per i colli.

Ritorno a te, sublime antica Madre, al tuo fecondo amore ritorno: dice la Vite ! Le foglie del tuo cuore a me verranno con i grappoli di sangue del tuo grembo, i canti della vendemmia mi porteranno: l'amore, il bene e la gioia della Valle. Il mosto fermenterà in tutti i Tini, e nelle botti profumeranno i vini.

L'uomo ritorna a te, madre d'amore,

l'uomo ritorna a te, terra divina !

Che gioia, che gioia in ogni cuore !

Che gioia, terra mia fatta d'amore,

di bionde messi, di verdi ulivi,

di pace e d'allegri casolari al sole.

Ti guardo nel silenzio della sera,

come smarrito in un mondo già lontano,

ti sogno ricca e non è chimera,

fatta di pace, di verde e tanto grano !

Uliveti, Ficheti, Cappereti e Vigneti

rivedo ubertosi sul tuo fecondo seno.

Rivedo le spighe d'oro sotto il sole

la pace nelle famiglie, l'allegro focolare.

Il Palmento, la Cantina e il Magazzino.

Rivedo i buoi sull'aia abbandonata; i covoni al sole, la mamma affaccendata!

Rivedo te che spagli il grano.

L’aia rivedo, quando il sole scende sull'ora mesta della quiete sera. Ritorno alla Terra: il vento esclama!

E le pergole pendono grappoli d'oro!

Il vino scintilla, là, sul Desco accanto al Focolare, e il grano canta la sua canzone di pane; mentre, serena, scende la gioia in ogni cuore.

E' il ritorno alla Terra, alla grande Madre !

(Filicudi, Capodanno 1975)

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ATTILO MORI L'EMIGRAZIONE DALLE ISOLE EOLIE 1919

Il fenomeno dell’emigrazione all’estero, quasi inosservato in Italia prima dell’unificazione del Regno, accentuatosi specialmente dopo il 1870, ma limitato dapprima alle sole provincie settentrionali, raggiugendovi proporzioni altissime, capaci di suscitare preoccupazioni e timori forse anche esagerati. Circa alle cause ed agli effetti che tale fenomeno determina e produce, molto fu già scritto, onde si possiede ormai un’abbondante letteratura che lo esamina e lo illustra, mettendo in evidenza le particolarità peculiari di alcune speciali regioni………………..

Caratteri alquanto diversi da quelli di altre regioni italiane presenta l’emigrazione delle Isole Eolie, per quanto si riferisce sia ai luoghi dove essa si dirige, sia agli effetti che essa produce. Il soggiorno di alcune settimane fatto per debito d’ufficio a Lipari avendomi offerto il modo di raccogliere sul posto alcune informazioni intorno a questo soggetto, credo opportuno di pubblicare come contributo modestissimo alla conoscenza del fenomeno di maggiore rilievo forse fra quanti interessano la vita sociale italiana contemporanea.

Le Isole Eolie formano, com’è noto, un gruppo di sette isole principali, tutti più o meno densamente abitate, e di alcune isolette e scogli minori. I dati relativi all’area ed alla popolazione di ciascuna di queste sette isole sono riepilogabili nella seguente tabella:

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Complessivamente le Isole Eolie, su duna superficie totale di km. 114.69, accolgono una popolazione di 19.558 ab, onde la densità media si ragguaglia a 171 ab., superiore notevolmente alla media densità della popolazione siciliana (143) e più ancora a quella generale del regno (121).

Ove poi si faccia eccezione dell’isola di Vulcano, a causa della sua costituzione geologica quasi affatto disabitata, si vede come la popolazione si addensi particolarmente a Lipari, la cui città capoluogo con i suoi 6500 ab. Forma un terzo della popolazione complessiva del gruppo, e come nelle altre la densità sia quasi uniforme e di poco si discosti dalla media generale. Non è qui il caso di riandare le vicende che ebbe a subire la popolazione di queste isole nei tempi storici, intorno alle quali non si posseggono del resto dati sicuri. Basterà ricordare come il primo novero sicuro degli abitanti del gruppo risalga solo al censimento del 1798, il quale dette un risultato di 12183 ab. Da allora la popolazione andò crescendo sino all’unificazione del Regno, onde nel 1871 era di 14467 ab. E nel 1861 di 19133.

Il censimento del 1871 accusa invece una notevole diminuzione, la popolazione essendo discesa a 16297 ab.; poi il movimento ascendente riprese al 1901, portando a 18990 la popolazione del 1881 e a 20455 quella del 1901. Il censimento del 1911 da una popolazione residente di 20610 ab., ciò che mostrerebbe una notevole stazionarietà nel decennio; ma la popolazione presente all’atto del censimento fu di soli 19558 ab. La differenza indica che oltre un miglia di abitanti si considerano come temporaneamente assenti dalle Isole; questa cifra è tuttavia considerevolmente inferiore a quella rappresenta, a quella data, l’emigrazione all’estero degli isolani.

Che tale emigrazione – di cui le prime notizie appaiono nelle statistiche del 1882 83 con un cifra complessiva di 871 emigranti, dei quali solo 81 con carattere temporaneo – sia determinata dalla necessità di procurare uno sfogo alla crescente popolazione, alla quale la limitata estensione delle terre coltivabili nelle isole natie non poteva offrire i mezzi necessari alla sua sussistenza, è ovvio. Ma il fenomeno non potrebbe essere esaminato nel suo complesso, diverse essendo le condizioni in cui si svolge in ciascuna isola e diversi gli effetti che esso vi produce. Gioverà quindi esaminarlo particolarmente per ciascuna delle isole del gruppo, astrazion fatta da Vulcano che, come vedemmo, è quasi completamente disabitata.

LIPARI – L’isola di Lipari è la maggiore del gruppo e la più popolata, giacchè, come fu detto, il numero dei suoi abitanti rappresenta da solo oltre la metà della popolazione complessiva delle Eolie. Tale popolazione si densa per oltre due terzi (6562) nella cittadina capoluogo. Un altro nucleo considerevole (1325 ab.) è costituito dall’abitato di Canneto, villaggio marittimo sulla costa orientale dell’isola a due km. A nord del capoluogo. Il rimanente (2476) vive nelle campagne nelle adiacenze immediate dei due centri sopra indicati o costituisce i villaggi agricoli sparsi di Pianoconte e di Quattropani, posti entrambi nelle parti centrali ed elevate dell’isola. Questa, com’è noto, è di carattere totalmente montuoso e in gran parte, per la natura del suolo, impropria alla coltivazione. Ma le pendici inferiori, specialmente dal lato di levante dell’isola, e gli altipiani centrali ove sorgono i due villaggi sopra indicati si ricoprono di vigneti che danno un prodotto molto celebrato. Assai abbondante e pregiata è altresì la produzione della frutta, nella preparazione della quale i coltivatori dell’isola hanno acquistato una grande abilità, utilmente sfruttata anche dall’emigrazione, come vedremo più oltre. L’escavazione e la macinatura della pietra pomice, che si estende ai fianchi del Monte Pelato e che forma una grande sorgente di ricchezza dell’isola, occupa la quasi totalità della popolazione del villaggio di Canneto e in parte anche della città di Lipari costituita in maggioranza da esercenti, da artigiani, marinari, pescatori, ecc.

L’incremento costante della popolazione, determinato dall’eccedenza delle nascite sulle morti, cui non corrispondeva un aumento proporzionale nello sviluppo dell’agricoltura o di altre fonti di sussistenza, e insieme l’esempio venuto dalle isole contigue, ove il fenomeno si era andato manifestando da più tempo, furono di stimolo ad un sensibile movimento migratorio per l’estero, che, limitato dapprima a pochi casi isolati nel periodo 1870-1880, andò acquistando un intensità negli ultimi anni che precedettero immediatamente la guerra.

No si posseggono dati statistici particolari sul movimento di emigrazione limitato alla sola Isola di Lipari, giacchè quelli pubblicati e quelli altresì che ho potuto procurarmi direttamente sul posto si riferiscono all’intero comune, il quale comprende tutto il gruppo insulare, tranne Salina. Secondo le statistiche ufficiali, nel periodo che va dal 1882 83 al 1889 l’emigrazione dal comune oscillò tra 100 e 400 persone all’anno e raggiunse la cifra di 606 nel 1900. Per il periodo 1901-1914 pubblico i dati fornitimi dall’Amministrazione comunale, secondo i quali l’emigrazione è distinta per paese di destinazione:

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(tali dati non corrispondono esattamente a quelli pubblicati dalla Direzione generale della Statistica, la quale sino al 1904 teneva distinta, ma con criteri troppo spesso incerti e fallaci, l’emigrazione propria o permanente da quella temporanea).

A questi dati complessivi riguardanti l’intiero comune faccio seguire le notizie particolari che si riferiscono alla sola Isola di Lipari, quali ho potuto raccogliere da varie fonti sul luogo. L’emigrazione da quest’isola ha carattere assolutamente temporaneo, perché la generalità degli emigranti rimpatria dopo 2 o 3 anni al massimo di assenza. Contribuiscono a formarla in prevalenza le classi rurali della campagna e in parte anche gli operai e mestieranti della città. La massima parte degli emigranti si dirige verso gli Stati Uniti e specialmente ai porti di New York e di Boston, dove trova impiego nei lavori di sterro, nelle costruzioni stradali o nelle operazioni di carico e scarico portuale.

Solo una piccola parte si dirige in Australia per esercitarvi il commercio della frutta che forma, come vedremo, una particolarità dell’emigrazione di Salina. Grandissimi sono in vantaggi che l’isola ricava dall’emigrazione. Il benessere economico e la civiltà degli abitanti, l’amore e l’interessamento per l’istruzione ne sono notevolmente accresciuti. L’analfabetismo, un tempo molto diffuso, si può dire tenda ormai a scomparire la classe dei piccoli proprietari, cui le magre risorse del possesso coltivato mal rispondevano alle necessità della vita. Gli emigranti che rimpatriano impiegano i loro risparmi nell’acquisto di questa proprietà e nel migliorare ed estendere le abitazioni e le culture.

All’opera degli emigranti rimpatriati si deve il sorgere delle linde ed eleganti casette sparse in vari punti dell’isola, ma che specialmente allietano i dintorni delle città. Così la popolazione, lungi dall’assottigliarsi, va gradatamente accrescendosi, come provano gli ultimi censimenti. Lipari, che limitatamente all’isola principale contava 7542 ab. Nel 1881, ne aveva 8649 nel 1901 e salì a 10363 nell’ultimo decennio, ciò corrisponde ad un aumento medio annuo del 27 per cento.

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Le isole di Eolo di Gustav Renker con 8 tavole del professore Franz Kienmayer.

Traduzione di Valeria Giaquinto 2 parte

Le isole Eolie sono appartenute una volta alla Sicilia, poi a Napoli, e infine nel 1609 furono annesse in via definitiva alla Sicilia. Le valvole del fuoco terrestre erano state chiuse da tempo, l’erba cresceva e cresce ancora negli ampi crateri, e il sole riscalda la Malvasia. Solo Vulcano, se si esclude il vulcano Stromboli che è sempre attivo, resta un tipo inquieto. Sembra un mostro sempre in agguato, il cui manto è uno strato di lava grigio scuro pieno di crepacci, dalle cui crepe e fessure fuoriescono pesanti nubi di vapore giallo sulfureo. Una montagna terribilmente brulla, insidiosa e pericolosa. Uno stretto, dai cui abissi si innalzano grotteschi denti di roccia, separa la gaia e popolata isola di Lipari, dall'isola di Vulcano, dove si trovano solo le poche misere capanne degli operai che vi estraggono lo zolfo.

Un sentiero ripido e tortuoso tra cenere e pomice erosa dagli agenti atmosferici conduce al bordo del cratere. Ma Vulcano sembra morto, solo le pigre e lente nuvole di zolfo si riversano sul crinale. Pertanto, la minaccia repentina di un fuoco che ancora scava nelle profondità della terra rende il luogo spettrale. Anche sul cratere di Stromboli non cresce neanche un filo d'erba, nessuna Opuntia spinosa si aggrappa a quella roccia, che solo pochi anni fa era forse il nucleo incandescente della terra. Ma qualcosa di più maestoso vive lassù, dove il continuo e ricorrente tuono delle eruzioni scuote l'aria. Si sente il battito della terra, si sentono i battiti del suo sangue ardente che pulsa.

La sorprendente regolarità delle eruzioni di Stromboli ricorda il mostruoso ticchettio dell'orologio del mondo. I geologi di tutti i Paesi hanno studiato questo fenomeno e avanzato le ipotesi più ardite. Ma nessuno ha ancora risolto l'enigma di Stromboli. Il vulcano dal canto suo è intransigente. In nessun altro luogo oltre questo, può trovare giustificazione il titolo del film „La montagna della morte”. I fiori che qui non possono crescere sono stati sostituiti dalla montagna con i colori dei suoi tesori minerali. Il giallo intenso dello zolfo, l’acido borico e il cloruro d’ammonio hanno dipinto la roccia lavica. È un quadro spietato e senza vita: il più semplice ranuncolo della nostra montagna tedesca è più bello dello splendore dorato dello zolfo incandescente. Uccelli marini planano qui pesantemente dalla lontana costa siciliana.

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Ora si avvicinano al bordo del cratere, interrompono il loro volo rettilineo, si allontanano, volano tracciando un ampio arco attorno alla cupa porta del mondo sotterraneo. Nessun uccello vola sopra il cratere del vulcano. Solo le nuvole di vapore sulfureo vagano come fantasmi gialli sull'isola calda e arida. Tutto ciò che sorge dal mare qui è un cratere. La lontana isola di Filicudi, dove da uno crepaccio su Capo Graziano si sollevano vapori di acido solfidrico, e l’isola di Salina, ricca di vegetazione, che anticamente si chiamava Didyme (Gemelli).

Tra le sue due cime, il Monte Salvatore e il Monte Vergine, c’è poca differenza. La forza primordiale di questi luoghi, che ha creato anche quest’isola come le altre, qui a Salina si è tradotta in terra ricca e fertile. Tra le due montagne gemelle scende una valle che mi è sembrata un idillio dopo lo spettacolo della natura indomita e selvaggia a cui avevo assistito…

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A proposito dell'incidente aereo del Savoia-Marchetti S.M.73 delle Avio Linee Italiane del 1940 su Stromboli e della scrittrice Mura, di cui ho letto ieri mattina articolo dell'amico Giuseppe La Greca in merito al libro di Sorgi, riporto un episodio credo inedito sull'argomento:
, “La Settimana Incom Illustrata” anno VII N. 35 DEL 28.08.1954. “”Come Remigio Paone si salvò dall’incidente aereo del Savoia-Marchetti S.M.73 delle Avio Linee Italiane del 1940.

LA SUA LOBBIA PIACEVA A BALBO.

Il maresciallo lo apostrofava “sporco antifascista” ma lo mandava a chiamare fin da Tripoli per fare quattro chiacchiere con lui. A pochi mesi dalla guerra gli chiese di organizzargli un film sulla Libia diretto da Duvivier, con Michele Morgan e Jean Gabin.

L’aereo del Sabato. Remigio Paone usci alle due di notte dal Palazzo del Governatore con un diavolo per capello inveendo in cuor suo contro i messaggi urgenti, le follie dei marescialli e la stupidaggine del “padrone”. Al bar dell’Albergo (era l’albergo Uoddam, il migliore di Tripoli, allora), incontrò Chiavellini e la scrittrice “Mura”. Chiacchierò con loro fino alle quattro del mattino, tentando di spiegare a “Mura” (che voleva convincerlo a rimandare la partenza perché lei aveva il biglietto per il famoso aereo del sabato mattina) come fosse impossibile dire di no al maresciallo. Alle cinque e mezzo saliva sull’aereo per Roma.

La follia di Balbo, quella volta, gli salvò la vita. L’aereo del sabato mattina non arrivò mai a Roma. Andò a fracassarsi contro lo Stromboli ( marzo 1940) e Mura (la scrittrice Maria Assunta Giulia Volpi Nannipieri, brillante giornalista) morì nell’incidente, insieme a tutti gli altri passeggeri. Si salvò solo il pacco della posta. Paone lo seppe il giorno stesso. Era a Genova, all’Hotel Miramar, insieme a Balbo e a Duvivier. Il maresciallo era arrivato giusto in tempo per il tè, aveva ammarato con il suo idrovolante personale nelle acque di Genova ed ora discuteva amabilmente di cinema insieme al regista francese. Era la prima volta che Balbo e Duvivier si incontravano, ma in poco più di un’ora il maresciallo aveva conquistato il suo ospite. Gli spiegò per filo e per segno come voleva fosse fatto il film, quali erano i suoi sentimenti, che cosa voleva si mettesse maggiormente in evidenza.

Ad un certo punto parlarono anche della guerra e Balbo ripetè la sua frase preferita, “il padrone non è fesso”. Ma la disse in francese e tradusse letteralmente, “padrone” in “patron”, cose che divertì molto Duvivier, il quale immaginava che tutti i fascisti, piccoli o grandi, designassero il loro capo soltanto con il nome di Duce.

Quando una telefonata del suo segretario avvisò Balbo della sciagura aerea dello Stromboli, il maresciallo – che pure era un uomo abituato ad ogni sorta di pericoli e di brutte notizie – diventò pallido come un morto. “”Salame! – disse a Paone. – D’ora in poi cerca di ricordarti che sei ancora al mondo lo devi a Italo Balbo”. Quindici giorni dopo mentre Paone stava nella hall dell’albergo Excelsior a Roma in compagnia di Porcili e di Viarisio, gli recapitarono un pacco. La carta era un po’ lacerata, ma si vedeva ancora chiaramente l’indirizzo dell’albergo , l’Albergo Uoddam di Tripoli. Allora gli venne in mente che nella fretta di partire aveva dimenticato alcune camicie in albergo e che aveva telefonicamente pregato la direzione di spedirgliele con il prossimo aereo, quello del sabato. Paone non ha mai aperto quel pacco. Così come glielo consegnarono nella hall dell’Excelsior, con tutti i timbri, lo spago e la ceralacca e quella carta un po’ stracciata, si trova ora a Milano, nell’armadio dove tiene la sua biancheria personale. “Non ho mai avuto coraggio di disfarlo – dice. – Al solo pensiero che è stato là sullo Stromboli, insieme a quei poveretti che sono morti, mentre io mi sono salvato per un caso, mi fa venire i brividi””.

Ma chi era Remigio Paone, alcune notizie su di lui:

FORMIA – “E’ di principi socialisti riformisti […]e si è dimostrato e si dimostra oppositore irriducibile del Fascismo”. Era il 1928, a contenere queste parole sul formiano Remigio Paone è un verbale redatto dalla Questura di Roma, spedito all’indirizzo del Ministero dell’Interno, Direzione generale di Pubblica Sicurezza, Polizia politica.

Il signore dei prosceni nazionali, apprezzato tra i sipari internazionali, lo “Ziegfield italiano” di Formia (Lt) – la cui memoria è andata un po’ persa nei meandri della storia teatrale e politica – nascose attori e attrici di origini ebrea, sfidando il Regime, nelle compagnie pronte a calcare i suoi palcoscenici, muovendosi tra le sue quinte teatrali in cui li ospitava prima sotto mentite spoglie pur di vederli esibirsi, più tardi per consentirgli la fuga.

Il suo nome, in prima battuta, suggerisce i connotati del rinnovatore teatrale per eccellenza: celebrato produttore e regista di spettacoli di rivista e prosa, direttamente ispirati alla tradizione europea e americana. Citare Remigio Paone significa far vibrare il nome del “padre”del “Teatro Nuovo” di Milano, accompagnato per circa trent’anni dalla sua gestione; rimanda agilmente a memorabili collaborazioni con celebrità del calibro di Totò, Riccardo Muti, Walter Chiari, Macario, Vittorio De Sica, Gino Cervi, Renato Rascel, e al merito di aver concesso al pubblico italiano di quegli anni di conoscere tanti altri prestigiosi attori e gruppi teatrali stranieri.

Egli, però, fu anche tassello della Resistenza italiana e contribuì a farla salda e grande con il suo teatro, al quale continuò a dedicarsi per l’indispensabile apporto culturale del Paese – garantendo, anche in fuga dagli ordini di cattura dell’Ovra, che i sipari si alzassero sui palcoscenici da lui gestiti – ma anche con la sua militanza politica nelle prime file del PSI, iniziata col tesseramento del 1929, terminata solo con la sua morte, e articolata anche in una profonda fedeltà politica e amicizia privata con il leader Pietro Nenni.

Va ricordato che la presenza del leader socialista nella città di Formia avvenne nella casa che costruì dopo l’acquisto di una porzione di terreno poco distante dalla residenza “La Caravella” di Paone, proprio su suggerimento dell’amico Remigio.

D’altro canto era l’intera famiglia dell’impresario ad avere connotazione anti-fascista, in particolare il papà Giuseppe – da cui la fede politica socialista – e il fratello l’avvocato Mario Paone, spostatosi col tempo su posizioni comuniste, sempre schierato in difesa dei compagni colpiti dal Regime, nel cui mirino ruotavano tutti e tre, essendo considerati a capo dell’anti-fascismo formiano.

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Le isole di Eolo di Gustav Renker con 8 tavole del professore Franz Kienmayer.

Traduzione di Valeria Giaquinto (1 parte)

Il piccolo piroscafo “Adele” è partito per le Isole da Milazzo sulla costa settentrionale della Sicilia. Lontane dalle rotte più battute le Isole Eolie si innalzano dalle onde del Mar Tirreno. Esse non offrono hotel, non hanno elettricità né strade percorribili da alcun mezzo. Le isole Eolie sono uno dei luoghi meno conosciuti all’interno dei confini d’Europa. Dietro la lunga lingua rocciosa di Capo Milazzo la tempesta si abbatte sulla nave a vapore facendo rotolare bovini e capre, madri e bambini, uomini e bottiglie di Chianti. Il capitano dell’”Adele” non ne è per niente turbato, al contrario, mangia tranquillamente i suoi fagioli all’olio accucciato su un pacco di merce.

È quasi sempre la stessa storia, chiarisce il capitano. Le isole Eolie! Le isole di Eolo! Vengono evocate antiche memorie. Per questo tratto del Mar Tirreno eternamente mosso gli antichi avevano una leggenda. Sulle isole viveva Eolo, il dio dei venti. Ma non era l’unico a regnare su questi luoghi: Efesto, il dio del fuoco, gli contendeva il comando. Concedere all’irrequieto Eolo di dimorare sui monti delle Isole Eolie era per Efesto un atto di grande superiorità. Il suo gesto assomigliava a quello di un costruttore edile sul cui maestoso palazzo gira chiassoso uno stormo di passeri. In realtà quest’arcipelago, che esce dal mare con sette teste (Lipari, Vulcano, Salina, Filicudi, Alicudi, Panarea e Stromboli), è opera di Efesto.

Egli infatti ha spinto queste isole verso l’alto dalla sua immensa fucina nelle viscere della terra come se fossero delle scorie di cui disfarsi. Le aveva utilizzate a lungo come ciminiera per il suo fuoco eterno. Oggi si serve solo di Vulcano e di Stromboli utilizzandole come valvole a vapore. I crateri delle altre isole sono invece estinti – il loro fuoco si manifesta solo in una forma gradita a noi uomini: sulle piante di viti, infatti, riscaldate dal sole e protette dal vento, cresce l’uva dal colore blu notte, da cui si spreme la Malvasia, un vino pericolosamente dolce, che viene venduto in Europa a prezzi vicini a quelli dello Champagne, ma che sulle isole costa otto lire al litro. Le scorie dell’officina di Efesto brillano ora bianche sul mare.

Anche se questo possa sembrare strano: sembra quasi che in questo luogo abbia nevicato da poco con trenta gradi all’ombra. Guardando l’isola di Lipari si vede infatti fioccare in mare dalla cima del Monte Sant’Angelo qualcosa di colore bianco smagliante; già dalla costa siciliana si poteva scorgere questo scintillio e luccichio cadere sulle onde, simili al dorso dentato di un drago “Pomice”! spiega il Capitano indicando il miracolo bianco con le mani unte d’olio, mani che usava come un cucchiaio per mangiare i suoi fagioli. Pomice – questa è pietra pomice. Man mano che il piroscafo si avvicina all’isola, la pietra diventa sempre più visibile. La pietra porosa, piena d’aria, è più leggera dell’acqua.

Come chi riceve il battesimo così la pomice si muove e galleggia sulle onde; la riva sempre più vicina sembra brillare ricoperta di pomice, e ora con l’aiuto di un binocolo diventano ben visibili nella parete delle grotte scure: i fori delle grandi cave di pomice. Prima della guerra esse erano gestite da alcune imprese tedesche, che qui hanno realizzato ottime fabbriche. Ora sono gestite dagli italiani, che estraggono da soli la pietra. La pomice di Lipari rifornisce tutta l’Europa; l’America invece si rifornisce dalla terra vulcanica di Tenerife. Ogni donna a Berlino, a Vienna, a Parigi o a Londra, porta con sé nella borsetta un pezzo della terra liparota in polvere nel portacipria. Il mare appare come stretto da due tenaglie di un mostro: le scogliere di Lipari si ergono ad angolo obliquo rispetto alle pareti laviche di Vulcano.

Sulla spiaggia il Signore di questa terra, Efesto, ha concesso agli uomini uno spazio per costruire un proprio insediamento urbano. Qui il bianco ammasso di case della città di Lipari si estende sui clivi e negli avvallamenti del terreno. Gli abitanti non sono però riusciti a strappare alla roccia un porto. Non è facile trovare un alloggio dignitoso nella cittadina di Lipari. Nella strada principale ho visto un albergo “Stella d’Italia”, dove per fortuna mi fu risparmiata la conoscenza della fauna degli insetti liparoti. Appena arrivai, mi era già stata preparata una stanza pulita, e un’osteria mi fornì il cibo necessario per vivere. Tutto questo lo dovevo ad una lettera che avevo precedentemente indirizzato al Sindaco di Lipari.

Qui, lontano dalle grandi rotte di viaggio internazionali, ho imparato la vera ospitalità e la sincera disponibilità delle persone, qui il popolo italiano mi si è rivelato nella più integra e libera cortesia, che accoglie lo straniero con ogni cura e attenzione, forse anche con affetto. E le persone si comportano così senza avere un secondo scopo, senza fine di lucro. Così si è comportato con me il sindaco, che mi ha procurato vitto e alloggio, e come se non bastasse mi ha anche messo a disposizione il suo segretario personale come mio accompagnatore fisso, senza prendere da me un solo centesimo. Ed il mio proprietario di casa non si è certo arricchito con la cifra irrisoria che gli ho dovuto versare per l’affitto.

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Si può pensare all’Italia come si vuole, si può pensare ad esempio a ciò che accade in Alto Adige stringendo involontariamente i pugni; gli abitanti di queste isole, le più lontane isole d’Europa, non sanno nulla dell’ingiustizia, che i loro compatrioti stanno compiendo nei confronti del popolo tedesco austriaco là su al Nord. Qui giù si è felicemente lontani dal mondo. La terra è sterile e arida, perché come qui spesso accade non piove per mesi interi. Tuttavia questa terra riesce a sfamare le poche persone che ad essa si affidano. L’uva e i fichi maturano al sole – la terra offre i suoi tesori. A Vulcano si estrae lo zolfo, i fuochi sotterranei riscaldano le radici nodose dell’uva Malvasia, e il meraviglioso mare riempie le reti da pesca. Il mare! Dalle sue profondità, quando sulla superficie della terra si verificavano grandi movimenti, sono sorte le isole. Una fila di colonne di fiamme ardenti, le cui braci potrebbero aver dipinto sull’acqua strade rosse e oscillanti.

Efesto fece girare vorticosamente la sua ciminiera ed Eolo afferrò le raffiche di fuoco e le lasciò cadere sull’acqua come bandiere di porpora. Questo deve essere accaduto tanto tempo fa, milioni di anni prima che Cornelio Scipione con la sua flotta cadde prigioniero a Cartagine. Questo accadde nel 260 avanti Cristo. I Liparoti raccontano ancora oggi allo straniero, che in tempi antichi al largo delle loro isole fu combattuta una grande battaglia navale. Lo hanno imparato a scuola. L’alito caldo della storia del mondo ha sfiorato una volta queste isole lontane dal mondo. Una volta sola, ma di questo i liparoti sono molto orgogliosi: durante il mio soggiorno la storia della grande battaglia navale mi è stata raccontata almeno una dozzina di volte. Solo che ogni volta in modo diverso. Una volta hanno vinto i Cartaginesi, un’altra i Romani, infine gli Spagnoli; persino i Greci secondo loro non erano estranei alle guerre puniche. Dallo sfortunato giorno di Cornelio Scipione i flutti della storia non si sono più infranti sulle coste di Lipari.222222222222222222222 cave di pomice.jpg

Le Stromboli Brun Albert 1901 4° ed ultima parte:

Ma parliamo dell'abitante di quest'isola.
Gli Strombolioti ha il tipo siciliano: capelli, occhi, barbe nere. Le donne hanno una curva rotonda e sono molto meno rugose, per la stessa età, di quelle del continente. L'uomo è piuttosto basso. Egli è un ottimo navigatore e i marinai che capiscono l'inglese non sono rari. La pesca e la coltivazione della vite sono le uniche risorse degli isolani, che sono compiacenti: spesso mi veniva offerto del vino al mio passaggio davanti alle case, vino che non osavo rifiutare, che per la sua ricchezza alcolica (17 A), mi ha turbato la mente per un'ora o due.

Mi fecevro entrare in cantina, una specie di negozio, dove le botti, i remi, i filetti, il pesce secco, frammenti di barca, le corde, erano mescolati in modo pittoresco. Davanti alla porta, la popolazione, uomini, donne, bambini, famiglie intere, mi guardavano bere. Perché è molto curioso un “forestiero” che beve. Avrei preferito un bicchiere d'acqua; ma questa è rara. In tutta l'isola c'è solo una piccola piccola sorgente, a mezza altezza del cono. Le case hanno un tetto piatto, leggermente scavato per ricevere l'acqua piovana che si accumula in una cisterna per servire poi agli usi domestici. All'uscita della cantina ero sempre seguito da tutti i bambini che possono camminare.6.JPG

 

Loro non mi hanno mai lasciato, spesso volevo liberarmene scalare ripide pareti laviche, ma quei ragazzi erano arrampicatori migliori di me, nonostante i piedi nudi e la bassa statura. La mia piccozza li stupì, e fu a lui che lo eresse il portatore. Feci diverse escursioni nell'isola, ma questa non è grande e il cratere attira sempre. Non ci sono molte spiagge, e quella di S. Vincenzo è nera, colore della roccia. Le onde dappertutto vengono a battere le scogliere delle colate di lava vecchie tagliate a picco, in modo che un'escursione assomiglia in generale ad una semi scalata, poiché la la pendenza generale del cono va da 37 a 40 A. Amavo, la notte, godere dello spettacolo sublime che dà il vulcano.

Il colore arancione dell'incandescenza della lava è ammirevole e le proiezioni hanno un effetto fantastico. Nelle nostre Alpi ho visto frane di rocce, seracchi bianchi, nevai, che sprofondano nei precipizi. La valanga di fuoco di Stromboli mi ha forse fatto venire un'impressione ancora più profonda. E poi il mare, questo mare impassibile che avvolge, assorbe, annienta i risultati di questi tormenti di un mondo, di un'età che non c'è più, dell'età del granito e del porfido rosso. Basalti incandescenti, colate gigantesche, esplosioni formidabili, come sei vicino al mare? niente, quasi niente.

Quante convulsioni ti ci sono volute, Stromholi, per erigere il tuo cono di 900 metri? Quante cannonate, ululati, fischiettanti fumarole ad accumularsi a poco a poco, dolorosamente, il tuo edificio costantemente battuto dalle onde. E se il basalto nero e solido non venisse aggiusta i tuoi tufi e cineriti e prova a farli immortali, saresti sparito da tempo nel Tirreno, come una nave che affonda scompare sempre lì.

Il piccolo piroscafo postale, quindicinale, mi riportava a Messina; ho portato via il ricordo di uno degli spettacoli il più sorprendente che sia dato all'uomo di contemplazione, come un vulcano in eruzione.

Albert Brun Sez.lion genevoise; Sezione di Ginevra.

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LE VIE D’ITALIA 1964 ARIA NUOVA A VULCANO di Mauro de Mauro

Con poche ore di viaggio per mare, gli italiani hanno a disposizione per tutto l’anno uno degli ultimi paradisi terrestri: Vulcano, un’isola meravigliosa e ospitale nell’arcipelago delle Eolie dove il turista trova tutto ciò che dà gusto e intelligenza alla vita.

……Oggi, chi sbarca a Vulcano nella baia di levante si imbatte subito nell’Hotel faraglione o nella Pensione Capitti, mentre la baia di ponente, molto più sofisticata, offre al turista l’Hotel Sables Noires, l’Hotel Vulcano, la Pensione Casa Rosa, la Pensione Conti, il “Village del Club “Connaissance du Monde”, il delizioso complesso bungalow “I pagghiara”, cioè i pagliai, che prende il nome dal rivestimento esterno delle pittoresche costruzioni, e infine l’albergo Eolo.

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Nei periodi di punta, e soprattutto a agosto, tutto questo non è sufficiente, ed è giocoforza arrangiarsi alla men peggio dove capita, perfino nella sacrestia della chiesetta nuova di zecca. Ma questo è un altro discorso, che non incide su questa breve storia: la cronaca della trasformazione di Vulcano da zolletta d’inferno selvaggia e spoglia a stazione turistica di notevole richiamo…………..

Quando sulla scia dei francesi, scesero a Vulcano i milanesi (nell’estate del 53 fra Porto Ponente e l’Acqua del bagno si sentiva parlare soltanto in puro meneghino, e se non fosse stato per i generosi lembi di pelle esposta al sole si sarebbe potuto pensare di stare in Galleria), allora la fortuna turistica dell’isoletta fu sicura. Il fenomeno però non destò alcun interesse fra i tradizionali operatori turistici, fra gli industriali

alberghieri: l’antichissima fucina di Vulcano sente ancora troppo di zolfo, raffigura con toni sempre attuali e evidenti una possibile anticamera dell’inferno, perché un qualsiasi consiglio d’amministrazione deliberi un investimento di capitali su questo autentico residuo di mitologia. Solo dei sognatori, degli originali, dei collezionisti potevano e possono sentire il fascino di Vulcano al punto di farne scopo e mezzo di esistenza.

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Sono fatti così, i moderni “albergatori” di Vulcano. La marchesa di Campolattaro è una affascinante signora di rara sensibilità, che ha chiuso dieci anni fa la sua villa di Taormina per trasferire le innate arti di squisita ospite all’Hotel Sables Noires, da lei costruito e gestito: e nel cambio a rimetterci è stata Taormina.

Attilio Castrogiovanni, avvocato, deputato all’Assemblea regionale siciliana, ha piantato la professione e la politica e si è improvvisato albergatore. Ha ideato e costruito “I pagghiara”, il ridente complesso di bungalows rivestiti all’interno di maiolica dalle tinte più dolci a tenui, all’esterno di rozza paglia; ha popolato l’isola di cocorite, voleva popolarla anche di caprette tibetane ma dovette rinunciarvi per i guai combinati

dall’irruenza dei primi sei o sette esemplari trapiantati a Vulcano. Cominciò anche a costruire uno stabilimento termale, sul modello delle antiche terme romane, per sfruttare l’acqua bollente e i fanghi radioattivi che sgorgano dalla pietra ai piedi del cono vulcanico, ma le cose gli andarono male e lasciò questa, e altre iniziative, a metà o addirittura appena abbozzate.22222222222222222   vulcano la baia di ponente.jpg

Altro “politico” è l’avvocato Restuccia, professore di filosofia a Messina. Restuccia fu uno dei leader del movimento SEPARATISTA SICILIANO DEL DOPOGUERRA; CON Finocchiaro Aprile e con Varvaro condivise la notorietà e le spiacevoli conseguenze dall’arresto, ordinato vent’anni fa da De Gasperi, e del successivo internamento a Ponza. Adesso il professor Restuccia, coadiuvato dalla giovanissima moglie, riceve i clienti sulla soglia del suo albergo – il “Faraglione” – e qualche volta li serve a tavola.

Anche Irene Patrovita, più nota nel mondo della canzone italiana come Irene d’Areni, rivelazione del festival di Sanremo nel 1961, serve talvolta a tavola i clienti del suo Hotel Vulcano. Capitò a Vulcano un paio d’anni fa, per riposarsi, insieme al marito: da allora i due non si sono più mossi dall’isoletta. Mario Patrovita ha liquidato la sua partecipazione in un’industria olearia pugliese, Irene d’Areni ha detto addio a microfono e dischi. Qualche volta, nel dancing dell’Hotel Vulcano, un ritorno di fiamma canora l’assale, ma si tratta di rari sprazzi, le cure dell’albergo le lasciano poco tempo per cantare.

Il lento ma crescente richiamo turistico della loro isola non ha lasciato indifferenti i vulcanari, anzi li ha convinti tutti, uno per uno. Non sono molti, a onor del vero, non superano i cinquecento, ma il loro numero tende a aumentare. Il piccolo boom turistico ha bloccato l’emigrazione, il tradizionale esodo che in passato spopolava le isole dell’arcipelago e lasciava incolti i poderi, deserti e abbandonati i casolari, si è fermato.

Dieci anni fa la popolazione di Vulcano era scesa a meno di quattrocento unità, per lo più donne e bambini: gli uomini validi partivano per l’Australia o per L’America, e quasi mai tornavano. Adesso qualche cosa sta cambiando. I pescatori hanno trasformato le loro barche, le hanno dotate di motore, di salvagente, di cuscini di gomma; loro stessi si sono trasformati in barcaioli, fanno il piccolo cabotaggio fra le isole dell’arcipelago, fra Vulcano e Lipari, e hanno capito che il turismo non è fatto più da originali stravaganti di passaggio ma è diventato una attività economica seria, continua, duratura. Col risultato che molti barcaioli si sono imposti perfino dei veri e propri orari di partenza per le singole corse, e hanno unificato i prezzi, per tutti i tragitti possibili intorno a Vulcano o fra un’isola e l’altra.

Anche gli isolani che vivono a terra si sono poco per volta trasformati. Papà Capitti, ex fornaio, ex pescatore, oggi proprietario e gestore della Pensione Capitti e di svariati altri servizi, simboleggia un po’ questa metamorfosi. Capo di una robustissima famiglia – moglie, nove figli e figlie, e in più generi, nuore e nipoti – decise che tutte quelle braccia dovevano trovarla lì, dove le incudini avevano gemuto e strepitato sotto i martelli dei Ciclopi, la loro Australia. Aveva un vecchio forno, lo trasformò per confezionare un pane diverso, più gradito ai “forestieri”. Durante un inverno, con l’aiuto dei figli ingrandì la sua casetta, costruì altre stanze, la trasformò in pensione. L’anno successivo costruì proprio sul mare, sulla spiaggia di Levante, una trattoria di tipo casalingo. Quando a Vulcano il telefono divenne indispensabile mise a disposizione dei telefoni un locale e assunse la gestione del servizio telefonico. Contemporaneamente dotò Vulcano di due tassì, i due unici tuttora esistenti: sono due vecchie 1400 che hanno superato, in due, il milione di chilometri, ma vanno ancora. Quest’inverno ripasserà i motori, se avrà tempo: infatti, partito l’ultimo turista, ha messo mano alla sopraelevazione della pensione. La prossima estate il numero delle camere sarà raddoppiato.

L’esempio è stato contagioso, ciascuno, nel suo piccolo, ha cercato di fare altrettanto. Le casette bianche, bianchissime, nell’inconfondibile stile eoliano – corpo basso, lungo, a tetto piatto, porticato con pergolato d’uva poggiato su pilastri in muratura – si sono moltiplicate, o per lo meno ingrandite: non c’è famiglia che non sia in grado, fra giugno e settembre, di cedere una o due camere pulite, ariose, igieniche. Si sono moltiplicati anche gli impianti generatori di corrente, e il problema dell’acqua, che gli alberghi hanno risolto cercandosi falde idriche e i privati attraverso pozzi e cisterne, fra qualche mese cesserà di essere tale: l’acqua è stata trovata (l’aveva trovata per primo, quindici anni fa, un eoliano tornato dall’America), l’acquedotto è stato costruito, non resta che da collocare in opera gli impianti di sollevamento e pressione del prezioso elemento.

La metamorfosi degli isolani di Vulcano non si è però limitata alla ricettività o capacità ricettiva. E’ assai più profonda. Quasi avessero dietro le spalle secoli di esperienza raffinatasi attraverso il succedersi delle generazioni, gli isolani oggi sanno valutare e soppesare “il forestiero” con una sola occhiata, per classificarlo di colpo in una delle due grandi categorie che contano, veramente: quello che sbarca a Vulcano così, per vedere l’isola per fare un po’ di vacanza, per provare la novità del tuffo nel mare che scotta, e quello che invece giunge a Vulcano perché ci torna, o per scoprirne e gustarne il fascino. Nei confronti del primo tipo il “vulcanaro” è cortese, premuroso, ma niente di più. Con l’altro tipo, che parla il suo stesso linguaggio, l’abitante di Vulcano si rivela invece ospitale al di là di ogni immaginazione: lo accompagna a pesca, gli indica le tane dei cerniotti o i banchi di ricci, gli svela i segreti dell’isola, la chimica che sembra permeare, e permea veramente, questo meteorite incandescente piombato chissà quando nell’azzurro del Tirreno.

Ma anche la struttura fondiaria dell’isola è stata sovvertita, in poco più di un decennio. Secondo l’abate Francesco Ferrara, che pubblicò centocinquant’anni or sono un’organica storia di Vulcano sotto il titolo I campi Flegrei della Sicilia, l’isoletta fu consacrata dai primi abitatori dell’arcipelago al dio del fuoco di Hiera, e è rimasta per millenni fedele al suo ruolo di fucina dei Ciclopi. L’abate Ferrara citò Aristotile per raccontare come “un giorno in una parte dell’isola la terra si gonfiò con grande strepito, e dalla cima nella quale si ruppe mandò fiamme, gran vento e ceneri che coprirono Lipari e varie città vicine dell’Italia”, e precisava che esisteva ancora “ il luogo da dove erano state vomitate quelle materie”. Anche Cullia, siracusasno, aveva descritto “la montagna di Vulcano vomitante fra immensi fragori fumo, fiamme e pietre infuocate”. La narrazione di Plinio è, dal punto di vista scientifico, più fedele: descrive l’eruzione del 183 a.C. durante la quale emerse dal mare Vulcanello, il conetto vulcanico unito all’isola maggiore solo per mezzo del sottilissimo istmo che ha dato praticamente vita alle due baie di Ponente e di Levante.

Quale che sia stata l’origine di Vulcano, sta il fatto che all’epoca in cui l’abate Ferrara descriveva la sua storia l’isola era di proprietà dei Borboni di Napoli, i quali la regalarono a un loro amico inglese. Costui non mise mai piede a Vulcano, ma ci mandò un suo amministratore, un tipo freddo e egocentrico di nome Harley.

L’Harley costruì un palazzo (le cui mura esterne esistono ancor oggi) in prossimità delle sorgenti di fanghi caldi che l’on. Castrogiovanni voleva trasformare in terme romane. L’interno del palazzo fu però inghiottito, sul finire del secolo scorso, da uno dei sommovimenti della crosta terrestre piuttosto frequenti a Vulcano, in seguito al quale l’inglese Harley scappò terrorizzato e vendette l’isola a un ricco liparota, il cavalier Favaloro. Costui aveva due figlie nubili alle quali toccò in eredità la proprietà dell’isoletta. Dalle signorine Favaloro l’isola passò ai loro nipoti, i Conti, uno dei quali è proprietario della più antica pensione esistente a Vulcano. Questa era la situazione catastale dell’isola, una quindicina di anni fa.

Oggi troviamo la proprietà spezzettata, fra i Conti, i Giuffrè, gli Zanca, i Capitti – gente di Vulcano o di Lipari – e altra gente piovuta a Vulcano dalla terra, che è come dire da un altro mondo. Figurano fra i proprietari di cottages e di terra a Vulcano, oggi, Emma Danieli, il principe Manfredi Lanza di Scalea, due giudici – La Torre e Viola – e un direttore generale del Ministero degli Interni, Severini, la napoletana principessa San Biase, alcuni insigni docenti universitari di Messina e Palermo, un gioielliere milanese, un dirigente della Fiat.

Artefice della salutare lottizzazione dell’isola di Vulcano è stato Mario Patrovita: non pago di gestire il suo albergo, il marito di Irene d’Areni si è fatto costruire un delizioso cottage che accoppia all’armonia del più puro stile coloniale castigliano la funzionale ricerca del comfort. La casina fece gola a più d’uno, il Patrovita ricevette l’incarico di costruirne e arredarne un’altra, poi un’altra ancora.

Sono quindici quelle già esistenti, altre sei o sette ne sorgeranno durante l’inverno; ma la metamorfosi di Vulcano ha ricevuto nei giorni scorsi un nuovo, determinante impulso: le resistenze ultradecennali dei Conti di Lipari sono state vinte, l’istmo che congiunge Vulcano a Vulcanello, l’indescrivibile striscia di terra larga appena duecento metri che separa la baia di Levante da quella di Ponente è stata finalmente venduta, l’ha comprata l’ex industriale oleario Patrovita. La sua fisionomia non subirà mutamenti, roccia nera e canneti continueranno a ricoprirla: ma è già pronto il progetto per costruire, sulla più suggestiva lingua di terra dell’intero arcipelago, un centinaio di bungalow rivestiti di pietra nera e circondati dal canneto. Orridi e neri all’esterno come l’ambiente, i bungalows saranno rivestiti all’interno di maiolica rosa, dotati di quattro cuccette, servizi con doccia e acqua corrente, prese d’aria e frigorifero.

Solo quattordici anni orsono Fosco Maraini, l’esploratore e poi cantore del Segreto Tibet, scriveva di Vulcano: “”è un lembo di stella, le sue rocce non sono rocce ma processioni di dromedari fusi, lotte d’iguanodonti torturati, sfaldarsi d’ornitorinchi lebbrosi, esplodere di giraffe in fiamme. Il mare entra nelle viscere dell’isola, l’isola pugnala il mare coi suoi capi contorti. Dappertutto fumacchi e zolfi, vapori e anidridi””.

Dieci anni fa, Vulcano accoglieva il turista con la sabbia nerastra, infocata, del porto di Ponente, dopo l’avventuroso trasbordo del vaporetto al barcone: la baracca di Enrico, all’insegna del “club della pera”, dava il benvenuto. Enrico vendeva cappelloni e zoccoli, radeva la barba, suonava la chitarra e due volte al giorno soffiava nella bucina, per chiamare al pasto, sotto la grossissima lampada a acetilene, gli ospiti dei primi pagliai che sorgevano tutt’intorno alla Pensione Conti. Oggi Enrico è in Australia, l’aliscafo collega Vulcano a Messina in poco più di un’ora, il gong dà agli ospiti degli alberghi il segnale del pranzo.

Perché l’incantesimo della metamorfosi di Vulcano sta proprio qui: i gruppi elettrogeni, la luce elettrica, i cottages arredati con pezzi d’antiquariato importati da Firenze o da Milano, le cellule frigorifere, gli short drinks serviti da barman impeccabili, nei “tumbler gelèe” al punto giusto, non hanno tolto nulla al dramma tellurico dell’isola. Anche davanti al televisore, a Vulcano ci si sente pionieri. A Vulcano soltanto i sassi hanno un’anima, e i vulcanari non fanno nulla non muovono un dito per interferire fra i sassi e il turista. Ragione per cui se oggi tornasse a Vulcano Ludovico Salvatore d’Austria, autore del più poderoso studio dei tempi andati su Vulcano e sulle Eolie - Die Liparischen Islen – molto probabilmente non si accorgerebbe che qualcosa è cambiato. Si limiterebbe a annotare che qualcosa è cambiato. Si limiterebbe a annotare, nel suo taccuino di viaggio, la presenza dei cottages di Patrovita o dell’albergo bianco-calce della marchesa di Campolattaro.

MURO DE MAURO fotoservizio Scafidi.

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Le Stromboli BRUN Albert 1901

2 marzo. -: Eccomi vicino al cratere: seduto su una piccola cresta di lapilli, osservo le esplosioni. Lo spettacolo è così nuovo, così sorprendente, che dimentico la mia Kodak che pende malinconica. Improvvisamente me lo ricordo; veloce, veloce, clicca, clic, clic, clic. Ma la dozzina è finita, devo cambiare il rullino. In questo momento un'esplosione, le pietre volano; con un movimento istintivo alzo il braccio per pararli! La bobina fuoriesce e rotola giù per il pendio; devo correre dietro, il che mi fa perdere due splendidi panorami...

Il vento mi porta cineriti e gas cloridrico, sono stato accecato e soffocato per un momento ..... osservazioni barometriche buone...raccolto bombe calde... augite isolata dall'azione del vento... temporale pioggia per un'ora...basta per oggi, domani farò di meglio...

4 marzo. - Che vento! Che ululati! Il tuono delle esplosioni, il suono della valanga di lava che scorre nel mare, il vento che ulula e come un ronzio sinistro la risacca del vago, tutto questo mi stupisce, mi stordisce... Devi stare, osservare, notare, fotografare, combattere contro la sabbia che invade tutto, paralizza la Kodak, acceca, cuoce gli occhi, riempie il collo, la bocca, il naso.

Oh! misera sabbia, che ore mi hai fatto passare, quando inseguito a raffiche come la neve delle nostre Alpi, sei venuto a colpirmi sotto la pioggia per costringerti a cedere! Ma no! Io sono rimasto nonostante te! Torno al mio post di ieri. Ma cosa vedo? impacchi di lava calda qui; lì, il crinale su cui ero seduto, scheggiato, il vulcano ha tuonato la notte scorsa e il posto non è molto sicuro, ma bah! fotografare e raccogliere queste pietre che il Cratere mi manda così gentilmente.

Presto le ceneri volano; la lava rossa salta ovunque. È fantastico. Rapidamente mi preparo per riprendere una nube di cenere; ma la sabbia sulla quale sono si scuote, si schiaccia, mi tengo come meglio posso. Ecco una nuova esplosione. La foto sarà buona; ma, amici miei, che emozione! pietre lanciate erano passate intorno a noi, il nostro crinale tremava, dovevamo partire, e in tempo! mi prende un violento impulso a scappare: ma allora rinunciare l'apparecchio e il barometro, le osservazioni sarebbero perse! no, rimango: dopo, una volta tutto in ordine, potrei andarmene. Con quanta cura ho regolato, girato le viti, letto il barometro, mentre sorvegliavo il cratere che può saltare da un momento all'altro. Fatto. Avanti! Nelle pendici della cenere, presto! presto! tutto cede, tutto sta sotto i passi; l'inclinazione è di 37,5 km. e cade in mare.

Nella Grey Valley un tuono grandioso proietta la cenere che il vento mi porta, la sabbia scacciata mi acceca, il chiasso delle esplosioni è infernale, non so più dove sono; questa volta è la fuga, la fuga senza vergogna.

Una bomba passa, colpisce il piccolo passo che dobbiamo attraversare, siamo sotto il fuoco; questo volta, addio foto! Dietro, si sente: pat ...Pat ... ra ... pat ... Sono i pacchetti di lava che cadono.

Oh! Deve essere bello! Devo tornare indietro, voglio vedere!

Zi... zi... hou... hou... Il fumo che brucia, le scorie leggere, taglienti come vetro rotto, arrivano spinte dal vento. Che cottura, che sofferenza questi aghi sulle palpebre e
negli occhi... Addio Foto! è finita! no io ne voglio ancora uno in più, uno, due di questa valle intricata di cenere e lapilli, cannoneggiata dal vulcano, dove ho passato ore così commoventi. È preso. Adesso la ritirata.

La Grey Vallev è lontana da noi, vale a dire, la dominiamo. Seduto sulla cresta superiore dell'antico cratere vediamo vorticare la sabbia, poi, come sbuffi di età granitica, il vulcano rigetta le sue ceneri nere in pacchetti grandi come nuvole, sibilano le bianche fumarole i loro fumi e, impassibile, il mare inghiotte ogni valanga.

Come fotografare questo spettacolo, questo mondo che trema, che ruggisce, che fuma e volteggia. Kodak! sei impotente. Alzo lo sguardo: che spettacolo! A nord, il mare spumeggiante a perdita d'occhio, a sud, in un mare di platino, brillante, emergono gli isolotti di Panaria e Basiluzzo come blocchi di ferro scuro. che contrasto colori: bianco brillante, nero! Affrettarsi Foto! Io chiamo le mie Stromboliole: Renda! una scatola! (pellicola rullino) Subito! Fruga nella borsa. Aspetto. Il mare in onde trocoidi getta una luce bianca; in lontananza una nuvola nera, come le isole fantasmi, sembrano fluttuare. Antonio! aspetto, aspetto! velocemente, velocemente un film. Si Signor! mia! no è più!

(Importante si capisce che in questa scalata e osservazione dello Stromboli era accompagnato da un abitante dell'isola “Antonio Renda, nel 1901).

Un vulcano non è sempre in parossismo, non non salta costantemente e spesso quando la colata di lava appare questo è il segno dell'inizio di un periodo più calmo. A Stromboli abbiamo una colata di lava che non diminuisce la potenza delle esplosioni.

I tre camini sono vicini, tutte sono piene di lava ad una temperatura che aumenta alla superficie a circa ottocento gradi.

Questo bagno di rocce l'onda è in perenne fluttuazione; onde di lava che si infrangono sui fianchi del camino come le onde di un lago; potevo distinguerli dai piccoli pacchetti incandescenti che saltavano fuori dalla bocca nei momenti di tregua.

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A cosa sono dovute le esplosioni del cratere? Al mio avviso l'idrogeno creato nella camera di fusione, da reazione chimica, arriva, all'aria dove si accende e, come l'idrogeno e l'ossigeno formano la più potente esplosione conosciuta, la lava è proiettata come la mitragliatrice attraverso la bocca di un cannone.

Da dove viene la lava? Questo è stato, cinquant'anni fa, oggetto di molte discussioni. Non è molto tempo che si sono sostenute teorie infantili da uomini seri. Ma l'opinione corrente, certamente inconfutabile, è che un vulcano non è che un camino non molto largo, che va fino in fondo alla crosta solida del globo, comunicando l'atmosfera
con le masse centrali, qui, esse, sono lo stato di accensione.

Un vulcano sarà in riva al mare, non perché che l'acqua è necessaria per la sua esistenza, ma perché in questo punto, la crosta terrestre presenta un'area di minore resistenza o rottura. Le eruzioni, le esplosioni sono solo l'ebollizione della massa interna causata da cause di geodinamica interna di cui la principale è la contrazione del nucleo terrestre.

Inoltre, solo negli ultimi mesi, geniale gli esperimenti di A. Gautier fanno luce ancora sulle cause dei fenomeni vulcanici e mostrato che le rocce semplicemente riscaldate danno abbastanza gas per provocare esplosioni, senza la necessità di coinvolgere l'acqua del mare. Allo Stromboli, la quantità di vapore acqueo scaricato è troppo piccolo, se anche ce ne sono!

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Grazie alla Biblioteca Comunale di Lipari dal numero del Notiziario delle isole Eolie dell’aprile 1974.

DAL LIBRO “LA CSA RURALE”” DEL PROF. V. FAMULARO

La “terrazza” nella casa eoliana (uno stralcio). 

La descrizione della “terrazza”, contenuta nel libro “la casa rurale nell’isola di Stromboli”, del prof. Vittorio Famularo, così semplice e al tempo stesso così rigorosamente precisa, reale ed appassionata, ci restituisce, come una serie di quadri e fotografie d’altri tempi, l’immagine affascinante della vita campagnola di alcuni decenni addietro, nelle isole Eolie. Un ambiente che molti turisti oggi si sforzano di imitare, nelle loro ville di Stromboli, Panarea, Vulcano...

E pensiamo che essa possa essere degnamente illustrata da alcune mirabili fotografie dell’avv. P. Blasi, scattate una ventina d’anni fa nelle isole di Panarea e Stromboli. (mi permetto di creare un mix di foto del giornale, testo citato e da altro libro).

Elemento decorativo e, nel contempo, funzionale delle case rurali dell’isola è la terrazza, detta bàgghiu. In genere fronteggia il pianoterra ma può anche trovarsi all’altezza del primo piano; in questo secondo caso poggia su ampie arcate e vi accede mediante scale esterna. Multipla è la funzione della terrazza: viene utilizzata quale disimpegno delle stanze, per fare asciugare il bucato e, soprattutto , per la essiccazione dei prodotti agricoli: ecco perché è quasi sempre esposta a solatio. La terrazza è cinta da caratteristici (bisòla) dai quali si ergono pilastri a sezione circolare (pulièri). Lungo i sedili sono la vasca per il bucato (pìla) e l’imboccatura della cisterna. Spesso i sedili sono ravvivati da una nota di colore costituita da vasi con gerani.

Una parte della terrazza è coperta da un pergolato di vite (detto localmente lòggia) che ha, come scheletro di sostegno, una impalcatura di travi, disposti a scacchiera, poggiati sui pilastri suddetti. Di rado l’impalcatura è coperta da ginestre, di cui l’isola abbonda, o da canne giustapposte. Una volta per tale copertura venivano anche impiegate coste di canna intrecciate.

All’ombra del pergolato, all’inizio della stagione estiva, si procede alla cernita dei capperi. L’operazione viene eseguita con stacci di varia calibratura, detti crìvi.

Sui sedili della parte della terrazza, non coperta del pergolato, vengono esposti al sole ampi piatti di terracotta (vascìli) colmi di pomodori.

Durante il mese di agosto la terrazza è invece occupata da graticci di canne, detti cannìzzi, su cui vengono posti a essiccare, in un primo tempo, mandorle e, in un secondo tempo, fichi.

Nel mese di settembre i graticci vengono utilizzati (dopo essere stati ripuliti accuratamente) per l’essiccazione di uve di vario tipo e precisamente: di uva bianca, dai chicchi molto piccoli, da cui si ricava il rinomato vino malvàsia, di uva neta (munitìdda) anch’essa dagli acini particolarmente piccoli e dalla quale si ottiene la nota passulìna usata in pasticceria e, infine, di uva bianca dai grossi chicchi (mullettìna) , con cui si ottiene uva passa (impiegata anche in pasticceria) che, tra l’altro, imbevuta nel vino cotto, viene utilizzata per preparare, nel periodo natalizio, una specialità locale (vasteddùzzi). I graticci vengono inoltre impiegati per l’essiccazione della mùstarda, ottenuta con farina, vino cotto, mandorle tritate e spezie.

Nei giorni precedenti la vendemmia, sulle terrazze fronteggianti le case a pianoterra, viene effettuata la revisione annuale delle botti che, precedentemente, sono state ripulite sulla spiaggia con acqua marina.

Durante la stagione autunnale le terrazze accolgono ceste, di forma cilindrica, confezionate con canne e salici, dette cuòfina. Sono colme delle note olive verdi da tavola che, dopo un’accurata selezione, vengono messe in salamoia, in grandi recipienti di vetro.

Le olive destinate alla produzione olearia, prima di essere trasportate al frantoio, una volta, venivano schiacciate su lastroni lavici (princhi) mediante sassi piatti (cuti), che si reperivano sulle spiagge. E così le terrazze risuonavano di un tipico martellio, che si protraeva per tutto il giorno, con la sola interruzione del tempo necessario per la consultazione dei pasti.

Il susseguirsi delle suddette essiccazioni e manipolazioni di prodotti agricoli costringe la famiglia a trascorrere buona parte della giornata sulla terrazza, sia durante la stagione estiva, come in quella autunnale. E così viene soddisfatta appieno la tipica tendenza mediterranea a vivere all’aria aperta.

Sotto la canicola estiva, nelle ore centrali del giorno, il pergolato offre uno schermo al sole implacabile, mentre il maestrale rende la terrazza piacevolmente ventilata. In una simile oasi di frescura e di quiete, allietata dall’incessante frinire delle cicale, i ragazzi giocano, mentre le donne agucchiano e gli uomini, distesi sui sedili, schiacciano il pisolino pomeridiano.

Appoggiato alla parete della casa o vicino ai sedili (bisòla) è un rustico tavolo per la consumazione dei pasti. Periodicamente viene coperto da una tela incerata per la cernita dei capperi o per liberare l’uva passa dal raspo o per la scelta delle olive.

A sera, sulla terrazza, si riuniscono le vicine per scambiare quattro chiacchiere.

Col calar delle tenebre gli uomini si addormentano sui sedili e vi rimangono fino a notte inoltrata. Se le temperature notturne sono eccessivamente alte-e ciò si verifica allorchè spira insistente lo scirocco - non manca chi va a riposare, addirittura, sul tetto utilizzandolo, come un cuscino, un sacco ripiegato.

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Grazie alla biblioteca comunale di Lipari, alcuni articoli del Notiziario delle isole Eolie che ricordano l'avvocato Salvatore Saltalamacchia, già fondatore-direttore del Notiziario delle isole Eolie cartaceo.

L’Avv. Salvatore Saltalamachia, è sprirato alle ore 10 del 23 novembre 1973.

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Un male, incurabile, esploso nell’ultimo mese, ma che covava da tempo, ha provocato improvvisamente un vuoto incolmabile nella numerosa famiglia nel folto gruppo degli amici estimatori; nella Pretura di Lipari ed anche nella vasta famiglia dei lettori del Notiziario delle Isole Eolie.

Egli se ne è andato, si può dire, serenamente, senza disturbare troppo, più di quanto non fosse strettamente inevitabile. Ci ha lasciati, con quella stessa discrezione e prudenza con le quali aveva vissuto. Specialmente negli ultimi giorni, allorquando le pietose bugie dei medici e dei familiari non lo convincevano più sulla possibilità di una guarigione ed egli assisteva lucidamente alla propria distruzione fisica interiormente la istintiva ribellione che naturale nell’uomo davanti la morte incombente, inseparabile compagna dei propri ultimi giorni, durò pochissimo, il tempo di un sorriso di rassegnazione. Egli allora si è quasi chiuso in se stesso, soffrendo nel più composto silenzio, per non disturbare gli altri.

Chi ha avuto l’occasione di capire giorno per giorno l’ultimo mese della vita del nostro direttore, dall’ultimo pranzo in ristorante romano, col pane casereccio e il vino bianco dei castelli, alle ultime parole appena percettibili nel letto, al di là di ogni commozione e di ogni retorica non può fare a meno di ricordare ai lettori del notiziario questo aspetto dello Scomparso il suo “stile”, fatto essenzialmente di modestia, di prudenza, ma soprattutto di speranza, ancor più verso gli avversari e i deboli, che non per tutti gli altri possono testimoniare come Egli fosse un esempio di piacere, più che di un avvocato difensore. Prima di fare una causa, Egli cercava in ogni modo, non di farla nel miglior modo possibile, ma “di non farla”, suggerendo l’accomodamento bonario. Un atteggiamento questo non certo antiprofessionale, ma da umano giudice conciliatore.

Un tale “stile”, oggi rarefatto nella nuova società dei consumi e del profitto, che ha inquinato massicciamente anche le Eolie, è stato marcatamente impresso a questo Notiziario. Anche per quanto, il compito di chi sta tentando di assicurarne la sopravvivenza è più difficile.

Il nostro Direttore ha finito la sua vita operosa, senza peraltro lasciare ricchezze. La sua eredità più importante, riteniamo, è questo Notiziario, privo di valore venale, ma di inestimabile valore morale, se i Compaesani vorranno giustamente valutarlo. Una impresa editoriale di tutta modestia, ma con il bilancio in pareggio come si conviene all’amministrazione del buon padre di famiglia. Portata avanti con sacrificio personale, con assoluto disinteresse, al di fuori di quello di una soddisfazione morale.

Forse qui gli Eoliani che il destino ha portato all’estero, sono più in grado di apprezzare il valore di questo “stile”, che poi è quello della gente antica di Lipari. Anche per questo il nostro Scomparso andava dicendo che il suo giornale era fatto soprattutto per i compaesani emigrati, più che per quelli rimasti in patria, spesso indifferenti a quel legame affettivo, oltre che di cronaca, che il Notiziario aveva creato.

Abbiamo voluto mandare alla stampa questo numero di novembre del Notiziario, che l’avv. Saltalamacchia voleva preparare e che non ha avuto il tempo di completare...voluto affidare, a chi scrive, questa sua creatura, quasi in adozione, affinchè sopravvivesse con lo stile che gli era congeniale. Ed è con questo spirito, quasi di adozione, che abbiamo voluto accollarci questo onere in un momento nel quale avremmo preferito piuttosto, per il vincolo di filiale affezione che ci legava allo scomparso, soffrirne la perdita dentro di noi stessi o al massimo nell’intimità familiare.

Diciamo pertanto che, interpretando il desiderio del nostro Direttore scomparso ed accollandoci la responsabilità di adottare la creatura lasciata, ci proponiamo di tentare di fare sopravvivere il Notiziario delle Isole Eolie. Ma precisiamo che non siamo sicuri di farcela, perché non dipenderà solo da noi. Dipenderà anche ed essenzialmente dalla comprensione e dall’affetto dei suoi 500 (o forse mille) lettori, ancor più che al loro sostegno materiale, ma pure da quest’ultimo...

STRALCI DI RICORDI DA ALTRI NUMERI DEL NOTIZIARIO.

…….Parco di parole e riflessivo, era, però, un realizzatore. E testimonianza di questo suo amore per le Isole e di questo suo spirito realizzatore, è proprio questo “Notiziario” eoliano, da Lui fondato e diretto fino alla sua morte.

Con la sua scomparsa se ne è andata una delle figure più rappresentative e qualificate della vecchia e civilissima civiltà eoliana. Quella civiltà eoliana della quale non soltanto giornalisti, scrittori e redattori di rotocalchi, in recenti pubblicazioni, han dimostrato di non conoscere affatto, paragonandola a quella delle più arretrate e misere popolazioni del Sud Italia; ma della quale anche le nuove generazioni non hanno la più pallida idea…

I successi di questo circolo furono, oserei dire, spettacolari, se si considera che due suoi soci conquistarono: con il compianto Attilio Conti il campionato di boxe dei pesi massimi del Sud Italia, e con il non meno compianto dott. Giovannino Merlino, il campionato dell’Italia del Sud di lotta greco-romana.

C’era anche una sottosezione a Canneto, con a capo il caro Ciccio Carbone, il piccolo. Spesso i soci delle due sezioni si riunivano in gite e gare meticolosamente preparate. Qualche anno fa, Salvatore, proprio da questo Notiziario, volle ricordare quella di Monte S. Angelo…

Ricordiamo i celebri mandolinisti e chitarristi fratelli Filiciuzzo e Bartolino Famularo, che si esibivano in concerti di alto livello di esecuzione.

Nei cori, Tanino renda e Vittorio Costa, erano dei veri virtuosi del controcanto.

Non mancava nel circolo una propria biblioteca con molti libri; nella festa di S. Bartolo, il circolo era in prima linea nell’organizzazione.

Di tutte queste attività, Salvatore, come valido presidente ne era il principale animatore.

Tante e tante altre sono le iniziative alle quali Salvatore Saltalamacchia si dedicò con amore per il bene delle sue Isole, soprattutto per cercare di mantenere sempre uniti i suoi abitanti, così come lo erano stati per il passato, da costituire quasi un'unica famiglia, nella quale possono magari esserci degli screzi, subito sopiti dal senso di solidarietà e di comprensione umana, virtù, queste caratteristiche dei civilissimi eoliani, in parte dovute alla insularità della loro terra.

Nel ricordare la figura e l’opera di Salvatore, voglio esprimere la certezza che le nuove generazioni ne traggano fruttuoso insegnamento. Egli così non è morto perché il suo spirito vive ancora soprattutto attraverso le sue opere e soprattutto con questo “Notiziario”, che Egli ha voluto continuasse a vivere, affidandolo, prima di morire al nipote Augusto, certo come era, che egli lo avrebbe indirizzato, con scrupolosa fedeltà, al solo nobile scopo di continuare a promuovere l’azione per un sempre più alto e migliore avvenire delle Isole e delle sue popolazioni.

Ricordo di Salvatore Saltamacchia nov. 1975

Due anni orsono, il 23 novembre 1973 spirava serenamente, dopo breve e micidiale malattia, il Fondatore e direttore del Notiziario, l’avv. Salvatore Saltalamacchia.

L’emozione fu vasta, specie tra i lettori del Notiziario, molti dei quali gli erano amici affezionati. Con quest’Uomo, il cui portamento alto e dignitoso era bene in tono con la fermezza del carattere, onesto nella sua vita privata, come in quella professionale e politica, profondamente mite e quindi sempre alla ricerca dell’accordo tra le parti, più che dello scontro, tanto da subirne diverse cocenti delusioni, si perdeva uno degli ultimi rappresentanti della generazione liparese maturata a cavallo delle due guerre mondiali, che aveva vissuto in pieno e spesso in prima persona, il lungo dramma dell’emigrazione e che adesso assisteva, un po’ incredula, un po’ preoccupata, al sorgere di questa speranza, la nuova era del turismo.

In quello stesso anno infatti, per curiosa coincidenza, l’anagrafe liparese registrava, per la prima volta nel secolo, un supero dell’immigrazione sulla emigrazione, anche se di poche unità.

Era cattolico, ma non intollerante o sanfedista. Era democristiano, ma non aveva nulla da spartire con…

L’indipendenza del giudizio e al servizio unicamente del bene delle Isole Eolie; che amava tanto da soffrirne profondamente.

Senza compiacenza e con l’umiltà che ci viene dalla consapevolezza dei nostri modesti limiti; peraltro sicuri di far bene e di stare dalla parte giusta, annunziamo oggi ai lettori che continueremo a pubblicare il “Notiziario” anche per il prossimo anno. Laddove i sacrifici, non soltanto economici, sono confortati dall’aumentato indice di gradimento dei lettori e dalla coscienza di rispettare l’impegno preso col suo fondatore: far sopravvivere un periodico indipendente al servizio del progresso civile e sociale delle Isole Eolie.

E’ con questo rinnovato impegno, che abbiamo voluto ricordare ai nostri lettori la figura del fondatore del Notiziario.

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Le Stromboli BRUN Albert 1901 - 2 parte

L'emozione era al culmine. Volevo velocemente prendere appunti; Non sapevo più scrivere!

La regione occidentale e i dintorni del cratere sono costantemente battuti dalle proiezioni; le ceneri, viaggiando con il vento, vanno sui versanti orientali a formare lunghi burroni sabbiosi e aridi.

Le masse trasportate in questo modo sono considerevoli e il mare inghiotte la maggior parte di esse. Più l'esplosione è violenta, più abbondano le ceneri lanciate, perché questi sono solo il risultato della polverizzazione della roccia con la violenza dell'esplosione.

Una volta, a più di due chilometri dal cratere sul versante est, sono stato catturato da una di queste nuvole cinetiche; queste leggere polveri secche entrano nelle narici e arrestano la respirazione. Questa spinta di vento ha curiose conseguenze.

Il continuo sfregamento della sabbia contro le rocce quelli vecchi li hanno lucidati e danno loro una lucentezza sbalorditiva. In alcuni punti ci sono stati dei veri canali corrosi orizzontalmente nelle pareti verticali.

Dal 1889 lo Stromboli ha dato un flusso di lava che è cresciuta lentamente da quella data. Oggi occupa una porzione del versante Occidentale inclinato di 37°. A causa di questa inclinazione, blocchi rossi e fumanti sfuggono da esso in ogni momento e rotolano verso il mare. All'origine del flusso c'è una bocca che emette continuamente proiezioni. Di notte, questo fascio permanente di tinta arancione offre uno spettacolo indimenticabile.

Il terreno che si percorre nella zona superiore è formato da ceneri e da blocchi più o meno grandi, senza coesione, sparsi e di colore nero carbone. Tra l'attuale cratere e le antiche mura si sono formate due piccole valli: un cono creato dalle lave e pietre di scarto si trovano a est delle bocche e attraverso le sue pietre appaiono le fumarole.

È uno spettacolo molto curioso quello delle fumarole: con un sibilo, filtra tra le pietre una nuvola bianca opaca, dall'odore soffocante di gas acido cloridrico, irrespirabile, che si diffonde nell'atmosfera.

Lo spazio da cui questi fumi caldi la fuga include l'intera colata lavica e a parte del cono centrale, cioè un ovale di 150-200 metri assi in alto. Lo spazio in cui questi fumi caldi s'allontanano comprende tutta la conca di lava e parte del cono centrale, un ovale di 150-200 metri di assi in cima.

Il soggiorno intorno al cratere è stato molto emozionante.

Difficoltà nell'ottenere buone osservazioni ha portato la mente a un certo grado di tensione piacevole, che si rifletteva nel mio diario di strada.

Mi permetto di estrarre qui alcuni frammenti.6.JPG

Grazie alla BNF Gallica Commemorazione dei Defunti.

La Festa dei “morti” del 2 novembre può avere un riferimento storico alle Eolie, pare di si secondo un testo francese del medioevo, ma ATTENZIONE nel testo si parla genericamente di isola, di isola fiammante, vicino la sicilia, poi ognuno può attribuire il riferimento ad una delle nostre isole ma nel testo originale non è specificata nessuna isola in particolare.

La fonte il testo originale da loro conservato è: Saint Odilon , abbé de Cluny : sa vie, son temps, ses oeuvres (962-1049) / par l' abbé P. Jardet,... 1898

A pag. 276 CHAPTIRE XIII parla “DE LA FETE DU 2 NOVEMBRE OU LA COMMEMORATION DES MORTS. Da pag. 277 vi sono riferimenti al vecchio testamento e continua con altri riferimenti di vari anni e luoghi, avvenimenti ecclesiastici, santi battaglie ecc…

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Arrivando a pag. 296 viene citato: “ Secondo Jotsald, che citiamo testualmente, il nostro santo Abate sarebbe stato provocato a trattare più specificamente con le anime del Purgatorio da una visione o meglio da una comunicazione soprannaturale avvenuta nelle seguenti circostanze: Un religioso francese, originario del villaggio di Rote (Rodez), di ritorno da Gerusalemme, fu assalito da una tempesta, e, dopo aver corso molti pericoli, gettato dalla furia delle onde in un'isola vicino alla Sicilia… dove viveva un pio eremita.
Il nostro pellegrino vi trascorse alcuni giorni, aspettando il ritorno della calma delle onde, e conversò a lungo con il pio eremita, comunicando l’uno all’altro le notizie che avevano appreso…

Poi gli chiese se conosceva il monastero di Cluny e l'abate Odilon: Perfettamente, rispose il pellegrino, ma perché questa domanda?
Ascolta, riprese l'eremita: Qui, molto vicino, ho visto spesso fiamme spaventose salire dalle profondità della terra, e sollevare in mezzo ai loro vortici una moltitudine di anime che espiano i resti dei loro peccati in intollerabili tormenti (2 ) (di ciò vi è anche riferimento in scritto di San Gregorio il grande del 1705 e Belarmin disputa.... (il quale anche lui riporta erroneamente il testo originale).3.JPG

La pesca delle tartarughe alle Eolie

Precisiamo che i tre racconti si riferiscono a tempi in cui vi è “abbondanza” - “fame” e rispetto del non esagerare nel pescato.

Da PANORAMA 1965 LETTERE DALLE EOLIE:

Ginostra di Stromboli: Uno di questi giorni Piero Favorito o Mario Piemonte o Mario Lo Schiavo o magari tutti e tre insieme, saliranno di corsa la ripidissima scala che come un castello di streghe alza il paesino di Ginostra dal suo porticciolo. “E' tortughe, e tortughe!” grideranno, e via a casa a prendere il binocolo, e poi di nuovo giù a tirar fuori i lunghi coppi custoditi sotto il telone marcio di salsedine che ricopre il pontone in disarmo del palombaro napoletano Fraisso, e poi, in tutta fretta, vareranno a tutto motore puntando al largo per paura che le prede se ne siano andate.

Potrebbe essere naturalmente chiunque altro, ma è molto probabile che sia uno di loro, il primo a segnalare le tartarughe. Pino è contadino, Piemonte impiegato di posta e lo Schiavo è bottegaio, e il primo non possiede nemmeno una barca, ma sono egualmente i tre migliori pescatori di Ginostra, da quando il più bravo di tutti, il gigantesco maestro Criscillo, per paura dei reumatismi, ha disertato il mare ed è emigrato sottovice ufficiale postale aggiunto a Stromboli, dove ci sono strade su cui si può andare in lambretta: quasi una metropoli.

Gennaio è il mese delle tartarughe, e Ginostra (un paesino di poco più di cinquanta abitanti sulla costa suovest dell'isola di Stromboli) è con la lontana Alicudi il luogo delle Eolie dove hanno le maggiori probabilità di poter praticare questa pesca fra le più semplici del mondo. Essenziale una giornata serena e di “mare jancu” cioè bianco (come lo chiamano qui quando è calmissimo) dopo una violenta mareggiata, che, dicono gli esperti, sveglia le tartarughe in letargo a mezz'acqua e le invoglia a salire a galla dove s'addormentano al sole. La teoria presenta lacune dal punto di vista strettamente scientifico, ma quel che importa è che succede proprio così, gli inverni che le tartarughe hanno voglia di passare.

Quattro o cinque miglia al largo, con l'aiuto dei binocoli, si individuano le loro gobbe da lontano sul mare immobile; si accostano a remi, e senza parlare, senò si svegliano e fuggono giù, si acchiappano col coppo (un grande robusto retino dal lungo manico) e si scaricano a bordo, pancia all'aria attenti per tutto il viaggio di ritorno che non si stacchino un dito dai piedi col rostro tagliente come un tronchese. Dal momento della cattura fino a quando non la decapiteranno sopra una ciotola ove raccoglierne il pregiatissimo sangue, a tortuga, trascorrerà sempre così, a pancia all'aria, i restanti giorni della sua vita: più di una settimana, a volte come accadde nel gennaio del 1963, quando a Ginostra il passo fu ricchissimo, ne presero esemplari intorno al quintale, e davanti a ogni casa c'era sempre una o più tartarughe rovesciate, che agitavano senza posa le zampe palmate come piccoli mulini a vento, e intanto, spurgandosi, la carne diventava più magra e saporita.

L'inverno 1964, invece, il passo delle tartarughe non ci fu a causa – dicono gli esperti – delle troppe scarse mareggiate. Quest'anno che l'inverno è stato precoce dovrebb'essere buono per le tortughe: tutti le aspettano a Ginostra, scrutando attentamente l'orizzonte ogni mattina che escono a mare, come dicono loro, è jancu. Un buon passo di tartarughe, oltretutto, sarebbe il giusto riconoscimento che il cielo deve agli isolani dopo un'annata come quella del 64' che fu scarsa di vino e d'olio, e l'unica cosa abbondante, i capperi furono pagati dai grossisti di Lipari cento lire al chilo meno dell'anno scorso, e le pesche tradizionali dell'autunno, dalle cavagnole ai tonnacchi e ai calamari, sono state un fallimento....

Da ANTONY BONICA LE RICOMPENSE DELLA VITA FILICUDI E LE ISOLE EOLIE:

Un'altra attività era la ricerca e la cattura delle tartarughe di mare, una eccellente risorsa di cibo nutriente. Il periodo ideale era in gennaio e febbraio, quando il mare era molto calmo. ln quelle giornate non meno di quindici barche, ognuna con quattro o sei uomini, lasciavano la spiaggia, allontanandosi in differenti direzioni ad una distanza variabile dai tre ai venti chilometri e oltre, tutti in cerca di tartarughe. Durante i giorni di sole col mare molto calmo, le tartarughe salivano in superficie, si rotolavano sul dorso e dormivano al sole. Lo scudo frontale delle tartarughe scintillava come uno specchio e si poteva scorgere da lontano. Appena venivano localizzate, remavamo silenziosamente verso di loro. Arrivati vicino ad una di esse, la tiravamo a bordo con una rete. Talvolta un uomo si tuffava e la catturava a mani nude; aveva poi bisogno di aiuto per sollevare la preda nella barca. Ricordo che un giorno catturammo sedici tartarughe dal peso dai 10 ai 50 chili e più. Di solito si mangiavano fresche, ma se ne catturavano una grande quantità, molta gente le conservava in galatina* e venivano mangiate in seguito.

Dai ricordi di Fabio Famularo: Solitamente, dal punto di vista meteorologico, il periodo di gennaio era molto difficile da interpretare e in certi casi, era facile imbattersi in lunghe fasi di calma piatta, come non accadeva in nessun altro momento dell’anno. Era proprio quello il periodo in cui, approfittando di quel tempo particolarmente tranquillo, i pescatori andavano a caccia di tartarughe. In particolare mi ricordavo ancora molto bene il giorno in cui mio padre mi aveva portato a pescarle per la prima volta. Ero ancora poco più di un bambino e quell’episodio, fu la causa della più grande punizione di tutta la mia infanzia. Quella mattina di gennaio, che nulla aveva da invidiare a una giornata d’estate, mio padre, assieme ad altri pescatori, era partito per una battuta di pesca portandomi con sé.

Giunti nei pressi di Punta Lena avvistammo le prime tartarughe che, come stordite dal sole, si facevano trasportare dalla corrente immobili. In grande silenzio, ci avvicinammo a remi ad esse e quando ci vennero a tiro, senza utilizzare nessuno strumento, a mani nude ne tirammo a bordo più di quaranta. Una pesca veramente incredibile della quale si parlò per sempre, ma nel vedere tutte quelle povere bestie stivate sottosopra, al buio, nella pancia della barca, mi venne una grande tristezza e di nascosto mi misi a piangere. Le tartarughe erano animali pregiati, il loro guscio era assai ricercato dai mercanti della costa e quell’abbondante pesca ci avrebbe fruttato molti quattrini. Quando giungemmo a riva a tarda notte, le prede furono trasportate in un grande magazzino in attesa di essere uccise il mattino seguente. Io le guardavo ed ero sconvolto da come quelle povere bestie soffrivano tremendamente e consapevole che presto sarebbero state uccise, anche per colpa mia, decisi di liberale.

Fabio: Ero poco più che un bambino e quindi sapevo che da solo non sarei mai riuscito a sollevare quelle enormi tartarughe: alcune arrivavano a pesare più di cento chili così, decisi di chiedere aiuto ai miei amici Nico e Giovanni. Nel pieno della notte li svegliai e assieme, ci recammo al grande magazzino vicino al mulino di Scari. Scassinammo il portone ed a una ad una, con grande fatica, trasportammo tutte le tartarughe sulla riva, dove pian piano ripresero la via del mare e della libertà. Felice come mai, alle prime luci dell’alba mi misi a guardarle compiaciuto mentre fuggivano da morte sicura. Salutai i mie complici quindi, consapevole del fatto che difficilmente sarei riuscito a farla franca, aspettai che arrivassero i pescatori per andare incontro alla mia punizione. Quando si resero conto dell’accaduto, confessai che ero stato io. Iniziarono a rincorrermi lungo la spiaggia nel tentativo di linciarmi.

Mio padre riuscì a farli desistere promettendogli che avrebbe rimborsato a ciascuno di loro il danno subito e che mi avrebbe punito severamente. Suo malgrado fu costretto a mantenere quella promessa e quindi, a prendermi a cinghiate sulla schiena davanti a tutti. Quell’episodio causò a mio padre, che era un uomo buono e rispettato, un periodo di grande difficoltà con i pescatori. Per più di un mese, per la vergogna e per il dispiacere, non si fece vedere alla grande spiaggia di Scari. Anche a casa, per quello che mi aveva fatto, nessuno gli rivolse per molto tempo la parola e persino nonno Angelo, notoriamente persona molto severa, in quell’occasione gli si rivoltò contro. Da quel giorno mio padre non andò più a caccia di tartarughe e chi ci andava, una volta a riva, si premurava di mettere qualcuno di guardia per paura che io potessi intervenire. Quando divenni adulto però, memori di quello che era successo, nessuno si azzardò più a cacciare le tartarughe in mia presenza. Il coraggio e la determinazione che avevo dimostrato in quella situazione, divenne quasi una leggenda, soprattutto per il fatto che nessuno seppe mai che quella notte non avevo agito da solo e dunque, nessuno si capacitava di come ero riuscito, poco più di un bambino, a mettere in salvo tutte quelle povere bestie.

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L’Ospedale di Lipari fu inaugurato il 28.10.1940 come da foto tratta da un testo di Renato De Pasquale ma prima….

Si cercano fondi per costruire un ospedale mandamentale a Lipari, il terreno in contrada S. Anna è stato già acquistato, arrivano contributi dall’Australia e dagli Stati Uniti degli Eoliani emigrati, si interessa anche S.E. Mons. Paino.

Da Italo Australian Sydney del 19.10.1927: Erigendo ricovero (Ospedale) monumento Caduti in Guerra a Lipari. Una Grandiosa ed Artistica Opera di Carità'.

II Presidente del Comitato Esecutivo del Ospedale 'Ricovero Monumento ai Caduti in guerra, che sorgerà' a Lipari ci invia una Ietterà alla quale ben volentieri diamo qui sotto pubblicazione ed al suo caldo appello aggiungiamo il nostro.

Oltre al fatto che l'erigendo Ospedale ha per scopo uno dei più' sacri doveri imposti ai vivi, quello cioè di degnamente commemorare gli eroi che per la Patria hanno dato in olocausto la vita, vi e' anche il dovere di aiutare i sofferenti della propria citata' nativa e non crediamo si potesse meglio eternizzare i nomi degli eroici caduti delle Isole Eolie che fondando un Ospedale che il loro nome onori.

Molti sono i figli delle Isole Eolie che possono contribuire somme ragguardevoli per un'opera cosi grandemente beneficatrice e siamo certi, ben conoscendo il loro attaccamento alla terra nativa, che essi non hanno bisogno di sprone,

ma anche a quelli che non si trovassero in condizioni finanziarie troppo floride incombe il dovere di contribuire nella misura che e' loro possibile. Un'opera come quella che si sta erigendo a Lipari e' assai più' grande ed assume maggior importanza se essa compendia, non già' la munificenza di un donatore, ma lo sforzo di tutti.

Vengano dunque le piccole oblazioni colle gratuli; la pietra portata dagli uni si addossera' alla pietra portata dagli altri e l'edificio crescerà' più' grande, maggiormente significativo, perche' esso rappresenterà' la volonta' e la caritatevole benemerenza di tutta una cittadinanza.

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La Lettera del Presidente del Comitato b Illustrissimo Sig. Direttore del Giornale "Italo Australian," Sydney.

Al suo accreditato giornale che e' la voce degli Eoliani costa' emigrati, vorremmo, se ce lo consente, affidare; la propaganda per il nostro Ospedale Monumento.

Nel 1922 si agito' l'idea di un monumento marmoreo Pro Caduti Eoliani in Guerra, .ma nell'Agosto dello stesso S.E. Mons. Paino Arcivescovo di Messina suggerì di consacrare il monumento in un grandioso Ospedale

Mandamentale da sorgere in Lipari capoluogo/delle Eolie. La proposta fu accolta entusiasticamente e messa subito in atto con; un lungo lavoro di propaganda.

Infatti : I Fratelli Paino da Salina residenti a Brooklyn hanno offerto personalmente lire centomila con le quali Abbiamo acquistato l'incantevole locale in contrada S. Anna di una estensione di Mq. 6325, dagli eredi De Pasquale.

La Congregazione di Carità di Malfa ha devoluto il legato' Marchetti con propria deliberazione approvata dall'autorità' tutoria del valore di circa lire settantamila. A Brooklyn merce l'efficacissimo interessamento del Parroco

Belsito, dei Fratelli Paino e del Presidente della Lega Eolia si sono unite sei società Eoliane che in un ballo di beneficenza hanno dato lire centomila. Con detta somma abbiamo potuto acquistare una importante quantità di diritti a mutui concessi dal Governo ai paesi danneggiati dal terremoto 1908, per la costruzione di esso Ospedale.

S.E. Mons. Paino ha offerto un bellissimo pianoforte da concerto Kaps che sorteggeremo sperando di ricavare circa lire trentamila.

Non basta pero', Sig. Direttore. La via lunga ne sospigne. Le grandi opere perchè riescano hanno bisogno di grandi sacrifici ed il loro battesimo migliore e' la prova. Noi possiamo affermare che usciamo come battezzati dalla prova del fuoco e quando sembrava che avessimo dovuto soccombere un'ala benefica ci ha rialzato e dinanzi a noi rispondeva radioso il nuovo sole. Il nuovo grandioso Ospedale che risponde a tutte le esigenze moderne, composto di tre sontuosi padiglioni, avrà un triplice scopo :

1). quello di onorare i gloriosi martiri delle Isole con la pietà dei.vivi doloranti che avranno bisogno nelle loro disgrazie fisiche del pronto e vicino soccorso di un decoroso locale sodisfacendo un ardente necessità delle nostre Isole , che serve ad evitare ai nostri ammalati benestanti o poveri spese ingenti, disagi, pericoli e perdite di tempo per recarsi altrove o fuori delle Isole.

. 2) ..quello di dare come ricovero assistenza ai vecchi genitori dei nostri cari emigrati che con la loro generosità danno vita a tutte le iniziative locali.

3) quello di dare asilo a quei poveri inabili cui mancano i mezzi di sussistenza. . Accoglierà il suo Giornale la voce nostra?

La stampa e' l'anima delle grandi iniziative e perciò noi molto ci ripromettiamo da una efficace propaganda giornalistica, all'estero.

Osiamo dunque chiederle: che voglia aprire nel suo giornale una pubblica sottoscrizione Pro Ospedale Mandamentale Monumento Caduti Eoliani in Guerra di Lipari, per quel tempo che crederà' opportuno; che aiuti l'opera nostra con tutti i mezzi più rispondenti allo scopo: che voglia

interessarsi a collocare i biglietti della lotteria del piano che le accludiamo in numero di trecento a lire dieci il biglietto. Le chiedo mille scuse, Sig. Direttore, e La ringrazio e La ossequio.

Il Presidente, Del Comitato Esecutivo, (fto) Rag. Pietro La Rosa.

Le Prime Oblazioni Abbiamo comunicata la lettera al locale Circolo Isole Eolie e dal Segretario, signor A. L. Schiavo, riceviamo una lettera di entusiastica adesione e dichiarante che il Comitato ha deciso di tenere aperte le liste di sottoscrizione per un anno. Le oblazioni verranno regolarmente pubblicate sul ltalo-Australian, il quale fin d’ora mette le sue colonne a disposizione sia del Comitato Generale che del Sub Comitato locale.

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L’ISOLA DI VULCANO da LE VIE D’ITALIA N. 11 DEL 1954 DI Ludovico SICARDI. Dopo Stromboli, è l’unica dell’arcipelago delle Eolie che presenti ancora notevoli fenomeni vulcanici.

Le isole Eolie appaiono ad una ad una doppiando il capo di Milazzo sulla costa tirrenica della Sicilia. A settentrione l’alta cuspide triangolare di Stromboli con il suo pennacchio di fumo, più in qua Panarea con Basiluzzo quasi sdraiate sul mare, di fronte le tozze ombre di Vulcano e di Lipari, dietro le quali si nasconde Salina, che comparirà più tardi. Alicudi e Filicudi sono lontane, restie a mostrarsi, confuse nello sfondo indefinito della foschia.

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Dietro di noi, i monti della Sicilia si appiattiscono in una striscia che diventa sempre più sottile e grigia, su cui predomina la mole dell’Etna. A questa le Eolie paiono guardare, per la comune discendenza del fuoco nascosto della terra: invero queste non superano il mare che per meno di mille metri, ma nella profondità sottomarina ne acquistano rapidamente altri duemila. Così aggrappati negli abissi, questi monti spingono fuori guardinghi le loro cime, divengono isole e occhieggiano alla sorella maggiore trattenendo entro se stesse l’impeto della forza materna. Stromboli, più audace, sbuffa ancora i i suoi colpi di fuoco disperdendo le ceneri al vento e Vulcano lancia il vapore delle sue fumarole.

Le otto isole non sono distribuite a caso, ma si irradiano su tre diverse direzioni, quasi con eguale angolo, da un punto poco più a nord dell’isola di Lipari. Qui la crosta terrestre sembra aver ricevuto dall’interno tale urto da restarne spezzata, con la conseguenza di quel caratteristico irraggiamento di fratture sulle quali sono poi sorti i coni vulcanici delle Eolie. Oggi le manifestazioni dell’attività vulcanica sono concentrate esclusivamente a Stromboli e Vulcano, agli estremi cioè delle due radiali di levante, mentre nelle altre isole non appaiono che sporadiche sorgenti termali e solo Panarea ha una striscia di deboli fumarole.

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Quando rosseggiano le lave. A Stromboli, da alcune delle numerose bocche di solito aperte nella voragine craterica, la lava, quasi sempre visibile, affiora e rosseggia. Di notte riverbera la sua luminosità nella massa dei gas e dei vapori che l’abbandonano e che nell’impeto dello scarico trascinano con spettacolare veemenza frammenti incandescenti di magma. Quando la forza del vulcano si accresce, il cratere è soggetto a parossismi che scuotono tutta l’isola e la lava si riversa rapidamente in mare lungo la famosa Sciara del Fuoco. Ma dopo pochi giorni se lo sfogo non ha provvisoriamente fiaccato il vulcano, ecco ritornare ogni cosa nel ritmo più pacato dei quotidiani lanci di scorie luminose.

A Vulcano invece la calma dell’ampio cratere è appena rotta dal rumoreggiare delle fumarole dalle quali sfuggono nubi bianche di vapore commisto a gas acutissimi di odore. Solo a distanza di decenni il vulcano attraversa periodi esplosivi durante i quali però, a differenza di quanto avviene a Stromboli, il magma non appare luminoso e ribollente. Infatti la bocca resta completamente chiusa come da un tappo che ogni tanto la forza dei gas prementi dall’interno spezza e frantuma in cenere, lapilli e proietti più o meno voluminosi. Si espande allora una grossa nube scura tra cui rosseggiano i frammenti del magma sottostante appena pastoso, divelti e asportati dalla massa gassosa nel suo impetuoso irrompere. Subito dopo il crostone di chiusura si riforma, salvo riaprirsi più tardi sotto nuovi sforzi. A Vulcano infatti il magma è talmente denso e vischioso, già così relativamente freddo, che difficilmente riesce a raggiungere la superficie e ancor più a traboccare. Di solito, come ora, rimane incuneato più o meno profondamente , lasciando che i gas, pur essi provenienti da ignote profondità, l’abbandonino e proseguano da soli verso l’alto, sfociando liberamente all’aperto.

Il richiamo dell’Australia. Vulcano è l’isola più vicina alla Sicilia. Il postale, che ogni mattina parte da Milazzo, prima di giungere a Lipari, vi fa scalo e ritorna nel pomeriggio. Non molto tempo addietro, il servizio faceva scalo soltanto a Lipari, rendendo arduo il collegamento di Vulcano con le linee di navigazione delle Eolie. Alla facilità delle comunicazioni si aggiunge oggi la possibilità di un soggiorno confortevole per due appassionate iniziative locali: quella di Giulio Giuffrè sulla riva del porto di Levante presso una salutare sorgente e l’altra dei Favaloro a mezza via tra le insenature di Ponente e di Levante.

I campi ancora sabbiosi lasciano crescere una vite a basso cespuglio, ma capace di un vino molto generoso; gli orti vivono soprattutto dell’umidità un poco calda del sottosuolo; nel mare ci sono ampie possibilità di pesca. Queste sono le risorse dell’isola, per il resto, è ampiamente fornita da Lipari e da Milazzo. Il turista insomma può viverci tranquillamente, pensando solo a percorrere l’isola a piedi o sul dorso di mansueti muletti per i facili sentieri che legano tutte le località e comodamente portano alla cima fumosa del Gran Cono e tra gli spenti crateri del Piano.

Nell’isola non vivono che poche centinaia di persone ospitali e cordialissime, divise tra il Porto di Levante e il Piano, non ancora del tutto insensibili al richiamo dell’Australia che tanti ha strappato finora all’isola, offrendo aiuti più efficaci di quelli che il suolo e il mare di Vulcano possa dare.

Verso il Gran Cono. Sono innumerevoli le passeggiate che Vulcano offre ai suoi ospiti e con esse le impressioni più diverse. In rapide sequenze è un continuo mutar di visuali, nell’immediato profilarsi di ampie vedute o di scorsi: ora aspri e duri, quando predomina la roccia lavica irsuta, contorta, attorcigliata, sporgente fantasticamente tra le chiazze grigie delle sabbie; ora morbidi laddove nella terra dei crateri spenti ed esauriti s’immergono le radici di una vegetazione rigogliosa.

L’ascensione al cratere del gran Cono è la più bella ed emozionante. Lassù , appena a poche centinaia di metri di altezza, è l’orrido di una terra calda, fumante, squallida, frantumata da una forza ostinata e lacerante che riversa nubi di vapore con l’impeto di uno sfogo, ingentilito solo dalla varietà dei colori lucenti e purissimi che orlano i margini delle fumarole. Ma si è anche sotto l’immensità di un cielo che confina unicamente con l’orizzonte e di fronte alla vastità del mare che su quell’orizzonte spegne la sua sfumatura celeste.

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Si abbandonano i campi della costa dove la vigna sembra timorosa d’agguantarsi alla terra, si lascia anche la ginestra, la sola pianta capace di irradicarsi nel terreno ancor tiepido e tra le sabbie che il vulcano ha sparso attorno, quasi per allontanare da sé ogni segno di vita, si comincia a salire sotto il rumore sordo delle fumarole che in alto sibilano tra candidi pennacchi di vapore. Il terreno si inaridisce, si ricopre di una sottile patina bianca e va sempre più scaldandosi: comincia qua e là a fumare. Si oscurano nella nebbia le più lontane isole dell’arcipelago, ma Salina e Lipari si disegnano minuziose. Tutti i particolari si accentuano fra luci e ombre nell’infinita gamma dei colori posseduti dal paesaggio vulcanico, dove in cruda mescolanza i rossi più accesi e i gialli più pallidi sono messi accanto alla volontà mutevole e capricciosa del fuoco. Tutto questo nella varietà del profilo costiero disegnato con la violenza dell’acquamarina spinta dalla furia del vento: tra le frane, gli scoscendimenti e le rocce, è una frangia di capi e di seni, cui fanno sentinella guglie rocciose e scogliere ossute, isolate nel mare, che devono subire per prime le frequenti collere del mare eolico.

Si attraversa la Forgia Vecchia, questo occhio ciclopico del monte che è solo un cratere avventizio apertosi probabilmente nei primi decenni del 1700. Di fronte è l’arco roccioso di Lentia il residuo forse del primo cono con il quale il Vulcano prese a formarsi e che in epoca più tarda dovette sprofondare in mare. Lo scarso avanzo del più vecchio edificio vulcanico sembra ora voler circuire il Gran Cono che si sta sviluppando proprio in quell’area di sprofondamento e che, se eventi più disastrosi non interverranno, finirà per ricoprire con un mantello di cenere e di lave l’ultima testimonianza del più lontano passato dell’isola.

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A levante, invece, le più recenti vicende dell’isola sono illustrate dalla penisoletta di Vulcanello, formata da tre conetti l’un l’altro addossati quasi in un unico cumulo di cenere sopra una piattaforma lavica più ampia. Al principio del II secolo avanti Cristo il mare batteva liberamente ai piedi del Gran Cono e si inarcava tra questo e la vecchia rocca di Lentia. Una serie di eruzioni inizialmente sottomarine crearono in duecento anni una nuova isoletta, Vulcanello, che solo nel 1500 finì per legarsi alla maggiore. Per quanto il gruppetto di questi tre coni sia formato di cenere e di scorie, solo a settentrione deve subire l’impeto del mare che cerca di smantellare la fragile costruzione con effetti visibilmente palesi. Nelle altre parti questo lavoro di demolizione viene rallentato dalla protezione della muraglia lavica contro la quale si spezza la violenza del mare.

Ma riprendiamo l’ascensione al gran Cono. Lasciato il cratere della Forgia Vecchia ci si sposta verso sud e costeggiando l’estremo lembo delle fumarole che in lunga fila orlano all’esterno la cima del vulcano sotto il margine di un ampio gradino. Tagliando la testata della colata lavica delle Pietre Cotte, l’unica di cui si può riconoscere l’origine storica e che appare simile a un vetro leggero, bolloso come una spugna, fragilissimo. La colata, relativamente stretta, rivela nelle sue stesse dimensioni la viscosità propria del magma del vulcano. Pare sia uscita dalla bocca di questo come trafilata, rigettata sulle pendici del cono e convogliata senza potersi liberamente espandere.

Oramai è breve e facile raggiungere l’orlo del cratere la cui voragine sprofonda d’un tratto sotto di noi, mentre ci appare di fronte, altrettanto improvviso, il Monte del Piano, tozzo come un tronco di cono, è, in realtà, un insieme di costruzioni vulcaniche addossate una all’altra, dell’ultima delle quali rimane lo sperone di Monte Saraceno. Oggi la conca del Piano dai suoi tre-quattrocento metri di altezza quasi strapiomba sulle azzurre profondità marine come un immenso vascello, disseminato dalle bianche e piccole case eoliche, abitate da alcune centinaia di isolani.

Nel fondo del cratere. Possiamo percorrere tutto l’orlo del cratere, giungere sulla sua punta più alta (m 386) all’assoluto dominio del più ampio e completo orizzonte, ridiscendere sul lato nord dove il vulcano sembra aver concentrato tutta la sua forza. Dalle fumarole, alcune tenuissime, appena rivelate nelle striature di zolfo sulle sottili crepe del terreno, alcune più grandi che dai 100 gradi si portano ai 200, ai 400 e anche oltre, dal terreno a fessure per diecine di metri come se un gran taglio spaccasse il margine del cratere da nord a sud, sfugge la massa gassosa. Ma la violenza si accompagna con manifestazioni di armoniosa bellezza e il timoroso senso che emana dalla misteriosità del luogo si attenua e si spegne nell’amministrazione degli effetti pittorici abbandonati da quella furia fuggente nell’ultimo istante del suo cammino terrestre. Sono larghe fasce gialle di zolfo a zone rosse o rosso brune, frammezzate da variopinte strisce di altri minerali; soffici grappoli che sfumano nelle colorazioni citrigne più delicate; festoni morbidissimi di Sali candidi come neve, che paiono ovattare sasso contro sasso, eguagliando le asprezze del terreno spezzato e ruinato tra i lembi delle visibili fratture.

Il cratere sventra la cima del monte per ottanta metri sotto la quota più bassa dell’orlo. Le pareti dell’imbuto non sono ovunque eccessivamente scoscese ed è quindi facile scendere e risalire. In pochi minuti, passando tra i detriti dell’ultima eruzione (1888-1890), si arriva al fondo caldissimo, biancastro, ricamato dalle incrostazioni variopinte dei minerali che trasudano dalla stessa terra, mentre da sottili tagli emanano leggere spire di vapore.

A settentrione, sull’alto della voragine, irrompono invece la messe di vapore delle fumarole della grande frattura. L’eco del fondo incupisce il sordo brontolio che è solo a spezzare l’immensa quiete di quella solitudine. L’aria, appena mossa, prima di permettere alla nube di dissolversi, l’agita, l’appiattisce, la distende, la rigonfia, la rituffa contro la roccia arsa giocando con la forza ignota e cieca che ha strappato quel respiro delle viscere stesse della terra. E la furia e la violenza paion spegnersi senza alcun ulteriore dispetto, vinte dalla semplice calma dell’aria e della luce.

Si di noi incombono le pareti fumanti e l’occhio azzurro del cielo aperto nel profilo della voragine. Noi si pensa alla soglia dell’Averno, ma certamente il mondo nostro di tutti i giorni si allontana assai, scompare più che non lo nascondano le pareti del cratere e diventa quasi inconcepibile la bellezza della natura rigogliosa, piena di luce e di colore, di fronte a quel paesaggio arido, sconvolto dal fuoco sotterraneo che potrebbe d’un tratto squarciare la montagna .

Anche il peregrinare attraverso un’isola ha la sua conclusione. A Vulcano è da coglierla nelle ultime ore del giorno sulla scogliera Vulcanello. Da una parte, tra le ginestre si alza il Gran Cono, avvolta la cima della nuvola fumosa lanciata con un rumore profondo che fende l’aria più della stessa nube. Di contro è il profilo azzurro di Salina e di Lipari, di fianco Vulcanello sfolgora al sole morente con le sue ocre rosse. Prima che ogni cosa si nasconda nella notte è un mutare senza soste di tinte: luci nordiche e fredde e bagliori d’incendio. Passa rapidissimo il tramonto dal giallo-oro all’arancione e all’ultimo scintillio si stendono ovunque veli di viola.

A quell’invadente uniformità crepuscolare restano del tutto insensibili il rumore del vulcano e l’Irrequietezza dell’onda in lotta con la roccia. Quando la notte ci toglie la distrazione del contorno e del colore delle cose, il rumore cupo, continuo, ritmico del monte sembra una sorda voce della terra, così come il blando, sommesso, invisibile sciacquettio delle onde contro la lava diventa una pura voce del mare.

di Ludovico Sicardi ricordiamo anche: Estratto dagli Atti della Società Italiana di Scienze Naturali

(1952) Dr. LUDOVICO SICARDI - STROMBOLI, PANAREA E VULCANO (Eolie)

STROMBOLI – PANARIA – E VULCANO Nell’agosto – settembre 1951.

Nell’estate dello scorso anno sono stato nell’Eolie e la presente nota raccoglie alcune osservazioni fatte a Stromboli, a Panarea ed a Vulcano, le tre isole eoliche in cui l’origine di tutto l’arcipelago si rileva oggi attraverso le singolari e diverse forme dell’attività vulcanica di ciascuna di esse.

III. – VULCANO. L’attività di Vulcano è esclusivamente solfatarica cioè caratterizzata dalla presenza di nuclei fumaroliei a diversa temperatura, esalanti di vapor acque con diversi gas. La distribuzione fumalorica di Vulcano interessa principalmente il settore NW dell’apice del Gran Cono entro e fuori il cratere o Fossa di Vulcano. Altre fumarole si hanno in nu nucleo di esalazione idro carbonico solfidrica presso i Faraglioni del Porto di Levante sulla piana che circonda il Gran Cono, sulla quale fino al 1930 circa vi era un altro gruppo di fumarole esclusivamente idrocarboniche sotto i dirupi del monte di Lentia, uno dei grossi domi residui dell’antico vulcano scomparso in tempi preistorici, nella cui area di sprofondamento sorse poi l’attuale Gran Cono…SICARDI.JPG

 

1956 n. 6 la montagna leggera. Pirelli Rivista d'informazione e di tecnica. Bartolo Cataffi. 4 ed ultima parte.

Lo spiazzo di raccolta veniva ingrandito da una vasta terrazza che si saldava al suo orlo e che era il tetto dell’ultimo piano dello stabilimento. Lo stabilimento era come una scalinata: la terrazza di ogni piano, tetto del piano inferiore, una successione di enormi gradini; e proprio sul mare, seguendo ogni piano il digradare della roccia, la base quasi bagnata dall’acqua. Il fabbricato non faceva spicco contro la montagna, pomicemento i suoi muri, pomice la montagna. Pareva una sinistra, polverosa casa coloniale, con quella fuga di terrazze malandate, come in una casbah. Dalle superfici a giorno dei muri (i mattoni di pomicemento formavano strani disegni geometrici) filtrava un fumo continuo, subdolo, leggero.

“Lo stabilimento possiede un’attrezzatura tutta propria basata su criteri originali e razionali già confortati dal successo”. Dice Francesco L.C. “Carpenteria propria, officina meccanica, centrale elettrica; autonomia, insomma. Gli stacci vibranti sono di nostra originale progettazione, e fabbricati qua”. Prosegue: “Ora noi, visitando lo stabilimento, faremo lo stesso cammino della pomice, la sua trafila tutta dall’alto al basso, anche dentro lo stabilimento. Il piano più alto, cioè l’ultimo, sarà per noi il primo piano”.

Scendevamo una ripida scaletta di pomice e sotto c’era il vuoto; sul fondo, contro il nero della sabbia vulcanica, cozzava e schiumava l’azzurro crudo stridente del mare.

“Primo piano”, dice Francesco L.C. “Due vasti locali per l’immagazzinamento durante l’estate, Imponente riserva di materiale grezzo per l’inverno. Antieconomico asciugare pomice satura d’acqua piovana. Lavoro ridotto d’inverno per l’anzidetto motivo. Qui accanto: mulini a martello”.

Il rumore era incessante, la polvere turbinava densa e pioveva su tutto, si riversava anche fuori, per la stretta porta, sulla terrazza.

“Certo che ci faccio caso a questa polvere”, disse un molinaro, “ma anche i polmoni fanno il callo. E’ per il bisogno”. Battè la palma della mano destra sulla pancia.

“Al secondo piano ci sono i forni. Ecco i forni”, dice Francesco L.C. “Una superficie piana di circa 100 metri quadrati ricoperta di lamiere di ghisa che hanno uno spessore di venti metri 3 e mezzo…., condizione indispensabile per poterla crivellare è che la pomice diventi bollente sulle anzidette arroventate lamiere, diversamente si appannerebbero le tele di finissimo filo di bronzo fosforoso sovrapposte in tre ordini negli stacci vibranti, stacci vibranti che realizzano con meticolosa esattezza i vari tipi di pomice in polvere e in granelli…..

Al secondo piano esistono anche….”.

Era in atto, tra fuoco e fumo, vestito da marinaio (berretto con visiera, maglia blu strappata); sembrava un nostromo scalcinato sul cassero della sua nave in fiamme. Gli aiutanti del fornaiolo, quelli che lo rifornivano del materiale da informare, si chiamavano Uomini-polvere-avanti.

“Qua sopra”, disse il fornaiolo, “è il posto più brutto. Dovrei vendere cara la vita e invece la vendo mercata. Qua sopra pochi anni si campa”.

“Al terzo piano”, riattacca Francesco L.c., “oltre alla centrale elettrica esiste un complesso di laminatoi, Laminatoi che assieme agli stacci vibranti realizzano con meticolosa esattezza le diverse granulometrie di pomice…. Lavoro compiuto da rulli di acciaio al manganese che inviano, per mezzo di elevatori, la pomice macinata agli stacci vibranti….”.

Quell’orribile rumore di ferraglia era incessante, e dal rumore nasceva copiosamente la polvere; si manteneva in aria a densità costante, dato che quella che si posava o che usciva era subito rimpiazzata dalla nuova.

Gli Uomini-sotto-buratto non parlavano, ma avevano occhi espressivi; portavano attaccato al muso il respiratore BN3, insaccavano pomice.

Gli Uomini-sacchi-a-posto vestivano in modo strano, camice rosa e mutande celesti o viceversa, un sacco vuoto messo a cappuccio, per proteggersi scapola e collo, il sacco pieno su scapola e collo; andavano curvi, accatastavano, ritornavano.

“Il quarto piano, il piano terra”, dice Francesco L.C. “Questi locali sono adibiti a deposito e sono capaci di contenere quintali 30.000 circa….”.

Intanto, c’era il mare. Scesi nel silenzio dell’ultimo piano, in quell’aria cheta e dolce, senza polvere di pomice né strepito di macchine, si sentiva vicinissima la voce del mare; una striscia d’azzurro smaltato, dalla porta semiaperta, rinfrescava deliziosamente gli occhi.

“Questi locali, come lei vede, hanno una ottima capienza”, insiste Francesco L.C. E continua: “ Il pontile d’imbarco. Il pontile d’imbarco si diparte dallo stabilimento e si protende nel mare per una lunghezza di metri 180; all’altezza dal livello del mare metri lineari 7,50. I natanti si affiancano agevolmente all’anzidetto pontile e fanno carico alla rinfusa di granulato… per navi grosse invece trasporto effettuato a mezzo barche…navi d’ogni Paese…”.

La porta era semiaperta, e il rettangolo azzurro perdeva sempre più luce; il mare s’incupiva, doveva certamente essere basso il sole. Entra ad un tratto un raggio intenso e coglie in pieno un sacco di pomice.

“La granulometria!”, esclama Francesco L.C. “L’importante è controllare la granulometria di ogni tipo col vibratore e con altri apparecchi segreti. Per fare prodotti perfetti, omogenei, quotati!”.

Con passo svelto s’avvicina al sacco illuminato dal sole, prende un pugnello di pomice macinata, e mentre lo fa scivolare dolcemente, gustandolo nella mano chiusa a imbuto: “Questo è oro”, dice rapito, “ è oro fino”.

Il mare a pochi passi di distanza, battendo sulla rena vulcanica, raccontava una storia di navi tramps e di navi a rotta fissa, di agenzie marittime, di noli, di banche, di clausole commerciali, di docks remoti, di cables affollati da domande d’acquisto; perciò la pregiatissima pomice proveniente dalla leggera montagna eoliana poteva in certo modo imparentarsi con quell’altra cosa che il simbolo di Au, il numero atomico 79, il peso atomico 197,2, il peso specifico 19,3. Quell’altra cosa chiamata oro. BARTOLO CATTAFI

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1956 n. 6 la montagna leggera Pirelli. Rivista d'informazione e di tecnica. Bartolo Cataffi. 3 parte.
Alcuni avevano una massiccia espressione bovina, a volte rotta da un guizzo selvatico; altri, lineamenti affilati, tesi, come di saraceni. Trafficavano con picconi, pale, gerle, carri decauville. Una morta patina di polvere di pomice ricopriva i loro abiti, la loro pelle; avevano facce incipriate.

Il picconiere Francesco S. disse con enfasi: “La Montagna Bianca! Bianca di nome, bianca di fatto”.

“Bianca fino ad un certo punto”, replicò il carrista Vincenzo N. “Bianca da aprile fino ai primi di settembre, poi grigia. Quando è bianca, è interamente bianca perché anche le piccole pietre che hanno un altro un altro colore si coprono di polvere di pomice. Ma quando in tempo di settembre viene l’acqua di cielo e tutto sdilava, le piccole pietre che hanno un altro colore si coprono di polvere di pomice. Ma quando in tempo di settembre viene l’acqua di cielo e tutto sdilava, le piccole pietre assommano col loro colore, che è grigio. Poi c’è anche che la pomice per suo conto, se bagnata, è grigia. E qua diventa come una delle spugne che si pescano a mare. La pomice succhia umido dall’aria, beve acqua, e a noi ce la scarica tutta nelle ossa, l’acqua, l’umido. D’estate invece il bianco della montagna e la polvere ci mangiano gli occhi; la polvere se ne cala pure nei polmoni”.

Il picconiere Antonio C. si fece avanti e disse: “Quando il cielo diventa sempre più chiaro, più bianco, sulle montagne dell’isola di Sicilia si vede che vengono e si posano certe nuvole pesanti, a forma di grandi coperte di lenzuola arrotolate: questo è segnale di scirocco. Intanto il mare si scolorisce, e “mare bianco, scirocco in campo” cice il proverbio. Dopo arriva il vento; fino a che è leggero fa cose di poco , ma, quando arriva quello forte e caldo come l’aria del forno, mammamia che succede! La Montagna Bianca non si riconosce più, è tutta quanta una nuvola di polvere, “la fumata” diciamo noi, come un fumo bianco, come se se ne andasse in aria”.

“E noi là”, disse il picconiere Francesco S., “in mezzo alla polvere e al vento, con lo scirocco che ci fa i chiodi negli occhi, in quel casino, a lavorare”.

“La verità è”, asserì il carrista Vincenzo N., “che qui siamo come gli arabi, come gli ascari; senza occhiali”.

Disse asciutto Sebastiano F., canalista: “Il lavoro è duro, la paga è poca, ma la vita si deve passare”.

Un manovale disse: “Ecco che arriva Cristoforo I., il capotaglia, il responsabile del materiale e del nostro lavoro sino allo scarico nel canalone, e piglia lire duecentotrentasei più di noi”.

Cristoforo I., col suo grande fazzoletto legato sulla nuca e una faccia dai tratti forti e tranquilli, cominciò a parlare lentamente: “ La Ditta mi tiene perché il mio lavoro è sincero, senza inganni. Per la “terra bianca” ero e sono capace, pratico cioè. Saper guardare la “terra”, capire come e quando deve cadere, levare un pericolo. Un pericolo alto 10-15 metri non si prende mai di sotto ma di sopra, a scendere a scendere, col piccone; ci vuole l’occhio. Eppure una volta ero risicoso, una volta sì.

Un giorno ero in alto, sul fronte di abbattimento; lo avevo combinato grande assai il pezzo che doveva cadere. Do l’ultimo colpo di piccone e succede che la frana mi prende, mi trascina giù, e quando essa si ferma sono già sottoterra, seppellito. Mentre ero seppellito ho fatto una grande forza per liberarmi, ma inutile, allora in un lampo ho pensato nella mia mente che i compagni non si trovavano, che ero morto per me e ho mandato come un grido del cuore; ho detto: “Salute alla mi famiglia….”: poi mi sono stordito, sottoterra uno subito si stordisce. All’improvviso mi sono trovato fuori, all’aria, perché i compagni mi avevano salvato. All’indomani andai al lavoro di nuovo. Prima si che ero risicoso, davo un paio di colpi come so io e mandavo mezza montagna a terra. Non ce n’è spesso disgrazie, ogni tanto. L’ultima volta fu qualche mese addietro: uno è cascato a pesce e s’è ammaccato. E’ cascato di botto, con la pancia, sotto ha preso il duro e non è andato più di corpo; 4 giorni d’ospedale, morto”.

Cristoforo I, sputò la cortissima cicca di alfa, vi mise il piede sopra con forza, per spegnerla, e rivolto ai suoi uomini disse: “L’avete sentita la storia? Avanti ora, al lavoro”.

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Per gentile concessione dell'Archivio Fotografico Giuseppe Loy. Due foto di Lipari scattate a Lipari rispettivamente nel 1960 e 1961.

 Qualcosina su di lui, tratto dal volume GIUSEPPE LOY UNA CERTA ITALIA editore Drago:

Le fotografie di Giuseppe Loy, nel loro complesso, sono le immagini di una ricerca umanista. Il “fattore umano” resta centrale in quasi ogni scatto.

Edoardo Albinati, Immagini preziose e insieme familiari, quotidiane; costruite e composte, e nello stesso tempo contingenti al modo di frammenti di realtà e dai confini delicatamente sfrangiati; laconiche e addirittura silenziose, anche per un esperto semiologo, ma tali da rinviare a discorsi inattuali, non fatti, o fatti, o da fare una volta: ricche di emozioni intense, ma come acquetate o inabissate.

Emilio Garroni

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Chester 1930 mix.JPG Mediterranean cruise of the U.S.S. Chester : a story of a queen of the seas, its first crew, its first voyage, and of its sister ships.

(……L’U.S.S. Chester "Il ministro delIa Marina mi ha informato di quanto nella notte dell'11 settembre, mentre sotto il vostro comando della nave, intercettando rapporto sull'eruzione del vulcano sull'isola di Stromboli, ha subito cambiato corsa per quella località allo scopo di cooperare nel lavoro di soccorso, se possibile.

"Apprezzo molto questo atto generoso da parte sua.

"Vi ringrazio cordialmente. "Mussolini".

A titolo di cronaca furono stanziati dei fondi per la popolazione di Stromboli con R.D. 23 giugno 1932 n. 865 convertito con Legge 29 dicembre 1932 n. 2038. G.U. n. 55 del 07.03.1933.

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1956 n. 6 La montagna leggera. Pirelli Rivista d'informazione e di tecnica. Bartolo Cataffi.

1 Usciti dal porto di Lipari si vira a sinistra, si doppiano le rocce del promontorio di Monte Rosa e appare Canneto.

Ma una strada alopecìa chiazza le alture, sfoltisce la vegetazione, mettendo a nudo il colore cadaverico del terreno, una cute ripugnante la cui forfora imbianca i cespugli: pomice, dal latino “pumex”, materia vulcanica, roccia vetrosa.

Nel suo ufficio di Canneto (isola di Lipari) il signor Francesco L.C. di anni 51, nato a Lipari e quivi residente, dinamico e volitivo industriale della pomice, si alza dalla poltrona, addita due bottiglie e dice:” >Questo o quello?”. Uno è il liquore giallorosso del Nord Italia, con ramoscello dentro fiorito di zucchero., l’altro è Malvasia, il rinomato vino dolce locale. Poi piglia un depliant e: “Guardi”, dice, “qui si vede la differenza”. Il depliant (un foglio pubblicitario americano) contiene fotografie d’ingrandimenti al microscopio e un testo in inglese; appiccicata sopra porta la traduzione, dattiloscritta su strisce di vergatina, seguita da Erich J.S. tedesco.

Sotto una fotografia il testo, voltato nel seguente italiano, dice: “ E’ rapida, liscia, ed uniforme senza scalfitture che produrrà economicamente l’esatta pulitura richiesta. I granelli sono uniformi in grossezza ed ogni granello ha molto abrasivo potere. C’è una quantità minima di piccoli granelli che agiscono come cuscino o di ridotta abrasività”. E si riferiscono, fotografia e didascali, alla pomice di Lipari. Circa l’altra pomice, fotografia e didascalia sono affatto diverse: “ I granelli non sono affilati, essi sono di angoli rotondi, come ghiaia o ciottoli e non hanno un grande abrasiva efficienza”.

“Inoltre”, dice Francesco L.C., “non solo non sono affilati, ma sono granelli deboli, ridicoli, si rompono. In tutto il mondo soltanto qua c’è la vera pomice, granelli taglienti e forti, che resistono anche ai laminati!”.

Viene Erich J.S., batte sonoramente i tacchi, s’inchina; quarantenne di Kiel, addetto alla corrispondenza. Apre cassetti, sfoglia schedari, dice, con esaltazione, nomi e nomi, assaporandoli e deformandoli nel suo modo tedesco: “ Dominiamo, mandiamo merce in tutto il mondo, qua, qua e qua”, indica schede, dice:”Rangoon, Hong Kong, Kilo, Turku, Epila, Allahabad, Carachi, Bulawayo, Benoni, Kalmar, Malmò, Izmir, Djakarta, Kota, Colombo, Barranquilla….”. Con gli occhi in fiamme, come se avesse innanzi smaglianti visioni esotiche e sue personali bandiere di conquista, dice con ritmo tambureggiante: “La Habana, Lorenzo Marques, Trondeheim, Tonsberg….”.

“Tutti i giacimenti nel mondo”, fa Francesco L.C., “ sono esauribili, ma questo pressochè dura sempre, è mezza isola la pomice, cone un’isola di pomice incastrata nell’altra isola, ce ne vuole prima di toccare il fondo”.

“Cotesto pomicifero giacimento”. Precisa Eiche J.S., “ è tutta la montagna Pelato e nel fianco nord della montagna Chirica. Esso possiede una estensione di chilometri quadrati 17, una altezza di metri 500, una profondità di metri non precisati”.

“Siamo in sette”, fa Francesco L.C., “le ditte industriali proprietarie, e in più c’è il Comune di Lipari che è un grossissimo proprietario della Montagna Bianca e concede licenze di escavazione; tredici sono le ditte commerciali. Sa quanto il Comune incassa di tutta la pomice in un anno, come dazio all’esportazione? Nel 1954 quaranta milioni ha incassato, su di 1.400.000 quintali di pomice esportata”.

Due teneri piedi carnicini, imbrigliati da esili corregge, stampati su una scatola trapezoedrica. E molti puntini scuri raffigurano la sabbia; poi stelle marine, conchiglie, Sandal Stone c’è scritto. For Beautiful Feet.

“E questa?”. “Questa”, ripete Erich J.S. partiti da Napoli 2000 pezzi di Sandal Stone con aereo di società americana, in due casse, due giorni dopo a Chicago: S. Toiletris Inc., pronti alla vendita. Sandal Stone è pietra per piedi, pomice per calli; è cosa cge il popolo di Chicago si strofina sui piedi per giarare coi sandali”.

“E questa?”. E’ come una spazzola per mani, ma di pomice, attaccata a un foglio di cartone in cui c’è scritto: Brosseponce, Efficace, Douce, Rapide.

“Monsieur George Grandemange, di Nizza”, spiega Francesco L.C. “E’ lui che ha inventato la Brosseponce, e ha brevettato in tutto il mondo l’inclinazione speciale dei tagli che la quadrettano; fa le mani morbide e nette come quelle d’un neonato. Intanto qui noi con mole smeriglio ci facciamo i nostri Sigari, Topolini, Navette, Barchette, Mezzisigari, ogni nome corrisponde alla forma suppergiù, tutti pezzi da toletta..

Ma non stia a credere, non stia a credere che la pomice serva soltanto a spazzar via lo sporco e a smerigliare i calli della gente. La pomice ha anche impieghi molto più seri. Noi non li sappiamo tutti, c’è un certo segreto da parte dei clienti, ma, oltre ai saponifici, sono fabbricanti di vernici che ce la richiedono; levigatori di marmi di mosaici; nettatori di argenterie, costruttori di corde di violino; città come Solingen, Manchester e Sheffield; vetrai e cristallai; produttori di mole abrasive; industrie chimiche che abbisognano di catalizzatori per gli acidi e di materiale per i filtri.

E l’industria edile. I granelli mescolati col cemento pigliano il nome di pomicemento: granelli da 0 a 25 millimetri. Insomma, la nostra produzione si basa su tre categorie: polvere, granelli, pomice in pezzi, dalla particella invisibile al pezzo più grosso d’una testa d’uomo. E ogni tipo ha il suo nome. Un tipo di polvere, per esempio, si chiama Zero-trattino-sbarra-un mezzo, e un altro: G-sbarra-uno. Ma la pomice in pezzi ha nomi molto più belli: Fiore, Fina, Bianca, Bianca e Fina, Nera, Grigia, Rotolatina, Dubbiosa, Lisciandrina, e Testone Liscone, Bastardone…..Insieme col nome cambiamo grado di tenerezza, prezzo; il Fiore, che è quanto una noce e serve per le corde dei violini, ce lo pagano a 70.000 il quintale, del Bastardone ce ne danno appena 3000”.

Francesco L.C. riprende fiato, riattacca lentamente, come leggendo il titolo d’un capitolo del libro della pomice: “Importanza sociale della pomice….Circa 1.500 nativi, fra operai e barcaioli, grazie alla pomice trovano lavoro in questa isola. Ma d’estate più che d’inverno”.

“Il pericolo viene d’estate”, fa E. J.S., “per questa gente operaia. L’estate è pericolosa, negli ambienti chiusi, con la polvere di pomice secca. Respirando, può venire malattia. Malattia silicosi polmonare”. E traccia in aria con due dita un segno che significa Kaputt. “ Ma questa gente”., riprende con una smorfia di disgusto, “non capisce, non ha testa con cervello; come animali che non sanno. Noi una volta diamo a questi operai il respiratore antipolvere Pirelli? Modello BN4M. E questi operai che fanno? Una cosa molto bestiale fanno: svitano la scatoletta forellata, buttano via nascostamente filtro e prefiltro, riavvitano la scatoletta forellata! E così credono di pigliare in giro noi, non i loro polmoni!

Ma noi ce ne accorgiamo e la seconda volta diamo a questi operai il modello BN3. Questo non possono svitarlo, questo è fisso, e prefiltro e filtro devono tenersi tenerseli qui, inchiodati al muso!”. Fa il gesto, con la destra, di artigliarsi naso, bocca, guance; i suoi occhi luccicano un poco.

Francesco L.C. si alza con aria impacciata e ritorna a dire: “Questo o quello?”. Addita il liquore giallognolo del Settentrione col rametto dentro fiorito di zucchero, e addita la bottiglia affusolata del Malvasia, il rinomato vino dolce locale.

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1956 n. 6 la montagna leggera. Pirelli Rivista d'informazione e di tecnica. Bartolo Cataffi.

1 Usciti dal porto di Lipari si vira a sinistra, si doppiano le rocce del promontorio di Monte Rosa e appare Canneto.

Ma una strada alopecìa chiazza le alture, sfoltisce la vegetazione, mettendo a nudo il colore cadaverico del terreno, una cute ripugnante la cui forfora imbianca i cespugli: pomice, dal latino “pumex”, materia vulcanica, roccia vetrosa.

Nel suo ufficio di Canneto (isola di Lipari) il signor Francesco L.C. di anni 51, nato a Lipari e quivi residente, dinamico e volitivo industriale della pomice, si alza dalla poltrona, addita due bottiglie e dice:” >Questo o quello?”. Uno è il liquore giallorosso del Nord Italia, con ramoscello dentro fiorito di zucchero., l’altro è Malvasia, il rinomato vino dolce locale. Poi piglia un depliant e: “Guardi”, dice, “qui si vede la differenza”. Il depliant (un foglio pubblicitario americano) contiene fotografie d’ingrandimenti al microscopio e un testo in inglese; appiccicata sopra porta la traduzione, dattiloscritta su strisce di vergatina, seguita da Erich J.S. tedesco.

Sotto una fotografia il testo, voltato nel seguente italiano, dice: “ E’ rapida, liscia, ed uniforme senza scalfitture che produrrà economicamente l’esatta pulitura richiesta. I granelli sono uniformi in grossezza ed ogni granello ha molto abrasivo potere. C’è una quantità minima di piccoli granelli che agiscono come cuscino o di ridotta abrasività”. E si riferiscono, fotografia e didascali, alla pomice di Lipari. Circa l’altra pomice, fotografia e didascalia sono affatto diverse: “ I granelli non sono affilati, essi sono di angoli rotondi, come ghiaia o ciottoli e non hanno un grande abrasiva efficienza”.

“Inoltre”, dice Francesco L.C., “non solo non sono affilati, ma sono granelli deboli, ridicoli, si rompono. In tutto il mondo soltanto qua c’è la vera pomice, granelli taglienti e forti, che resistono anche ai laminati!”.

Viene Erich J.S., batte sonoramente i tacchi, s’inchina; quarantenne di Kiel, addetto alla corrispondenza. Apre cassetti, sfoglia schedari, dice, con esaltazione, nomi e nomi, assaporandoli e deformandoli nel suo modo tedesco: “ Dominiamo, mandiamo merce in tutto il mondo, qua, qua e qua”, indica schede, dice:”Rangoon, Hong Kong, Kilo, Turku, Epila, Allahabad, Carachi, Bulawayo, Benoni, Kalmar, Malmò, Izmir, Djakarta, Kota, Colombo, Barranquilla….”. Con gli occhi in fiamme, come se avesse innanzi smaglianti visioni esotiche e sue personali bandiere di conquista, dice con ritmo tambureggiante: “La Habana, Lorenzo Marques, Trondeheim, Tonsberg….”.

“Tutti i giacimenti nel mondo”, fa Francesco L.C., “ sono esauribili, ma questo pressochè dura sempre, è mezza isola la pomice, cone un’isola di pomice incastrata nell’altra isola, ce ne vuole prima di toccare il fondo”.

“Cotesto pomicifero giacimento”. Precisa Eiche J.S., “ è tutta la montagna Pelato e nel fianco nord della montagna Chirica. Esso possiede una estensione di chilometri quadrati 17, una altezza di metri 500, una profondità di metri non precisati”.

“Siamo in sette”, fa Francesco L.C., “le ditte industriali proprietarie, e in più c’è il Comune di Lipari che è un grossissimo proprietario della Montagna Bianca e concede licenze di escavazione; tredici sono le ditte commerciali. Sa quanto il Comune incassa di tutta la pomice in un anno, come dazio all’esportazione? Nel 1954 quaranta milioni ha incassato, su di 1.400.000 quintali di pomice esportata”.

Due teneri piedi carnicini, imbrigliati da esili corregge, stampati su una scatola trapezoedrica. E molti puntini scuri raffigurano la sabbia; poi stelle marine, conchiglie, Sandal Stone c’è scritto. For Beautiful Feet.

“E questa?”. “Questa”, ripete Erich J.S. partiti da Napoli 2000 pezzi di Sandal Stone con aereo di società americana, in due casse, due giorni dopo a Chicago: S. Toiletris Inc., pronti alla vendita. Sandal Stone è pietra per piedi, pomice per calli; è cosa cge il popolo di Chicago si strofina sui piedi per giarare coi sandali”.

“E questa?”. E’ come una spazzola per mani, ma di pomice, attaccata a un foglio di cartone in cui c’è scritto: Brosseponce, Efficace, Douce, Rapide.

“Monsieur George Grandemange, di Nizza”, spiega Francesco L.C. “E’ lui che ha inventato la Brosseponce, e ha brevettato in tutto il mondo l’inclinazione speciale dei tagli che la quadrettano; fa le mani morbide e nette come quelle d’un neonato. Intanto qui noi con mole smeriglio ci facciamo i nostri Sigari, Topolini, Navette, Barchette, Mezzisigari, ogni nome corrisponde alla forma suppergiù, tutti pezzi da toletta..

Ma non stia a credere, non stia a credere che la pomice serva soltanto a spazzar via lo sporco e a smerigliare i calli della gente. La pomice ha anche impieghi molto più seri. Noi non li sappiamo tutti, c’è un certo segreto da parte dei clienti, ma, oltre ai saponifici, sono fabbricanti di vernici che ce la richiedono; levigatori di marmi di mosaici; nettatori di argenterie, costruttori di corde di violino; città come Solingen, Manchester e Sheffield; vetrai e cristallai; produttori di mole abrasive; industrie chimiche che abbisognano di catalizzatori per gli acidi e di materiale per i filtri. E l’industria edile.

I granelli mescolati col cemento pigliano il nome di pomicemento: granelli da 0 a 25 millimetri. Insomma, la nostra produzione si basa su tre categorie: polvere, granelli, pomice in pezzi, dalla particella invisibile al pezzo più grosso d’una testa d’uomo. E ogni tipo ha il suo nome. Un tipo di polvere, per esempio, si chiama Zero-trattino-sbarra-un mezzo, e un altro: G-sbarra-uno. Ma la pomice in pezzi ha nomi molto più belli: Fiore, Fina, Bianca, Bianca e Fina, Nera, Grigia, Rotolatina, Dubbiosa, Lisciandrina, e Testone Liscone, Bastardone…..Insieme col nome cambiamo grado di tenerezza, prezzo; il Fiore, che è quanto una noce e serve per le corde dei violini, ce lo pagano a 70.000 il quintale, del Bastardone ce ne danno appena 3000”.

Francesco L.C. riprende fiato, riattacca lentamente, come leggendo il titolo d’un capitolo del libro della pomice: “Importanza sociale della pomice….Circa 1.500 nativi, fra operai e barcaioli, grazie alla pomice trovano lavoro in questa isola. Ma d’estate più che d’inverno”.

“Il pericolo viene d’estate”, fa E. J.S., “per questa gente operaia. L’estate è pericolosa, negli ambienti chiusi, con la polvere di pomice secca. Respirando, può venire malattia. Malattia silicosi polmonare”. E traccia in aria con due dita un segno che significa Kaputt. “ Ma questa gente”., riprende con una smorfia di disgusto, “non capisce, non ha testa con cervello; come animali che non sanno. Noi una volta diamo a questi operai il respiratore antipolvere Pirelli? Modello BN4M. E questi operai che fanno? Una cosa molto bestiale fanno: svitano la scatoletta forellata, buttano via nascostamente filtro e prefiltro, riavvitano la scatoletta forellata! E così credono di pigliare in giro noi, non i loro polmoni!

Ma noi ce ne accorgiamo e la seconda volta diamo a questi operai il modello BN3. Questo non possono svitarlo, questo è fisso, e prefiltro e filtro devono tenersi tenerseli qui, inchiodati al muso!”. Fa il gesto, con la destra, di artigliarsi naso, bocca, guance; i suoi occhi luccicano un poco.

Francesco L.C. si alza con aria impacciata e ritorna a dire: “Questo o quello?”. Addita il liquore giallognolo del Settentrione col rametto dentro fiorito di zucchero, e addita la bottiglia affusolata del Malvasia, il rinomato vino dolce locale.

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RICHARD PAYNE KNIGHT EXPEDITION INTO SICILY 1777 edited by Claudia Strumpf published by British Museum 1986.

Il libro è edito da Claudia Strumpf del British Museum e narra il viaggio in Sicilia nel 1777 di un ricco inglese accompagnato da due altrettanto benestanti acquarellisti. La ricercatrice fu lei trovare il manoscritto originale. Il testo è stato negli anni studiato da diversi ricercatori sia stranieri che italiani.

Curato da Claudia Strumpf, il diario della EXPEDITION INTO SICILY 1777 è ravvivato dalle illustrazioni dei compagni di viaggio di Knight, Jakob Philipp Hackert e Charles Gore. A costoro si devono le immagini dei templi greci esplorati dai viaggiatori.

Di Francesca Oristano: ……In Italia già emergono due tratti che lo distingueranno sempre: uno spiccato anticlericalismo, unito a uno spiccato interesse per le religioni del passato, sostenuto dalla forte passione per la Grecia antica e la sua arte luminosa e composta. Il Grand Tour lo porta a Paestum e, dopo una navigazione tra Stromboli e Lipari, in Sicilia, dove compone un diario che verrà pubblicato da Goethe.

Curato da Claudia Strumpf, il diario della EXPEDITION INTO SICILY 1777 è ravvivato dalle illustrazioni dei compagni di viaggio di Knight, Jakob Philipp Hackert e Charles Gore. A costoro si devono le immagini dei templi greci esplorati dai viaggiatori.

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STROMBOLI, 23 APRILE Lasciammo porto Palinuro il giorno 22 alle due del mattino, ma essendo il vento molto debole, non raggiungemmo Stromboli prima della sera del giorno dopo. A circa trenta miglia dall’arrivo, apparve il monte Etna bianco di neve con il fumo che scendeva lungo i pendii. I territori ai suoi piedi, malgrado ben sopra l’orizzonte, restarono per un certo tempo invisibili a causa della densità dei bassi strati dell’atmosfera. Mi fu detto che l’Etna spesso visibile dal promontorio di Palinuro, ma durante la nostra permanenza lì, l’aria non fu mai abbastanza tersa.

L’isola di Stromboli è una montagna conica che si erge dal mare ed è fatta interamente di materiale vulcanico. Al momento, il fumo fuoriesce dal lato di nord-ovest vicino alla sommità, che è piuttosto spoglia e ricoperta da scorie di lava sparse. Gli altri versanti sono coltivati riccamente a vigneti, il cui vino è molto rinomato.

Di notte, grazie al bel tempo, si vede del fuoco balenare dal cratere, ma era insignificante. Quando piove o c’è vento da sud si ha spesso una piccola eruzione. Il rumore è quasi continuo e molto forte, simile a un tuono. Volevamo raggiungere la sommità ed esaminare il cratere, ma ci fu impedito da un’ordinanza del Re di Napoli, che vieta ogni contatto con gli abitanti, pena la quarantena.

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2 Lipari 24 aprile. La città è situata in fondo ad una piccola baia, su una roccia di lava che si protende sul mare, meravigliosamente frastagliata e abbellita da cespugli.

A non molta distanza, essa appare molto legante e pittoresca, essendo circondata da una piccola zona pianeggiante cosparsa di case e giardini, oltre i quali s’innalzano i monti, un tempo vulcanici, ma ora diventati ricchi vigneti disseminati di alberi di fico, gelsi, ecc. Le case sono intonacate di bianco, con tetti piuttosto piatti, che, innalzandosi uno sull’altro, formano alcuni gruppo molto pittoreschi; ma entrando in città la vista cambia e tutto è sporcizia e miseria.

Mentre i miei compagni disegnavano, io mi sono svagato camminando verso la sommità dell’isola. Dopo essere salito per quasi un’ora tra i vigneti, sono arrivato a delle rocce ignee nude, sulle quali mi sono arrampicato con sforzo e difficoltà, aspettandomi di vedere nient’altro che sterilità e desolazione; ma, all’arrivo in cima, sono stato subito sorpreso dalla vista di uno splendido anfiteatro naturale di circa trecento iarde di diametro, sprofondato tra rocce perpendicolari, con il terreno ricoperto da vigne e con alcune casette isolate. Questo era stato un tempo il cratere del vulcano, ed essendo circondato da rocce porose, è rimasto asciutto e fertile, sebbene le acque non mostrino alcuno sbocco visibile.

Dalla sommità di queste rocce si vedono tutte le isole Lipari e le coste della Sicilia e della Calabria. Subito sotto di un di esse c’è Vulcano, un nudo ammasso di cenere in grado di produrre a malapena muschi. Da qui essa sembra essersi sollevata molto dopo le altre, le quali sono fatte dello stesso materiale, ma il tempo ha trasformato le loro ceneri e lave in suolo e questo, malgrado sia asciutto, è fertile e stranamente adatto alla coltivazione della vite.

Fazello sostiene che essa si sia sollevata tra la seconda e la terza guerra Punica durante il consolato di Labeo e Marcello, ma ciò nasce da un errore di interpretazione di un passo di Orosio, che allude a Vulcanello;

3 Vulcano è menzionata da Tucidide, che dice essersi formata ai suoi tempi, ed è citata anche da Aristotele che parla di una grande eruzione per quest’isola, eruzione che ricoprì molte città italiane di cenere. L’isola era anticamente chiamata Thermessa e Hiera e i poeti immaginavano che fosse la fucina di Vulcano. Strabone racconta che ai suoi tempi essa bruciava in tre punti. Attualmente brucia soltanto in un punto e anche poco. In poche migliaia di anni, essa può, a causa dei lenti cambiamenti della materia vulcanica, diventare fertile come il resto dell’isola, che di certo è molto migliorata dai tempi di Cicerone il quale definisce il suo suolo POVERO E STERILE (Marco Tullio Cicerone, Le orazioni, II III, 37, 84.).

Stromboli e Vulcano sono i soli vulcani attivi al giorno d’oggi, essendo Lipari spento sin dai tempi di Strabone. I suoi Bagni caldi continuano ad essere molto celebrati per la loro salubrità. Sin qui che a Vulcano si possono trovare grandi quantità di una specie di vetro nero che i naturalisti chiamano Agata Islandese, spesso usata dagli antichi nella scultura.

La notevole influenza che i cambiamenti del tempo hanno sui fuochi di queste isole permette ai marinai, che hanno dimestichezza, di prevedere con notevole certezza i pericoli associati ai diversi venti; di qui le fantasie dei poeti sulla Cava di Eolo, ecc. Essendo Stromboli il vulcano più alto e più esposto ai venti, si credeva che esso fosse la residenza del Dio; da qui Virgilio:

EOLO SIEDE SULLA CIMA DELLA RUPE (Publio Virgilio Marone, Eneide, I, 56). Allo stesso modo egli nota come il rumore continuo della montagna e lo attribuisce ai venti turbolenti rinchiusi in essa. QUELLI CON IMMENSO STREPITO FREMONO RABBIOSI CONTRO I FIANCHI DEL MONTE (Publio Virgilio Marone, Eneide, I, 55 - 56). Valerio Falco l’ha descritto anche con più dettagli.

4 SUL MARE DELLA SICILIA, NELLA PARTE DOVE PELORO SEMBRA STACCARSI , E’ UNO SCOGLIO, SPAVENTOSO DI ONDATE, CHE DI QUANTO S’INNALZA, CON LA MASSA, NEL CIELO, D’ALTRETTANTO S’IMMERGE NEL PROFONDO DEL MARE.

UN’ALTRA TERRA SI VEDE, VICINA, CON ROCCE E SPELONCHE DI NON MINORE GRANDEZZA ( Gaio Valerio Flacco, Argonautiche, I, 579 – 582). Alcuni geografi e archeologi hanno supposto che Virgilio applicando in altra occasione l’attributo Eolia all’isola di Lipari, avesse fissato li la Cava di Eolo; ma a parte le testimonianze di Plinio e di Strabone, il verso stesso dell’Eneide mostra a sufficienza l’intendimento del poeta. La descrizione di Flacco è ancora più stringente, dal momento che Stromboli è separata

dalle altre isole proprio come lui la descrive, mentre Lipari è strettamente circondata da esse. Tutte queste isole erano consacrate ad Eolo, e l’epiteto Aeolia è attribuito di volta in volta a ciascuna di loro. Gli autori greci e romani contavano solo sette di queste isole, sebbene attualmente ce ne siano dieci. O le tre piccole rocce che completano il numero attuale sono state spinte in alto da fuochi sotterranei in tempi recenti, oppure non sono state considerate tanto importanti da essere contate. Dopo aver trascorso la giornata a Lipari, dormimmo nella feluca e partimmo poco dopo la mezzanotte per Milazzo, l’antica Myla, dove giungemmo in meno di quattro ore.

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LE STROMBOLI BRUN ALBERT 1901 alcune notizie su di lui:

Albert-Jean-Louis Brun (1851-1929), fu chimico dell'Università di Berna (Svizzera) e "licencié ès sciences" dell'Università della Sorbona (Francia). A Parigi fu un fedele seguace di Charles Friedel. A Coutance (Genève), dove lavorava nella propria chimica, ha realizzato tutte le sue ricerche. Dopo un viaggio a Stromboli nel 1901, studiò i fenomeni vulcanici come chimico, mineralogista e geofisico. Le sue ricerche lo hanno portato fino ai vulcani mediterranei - Vesuvio, Etna, Santorini, fino a Giava e Krakatoa, poi le isole Canarie, e il lago di lava di Kilauea, ecc. I risultati dei suoi lavori sono raccolti in un grande libro intitolato "Recherches sur l'exhalaison volcanique": presenta una teoria che è stata oggetto di una polemica con il professor Henri Gautier della Facoltà di Farmacia di Parigi.

LE STROMBOLI 1901 (I parte)

Arrivo da Messina a Milazzo, e sbarco a Lipari, l'isola principale del gruppo eoliano. La mia prima
la cura è cercare una barca che mi porti a Stromboli. Sulla riva che forma la Marina del piccolo paese, e grazie per alcune parole dette per me dal capitano che mi ha portato, trovo il proprietario di un peschereccio, che accetta di portarmi a Stromboli. Nel frattempo vado a cenare e corrò al paese. In fondo a un golfo, con i suoi tetti piatti, le sue mura bianco abbagliante, le sue stradine, che servono da deposito generale alle case vicine, la sua popolazione, ha un aria orientale. Au reste la race est un mèlange composite à l'extrème. Nel dialetto liparoto,
l'arabo, lo spagnolo, il siciliano, si combinano piacevolmente, nella disperazione del turista che parla con un dizionario. Fortunatamente, qua e là, ci sono dei marinai che conoscono l'inglese. Perché senza quella lingua universale avrei dovuto fare a meno spesso di oggetti indispensabili. Mi imbarco; un mendicante cencioso che mi faceva da guida e che io l'ho fatto cenare, porta il mio bagaglio; egli rifiuta nobilmente i sei penny che gli porgo: ciò mi ha lasciato sbalordito.

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L'isola nera di Vulcano, Lipari dalle pareti bianche va a scomparire. La barca, sottovento, marcia come desiderato; troppo forte per un terrestre, troppo forte anche a discrezione di un fotografo.

Il mare è leggermente agitato, e la barca balla come un tappo di sughero. Le lunghe onde la sollevano e la schiuma la annaffia; ma i quattro marinai stanno comodi; quindi non sono troppo preoccupato.

A poco a poco lo Stromboli, questo largo cono, appare in vista la sua silhouette scura nella brezza grigia e lontana. Passiamo Panaria e le curiose scogliere di Baziluzzo e le Guglie, con forme scavate e fantastiche degne di numerose fotografie. Ma ahimè! tutto si muove, tutto sputa, tutto si muove sulla barca, la schiuma imbianca le scogliere, e io sono troppo occupato a mantenere il mio equilibrio tra una rete, un remo e una piastra di sughero per pensare a fotografare.

Liscia Nera, Liscia Bianca, a lungo studiati sulla carta, finalmente! lave ancora fumanti uscendo dal mare! A tutti i costi ci vuole la “Kodak”. Signori! ,Signori! Aspettare! grida il pilota, cambia la Vela!

Al diavolo la manovra! Ma cosa fare? Ho il sole nell'occhio e la fotografia sarà persa ... Mi farò perdonare dopo.

L'onda sembra calmarsi; potrei cambiare film (pellicola), operazione delicata. Sto bene e inizio: Hop! signor! il mare! Paf! la schiuma mi copre. Mi piego velocemente per proteggere il dispositivo, io vado a sbattere; la pellicola rotola tra le reti la recupero. Una scossa mi fa perdere il il filo e per di più, un filo di legno dalla bobina impedisce la carta per entrare. Un marinaio si mette quindi dal lato del vento e riceve la schiuma nella parte posteriore; mi serve da schermo, sono pronto. Lo Stromboli si avvicina attenzione! 1 Er, déclanchement “zut”, j'ai piqué une tèt..............

2me déclanchement, tonnerre ! la voile a tourné, la vergue vient en plein milieu de la vue.

3mo ..... Ah! questo andrà bene, il mare non sarà del tutto piatto, e un remo sarà d'intralcio, ma è comunque eccellente.

ancora. ancora. Veloce, un altro. Ahi! Che scossa, pensavo di aver oltrepassato il bordo, ma la vista era libera.

Ora mi corico, perché per il momento ne ho avuto abbastanza.

Chi vedrà le mie foto affermerà che il mio mare è inclinato e manca di primo piano. Io li manderei a Basiluzzo, a piacimento esplicativo.

Infine sbarchiamo. Questa volta, sulla terraferma, potrò fotografare lontano da questo mare infernale, che permette solo istantanee appena regolate, che ti bagna e ti scuote, senza contare il resto.

Viva la terra! Vedremo domani!

Prima che arrivi domani, mi sistemo: uno Stromboliote, perché non c'è una locanda, c'è chi è disposto ad ospitarmi. Gli appartamenti sono sommari, anche il cibo, ed è con una punta di malinconia che vedo allontanarsi la vela che mi ha portato qui.

Solo in un'isola perduta, tra le persone a cui tento di farmi capire, devo passare diversi giorni.
Cosa vedrò? Non lo sospettavo in questi giorni sarebbe per me il più sorprendente della mia vita.

Stromboli forma un ampio cono di 926 m. di altezza, da 3 a 4 chilometri circa dalla base, emergente da
mare; i suoi lati sono solcati dall'erosione, le sue rocce si tuffano nell'acqua, e un piccolo altopiano a nord-est, separata dal cratere da un'alta Creta, permette a un villaggio di 300-400 anime di esistere a nord-est, separata dal cratere da un'alta Creta,
permette a un villaggio di 300-400 anime di esistere.
La vegetazione è formata da rari fichi, cactus, viti ben coltivate e giunchi selvatici che trattengono le sabbie vulcaniche, costantemente portate dalla brezza.

Appena sono sbarcato, il vulcano mi saluta: un'esplosione formidabile, una nube di cenere, portata via dal vento, poi più niente, nient'altro che la risacca sulla spiaggia. È impressionante. Era anche una sorpresa, perché non avevo idea che l'eruzione era così violenta. Presto ho fatto i miei preparativi per visitare il cratere e il giorno dopo poche ore di salita lungo la cresta nord, formata dalle antiche lave, ci hanno portato sul bordo della regione vulcanica attiva.

Questo forma un territorio collinare di poche centinaia di metri di circonferenza ad un'altitudine compresa tra 750 e 800 metri. Da questa altezza e con un solo getto, a ponente, un pendio di lapilli si tuffa nel mare e vi si avvicina da un fronte di mille metri. Su questa faccia cadi la lava proiettata, che poi rotola, in valanga di fuoco, anche nell'acqua.

Da una delle cime del cratere antico che forma circo, dominando tutto intorno, si vede ai suoi piedi il cratere moderno. Niente di fantastico, niente di più sbalorditivo che questo spettacolo. La roccia, un basalto, è nera come il carbone; a nord nubi bianche delle fumarole; sul lato ovest, tre pareti scoscese si aprono sul fianco della pendici e vomitano di lava. Terribili sono le esplosioni; brevi e asciutte, come un colpo di fulmine, Mi fanno rabbrividire ogni volta! Intanto pacchetti di lava arroventata e cineriti giocano nell'aria. La grande bocca che dà le esplosioni più violente, possono arrivare a 40 metri di diametro. Il primo giorno sono stato in grado di avvicinarmi fino alla distanza di 300 metri; Ho avuto un bel posto di osservazione, su un crinale di lapilli. A questa distanza sentivamo il calore che emanavano le pareti interne incandescenti di questa bocca. Di tanto in tanto il cratere tuona. La potenza delle proiezioni è quindi tale che i pacchetti di

lava fusa vengono lanciate diverse centinaia metri. Sulla cresta nord, a 800 metri dalla bocca trovai un fascio di lava lungo un metro cubo caduto a terra.

Un giorno, messo troppo vicino, ho dovuto ritirarmi davanti ai lapilli che mi cannonavano. Bisognava attraversare una pendenza di cinerite grondante, di 37° d'inclinazione, per trovare un posto migliore per osservare.

Da questo nuovo punto ho potuto vedere lo spettacolo più sbalorditivo che sia possibile sognare. Da allora 20 minuti circa, il vulcano era tranquillo. Tutto ha si fa sentire un'esplosione formidabile. Le pareti del cratere si discostano; blocchi di 100 metri cubi franano e rotolano verso il mare, una colonna incandescente si alza, e una terribile pioggia di pacchetti di lava cannoneggia i bordi. Per lungo tempo un terribile chiasso, una polvere indescrivibile, da dove uscivano come proiettili dei blocchi rossi. Le pareti del cratere smantellate dall'esplosione lasciavano intravedere delle cavità riscaldate di rosso arancio, la terra aveva tremato; sul lungo pendio la valanga di lava infuriava...

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L’ILLUSTRAZIONE ITALIANA N. 34 12 AGOSTO 1888 (pag. 104. 105) FIGURE: VEDUTA DELL’ISOLA DI LIPARI ”Gauchard” L’ISOLA DI VULCANO DEL GRUPPO LIPARI, DOVE AVVENNE L’ERUZIONE. Dall’atlante di A. Zuccagni – Orlandini vol.III

le eruzioni dell’Isola di Vulcano, incominciate il 3 agosto 1888 e terminate il 22 marzo 1890.

VULCANO E L’ISOLA DI LIPARI

Il 3 agosto scoppiò inopinatamente l’eruzione del vulcano nell’isoletta chiamata Vulcano, nel gruppo delle Lipari. All’ora che scriviamo l’eruzione continua ancora. L’isola, ci scrivono da Messina, è completamente coperta di cenere bianca; molti soldati e l’autorità, giunti ad una certa distanza, dovettero retrocedere, perché il vulcano lancia continuamente grossissimi sassi infuocati. Gli abitanti, atterriti, furono trasportati nelle isole vicine. La contrada più danneggiata è quella chiamata del Porto, dove tutte le piantagioni, case, depositi, sono completamente distrutti.

Fra i più danneggiati si nota l’inglese Harleau, rappresentante di una società britannica, il cui danno scenderebbe a parecchie centinaia di migliaia di lire. Molte Barche, che si trovavano alla spiaggia, andarono in frantumi; la casa di pena è distrutta; l’ufficio telegrafico è assai danneggiato; parecchie persone sbarcarono ieri nell’isola; però molti soldati, giunti ad una certa distanza dovettero retrocedere, come si è detto, perché il vulcano gettava continuamente sassi infuocati di smisurata grossezza. Lo spettacolo, massime di notte, è imponentissimo, le detonazioni sono fortissime.

Così scrivono in data 6 da Messina, dove si gode sicuri lo spettacolo, e dove il vento porta dei lapilli. Noi togliamo una descrizione dell’isola dal celebre viaggio di Eliseo Reclus, ed alcune incisioni da quest’opera, e del classico Atlante di Attilio Zuccagni Orlandini.

Ordinariamente è da Milazzo che i viaggiatori salpano alla volta di Vulcano e di Lipari, i due più grandi isolotti del gruppo Eolio. Io spesi non poco tempo davanti al porto per passare in rassegna non già le barche ma i battellieri; moltissimi, senza dubbio fiori di galantuomini, erano di aspetto poco rassicurante, né ci fu verso che mi lasciassi lusingare dalle loro proposte. Infine, messi gli occhi sopra un robusto vecchio dai bianchi capelli, la di cui fisonomia dolce ed arguta mi andava a sangue, in un attimo fu concluso il contratto. Il vecchio pescatore si fece prestare un comodo battello più solido della sua barca mezza sfasciata, radunò le provvisioni necessarie per la escursione, e in mezz’ora tutto era pronto: don Gaetano mi fece conoscere il suo compagno di remo, infelice sordomuto che mi diede subito segni di benevolenza e mi complimentava con grida inarticolate; presi posto nella barca e si sciolse la corda che ci riteneva nel porto di Milazzo.

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Nel momento della partenza, il sole stava per tramontare dall’altra banda del promontorio, e i suoi raggi brillavano ancora dietro le cime degli oliveti. Un’ora dopo già avevamo valicato il capo, sospingendoci verso l’altro mare colla prora rivolta verso la purpurea regione dell’orizzonte, dove il sole si era pochi istanti prima abbassato. Si tranquillo era il mare, che il pilota non peritava di lasciare tra le mie mani inesperte il timone; intorno a noi i bagliori dell’atmosfera riflettevansi nel limpido specchio delle acque come in un altro cielo. Gli splendori del crepuscolo smarrirono a poco a poco la loro intensità, il rosso acceso, poi il giallo si tramutarono in un riflesso pallido e finalmente svanì anche questo. Dietro a noi, le scogliere di Milazzo perdevansi gradatamente nel buio. Verso occidente, il profilo lontano dell’isola di Vulcano confondevasi colle tenebre. Per reggere con mano ferma il timone, io dovea tener fisse le pupille sulla più grande stella d’Oriente, che la vela inclinandosi e poi drizzandosi colla barca or celava, or discopriva. Più tardi, sollevandosi dietro le montagne calabresi, la luna venne a seguire colla sua face luminosa il nostro viaggio, distendendo sul solco lasciato dal battello sull’onde la sua immensa orma di argentea luce. Le meduse fosforescenti passavano in lunghe processioni, tremolavano un tratto sotto il colpo dei remi, poi si disperdevano tra i flutti rischiarati dall’astro notturno. Come è soave in queste magnifiche nottate sul Mediterraneo abbandonare il pensiero in armonia colla natura, meditando a ciò che solo da qualche valore al pellegrinaggio della vita, alla pratica della giustizia e all’amore della libertà!

La traversata durò circa ott’ore, tanto che mi colse il sonno. Il sordomuto prese dalle mie mani il timone, mentre il vecchio marinaio spiegava una vela sulla barca per proteggermi dalla malefica rugiada notturna. Quando il battello fece sosta alla spiaggia di Vulcano io mi ridestai bruscamente, e balzando in piedi contemplai la scena che avevo dinanzi tra il velo incerto dei primi albori. Alla vista dell’enorme rovina, chè tale apparisce la intera isola, la mia prima impressione fu il terrore. Da Tindaro e dal capo di Celavà già m’ero formato un’idea degli scoscesi dirupi delle pendici meridionali di Vulcano; ma da quella banda l’isola mostra qua e là variopinti lembi di verzura; vigneti oliveti, e come punti bianchi vi si distinguano perfino tre o quattro casupole abitate da coloni provenienti da Lipari. La regione orientale dell’isola, ove noi eravamo approdati, non offre invece che il simulacro della distruzione e della morte. Su quelle balze nude nessuna traccia di vegetazione; sembra essere al cospetto di una di quelle contrade dell’emisfero lunare ove il telescopio non mostra che precipizi vulcanici, spaccature del suolo, obelischi di lave. Nere sono quasi tutte le roccie o di un colore bruno vermiglio come il ferro irrugginito; ne vedi di sanguigne, di gialle, di biancastre; ogni colore ha un rappresentante in questa bolgia spaventosa, eccettuatone il verde, ristoro degli occhi. Tutto è un ammasso di lave e di scorie come quando l’isola tumultuosamente fu sollevata dalle profondità misteriose del mare. A dritta sorge un immenso cono vulcanico rinchiuso dritta sorge un immenso cono vulcanico rinchiuso in un cratere diroccato; a dritta sovra un’altra montagna eruttiva il Vulcanello; perfino il porto nel quale si culla la barca è un antico cratere sottomarino.

Non guari dopo il mio arrivo nell’isola un uomo sbucò fuori dalla caverna che si spalanca alle basi di Vulcanello, affrettandosi a venirmi incontro. Era il cicerone di Vulcano. Salutandomi, senza dir motto s’incamminò verso il grande cratere precedendomi a rapido passo. Il sentiero attraversa prima una piccola valle formata da tutte le scorie che le acque pluviali strappano dai dorsi montuosi e depongono sull’imboccatura della baia; poi serpeggia tra i fianchi dirupati del monte, qua e là divisi da profondi abissi. La terra che si calpesta risuona sotto i passi come una volta cava. Verso i due terzi dell’altezza da piccoli crepacci rampollano fumaiuole, e il suolo si riveste di cristalli di solfo rassomiglianti a licheni. Vapori bianchicci durante il giorno, rossastri nella notte, fiottano sul vertice della montagna, e secondo lo stato atmosferico, secondo la gagliardia dell’impeto eruttivo, si accumulano in fitte nuvole sulla bocca del cratere o si sparpagliano in nebbie sottili nell’azzurro celeste. Gli abitanti di Lipari considerano il fumo di Vulcano come un infallibile barometro. Una data corrente di vento deve spirare quando le bianche nubi di vapori cadono a larghi strati lungo i fianchi di tutta la montagna; una diversa direzione deve prevalere nella corrente atmosferica quando più non si vede il berretto sul monte. Certamente in simili pronostici, dei quali fin da Polibio favellarono tutti gli antichi autori, un fondo di verità deve esservi, essendo essi basati sulla secolare esperienza dei marinai liparoti; ma a Spallanzani e ad altri naturalisti non fu possibile confermare la tradizione con osservazioni dirette.

Nel momento della mia visita i vapori a turbini muggivano nel cratere. Questa immensa fornace, più grande di quante se ne vedano nei vulcani dell’Europa meridionale, non ha meno di due chilometri di circonferenza nel margine superiore; le sue pareti drizzansi verso sud a trecento metri di elevatezza; la profondità dell’abisso avanza in larghezza i cento metri. Attraverso il fumo che si sprigiona possono distinguersi gli interni dirupi rossi come cinabro o gialli come l’oro qua e là venati dai più svariati colori, a seconda delle diverse sostanze che in quell’immenso laboratorio si sublimano. Sull’orlo del precipizio le pietre smosse cedono sotto il passo, e pure e d’uopo discendere rapidamente, imperocchè in qualche luogo il suolo cavernoso scotta come la volta in un forno. Lingue di fiamme guizzano sulle pendici. L’aria è impregnata di vapori gravi al respiro a tanfo di solfo. Un incessante susurro di zufolii arcani mormora in quel recinto, e d’ogni banda spalancansi fori d’onde irrompono i gas. Alcuni isolani, ormai assuefatti come le salamandre della favola a vivere tra le fiamme, vanno qua e là raccogliendo le stalattiti di aureo solfo ancora fumante, e le fine punte dell’acido borico candide come la piuma del cigno .

Non è raro che ingolfandosi in questa in questa cerchia le acque pluviali la convertano d’improvviso in un lago, ed è allora bello vedere zampilli e cascatelle sfuggire di qua e di là per le fessure e traboccare come torrenti sui dorsi esterni, mentre una pronta evaporazione asciuga le roccie interne, calde degli ardori vulcanici. Certe fumaiuole, di cui gas vennero non ha guari analizzati da Fouquet, hanno una temperatura di 360 gradi; altre polle meno cocenti sbucano da molti luoghi dell’isola e perfino tra i rifiuti della baia. Dal margine del grande cratere è facile scorgere questi getti di vapori che gorgogliando si innalzano dal fondo del mare allargandosi a spira, come se un grigio fango venisse dalle profondità iniettato tra le onde. V’hanno luoghi dove l’acqua marina riscaldata da queste eruzioni offre ai turisti inglesi il puerile trastullo di cuocere qualche uovo nel grande paiuolo!

Quantunque la superficie di Vulcano si estenda per cinquanta chilometri quadrati, non è stabilmente abitata che da sei o sette operai intenti a farvi raccolta di solfo e di acido borico o a fabbricarvi l’allume. La officina è un meschino tugurio che per colore si confonde colle roccie circostanti; gli operai, veri trogloditi, succinti in sordide vesti alle quali la polvere della lava dona una tinta di ruggine, dimorano negli antri della montagna di Vulcanello. Tentarono di coltivare legumi nella convalle delle ceneri e delle scorie, ma invano; ogni fili d’erba vi si spegne, e tra i molti frutteti colà piantati non restano che due o tre ceppaie di fichi rattrappiti e morenti. Ogni settimana deesi aspettare da Lipari una scorta di vitto; se per malavventura il battello delle provvigioni mancasse ad un solo dei suoi viaggi, la piccola popolazione di Vulcano sarebbe condannata a perire di fame.

E’ facile intendere come tale esistenza non offra nulla di piacevole, sia pure sotto il cielo ridente del Mediterraneo, e la tristezza e il patimento sono i caratteri fisionomici di quei poveri lavoranti. Mi si era fatto credere a Milazzo che costoro fossero ribaldi briganti, costà relegati dalla Calabria, e per assicurarmene ne chiesi contezza alla mia guida che io stimava fosse il loro guardiano. Impallidì, e il suo sguardo profondo si rivolse dolorosamente verso le cime azzurre degli Appennini, che lontane apparivano al di là del golfo. Ah sì, è vero! rispose sospirando, e il suo lugubre aspetto rivelava una immensità di angoscia. Ed infatti l’esilio è orrendo tra questi scogli rossi e fumanti!

Vicinissima a Vulcano è Lipari; il canale che divide queste due isole ove è più ristretto non è largo più di un chilometro. Due roccie a forma di obelischi torreggiano nel mezzo dello stretto, per modo che un valente nuotatore potrebbe agevolmente passare da un isola all’altra riposandosi a mezzo cammino. Ma c’è il guaio dei pescicani che bazzicano volentieri, a quanto dicono i Liparisti, tra le isole Eoli, pesci che presto ti piombano addosso e a inghiottirli la testa o le gambe non ci mettono scrupolo.

Indicibile è il contrasto tra i mucchi di scorie di Vulcano e la pendice orientale di Lipari. Qui una considerevole cittadella si innalza a duplice anfiteatro sui due fianchi di un promontorio coronato da un antico castello. Nel porto convengono molte piccole barche e navicelli, e una pianura abbellita da ulivi, aranceti e famosi vigneti ricinge la città. I campi coltivati invadono i monti fino alle cime. Una operosa popolazione di marinai e di mercanti dà vita e moto al porto, e per le strade incontransi cittadini d’aspetto lieto e gioviale.

Lipari pei geologi e i mineralogisti è terra promessa. Ha, come le vicine isole, vulcani, crateri, lave di più maniere , e, per soprassello, è ricca di formazioni assai rare nel resto dell’arcipelago. Tutto composto di ossidiana è il monte Castagna; un altro colle elevato, detto Monte o Campo Bianco, è un ammasso di pomice che visto da lontano sembra un enorme mucchio neve. Lunghe colate bianche rassomiglianti a valanghe, riempiono le gole della montagna, e il più debole movimento, il passo d’un animale o il soffio della brezza bastano per far distaccare dai fianchi scoscesi una pioggia di pietre che piombano tuonando di rupe sin nei flutti ai piedi del vulcano. Spesso nei dintorni dell’isola vedonsi galleggiare sul mare queste pietre leggiere in sembianza di fiocchi di spuma.

A Lipari abbondano le meraviglie. Qui si spalanca la grotta di Molini, dove, a quanto narrano le antiche leggende, rifugiavasi il diavolo nella vana speranza di sfuggire alla spada di san Calogero, finchè inseguito e snidato da quell’asilo, si decise a dare il tuffo nel cratere di Vulcano che è porta massima dell’inferno. Alle preziose ricchezze naturali qui si aggiunge il pregio di una situazione favorevolissima ai curiosi per esplorare dall’alto di un poggio la distribuzione di tutte le isole Eolie. E’ Lipari il centro di tre irradiamenti vulcanici, l’uno dei quali è rivolto al sud verso Vulcano; l’altro ad ovest verso Alicuri, Salina e Filicuri; il terzo a nord-est verso Stromboli, faro gigante del Mediterraneo. A me non toccò in sorte il diletto di ascendere quest’ultima massa ignivoma; ma indelebile mi resterà nella mente lo stupore che mi colse nel trovarmi alle falde della fumante piramide. Alla superba sveltezza si comprende che la montagna deve a profondità enormi distendersi sotto il mare; i suoi abissi si prolungano fino ai mille metri, che lo scandaglio misura per arrivare al fondo del mare Eolio. Nel contemplare Stromboli i naviganti che ne rasentono le pendici a picco credono di trovarsi quasi sospesi nell’aria, credono di vedere la loro nave avanzarsi nell’atmosfera a mezza altezza della montagna.

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Grazie alla Biblioteca Comunale di Lipari dal Notiziario delle isole Eolie dell'aprile 79 articolo di CARMOZ AIMEE.

Un gatto, a Lipari

Avantieri ero a Lipari, tra due aliscafi; era una bella giornata di sole e giravo per fare la spesa, come fanno tutti gli strombolani quando vengono per forza nell'Isola madre. E tutt'a un tratto. Ho visto una cosa. Ma una cosa, una cosa....Non vi dico!

Là, c'era solo, solo, piccolino, un mostro. Un gatto grigio. Con una ferita enorme che gli mangiava mezza faccia e l'orecchio che pendeva e l'occhio non si vedeva e dalla bocca usciva acqua come pianto! E lui stava là indifferente.

Per quanto era indifferente la gente che passava. Era un dolore. Un gran dolore. Solo solo, là, al sole. Una sofferenza enorme. Chissà quale sollievo aspettava? Ma nessuno si fermava davanti a quella pena grande. Era troppa piccola, appena si vedeva. Però, per me che mi sono fermata, era più grande del Castello. Un dolore, una solitudine tale, ma può essre che nessuno......

Tra chi vende carne e chi vende gioielli, là, proprio là, nel centro di Lipari, era questo pezzettino di dolore immenso, una piccola vita grigia che aspettava la morte che gli veniva dall'indifferenza di chi passava.

Ma può essere? O l'ho sognato? Là in un angolo al sole, tutta la pena del mondo: l'innocenza, esposte al sole, senza che nessuno le desse una “guardata”.

Nessuno: ma quanta fretta ha la gente per scappare il suo destino! Io mi sono fermata di botto, perchè non guardare? Forse perchè guardo se giù di me c'è una sofferenza più grande della mia? E per davvero, una cosa così non m'era mai capitata, ringrazio Dio.

Sono corsa dal macellaio e ho comprato un po' di carne macinata e glielo ho portata. M'aspettavo timore e graffi, e invece no, m'ha detto grazie a modo suo. Ne ha mangiato un po', poi è tornato là, al suo posto al sole. Forse dal sole aspettava la guarigione, mentre la gente passava indifferente, con scarpe lucide, così vicino al suo orecchio che pendeva ed alla piaga orrenda. Ma dico io, quanti centimetri deve misurare il dolore? C'è qualcuno, tra i poeti liparoti, che me lo sappia spegare?

“”Nun mi dicisti nenti ca sugnu mienzu pazzu io nunni puozzu cchiù””

Così penso che parlasse il gatto. No, il gatto era là. Senza sapere esprimersi. Conciato male. E basta dire così. Ed è una vergogna. Forse i gatti non sono utili: con tanti topi in giro, meglio il veleno. Povero gatto liparoto, dove sei mentre io sto scrivendo per te? Si è accorto qualcuno di te? Io ca ti lasciai testimone umile, in mezzo a una strada; un grido muto, tu tutto dimostravi, il dolore del Mondo e l'indifferenza. Piccolino. Quanto sei grande. Il dolore.

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Grazie alla Biblioteca Comunale di Lipari del luglio 1974.

Dal 25 maggio all’8 giugno si è svolta a Messina al Faro Motel, la rassegna del 1° concorso nazionale di arti figurative, comprendente la pittura, la scultura e la grafica.

Giovanni Conti, figlio della Sig.ra Isabella Conti (Preside dell’Istituto Arcoleo di Lipari) che vi ha partecipato con alcune delle sue più recenti opere, ha ottenuto il V° premio assoluto di pittura.

Giovanni Conti è indiscutibilmente un pittore impressionista moderno; apprezzato per la spontaneità del suo disegno, per i suoi colori. Armonia e freschezza sono i sinonimi dell’arte di questo silenzioso, che esprime così l’incanto, la sua gioia di vivere e il suo amore per la natura in generale.

I complimenti del Notiziario a Giovanni Conti alla Sua Madre, che ha motivo di più per essere orgogliosa dei suoi figli.

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Dalla collezione di Vincenzo Maiorana due foto di Canneto del passato, una  (quella con la nave) è datata 25 luglio 1953 l'altra 25 luglio ma non si capisce bene l'anno.

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La Benedizione della Barca da Diporto, un tempo rigorosamente di legno.

Tempi in cui le autovetture erano poche e tanti lavoratori di qualsiasi genere e ceto sociale ne possedevano una di grandezze diverse per la pesca amatoriale dilettantistica, “”passatiempu”.

Un tempo era uso prima che la barca, “vuzzo”, “lanza”, dopo che era stata finita dal “maestro d’ascia”, prima di essere (“varata”) messa in mare fosse benedetta dal Parroco o dal Vicario.

Un’occasione per vivere insieme un momento di emozione e di riflessione, ma anche di aggregazione, tra parenti o allargando la “cerimonia” ad amici.

Dopo l’aspersione della barca, poteva anche capitare che ci si intratteneva con pasticcini, bevande ecc.

Nelle foto:

1) Canneto 15.07.1962, con mio padre i miei nonni Don Gennaro Divola e tante care persone.

2) Canneto dalla collezione di Massimo Mezzapica con, tra gli altri, Don Angelino Merlino.

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dal NOTIZARIO DELLE ISOLE EOLIE LUGLIO 1978 Eoliani all’Estero due piccoli stralci che parlano della Società di Mutuo Soccorso delle Isole Eolie di Melbourne e dell’Associazione Isole Eolie con sede in Sydney.

NOTIZARIO DELLE ISOLE EOLIE LUGLIO 1978

Eoliani all’Estero Onorificenza pubblica per Giuseppe LO SCHIAVO Presidente della S.M.S. Isole Eolie di Melbourne.

Il Console Generale Italiano di Melbourne ha consegnato, nell’occasione di una grande festa tra gli italiani di Melbourne, l’onorificenza delle Stelle della Solidarietà a Giuseppe Lo Schiavo, Presidente della Società di Mutuo Soccorso delle Isole Eolie di Melbourne, in Australia.

Il riconoscimento, da parte del Governo Italiano, è stato conferito per lunga attività di Lo Schiavo in favore comunità italiana ed eoliana in particolare, durante i sette anni della sua presidenza della nota e prosperosa Associazione di Eoliani in Terra australiana.

Al neo-cavaliere della repubblica italiana in terra d’Australia, i migliori complimenti da parte del Notiziario ed auguri di una sempre più proficua attività, nel nome e con il titolo delle nostre Eolie.

L’Associazione “Isole Eolie” di Sydney

Nutrito il programma di attività per il 1978 dell’Associazione Isole Eolie con sede in Sydney ed il cui Presidente è Nini Portelli, un nipote di Mezzapica di Canneto, che negli anni 1950 - 51 giocava nella squadra locale di calcio e che molti paesani ricorderanno.

Il Comitato direttivo dell’Associazione è formato dal vicepresidente John Ferlazzo, dal Iunior President Lorenzo Picone, dal Tesoriere Rosario Maniaci, dal segretario John Merlino, da Sergio Costa, Josephine Di Losa, Frances Merenda, Antonio Maniaci, Giovanni Calcagno e Franco Portelli. Possono essere soci dell’Associazione gli oriundi eoliani e i loro discendenti, sia in linea maschile che femminile (questa è una novità apportata recentemente con un emendamento alla Costituzione dell’Associazione).

Per il 78 sono state organizzate numerose feste: Miss Panarea e Miss Stromboli sono state lette il 27 maggio scorso, Miss Filicudi e Miss Alicudi il 7 luglio. Miss Vulcano e Miss Salina verranno elette in occasione dei festeggiamenti del 9 settembre e del 14 ottobre. Infine a dicembre nell’annuale ballo di fine anno verrà eletta Miss Eolie e Miss Charity……

L’Associazione inoltre opera una serie di attività sportive di calcio, tennis, ping-pong e nautica da diporto. Il numero del segretario John Merlino per chi ne fosse interessato…………..Sydney.

Come ci viene attestato dal Presidente Ninì Portelli, il notiziario costituisce un memorabile collegamento diretto per questi nostri concittadini emigrati in Australia, nei cui cuori rimane radicato l’amore per la propria terra d’origine, anche nel nuovo mondo.

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Il luogo della festa del grano a Pianoconte del 02.07.2022 fu immortalato nel 1968 dal fotografo Ciganovic in un ampio reportage sulle Eolie.

Nelle foto ieri e oggi...

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Il RADIOCORRIERE TV del 17/23 MAGGIO 1959 dedicò un servizio a STROMBOLI, alcune immagini dell'articolo.

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TOURING CLUB ITALIANO rivista mensile n. 9 settembre 1909 ESCURSIONE ALLE ISOLE EOLIE di L.V. BERATRELLI 6 parte

Navigando da Lipari verso Stromboli il succedersi delle scene più variate non lascia un istante languire il piacere del viaggio.

In nessun altro luogo d’Italia v’è quantità d’isolette, il cui apparire e sparire l’una dietro l’altra possa creare come qui l’illusione di una rotta attraverso un grande arcipelago.

Al momento della partenza la spiaggia formicolante di persone del porticciuolo di Lipari, l’animazione della sua breve banchina, le bianche chiesuole di San Giuseppe e degli Angeli Custodi, l’aspetto non privo di una certa grandezza delle case che hanno fronte al mare, la massa grandiosa del Castello formano un quadretto interessante, E’ un po’ una Chioggia….africana.

La svelta e nervosa figura del Console del Touring, Filippo De Pasquale, nell’elegante costume bianco che potrebbe essere di canottiere se non fosse d’industriale che frequenta le proprie cava polverose di pomice – è d’altronde un canottiere appassionato – mi abbandona solo all’ultimo momento, quando l’elica del vaporetto batte l’onda e tronca per forza le sue inesauribili cortesie.

Via lungo la costa, talora rasente i promontori, tal altra in pieno mare al largo delle insenature, si svolge il panorama come sulle rive d’un lago. E’ dapprima il Monte Rosa, poi Canneto, caliginoso per le polveri della lavorazione della pomice. Ivi due vapori sono sotto carico. Poi ecco ancora un Capo Rosso e quindi di nuovo il chiarore di Monte pelato, tutta una montagna di tufi bianchi, che finisce a mare con un gran muraglione candido, alto centinaia di metri, lungo un chilometro, maculato di forellini neri che sono bocche di cave. Poi c’è Acquacalda, un paesino ove un altro vapore imbarca il solito minerale.

Ora il mio vaporetto traversa il canale di quattro chilometri che divide Lipari dall’isola di Salina, la Didimo antica, cioè gemella, a motivo dei suoi due vulcani estinti, Monte Fossa delle Felci (m. 961) e Monte dei Porri (m. 860), separati dalla alta Valle della Chiesa, che delineano un profilo mamillonare caratteristico. E’ l’isola del malvasia così detto di Lipari, dei capperi, della passolina, delle mandorle. E’ la più ricca di terreno coltivabile e, come sempre quello che viene dalla decomposizione delle roccie vulcaniche, fertilissimo.

Malfa e Santa Marina sono i due paesetti più importanti, ma parecchie altre frazioncine animano le pendici e le spiaggie. Una lingua di terra che, unica forse in tutta l’isola giace ai piedi degli altissimi bastioni basaltici, è messa a partite con delle piccole saline. La popolazione è rotta alle fatiche, vivace, bella, e fornisce alcuna macchiette al mio KodaK.

Mentre il vapore si avanza girando l’isola, a destra e a sinistra davanti ad esso continuamente si levano a volo spaventati i pesci volanti, rondini di mare – duri e impettiti lunghi 25 o 30 centimetri, con due ali giallastre trasparenti che sbattono non col ritmo lento ed ampio degli uccelli ma piuttosto colla vibrazione breve e nervosa delle libellule. Hanno del resto un po’ la durezza di linea della libellula, senza la flessibilità e l’eleganza del volo di questa. Si alzano uno o due metri sull’acqua e fuggono in linea retta normale al vapore per un centinaio di metri, poi generalmente deviano in curva e vanno a rituffarsi a una cinquantina di metri più..

Talora cinque od anche dieci pesci velano insieme; ne vidi anche uno stormo di una cinquantina………………………………..

Sulla sinistra si alza Filicudi, detto anche Filicuri, a 773 metri con due…, e, mi dissero, anche con un’interessante grotta di basalto colonnare. Anch’essa ha un Perciato e degli scogli che devono essere magnifici; uno, detto espressivamente Canna, s’alza a 71 metri dal mare a più di un chilometro da riva. La Fenicusa antica – copre in distanza Alicudi anch’essa miserabile, sterile, disabitata. Il suo nome viene da Ericusa, e all’erica che sempre si allignò; il suo cratere – la Montagnola – tocca i 666 metri.

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Immagini rare ed inedite di Stromboli tratte da un giornale inglese del 1 dicembre 1949:

Bambini di Stromboli - via Roma.

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Il giornale inglese "The Spehere" il 05.06.1926 dedica la copertina a Stromboli

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LA RIVOLTA DELLE EOLIE Il dramma di Filicudi

E’ l’alba del 26 maggio. Dall’aliscafo della SAS scendono a Pecorini il Sindaco ed i Consiglieri Comunali….La gente va loro incontro, agitandosi sulla banchina ed ognuno vuol raccontare qualcosa ed ascoltare ad un tempo, dai nuovi arrivati, una parola di conforto, di speranza. Questi “mafiosi” verranno veramente? Oppure il pericolo è stato scongiurato?

Il Sindaco ed i Consiglieri ascoltano, confortano, ma non hanno che dire.

Del resto fra poco si riunisce a Pecorini, per la prima volta nella storia delle Eolie, il Consiglio Comunale ed ognuno potrà ascoltare le dichiarazioni ufficiali del Sindaco.

Ed il consiglio si riunisce, in una stanzetta a pianoterra dell’Albergo Sirena. Il Sindaco fa la storia di questa triste vicenda, che ha allarmato la gente delle Eolie e che si spera ancora concludere positivamente, qualora gli appelli lanciati a tutti i livelli saranno accolti.

Verso le ore 9,30 il Sindaco e buona parte dei Consiglieri rientrano a Lipari. Alcuni Consiglieri e pochi volontari restano nell’isola. E’ bene infatti vegliare ed attendere lo evolversi degli avvenimenti, restando accanto ai filicudesi, almeno per confortarli e per far sentire loro che non sono soli in questi momenti di ansia e di preoccupante attesa.

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Verso le 10 giunge un altro aliscafo da Lipari. E’ carico di liparesi venuti a dare una mano ai primi arrivati in rappresentanza di tutta la popolazione di Lipari che potendolo, sarebbe giunta a Filicudi per fare una muraglia umana ed impedire lo sbarco degli “ospiti indesiderati”, che si vuole ad ogni costo sistemare nell’isola. Le vicende di quel tragico 26 maggio sono a tutti note. Ne hanno parlato i giornali di tutto il mondo ed anche lab televisione di molti paesi stranieri ne ha diffuso le immagini.

Voglio qui tuttavia ricordare i momenti più drammatici di una vicenda tristissima, che resterà nella storia delle nostre isole e nella storia della cronaca nazionale, come pagina di sublime e civile eroismo di un pugno di eoliani, contro un provvedimento assurdo per la cui esecuzione sono stati mobilitati mezzi e truppa, sufficienti per affrontare un nemico armato o per eseguire in guerra una occupazione militare.

Sono dunque le dieci del 26 Maggio ed a Filicudi Porto sbarcano circa 50 poliziotti in assetto di guerra, con caschi, visiere, scudi, fucili, manganelli e bombe lacrimogene.

Nessuno può, né tenta di opporre loro resistenza. Sono in pochi ad assistere sbigottiti ed impotenti a questo incredibile sbarco. Ma la voce si diffonde nell’isola. L’allarme raggiunge tutti; ognuno sente che gli avvenimenti precipitano e che i “mafiosi” saranno sbarcati da lì a poco. Ed infatti così è. Poco dopo i “mafiosi” vengono fatti sbarcare al Porto.

Le campane dell’unica Chiesa suonano a distesa. I Filicudesi e la gente di Lipari giunta a Pecorini, si avviano correndo lungo i pendii rocciosi verso il Porto.

Cosa potranno essi fare contro la forza? Nulla certamente. Ma essi vanno ugualmente, angosciati, ma decisi. Grideranno la loro indignazione si dispereranno piangeranno ma non sentono di accettare passivamente una imposizione ed un atto di forza, che non meritano certamente.

Essi hanno sempre vissuto in tranquillità assoluta, bruciati dal sole e dalla salsedine, lontani dal mondo e dalle sue insidie, sempre dimenticati, fermi nel tempo, che nell’isola sembra immutabile.

Si sentono adesso smarriti, quasi sgomenti per quello che sta succedendo. E vogliono difendere il loro silenzio, la pace di cui hanno sempre goduto, senza nulla mai chiedere ad alcuno.

Edo ora corrono, corrono ansanti, chiamandosi di casa in casa, ma non sanno perché lo fanno. Forse è la corsa dello smarrimento, della angoscia che precede la tragedia.

Ed eccoci al Porto. Quelli di Porto raccontano ai nuovi arrivati dello sbarco dei “mafiosi”, e tutti insieme si commenta sbigottiti, quasi increduli; ed intanto la gente si affolla in prossimità dello sbarcadero.

La truppa ed i “mafiosi” si sono radunati sotto il tetto incompleto del costruendo albergo. Ironia strana.

Questo grosso complesso turistico che dovrebbe avviare Filicudi ad un migliore avvenire viene costruito con il contributo dello Stato (mutuo agevolato della Cassa del Mezzogiorno) ed i primi gratuiti ospiti sono dei “presunti mafiosi”. Gentile pensiero e significativa premessa per le fortune turistiche dell’albergo e dell’isola.

Ma torniamo alla cronaca.

I funzionari che conducono l’operazione, si danno da fare perché hanno bisogno di alloggi e vorrebbero requisire gli alberghi del Porto (alberghi?.....Alcune piccole stanze adibite a dormitorio). Ma si trovano regolarmente occupati da clienti occasionali e, pertanto desistono almeno al momento.

La gente raccoltasi sulla strada rumoreggia e pacificamente, con la sola protesta corale, manifesta il proprio dissenso.

E’ in questa circostanza dall’altra parte viene ordinato alla truppa di assestarsi, in atteggiamenti quasi di sfida, di fronte alla folla, quasi pronti alla carica.

E’ la scintilla che provoca indignazione e reazione. Caricare chi e perche? Un pugno di persone inermi, tra cui donne e bambini, che compostamente protestano senza provocare alcuno?

La reazione è legittima. Si vuol caricare la folla?

Ebbene, anche per evitare lo scontro e gli incidenti che ne potrebbero derivare, si raccolgono tavole, masserizie sedie e quanto altro è a portata di mano, per erigere una simbolica barricata simbolica barricata che serve più come dignitosa protesta ad un gesto provocatorio, che come vera e propria difesa da una truppa armata ed organizzata.

L’espediente sortisce il suo effetto. Gli animi si placano da entrambe le parti. E nelle posizioni cos’ attestate si perviene ad una tacita tregua, che calma temporaneamente gli animi, anche se non si vede come e quando questa paradossale situazione possa essere conclusa.

Intanto i funzionari invitano il proprietario del piccolo ristorante vicino allo sbarcadero ad esibire le licenze. Appena aperto il locale, il ristorante viene invaso dai poliziotti e dai “mafiosi”, e così inizia anche per loro la lunga attesa, in situazione materiale e psicologica certamente scomoda e precaria.

Ricordare le vicende delle due notti e dei due giorni passati in questa situazione, dire dei piccoli fatti, degli aspetti umani emersi da entrambe i fronti, ci sarebbe da riempire pagine e pagine di cronaca e farne un romanzo.

Solo chi ha vissuto quelle ore di sofferenza e di ansia può descriverle nella loro drammaticità.

Fuochi accesi di notte sulla strada, ombre vaganti, corpi immobili distesi sul selciato, qualche grido sommesso, in tanto silenzio. Sembra proprio una scena irreale, ed è realtà. E tutto questo a Filicudi! Chi mai lo avrebbe sognato?

Passano così i due giorni e si giunge all’alba del 28 Maggio, senza che nulla è cambiato, senza che si intraveda una qualche soluzione, senza che la tanto attesa e sperata notizia della revoca del provvedimento giunga a sollevare dalla tensione e dalla fatica i filicudesi e quelli che dall’altra parte non stanno certamente meglio di loro.

Ma ecco che verso le 8,30 giunge una bianca nave carica di carabinieri. E poco dopo un grosso traghetto con altra truppa e tanti mezzi da sbarco (idranti, camion, ecc….).

Sembra tutto irreale, sembra di sognare! E’ una vera e propria operazione di guerra. Ma per conquistare che cosa? Per vincere quale resistenza? E perché mandare dei mezzi da sbarco quando nell’isola non vi sono che sentieri? E’ una scena ridicola e vien voglia di piangere e rider ad un tempo. Ed è la ilarità che prende il sopravvento e tutti si grida sul ridicolo di una operazione assurda. Passerà alla storia e non certo per la gloria di chi ne ha ordinato la esecuzione. Si voleva ad ogni costo eseguire un ordine. I “mafiosi” dovranno restare a Filicudi. Ebbene, se si voleva usare la maniera forte, bastavano forse i soli carabinieri della stazione di Filicudi. Il pretesto alla indignata ma civile e passiva, protesta dei filicudesi è stato dato da questo spiegamento di forze che, fin dal primo momento è servito solo ad allarmare la gente ed inasprire gli animi.

Così, di fronte a questa assurda sfida di marca militare, non resta che subire. Sono momenti di grande tensione, i nervi potrebbero saltare, il cuore di tutti è gonfio di angoscia, di amarezza. Ma l’orgoglio è grande e, di fronte alla forza, i filicudesi prendono l’estrema decisione: abbandoneranno subito l’isola e si trasferiranno a Lipari. E’ un esodo dignitoso, è una risposta che forse dall’altra parte non si aspettavano, e certamente sorprende quanti non hanno in precedenza tenuto conto della legittima reazione di una pacifica popolazione, sempre vissuta nella quiete della propria isola e desiderosa di conservare la propria tranquillità.

L’esodo comincia. Si raccolgono pochi indumenti, si sprangano le porte di casa e si parte con ogni mezzo alla volta di Lipari. Il cuore è gonfio, le lacrime solcano il viso, ma si parte ugualmente perché altro non resta da fare.

Scendono dai sentieri assolati donne e bambini, qualche vecchia è presa dalla disperazione e grida il proprio tormento per essere costretta, per la prima volta nella sua vita, ad abbandonare la casa e l’isola, ma si unisce agli altri in quest’esodo commovente e tragico.

E così l’ultimo battello, carico di gente, lascia l’isola, fra l’indifferenza dei funzionari governativi e dei quindi “presunti mafiosi” e l’impacciato stupore dei funzionari governativi e della truppa, costretti a subire, senza combattere, una cocente sconfitta. Senza armi, senza scontro, ma con l’orgoglio e la dignità di un popolo, le cui risorse morali e materiali non erano state valutate e neppure previste.

A questo punto con l’arrivo a Lipari, è doveroso dire della commovente gara di amore e di solidarietà dei liparesi tutti, verso i fratelli di Filicudi, così duramente colpiti.

L’avanguardia di questo cuore generoso che unisce gli eoliani nella sventura furono quei liparesi (tanti e di ogni condizione sociale) che a Filicudi, per due giorni vissero momento per momento le tragiche vicende di questo indimenticabile dramma.

Mentre a Lipari , diffusa in tutto il mondo la notizia delle tragiche giornate di Filicudi, altri cuori di eoliani, sparsi ovunque in Italia ed all’estero hanno palpitato e sofferto. Distanti nello spazio e nel tempo, essi si sono sentiti vicini e questo hanno manifestato con i numerosi attestati prevenuti da ogni dove.

Il sipario non è ancora calato su questa vicenda, anche se tutto sembra ormai avviarsi a positiva conclusione.

Non ci resta pertanto che fare qualche considerazione dolorosa, ma necessaria.

Di queste povere derelitte isole ci si ricorda soltanto quando si è alla ricerca di posti ideali per fare soggiornare, coatti, confinati, ergastolani o “presunti mafiosi”.

Ma nessuno si accorge del mare meraviglioso che le circonda, del limpido cristallino cielo che le protegge, dello splendente sole che le riscalda, dalle opere meravigliose di una natura prodica ed amica.

Non ci resta da sperare che, dopo le drammatiche giornate di Filicudi, le Eolie possano suscitare alfine nei nostri governanti qualche attenta considerazione………………………………….

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagini tratte da LA SICILIA RICERCATA N 9 MAGGIO 2001

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Da un vecchio numero del Notiziario delle isole Eolie, grazie alla biblioteca comunale di Lipari, Canneto festa del 1 maggio.

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LA MADONNINA DI MACUGNAGA SULLA CANNA DI FILICUDI, ricordo dell'evento da un articolo della rivista del C.A.I. del novembre 1973, che nel corpo dell'articolo citò l'anno errato, io lo correggo, e due stralci con foto di articoli del notiziario delle isole eolie di cui uno del maggio 1972 sulla preparazione dell'impresa, grazie alla biblioteca comunale di lipari:
Notiziario delle Isole Eolie 14.05.1972:

Quattro guide di Macugnaga alla spedizione Scalata alla "Canna” di Filicudi impresa difficile, ma possibile.

Lo ha detto Luciano Bettineschi, dopo una ricognizione nelle Eolie - Una « Madonnina » in bronzo sarà lasciata sulla vetta - Il programma dei festeggiamenti a Lipari e Messina.

(Dal nostro corrispondente) Macugnaga, 13 maggio. Fervono i preparativi per la spedizione che le quattro guide di Macugnaga, nel quadro dei festeggiamenti per il centenario della prima scensione alla parete est del Rosa, compiranno nelle isole Eolie, dove tenteranno la scalata della «Canna» di Filicudi. In una riunione del comitato dei festeggiamenti del centenario, presieduta da Franco Pace, alla quale hanno partecipato il sindaco Montagnani e i rappresentanti degli enti locali, è stato definito il programma dell'iniziativa, che si deve al dottor Carlo Ravasio, direttore del «Rosa», il mensile di informazione turistica di Macugnaga, e si aggiunge al già ricco calendario delle manifestazioni in programma. La «Canna» che le guide di Macugnaga si propongono di scalare è un faraglione, a forma di torre, che si erge a picco sul mare a nord di Filicudi, una delle sette isole Eolie, per un'altezza di circa 100 metri.

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La «Canna» è ancora inviolata. Luciano Betttneschi, una delle più conosciute guide del «Rosa», ha già compiuto una ricognizione alle Eolie ed è rientrato a Macugnaga: «L'impresa è difficilissima — ha detto —, ma fattibile». Ed ha aggiunto: «La "Canna" di Filicudi è un'impressionante colonna di durissima pietra vulcanica che ha resistito e resiste ancora agli assalti delle onde marine. E' composta principalmente di basalto, gneis e serpentino. Bisogna avvicinarla con la barca e attaccare subito la roccia, che si erge quasi a picco, interrotta solo da esigue piattaforme. Presenta difficoltà alpinistiche di quinto e sesto grado». La spedizione, che è stata battezzata «dai ghiacciai del Rosa all'Isola del Fuoco», si compirà dal primo al 4 giugno; i partecipanti alla scalata saranno designati dal capo delle guide di Macugnaga, Felice Jacchini. Se le guide riusciranno nell'impresa, lasceranno una Madonnina di bronzo sulla vetta. «Sarà il dono di Macugnaga a Filicudi», dicono i promotori dell'iniziativa. Alla spedizione prenderà parte anche il coro alpino «Monte Rosa» diretto dal maestro Micheli, che parteciperà alle manifestazioni di contorno, in programma a Lipari e a Messina, con danze in costume siciliano e fuochi d'artificio. Nell'occasione, sarà anche presentato il documentario «100 anni di alpinismo sul Rosa» realizzato da Teresio Valsesia. L'associazione «Amici di Macugnaga» ha organizzato, da parte sua, una crociera alle Eolie.

(stralcio di altro articolo del Notiziario delle isole eolie sull'evento):

questa è la “Canna” di Filicudi. Una torre maestosa di roccia compatta, protesa da milioni di anni verso il cielo, contro cui nulla hanno potuto la forza irrefrenabile degli elementi della natura e l'implacabile erosione del tempo. Si erege come a simboleggiare la tenacia e la volontà degli Eoliani che nella occasione della scalata e della posa della Madonnina suggellano con gli amici di Macugnana un patto di perenne amicizia. La “Canna” è alta circa 90 metri. Per vincere la sua impressionante verticalità e la compattezza della roccia, le Guide del Rosa dovranno superare ostacoli di quinto di sesto grado, secondo la scala dei valori di difficoltà. Sarà inoltre la prima volta al mondo che una prova di alpinismo ad alto livello viene effettuata in mezzo al mare. Qualcosa di assurdo che soltanto la Natura, con una splendida meraviglia, e riuscita a conoscere.............

Una giornata di sole con un mare azzurro chiaro, come solo le nostre isole sanno regalare ai turisti che restano incantati da tanto prodigio della natura.

Attorno alla “canna” uno sciame di imbarcazioni di ogni titpo con centinaia e centinaia di persone: nave traghetto, aliscafi, motovelieri, barche a motore.

Questo lo scenario meraviglioso che si presentava a chi era convenuto nelle acque attorno allo scoglio sino ad allora inviolato.

Gli scalatori Luciano Battineschi, Felice e Carlo Jachini, Michele Pala, Lino Pironi, guide esperte del Monte Rosa, pronti per l'inizio della difficile prova.

L'ascensione viene seguita con interesse ed anche con trepidazione:

sono ore ed ore sotto il sole che guida ma che scotta.

Finalmente la vetta. Tutti e cinque lassù a salutare festosamente ed a ricevere gli applausi di quelli che hanno seguito la loro fatica ed ammirata capacità.

Poi il sollevamento della Madonnina e la sua sistemazione sulla roccia in maniera che possa proteggere col suo sguardo le isole e i naviganti. Nel pomeriggio dello stesso giorno a Lipari le manifestazioni sono continuate secondo il programma prestabilito.

Premiazione degli scalatori, esibizione in piazza Municipio di canterini del “Rosa” e proiezioni del famoso monte coperto di neve.

Il giorno successivo visita alle cave e agli stabilimenti di pomice, al Museo Archeologico. La sera al ristorante Filippino.

I crocieristi sono stati alloggiati all'albergo Arcipelago di Vulcanello, situato su un promontorio prospiciente l'isola di Lipari e che domina il breve tratto di mare che divide le due isole.

La manifestazione, promossa dall'azienda di soggiorno e turismo di Lipari e concordata col comitato centenario Est Rosa, ha suscitato nella cittadinanza Eoliana molta simpatia ed entusiasmo.

RIVISTA CAI NOVEMBRE 1973

Cinque guide di Macugnaga sopra «La Canna» di Filicudi nelle Isole Eolie.

Nel giugno 1972, cinque guide del Monte Rosa lasciarono Macugnaga e attraversarono l'Italia per raggiungere Filicudi, un'isola delle Eolie; a nord di quest'isola, si innalza al cielo per circa 100 metri, a picco, un famoso scoglio chiamato per la sua forma «La Canna»; nessuno lo aveva mai scalato; popolazione e turisti si limitavano ad ammirarlo come una meraviglia della natura. Lo notò, tuttavia, Carlo Ravasio, direttore del giornale di Macugnaga II Rosa, e subito pensò alle sue guide, ad un incontro fra gente del nord e gente del sud, fra la montagna e il mare. E, d'accordo con l'ing. Giuseppe Rodriguez, presidente dell'Azienda di Soggiorno di Lipari, capoluogo delle Eolie, organizzò la spedizione; una crociera, con autorità e macugnaghesi e il coro di Macugnaga, accompagnò la spedizione. Fu recata in dono una madonnina di bronzo che le guide, dopo la difficile scalata (era la prima volta, fra l'altro, che partivano dal... mare) riuscirono a issare sulla sommità del grande scoglio. Ecco, ora, il racconto della memorabile scalata. Lasciamo la barca e ci sistemiamo su di uno scoglietto ripido, che sarà la base dell'operazione. L'attrezzatura è la solita: corde, chiodi, martello, cordini e moschettoni, tutto come sul nostro Monte Rosa. Guardando in alto, vediamo cento metri circa di parete che si staglia contro il cielo, ma non ci sono aquile o camosci, bensì gabbiani e falchi che sorvolano «La Canna» quasi come soldati a difesa della loro fortezza. Se invece guardiamo verso il basso, c'è acqua, tanta acqua di un azzurro cupo così da non riuscire a vederne il fondo ma solo pesci, grossi pesci che si inseguono, il che ci fa veramente paura; ma l'orgoglio ci sprona e attacchiamo. La roccia non è quella che si presumeva, solida e bella, ma molto friabile, e le fessure tutte cieche tanto che i chiodi, dopo due colpi, non entrano più. Alla prima lunghezza di corda, usiamo due chiodi e affrontiamo una traversata in diagonale verso destra con passaggi di III grado e e sostiamo su di un terrazzino molto stretto ed esposto. (Due chiodi di assicurazione, più... morali che validi). Proseguiamo ancora per dieci metri in traversata (IV) e usciamo su di uno spigolo dove troviamo un punto buono per mettere un chiodo sicuro. Con un leggero spostamento verso sinistra arriviamo ad un camino di roccia nera, molto friabile, e molto esposto (IV grado, tre chiodi). Una brevissima sosta con solo il posto per i piedi e siamo al punto chiave della salita; un diedro con un tetto di due metri, oppure una piccola traversata verso destra, espostissima. Optiamo per la seconda e, mettendo in pratica tutta la nostra tecnica e capacità, riusciamo a passare. (Un solo chiodo di posizione in partenza e poi tutto in «libera»). Gli appigli sono scarsi e si prosegue per aderenza; all'uscita dell'ultimo passaggio, troviamo uno strapiombo di 50 metri circa; sotto non vediamo... crepacci e neve, ma acqua: tanta acqua che ci terrorizza, tanto più che nessuno di noi sa cosa significhi nuotare; comunque, superiamo anche questo difficile passaggio e veniamo a trovarci su di una buona cengia con un ottimo punto di assicurazione. Un attimo di sosta per riprender fiato, e guardando intorno vediamo in una nicchia della roccia un nido con due grosse uova; probabilmente del gabbiano che continuamente gira sopra le nostre teste.

Guardando verso l'alto ci sembra di intravvedere la soluzione per uscir fuori; oltre tutto, qui la roccia cambia, è più solida e di un colore marrone scuro. Sentiamo un fruscio; sono due lucertole che rincorrendosi vengono verso di noi e, anziché scappare, una sale sulla mia gamba e strisciando per il mio corpo si sposta sulla spalla del mio compagno; l'inseguitrice segue lo stesso itinerario. Povere bestiole! Non avevano mai visto un uomo e non ne avevano paura! Ci meravigliamo molto nel vedere segni di vita, oltre ai soliti falchi e gabbiani, ma guardandoci attorno scorgiamo anche alcune serpi che, immobili, si stanno «abbronzando» al sole che qui è veramente equatoriale. Da notare che la «Canna» dista quasi un chilometro dall'isola, sorge sola in mezzo al mare; terra vergine, quindi, nel senso più esatto della parola. Lucertole e serpi dimostravano soltanto curiosità, e ci giravano attorno come per studiarci bene, per imparare che razza di bestie eravamo. Pareva volessero giocare con noi! Un'altra lunghezza di corda (IV) per rocce rotte (tre chiodi); la sosta è su di un buon punto. Ora, sopra di noi, c'è un salto di circa 40 m, verticale (con roccia rossastra, simile a quella dei nostri Fillar) che superiamo impiegando quattro chiodi; poi 20 m di cresta facile per giungere sul punto più alto; la percorriamo quasi di corsa, freneticamente, tutti insieme; e la «Canna» è vinta! Il nostro altimetro segna 97 metri. Materiale usato: 17 chiodi, di cui tre lasciati in parete; lasciato anche (attrezzato) il passaggio più esposto, a metà salita, mediante una fune d'acciaio. Luciano Battineschi, Felice Jacchini, Carlo Jacchini, Michele Pala, Lino Piron i (Guide di Macugnaga).

 

 

 

Da un testo di Renato De Pasquale e da uno stralcio di numero del Notiziario delle isole Eolie dell'epoca, grazie alla biblioteca comunale di Lipari. TUNNEL TRA LIPARI E CANNETO maggio 1958

Dopo che la madrina, Signora Fulci, moglie del progettista e direttore dei lavori, ing. Cesare Fulci, ha infranto la rituale bottiglia di spumante, un ordine secco è stato impartito agli operai in attesa nella galleria: “dai Michele”.

Le perforatrici messe subito in azione hanno fatto cadere le ultime zolle di tufo e la ciurma è apparsa alle Autorià convenute per la cerimonia e in attesa dalla parte di “Pignataro”.

Bellissime parole di occasione ha pronunziato il prosindaco Prof. Iacolino, rilevando la importanza che la nuova arteria verrà ad avere nei rapporti tra Lipari e Canneto anche nel campo politico, facendo dei due centri un unico agglomerato.

Egli si è rifatto alla Espressione Evangelica “Ut unum sini” augurando che possa pienamente applicarsi al caso.

Il tunnel, di cui sin qui, è statapraticata una apertura alta 2,70........

Con l'apertura di questa nuova arteria il percorso tra Lipari e Canneto viene accorciato di circa due chilometri, ed essa, oltre a rendere più sollecite e spedite le comunicazioni tra i due centri, sarà molto giovevole alle operazioni commerciali che potranno, specie nelle giornate di cattivo mare, svolgersi nel porto rifugio di Pignataro.

Evidentemente la soluzione di questo problema, porta di immediata conseguenza l'esame di altri connessi, quali il potenziamento del porto e la sistemzazione della strada di allacciamento al centro.

Tra i presenti alla cerimonia, opportunamente invitati dall'Amministrazione locale, oltre ai rappresentanti della stampa, abbiamo notato: il prosindaco Prof. Iacolino, il delegato municipale di Canneto, prof. Spinella, gli assessori Spinella, Fiorentino, Carbone, Carnevale, i marescialli dei carabinieri e della Finanza, l'ing. Giordano esecutore dei lavori.

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Testimonianze della visita della regina Elisabetta a Vulcano il 1 maggio 1961 immagini tratte da un testo di Renato De Pasquale e da un numero del Notizario delle isole dell'epoca, grazie alla biblioteca comunale di Lipari.

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PER SAPERNE DI PIU' CLICCARE NEL LINK LEGGI TUTTO

L'adunata dei Refrattari 15 FEBB 1930.

L'isola di Lipari è la maggiore delle isole di origine vulcanica componenti l'arcipelago delle Eolie (da Eolo, dio dei venti) nel mar Tirreno al nord deIla Sicilia.
Appartiene alla provincia di Messina. Ha una superficie di ,38 chilometri quadrati, ubertosa e fertile dominata dai monti Chirica e Sant’Angelo alti 600 metri circa. Ha sorgenti sulfuree d'antica forna, cave di pomice e miniere di zolfo che son gli articoli principali della sua esportazione. La popolazione e di 13.000 abitanti, di cui 7.000 circa, nella città di Lipari. Molti chiese, molti preti e frati, molte spie. La città è discretamente pulita ed illuminata a luce elettrica.
La sua storia si perde nell'antichità della leggenda omerica. Cartagine vi ebbe una base pel suo dominio del Mediterraneo; Roma ne fece un luogo di deportazione pei suoi condannati nell’alterna vicenda delle fazioni dell'epoca imperiale.

La monarchia savoiarda, ne ha fatto una delle patrie isole dilla salute. Fino a pochi anni fa vi relegava alcune centinaia di coatti comuni: ma in seguito ad una furiosa rivolta della popolazione isolana, il governo l'adibì al solo “ confino” dei politici.
La legge crispina del 1884 vi relegò quattro anarchici e un socialista : Ettore Croce. Quella del Pelloux (1898) quindici anarchici e tre socialisti.
Nel marzo 1927 c'erano centocinquanta confinati; nel luglio 1931 ve n'erano cinquecento
La guarnigione si compone di quattrocento soldati tra carabinieri, fascisti, poliziotti in borghese, marinai e guardie di finanza comandati dai rispettivi ufficiali; tre motoscafi armati di mitragliatrici, un "mas" armato di
cannone.

Nel vecchio castello cupo che, costruito al tempo di Carlo V, si leva minaccioso in riva al mare, sono le prigioni. Le celle erano già al tempo che Andrea Costa le visitò "qualche cosa di brutto e d'infame”; l'androne in cui il comando ospita i confinati è il solido camerone delle prigioni del regno dove la diligenza dei reclusi non potrà mai sopperire alla deficienza di luce, d’aria e d'igiene.

Alle sette del mattino è la sveglia; alle otto l'appello nel cortile del castello tra un imponente schieramento di carabinieri e di fascisti (armati di tutto punto, e il versamento da parte del sergente , delle dieci lire della mazzetta.
Chi ha danaro può ottenere l’ autorizzazione a vivere fuori del castello affittando una stanza in città. Ma alle otto deve trovarsi all’appello. In caso di semplice ritardo, è una lavata di capo.
Dopo l'appello i confinati sono liberi di circolare nei limiti dilla zona rigorosamente fissata dall'autorità e che comprende le due strade principali del paese, la spiaggia dove d'estate , sotto la sorveglianza della polizia è permesso di prendere il bagno, ed alcune viuzze del sobborgo. E' proibito inoltrarsi nell'isola verso i campi e i colli: lungo i limitare della zona prescritta ai confinati tutti gli accessi all'interno sono ininterrottamente sorvegliati dalla polizia.

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A seconda della maggiore o minore importanza che il regime attribuisce ai confinati, fa esercitare su di loro una sorveglianza supplementare più o meno intensa. Alle calcagna di Domizio Torrigiani gran maestro della massoneria, tenne per l'anno e mezzo che fu all'isola, due agenti, altrettanti per Carlo Rosselli. L’uno e l’altro essendo persone ricche ed influenti le probabilità di evasioni erano maggiori: da Lipari non si scappa se non disponendo di mezzi abbondanti e di appoggi altolocati. Il deputato Lussa-era sorvegliato, nelle sue quotidiane regolari passeggiate, da ben quattro sbirri.

Tutti confinati, però, ristretti su di una superficie limitata sono continuamente sotto l'occhio inquisitore della polizia travestita, dai carabinieri e della milizia fascista. Le provocazioni e le persecuzioni sono quindi all'ordine del giorno. Basti ricordare il caso del confinato Del Moro che, provocato da un capitano della milizia “gli somministrò una solennissima lezione pugilistica abbattendolo tre volte”. Del Moro fu subito arrestato, condannato (1927) e fatto morire dopo tre
mesi in un manicomio senza che nessuno della famiglia o altri abbia mai potuto rivederlo.
Altro caso: quello di Luigi Galleani, arrestato tre giorni dopo il suo arrivo a Lipari (1927) perchè ad un fascista venne in mente di accusarlo di aver offeso il "duce". Fu condotto a Messina, condannato a sei mesi di reclusione, che scontò fino all’ultimo giorno, sebbene malato, per non chiedere al magistrato che gli venisse applicata la "grazia" concessa dal duce alla fine del 1927 ai suoi detrattori. ( 1 ).
I casi di questo genere sono infiniti.
La sera, alle setto d'inverno, alle nove di estate è la ritirata. Non c’è appello, ma appena scoccata l'ora le pattuglie si mettono in cammino entrano neIle case dove sono alloggiati i confinati e si accertano della loro
presenza.

La vita a Lipari, per chi non possa disporre che delle dieci lire della mazzetta — e sono i più dei confinati — è presso che impossibile. I prezzi sono esorbitanti; i bottegai arricchiscono sulla fame dei coatti; gli affitti sono in ragione di cento lire mensili per stanza che il più delle volte non è che un tugurio.
Chi aveva lasciato le famiglie a casa senza risorsa, valendosi di una disposizione della legge, le ha chiamate presso di sè con la speranza di riuscire a trovar lavoro con cui sopperire ai bisogni più elementari. Ma il lavoro è difficile a trovarsi pei confinati. Le cave e le miniere sono all’interno; il porto è a Canneto, fuori della zona loro assegnata. Per qualche tempo ci fu lavoro alla riparazione del castello; altri lavoran di sarto o di calzolaio in città, due o tre poterono impiegarsi all'officina elettrica. Ma i più, disoccupati, sono perennemente alle strette con la più
dura miseria. E’ fatto divieto ai confinati che dispongono di mezzi di soccorrere i più bisognosi: se colti in flagrante sono passibili di arresto immediato e di severe condanne.

Dal di fuori, soltanto i parenti stretti possono mandar soccorsi. Il danaro proveniente da non parenti è considerato come soccorso di sovversivi, ed è perciò sequestrato. Il mittente, se possibile identificarlo, è tosto arre
stato e severamente condannato dal tribunale squadrista ‘quale nemico dato Stato.
L'arrivo delle famiglie ha generato il problema dei bambini e della loro educazione.
Nelle scuole di Lipari sarebbero educati evestiti alla fascista. I confinati preferiscono non mandarceli ed educarli a casa come meglio possono.
Gli adulti stessi cercano nello studio e nella lettura un'occupazione che li distragga dalla deprimente monotonia del tempo e dell'ozio: gli uni per semplice svago, gli altri per supplire alle deficenze dell'istruzione elementare del regno. S’era organizzata, anzi, una vera e propria scuola con biblioteca: un vero ricostituente per la colonia dei deportati. Ma non potè funzionare a lungo senza intralci: trovato tra i confinati stessi uno sciagurato, certo Cocco, disposto a testimoniare che col pretestoto della scuola si facevano discussioni politiche ostili al regime, con lo scopo di fomentare in colonia la rivolta armata, le autorità credettero arrivato il momento di fare il colpo — colpo di cui con sempre in caccia i servi del regime con cui sarebbero promosse nella considerazioni del governo.

La mattina del 2 dicembre 1927. Prima dell’alba, giungeva nel porto, proveniente da Messina, una nave carica di armati, ne sbarcava un forte distaccamento in rinforzo aIla guarnigione dall’isola e, mentre ancora diluiva la notte, s'incominciava dalle pattuglie il rastrellamento dei confinati. Duecento, furono arrestati in tal modo e prima che il giorno fosse alto furono rinchiusi nelle celle che tanto orrore avevano, tret'anni fa, inspirato al Costa. Vi rimasero tre giorni. I più furono poi liberati, ma oltre cinquanta furono deferiti al tribunale speciale.
Dopo qualche tempo la biblioteca fu chiusa; un catalogo dei libri fu mandato a Roma, donde venne l'ordine di sequestrare più di cinquecento volumi di autori quali Tolstoi, Turghenieff, Godei, Jack London, Barbassi ,

Carlyle, Mazzini, Vagare ecc. Questa biblioteca esiste tuttora ma le ripetuti intrusioni della censura hanno finito per non lasciarvi che le opere apologetiche del fascismo.
Oltre alle provocazioni dirette il regime ricorre alle insidie, impiegando a tal uopo gli "oppositori fascisti" condannati al confino che, tosto conosciuti, sono allontanati da tutti e finiscono per riunirsi apertamente con gli. squadristi della guarnigione; e alle pressioni sulle famiglie per indurle a premere a loro volta sui congiunti confinati perché scrivano al governo “qualche cosa", facciano, insomma, atto di sottomissione, per riconquistare la libertà. Il governo fascista, è molto sensibile a questo genere di ravvedimenti, li incoraggia e li premia.

A Lipari arriva ogni giorno il postale, dalla Sicilia — salvo che il tempo non sia cattivo, nel qual caso può ritardare anche quattro o cinque giorni — e il suo arrivo è l’avvenimento quotidiano degli esuli in, ansia sempre di notizie dalle famiglie, dal mondo, dalla vita. Mentre dura lo sbarco è fatto loro divieto di avvicinarsi al porto, ma ne seguono le operazioni da lontano. Non si sbarca a Lipari senza lasciapassare del governo. Gli isolani che vanno o vengono sono muniti di tessera speciale.
Ogni nuovo arrivo di confinati è segnalato dal ponte del battello, dalla presenza dei carabinieri: due per ogni condannato, dai polsi stretti nelle manette.
Le condizioni sanitarie sono disastrose.
Il medico assegnato all'infermeria è un ignorantone che ha una laurea ma non ricorda come se la sia procurata. Infatti non aveva mai esercitato prima d'essere assunto quale sanitario dei confinati. Prescrive ai malati ricette cervellotiche e molto spesso non sa addirittura come curare i pazienti. Vi sono tra i deportati molti tubercolotici ai quali l'aria umida del mare è dannosissima, ma il medico non sa nè curarli, nè esigerne l'allontanamento in luogo più adatto. (2).

In queste condizioni e quando queste condizioni si prolungano per anni ed anni senza speranza di sollievo il pensiero dell'evasione diventa una necessaria occupazione dello spirito. Ma le speranze di realizzarla sono minime: la sorveglianza per terra e per mare è intensa, le comunicazioni telegrafiche con le stazioni della marina da guerra sono perfette, e dalla vicina isola di Vulcano un riflettore potente illumina tutti gli approcci
dell'isola.
Verso la metà del luglio 1928, quattro deportati che si trovavano nella prigione del Castello riuscirono a forzare le celle, a calarsi dalle mura, e, travestiti, a passare tra le pattuglie di fazione fino a raggiungere la campagna. Speravono di trovare una barca sulla spiaggia con cui raggiungere la Sicilia. Ma l'allarme fu presto dato, l'isola fu circondata dai riflettori; i fuggiaschi non riuscirono a trovare la barca necessaria e dovettero nascondersi pei campi per sottrarsi alle battute della polizia che, rinforzata da isolani armati s'era messa alla loro ricer ca. Divorati dalla sete ricorsero ad un contadino che per cento lire diede loro un po' di
acqua e pane. Ma la moglie di costui impaurita informò la polizia del loro nascondiglio.
Furono arrestati disfatti dalla fame e bestialmente battuti. Il contadino stesso fu poi condannato a cinque anni di confino, ad Ustica.
Un altro tentativo d'evasione che tenne a soqquadro la guarnigione frugante per tutta l’isola, fu quella del giovane veneziano
Spangero..................
Era riuscito ad imburcarsi nella notte su di un canotto sportivo, e a furia di remi ad allontanarsi fra le tenebre dalla costa. Ma il mare grosso rovesciò presto l'imbarcazione e lo Spangero dovè tornare a riva a forza di muscoli che in verità, aveva d'acciaio. Per vari giorni, mentre la polizia lo cercava dappertutto, riuscì a nascondersi, finché s'arrampicò a bordo di un piroscafo tedesco ancorato in porto. Il capitano lo consegnò alla polizia e lo Spangero fu poi condannato a tre anni di reclusione e 10.000 lire di multa per tentativo di “emigrazione clandestina".
No. Dall'isola di Lipari, circondata da mare e da coste italiani, cioè ostili, affollata all'interno di spie e di sbirri disponenti di mezzi formidabili di controllo e d'inseguimento, non si evade senza cooperazione dall'esterno e a meno di disporre di mezzi straordinari.
Fu ventura di Rosselli, Nitti e Lassù dì avere questi mezzi, di disporre d'ellinfluenze e d'amicizie dotate di capacità pari all'ardimento, onde raggiunto a nouto un motoscafo velocissimo venuto di lontano nella notte, e nel punto convenuti, furono felicemente portati in salvo il 27 luglio 1929.
(Sintesi dal libro Escape” di F. F. Vitti)

(1) Questo particolare raccontato con apprezzamenti lusinghieri del Nitti sul carattere di Galleani, nelle descrizioni fatte dal Nitti sui giornali italiani di Parigi al suo arrivo in Francia, non figura nel libro “Escape" pubblicato dalla casa Putnam di New York. E si capisce: Galleani è un deportato, un “undesirable" per gli americani.

2) Nel resoconto della sua visita a Lipari pronunciato alla Camera il 20 febbraio 1899, il Costa diceva: “Gli ammalati sono in peggior condizione
dei sani perchè, quando uno è ammalato, non ha più 50 centesimi (era di tanto allora la mazzetta), come i sani, ma solo 45, dovendo pagare 5 centesimi al giorno per il letto. Per il letto, signori! Ma che letto? per il canile dove è sdraiato".

 

 

 

 

 

 

Da una rivista francese dei primi del 900.

La città e il suo vecchio castello compaiono non appena si è raddoppiato il grande promontorio di Monte-Rosa.

Come la sua vicino Vulcano, i cui crateri sono così notevoli, Lipari è interamente

un vulcano e vi sono numerose sorgenti termali; lo stesso vale anche per le altre isole: Salina, Panaria, Filicudi, Alicudi e Stromboli, le cui esplosioni si rinnovano ad intervalli, e Vulcano, che si manifestò nel 1888 con una violenta eruzione da proiezioni di lapilli.

Foto unica e rara. Complimenti al nostro ricercatore Massimo Ristuccia (bl)

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TOURING CLUB ITALIANO rivista mensile n. 9 settembre 1909 ESCURSIONE ALLE ISOLE EOLIE di L.V. BERATRELLI 6 parte

Navigando da Lipari verso Stromboli il succedersi delle scene più variate non lascia un istante languire il piacere del viaggio.

In nessun altro luogo d’Italia v’è quantità d’isolette, il cui apparire e sparire l’una dietro l’altra possa creare come qui l’illusione di una rotta attraverso un grande arcipelago.

Al momento della partenza la spiaggia formicolante di persone del porticciuolo di Lipari, l’animazione della sua breve banchina, le bianche chiesuole di San Giuseppe e degli Angeli Custodi, l’aspetto non privo di una certa grandezza delle case che hanno fronte al mare, la massa grandiosa del Castello formano un quadretto interessante, E’ un po’ una Chioggia….africana.

La svelta e nervosa figura del Console del Touring, Filippo De Pasquale, nell’elegante costume bianco che potrebbe essere di canottiere se non fosse d’industriale che frequenta le proprie cava polverose di pomice – è d’altronde un canottiere appassionato – mi abbandona solo all’ultimo momento, quando l’elica del vaporetto batte l’onda e tronca per forza le sue inesauribili cortesie.

Via lungo la costa, talora rasente i promontori, tal altra in pieno mare al largo delle insenature, si svolge il panorama come sulle rive d’un lago. E’ dapprima il Monte Rosa, poi Canneto, caliginoso per le polveri della lavorazione della pomice. Ivi due vapori sono sotto carico. Poi ecco ancora un Capo Rosso e quindi di nuovo il chiarore di Monte pelato, tutta una montagna di tufi bianchi, che finisce a mare con un gran muraglione candido, alto centinaia di metri, lungo un chilometro, maculato di forellini neri che sono bocche di cave. Poi c’è Acquacalda, un paesino ove un altro vapore imbarca il solito minerale.

Ora il mio vaporetto traversa il canale di quattro chilometri che divide Lipari dall’isola di Salina, la Didimo antica, cioè gemella, a motivo dei suoi due vulcani estinti, Monte Fossa delle Felci (m. 961) e Monte dei Porri (m. 860), separati dalla alta Valle della Chiesa, che delineano un profilo mamillonare caratteristico. E’ l’isola del malvasia così detto di Lipari, dei capperi, della passolina, delle mandorle. E’ la più ricca di terreno coltivabile e, come sempre quello che viene dalla decomposizione delle roccie vulcaniche, fertilissimo.

Malfa e Santa Marina sono i due paesetti più importanti, ma parecchie altre frazioncine animano le pendici e le spiaggie. Una lingua di terra che, unica forse in tutta l’isola giace ai piedi degli altissimi bastioni basaltici, è messa a partite con delle piccole saline. La popolazione è rotta alle fatiche, vivace, bella, e fornisce alcuna macchiette al mio KodaK.

Mentre il vapore si avanza girando l’isola, a destra e a sinistra davanti ad esso continuamente si levano a volo spaventati i pesci volanti, rondini di mare – duri e impettiti lunghi 25 o 30 centimetri, con due ali giallastre trasparenti che sbattono non col ritmo lento ed ampio degli uccelli ma piuttosto colla vibrazione breve e nervosa delle libellule. Hanno del resto un po’ la durezza di linea della libellula, senza la flessibilità e l’eleganza del volo di questa. Si alzano uno o due metri sull’acqua e fuggono in linea retta normale al vapore per un centinaio di metri, poi generalmente deviano in curva e vanno a rituffarsi a una cinquantina di metri più..

Talora cinque od anche dieci pesci velano insieme; ne vidi anche uno stormo di una cinquantina………………………………..

Sulla sinistra si alza Filicudi, detto anche Filicuri, a 773 metri con due…, e, mi dissero, anche con un’interessante grotta di basalto colonnare. Anch’essa ha un Perciato e degli scogli che devono essere magnifici; uno, detto espressivamente Canna, s’alza a 71 metri dal mare a più di un chilometro da riva. La Fenicusa antica – copre in distanza Alicudi anch’essa miserabile, sterile, disabitata. Il suo nome viene da Ericusa, e all’erica che sempre si allignò; il suo cratere – la Montagnola – tocca i 666 metri.

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TOURING CLUB ITALIANO rivista mensile n. 8 agosto e n. 9 settembre 1909 ESCURSIONE ALLE ISOLE EOLIE

di L.V. BERATRELLI

Gli articoli di Bertarelli sulle Eolie furono riportati anche dalla rivista francese L'ILLUSTRATION-

4 parte

La mia lancia, che io voleva dirigere al Porto di ponente (nell'Isola di Vulcano) per vedervi altre roccie che certo debbono essere meravigliose quali quelle del Capo Grosso, dovette invece far rotto sul Porto di levante, ove sbarcai abbastanza male in gambe sulla benedetta terraferma, che ha soltanto un difetto: quello di essere terra di un'isola senza ponti per congiungerla col continente.

Una gran roccia accanto al porto di Ponente (porto per modo di dire, poiché non si tratta che di una spiaggia) è sforacchiata da una rete di gallerie, da cui un inglese ricavò fino al 1887 allume e acido borico, mentre dal Vulcano attiguo traeva dello solfo. L'eruzione dell'87 troncò ogni lavorazione.

La salita alla Fossavecchia o Gran Cratere dura circa un'ora o poco più sui lapilli, e l'altezza si conquista faticosamente a zig-zag mentre poi la discesa si compie in un istante in linea retta. La mia fotografia (fig. 7) mostra le due diverse traccie. Il cratere si presenta rotondo, del diametro di tre o quattrocento metri ed è profondo un centinaio di metri. La prima volta che lo vidi fumigava tutto nella sua parte più vasta. Adesso era perfettamente tranquillo e vi potei scendere senza alcun disturbo. Assai più vive invece che allora erano le fumarole esterne, acri di vapore di solfo sublimato e di acido cloridico.

Dall'orlo del cratere, meraviglioso è il panorama sull'arcipelago. Vulcanello apre sotto i suoi tre crateri, separato da Vulcano da una lingua bassa di terra larga 500 metri, che talora il mare da ponente sovrapassa colle sue lunghe ondate.

Più in là si distende Lipari ed alla sua sinistra Salina ed alcune isolette minori, e nella lontananza Alicudi e Filicudi.

A oriente invece Panaria, Basiluzzo col suo corteo do scogli minori e nel fondo Stromboli. Nella parte opposta tutta la costa di Sicilia e quela prossima della Calabria fino al Capo Vaticano.

Sarei rimasto ben a lungo lassù se non mi avesse tentato anche l'ascensione di Vulcanello. Ridiscesi quindi rapido sui lapilli, traversai la lingua di terra ed intrapresi la breve salita di questo cono, sulla cui cima si aprono tre bocche di cui una perfettamente tonda con pareti assai ripide e con un fondo ormai riempito e livellato di materiale eruttivo che la mia fotografia ritrae chiaramente (fig. 5).

A motivo del mare alquanto minaccioso dovetti più presto di quanto mi sarebbe piaciuto abbandonare quest'isola curiosissima e tornare a Lipari ove avevo intenzione di compiere la giornata con una visita al Castello ove stanno i coatti.

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salendo sulle ceneri e lapilli di vulcano tci 1902.JPG

Da un vecchio numero del notiziario delle isole eolie, grazie alla biblioteca comunale di Lipari.

AIUTARE LA CHIESA DELL'ANNUNZIATA

Lettera del Parroco. La testimonianza dei nostri Padri in rovina

Con l'approssimarsi della festa dell'Annunziata, mi permetto caro Direttore, farle pervenire questo mio scritto, affinchè se vorrà ospitarlo nel suo giornale, renderà un servizio alla Madonna. E' noto ai lettori che anche quest'anno, centenario della mracolosa statua, festeggeremo la nostra Annunziata il 28 corrente, ma con alcune varianti.

Voglio evitare da questo anno, di andare contro la povertà della chiesa nello sprecare le offerte nelle cose superflue, quando poi il santuario ed il conventino annesso, stanno andando sempre più in rovina.

I nostri padri hanno fatto tanti sacrifici per costruire questo tempio all'Annunziata, come tante altre chiese che sono la testimonianza della loro fede, ma che ora, causa l'abbandono, hanno urgente bisogno di riparazioni costose.

Le feste, mi dicono gli anziani, erano molto sentite religiosamente: S. Messe, comunioni e la processione partecipavano tutti devotamente, pregando e cantando. Ora, invece, …........

Le feste si fanno per far baldoria, non per onorare il Santo, sono divenute troppo pagane, non si partecipa alle SS. Messe.

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TOURING CLUB ITALIANO rivista mensile n. 8 agosto e n. 9 settembre 1909 ESCURSIONE ALLE ISOLE EOLIE

di L.V. BERATRELLI

Gli articoli di Bertarelli sulle Eolie furono riportati anche dalla rivista francese L'ILLUSTRATION-

(2 parte)

Le cave sono in parte comunali affittate, od in parte di proprietà privata: profonde, caldissime nell'interno; anzi talora raggiungono temperature insopportabili. Sono coltivate con metodi vecchi, industrialmente non lodevoli ed igienicamente pericolosi. La loro interna struttura si assomiglia a quella delle solfare siciliane.
Dura vi è l'opera di estrazione, che si fa col piccone; durissimo il trasporto all'esterno, entro sacchi e recipienti di stuoie e di vimini, al quale sono adibiti anche ragazzi giovanissimi evidentemente senza alcun rispetto alla legge sul lavoro (fig. 8).
Producono abbastanza per tutta Europa ed anzi per esportare oltre mare. Dei vapori sono sempre sotto carico a Canneto o ad Acquacalda, dove in grandi molini, di cui vari appartengono ad una ditta tedesca, si opera una cernita di materiale ed in parte la sua macinazione in mezzo ad un pulviscolo folto, persistente, che si diffonde a distanza come una nebbia intorno agli stabilimenti ed è visibile a più chilometri, quasi questi fossero circonfusi di una nube semitrasparente.

Siccome vi è una tassa comunale di imbarco sulla pomice, qualunque ne sia l'origine, il bilancio comunale di Lipari non ha bisogno di imporre altre tasse. Rara avis! Non di meno non si può dire, almeno da quanto io ho visto, che Lipari si avvantaggi pubblicamente molto di questo fortunato stato di cose. Essa mi è sembrata quest'anno, identica alla Lipari di dieci anni fa, quando un'altra volta visitai le Eolie. Anche oggi trovai l'identica mancanza di comfort e la stessa sporcizia per la quale messo piede nell'Albergo Nazione, che passa per il principale, fuggii in strada inorridito senza saper bene dove avrei posato il mio scarso bagaglio.""

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Mi indicarono un altro albergo di cui poi da altri sentii parlare come di un canile, ma mentre mi avviavo fui fermato per la strada da un bottegaio che mi offrì una camera mobiliata dove stetti discretamente. (Tutto del resto è relativo perchè, tanto per accennare un dettaglio del servizio, mi fecero il letto per due giorni verso le 17!).

Non vidi nella pubblica edilizia alcun che di mutato in dieci anni. Dietro la Capitaneria del Porto vi è ancora come allora (dettaglio zoliano ma caratteristico di cui non posso defraudare i lettori della Rivista!) un pubblico ed utile ritrovo. E' costituito da una sal a intorno alla quale corre una speice di divano orientale o gradino, coperto di piastrelle bianche con vaghi disegni azzurrini, opportunamente perforato nel piano superiore da una dozzina di buchi rotondi di trenta centimetri, come una cucina economica . Su questo bel piano si assidono per le proprie occorrenze i cittadini liparoti, conversando piacevolmente dei propri affari, e dimostrano così una grande attività poiché senza perder tempo compiono due servizi. L'ingegnoso monumento vespasiano ritrae particolare pregio dall'esser impostato sopra una grossa roccia quasi a raso del mare, in cui guardano direttamente i sopradetti trafori. Quando c'è un po' di maretta gli schiaffi delle onde battono di sotto in su e il rinfresco deve essere detersivo e delizioso.

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L'adunata dei Refrattari 15 FEBB 1930. Grazie alla BNF Gallica.

L'isola di Lipari è la maggiore delle isole di origine vulcanica componenti l'arcipelago delle Eolie (da Eolo, dio dei venti) nel mar Tirreno al nord deIla Sicilia.
Appartiene alla provincia di Messina. Ha una superficie di ,38 chilometri quadrati, ubertosa e fertile dominata dai monti Chirica e Sant’Angelo alti 600 metri circa. Ha sorgenti sulfuree d'antica forna, cave di pomice e miniere di zolfo che son gli articoli principali della sua esportazione. La popolazione e di 13.000 abitanti, di cui 7.000 circa, nella città di Lipari. Molti chiese, molti preti e frati, molte spie. La città è discretamente pulita ed illuminata a luce elettrica.
La sua storia si perde nell'antichità della leggenda omerica. Cartagine vi ebbe una base pel suo dominio del Mediterraneo; Roma ne fece un luogo di deportazione pei suoi condannati nell’alterna vicenda delle fazioni dell'epoca imperiale.

La monarchia savoiarda, ne ha fatto una delle patrie isole dilla salute. Fino a pochi anni fa vi relegava alcune centinaia di coatti comuni: ma in seguito ad una furiosa rivolta della popolazione isolana, il governo l'adibì al solo “ confino” dei politici.
La legge crispina del 1884 vi relegò quattro anarchici e un socialista : Ettore Croce. Quella del Pelloux (1898) quindici anarchici e tre socialisti.

Nel marzo 1927 c'erano centocinquanta confinati; nel luglio 1931 ve n'erano cinquecento
La guarnigione si compone di quattrocento soldati tra carabinieri, fascisti, poliziotti in borghese, marinai e guardie di finanza comandati dai rispettivi ufficiali; tre motoscafi armati di mitragliatrici, un "mas" armato di
cannone.
Nel vecchio castello cupo che, costruito al tempo di Carlo V, si leva minaccioso in riva al mare, sono le prigioni. Le celle erano già al tempo che Andrea Costa le visitò "qualche cosa di brutto e d'infame”; l'androne in cui il comando ospita i confinati è il solido camerone delle prigioni del regno dove la diligenza dei reclusi non potrà mai sopperire alla deficienza di luce, d’aria e d'igiene.

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Da un vecchio numero del notiziario delle isole grazie alla biblioteca comunale di Lipari, da foto di famiglia desumiamo che la data dell’evento è 03.02.1958.

Tributo d’affetto dell’Istituto Tecnico Commerciale al Rev. Prof. Don Onofrio Paino, che lascia l’insegnamento.

Nel corso di una cerimonia del tutto intima, soffusa di mistica grazia e della più suggestiva commozione, i Professori dello ordine Medio e la scolaresca dell’Istituto Tecnico hanno rivolto il saluto di commiato e l’augurio di ancora lunghi anni di vita felice al Reverendo Prof. Don Onofrio Paino, che per raggiunti limiti di età lascia l’insegnamento di Religione, che egli ha brillantemente…………………….

sostano nell’atrio dell’edificio scolastico per assistere alla benedizione impartita da S.E. il Vescovo alla sala dell’”Auditorium” oggi completa di ogni attrezzatura che consente adunanze collettive della scolaresca, proiezioni di films e filmine di sussidio e completamento alle discipline di programma, audizione di radiotrasmissioni, di dischi di musica classica o di recitazioni………………….

Questa Scuola la sua Parrocchia, comprendente il quartiere più misero della nostra Cittadina e questa palestra di gioventù.

La Scuola gli è grata, ha soggiunto il Preside, anche per la sua singolare ed efficace didattica “scevra da ogni astrattismo; per lui educare la Religione era educare alla vita o, meglio inserire la Religione nella vita…

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Da alcuni numeri del Notiziario delle isole Eolie grazie alla biblioteca comunale di Lipari, immagini di Carnevale a Lipari anni 50. 2° parte.

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Alcuni stralci del Notiziario dal Notiziario delle isole Eolie, grazie alla biblioteca comunale di lipari. LEOPOLDO ZAGAMI

Era nato nell’isola di Alicudi il giorno 23 gennaio 1905 ed è deceduto in Messina il 17 febbraio 1973.

D lui abbiamo scritto su questo giornale (n. 5 dell’anno 1963) quando per la seconda volta è stato eletto all’alta Magistratura di Senatore della Repubblica.

Egli è stato il primo eoliano eletto a si alto incarico.

Leopoldo Zagami ha costantemente mostrato un particolare attaccamento alle isole ed ha svolto quasi tutta la sua attività letteraria sulla storia delle Isole.

Egli ha scritto: “Lipari ed i suoi cinque millenni di storia – Le monete di Lipari – Confinati politici e relegati comuni a Lipari”.

Noi abbiamo avuto il privilegio di pubblicare su questo giornale a puntate, alcuni suoi libri, anche per ricordare a noi ed a tutti gli altri Eoliani la personalità dell’uomo legato da profondo affetto alla terra che gli ha dato i natali.

Il male inesorabile che lo ha colpito, ha stroncato tutte le iniziative che la sua intelligenza aveva programmato.

UN NUOVO LIBRO SU LIPARI DEL SEN. LEOPOLDO ZAGAMI

Ha visto la pubblicazione in questi giorni un nuovo libro del sen. Leopoldo Zagami dal titolo “Confinati politici e relegati comuni a Lipari”.

Con questo nuovo lavoro lo Zagami conferma ancora il suo grande attaccamento alla terra nativa mettendo in luce un nuovo aspetto storico dell’isola di Lipari…….

Ne febbraio del 1939 ebbe a pubblicare un libro dal titolo “Le isole Eolie nella storia e nella leggenda”. Lavoro assai arduo quello dello Zagami per la scarsezza e la brevità delle notizie che si hanno dalle antiche fonti, le quali si occupano delle Eolie sempre incidentalmente trattando della storia e della geografia della Sicilia. Ad accrescere il valore di tale sua pubblicazione va ricordata anche la difficoltà allora esistente a causa delle lacune……………………….

“Formulo l’augurio che il mio lavoro possa contribuire a dare maggiore conoscenza alla storia di Lipari e nuovo impulso alle ricerche archeologiche nelle isole, di quell’arcipelago in cui Eolo e Vulcano ebbero la loro mitica dimora”.

Nel 1950, appena pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, lo Zagami pubblicava una seconda edizione del suo libro, confermando i suoi voti augurali perché le Eolie venissero meglio conosciute.

La cinematografia mediante i due films “Stromboli” e “Vulcano”, realizzati nei primi anni della ripresa della vita della Nazione dopo la tragedia della guerra, per la fama in campo internazionale delle protagoniste, contribuì a dare un notevole apporto alla conoscenza ed alla valorizzazione delle Eolie.

Quello che era stato l’auspicio dello Zagami espresso nella prefazione del suo libro, e che era sembrato un’audace speranza, specie in rapporto ad una serena valutazione della realtà, e la cui giustificazione poteva essere concessa solo nel grande affetto di cui tale augurio formulava per essere legato a quelle vulcaniche isole dall’amore per il “natio loco”, cominciava così a diventare realtà concreta. Ma non solo sotto il profilo turistico il ….. ebbe una reale consistenza, ma anche sotto quello storico ed archeologico.

Infatti importanti scavi compiuti a cura della Soprintendenza delle antichità della Sicilia Orientale, hanno messo in luce in questi ultimi venti anni la esistenza nelle Eolie di una gloriosa civiltà che ebbe vita quattro millenni prima dell’era cristiana…………………………….

Il lavoro dello Zagami si presenta nella sua stesura scevro di qualsiasi influenza di natura politica, per cui esso può dare adito a giudizi anche contrastanti sotto tale profilo. Lo Zagami ha voluto compiere a riguardo al lavoro rigidamente storico e la storia, quella vera, non può avere un’angolazione particolare secondo le idee dello scrittore, perché diversamente non è più storia, ovvero fedele ed ordinata narrazione dei fatti con la indicazione delle circostanze, cause ed effetti, ma, un’esposizione di fandonie, il cui credito non ha riscontro con la verità.

Nella narrazione degli avvenimenti e nelle illustrazioni dei personaggi lo Zagami ha ricordato episodi e circostanze quali essi furono nei tempi in cui ebbero a svolgersi, senza effettuare alcuna alterazione, mantenendo la materia con serenità ed obbiettività. Il suo nuovo lavoro giova a dare un prezioso contributo per la conoscenza modo come vivevano a Lipari i confinati politici ed i relegati comuni.

Siamo eternamente lieti esternare nell’occasione il più vivo compiacimento al nostro concittadino per il suo nuovo libro del quale ci ripromettiamo di riportare su questo “Notiziario” alcuni dei suoi capitoli.

Lo Zagami in articoli apparsi su riviste e giornali, ha tenuto sempre, da circa trenta anni questa parte a mettere in evidenza le gloriose pagine della storia di Lipari, ponendo in luce le bellezze naturali delle Eolie.

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TEMPO N. 42 17 OTTOBRE 1970 ARTICOLO DI VINCENZO CONSOLO

Una nuvola di finissima polvere bianca corrode l’isola delle Eolie che, costretta a rimanere legata alla sua antica schiavitù, vede sfumare le prospettive del turismo.

“Il bisturi strideva come se intaccasse una pietra. E il polmone era rigido, duro e bianco come la pomice”, racconta un avvocato a Lipari che, da vice-pretore, s’era trovato ad assistere una volta all’autopsia su un cavatore di pomice di Canneto, isola di Lipari, morto sul lavoro. E’ stata quella un’esperienza che non dimentica. Quei due polmoni bianchi, pietrificati per la silicosi, isolati da tutto il resto come certi organi di cera per voto all’altare di San Bartolomeo, sono fissi nella sua memoria. Erano frequenti allora queste morti per consumazione di cavatori sul lavoro. I più fortunati morivano a casa, di notte o di domenica: sui 35, 40 anni. Oggi, invece, arrivano fino ai 45-50 i cavatori di pomice di Canneto e Acquacalda di Lipari, isole Eolie.

La vita media di questi operai s’è allungata, grazie al fatto che si è scoperto da pochi anni (per merito del vecchio medico condotto di Canneto, il dottor Di Perri), che la causa vera della loro morte è il male della pietra, la silicosi. Ma i morti sono ancora sei all’anno, e gli ammalati di silicosi il 90 per cento, su circa 800 operai. E in compenso, anche coi ritrovati moderni della tecnica per l’estrazione e la lavorazione della pomice sul posto, si ammala di silicosi anche la popolazione dei due paesetti dell’isola di Lipari, uomini che alle cave non lavorano, le donne chiuse dentro i magazzini, pestando la pomice con le pietre piatte e levigate dal mare. Oggi vi sono perforatrici, carrelli coi binari, tapis-roulants e mulini che riducono la pomice in granulato e polvere finissima.

Questi mezzi meccanici, moderni provocano costantemente quelle che gli operai chiamano “fumate bianche”. Essi lavorano sempre avvolti in queste brume micidiali. Certo, dovrebbero usare le maschere, e le ditte le hanno comprate. Ma gli operai non riescono a sopportarle per più di cinque minuti: per il caldo, per la difficoltà di respirazione, per la costruzione e pressione che esercitano sul viso.

Gli abitanti dei due centri vivono dentro la pomice. E ora, ad Acquacalda, la società Italpomice vuole impiantare un altro grosso mulino in pieno centro abitato, a ridosso delle scuole elementari. Gli abitanti di Acquacalda non vogliono questo mulino, si sono ribellati, hanno mandato delle petizioni alle solite autorità competenti. Le quali ancora non hanno fatto sapere quali decisioni prenderanno.

Le montagne di pomice non si vedono dagli alberghi gremiti di Vulcano, né dal porto di Lipari intasato di “barche” forestiere, né dalla villa del musicista Sergiu Celibidache, a Quattrocchi, l’alto poggio da cui si godono sublime visioni e infiniti orizzonti; né da tutta la costa sud-est e di sud-ovest dell’isola affollata di turisti. Per vederle, bisogna fare tutta Marina Lunga, traversare il tunnel sotto il Monte Rosa e arrivare fino a Canneto. Canneto già comincia a biancheggiare. Alle spalle di Canneto è il Monte pelato, il monte grigio-bianco di pomice con tra le gole radi cespugli verdastri.

Oltre Canneto, la strada si arrampica a serpentina verso l’alto. Si passa per Capo Rosso, Pietra Liscia, Porticello, Campobianco. La stradina asfaltata è come una passatoia sul soffice bianco. Blocchi e schegge di ossidiana affiorano tra la polvere. Le vetrine del museo di Lipari hanno mucchi di lame di ossidiana. E il prof. Bernabò Brea, sovrintendente alle antichità, che ha messo su questo museo esemplare, spiega, da un cartello appeso al muro, che questa pietra, duttile e tagliente come il vetro, più accessibile della selce, è stata una grande risorsa per gli uomini del neolitico che in quest’isola dimoravano: serviva per la pesca, per la caccia, per raschiare le pelli, forse anche per tosarsi e radersi.

A Campobinanco, a sinistra, sul lato della montagna tagliata ad anfiteatro, vi sono le bocche scure delle gallerie, le aperture ad arco dei cunicoli che corrono dentro le gallerie o sparsi qua e là per il costone.

I carrelli corrono sferragliando sui binari, scaricano sui camion portano il materiale ai mulini. C’è scritto dappertutto PUMEX, sui camion, sulle bocche delle cave, sui mulini. E’ la società che estrae lavora e commercia la pomice in questa zona. E’ una società per azioni di recente costituzione che raggruppa vecchie ditte a nome collettivo. Sette azionisti della società fanno parte del consiglio comunale di Lipari. Questi azionisti-consiglieri sono fermamente convinti che il futuro dell’isola è nella pomice e non nel turismo. “I giovani devono lavorare alla cave e non negli alberghi”. Ha affermato il maggior azionista, il dottor D’Ambra, in un comizio. Questi sette consiglieri-azionisti della Pumex sarebbero virtualmente ineleggibili, perché concessionari di beni di proprietà del Comune, ma contro di loro non è stato avanzato nessun ricorso. Ricorsi invece sono stati avanzati contro due consiglieri sindacalisti, uno dipendente della società elettrica e l’altro dipendente del consiglio antitubercolare.

Questa dei concessionari delle cave di pomice di Lipari che sono contemporaneamente consiglieri comunali, o strettamente legati a consiglieri, e difesi, contro le rivendicazioni altrui, dal municipio, è una vecchia usanza, quasi istituzionalizzata. “Si va poi al colmo della ingiustizia e della empietà, quando con le subdole ed indegne arti del mendacio, e delle sorprese violenti, si giunge audacemente a fabbricare e dar corpo concreto ad un mostruoso monopolio commerciale, come quello che venne organizzato in Lipari per la pietra pomice” scriveva nel 1889 l’avvocato Antonino La Rosa, giurista e storico. Il quale usa il termine “empietà” perché il comune di Lipari, le cui ragioni egli sosteneva.

La prima pietra la scagliò il municipio di Lipari che, nel 1838, a un francese di nome Barthe accordò con un contratto la concessione dell’estrazione della pomice e il monopolio esclusivo della sua vendita. Sentite le proteste del vescovo, il povero francese fece di tutto per togliersi di mezzo e arrivò fino in corte di Cassazione per far sciogliere quel contratto. Il municipio, imperterrito diede subito la stessa concessione alla società anonima “Eolia”, che lì per lì si costituì per subentrare al Barthe. Cause e controcause nacquero da questa concessione. Il vescovo sosteneva che quei terreni pomiciferi erano suoi, così com’erano sue tutte le sette isole dell’arcipelago: per donazione di Ruggero il Normanno, avvenuta nel 1084.

Sulla fabbrica della Italpomice sventola ora una bella bandiera a strisce e stelle, la bandiera americana. C’è da credere che attraverso passaggi di pacchetti azionari, la società dipenda ora da gruppi finanziari americani. Vero è però che in cima al pontile che parte dalla fabbrica e si allunga verso il mare c’è anche un’altra bandiera, quella della Repubblica Federale Tedesca. Ma la ragione di quest’altra bandiera crediamo consista nel fatto che l’amministratore unico della Italpomice è rimasto il tedesco dottor Gebhart Raisch, laureato ad Heidelberg e quindi con la guancia ornata, per così dire, da una bella cicatrice.

Il dottor Raisch viene ogni tanto ad Acquacalda. Sta a Messina e a Messina tiene moglie e figli. Il delegato municipale d’Acquacalda ci accompagna per il desolato paese, povero come può essere povero un paese dove i giovani scappano, la maggior parte degli uomini è inabile al lavoro e dove l’unica risorsa sono i pochi litri di malvasia e i pochi chili di capperi prodotti in un anno. I giovani se ne vanno. Sono i padri che li spingono, che li forzano ad andarsene. Si arruolano nella finanza o nella pubblica sicurezza. Il 40-50 per cento della popolazione è affetta da silicosi. Anche se non si fanno tutti visitare, tutti conoscono da sempre i sintomi della malattia.

Giuseppe Saltalamacchia è un invalido di 50 anni, ma ne dimostra 60 e più. E’ grigio, scheletrico, ha i denti corrosi dalla pomice. Ha il 90 per cento di invalidità e una pensione di 85 mila lire mensili. Quando parla gli esce un fischio dalla bocca e ansima. Sa di avere ancora poca vita. Mi dice che gli operai della cava hanno un buon salario, la settimana corta. Però si ammalano subito. Al primo grado di invalidità hanno diritto a una pensione di fame e quindi tutti, anche se ammalati, continuano a lavorare per avere il massimo della pensione e il terzo grado di invalidità. “Ma col massimo di pensione, si ha anche il minimo di vita: qualche anno ancora”.

“Ma questo nuovo mulino glielo facciamo fare – dicono gli invalidi di Acquacalda – faremo di tutto, ci faremo arrestare anche. Non per noi, ma per i nostri figli”. Loro non sanno ancora che cosa decideranno “le autorità competenti”. Loro aspettano il “messaggio”. Il dottor Raisch assicura che il mulino si farà. Il sindaco li rassicura che non si farà.

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LA STAMPA GIOVEDI 13 GENNAIO 1966 - CRONACA TELEVISIVA – CARLO ROSSELLI IN “”STORIA SOTTO INCHIESTA”” RIEVOCAZIONE COMMOSSA E DRAMATTICA DELLA FUGA DA LIPARI VERSO LA LIBERTA’.

Nicola Adelfi CRONACA TELEVISIVA Fuga da Lipari verso la libertà Commossa e drammatica rievocazione di Carlo Rosselli in « Storia sotto inchiesta », alla sua terza puntata, ha confermato di essere un'ottima rubrica, realizzata con scrupolo, di tono altamente civile. Il capitolo di ieri sera era dedicato ad un famoso episodio della lotta contro il fascismo: la fuga dal confino di Lipari di Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Fausto Francesco Nitti. Il servizio si è mosso su due linee direttrici, entrambe chiare e precise: da una parte la ricostruzione della vita al confino, dall'altra la rievocazione della grande figura di Carlo Rosselli, l'animatore del movimento ”Giustizia e Libertà “.

L'autore della trasmissione, Leandro Castellani, e il regista Marco Leto si sono recati a Lipari che è la principale isola del gruppo delle Eolie, a nord-est della Sicilia. Qui, circa quarant'anni or sono, il fascismo esiliò alcuni dei suoi più irriducibili oppositori. Non è stato facile per Castellani e per Leto ricordare attraverso le immagini quell'ambiente di un tempo triste e lontano: non esistono fotografie, men che meno, ovviamente, esistono documenti cinematografici e le testimonianze sul posto (lo sappiamo per esperienza diretta) sono rarissime e incerte. Perché il racconto televisivo si è basato sulle dichiarazioni del sagace e coraggioso organizzatore dell’evasione. Gioacchino Dolci, e di uno dei tre fuggitivi, Nitti; su visione di una Lipari deserta, prevalentemente notturna, con i vicoli male illuminati, le porte sprangate, le lunghe scalette che nell’ombra Perciò il racconto televisivo si è basato sulle dichiarazioni del sagace e coraggioso organizzatore dell'evasione, Gioacchino Dolci, e di uno dei tre fuggitivi, Nitti; su visioni di una Lipari deserta, prevalentemente notturna, con i vicoli male illuminati, le porte sprangate, le lunghe scalette che nell'ombra discendono alla scogliera; e su brani di diario di Carlo Rosselli detti da una voce fuori campo.

Come si vede, il materiale « spettacolare » era quasi nullo. Eppure i due autori, a parte qualche preziosità di inquadratura e qualche eccesso di commento musicale, sono riusciti a rendere con efficacia l'atmosfera grigia e tormentosa, fatta di tenui speranze e di interminabili e snervanti attese, che opprimeva i lenti giorni dei confinati: giorni in cui l'unica nota positiva era la solidarietà, l'amicizia, l'affetto fra gente accomunata dall'ardente desiderio di rivedere l'Italia libera. Il documentario è divenuto particolarmente drammatico, di ritmo incalzante, quando Dolci, con molta semplicità, ha narrato le avventurose fasi dell'impresa: la navigazione perigliosa su un vecchio motoscafo, con mare agitato e intralci burocratici, da Nizza sino a Tunisi; la corsa da Tunisi a Lipari per giungere in orario all'appuntamento; l'imbarco, sotto il naso degli sbirri, di Rosselli, Lussu e Nitti; e poi la fuga, il volo verso la Francia e la libertà. Una sequenza tesa, giocata assai bene, dove la rigorosa fedeltà al fatto storico si accordava con una forte carica di «suspense ».

Contemporaneamente è venuta fuori, via via, dalla lettura del diario e dalle testimonianze degli amici, l'indimenticabile personalità di Carlo Rosselli: un uomo, anzi un giovane di 28 anni pieno di coerenza, di dignità, di forza morale che aveva detto di no alla dittatura e alla sopraffazione ideologica, che non aveva rinunciato, come tanti, alla lotta per rifugiarsi in un assenteismo di comodo o, peggio, per piegarsi al compromesso. Il servizio aveva una tragica chiusa: i funerali, in Francia, di Rosselli e di suo fratello Nello trucidati da sicari fascisti. Carlo era appena tornato dalla Spagna dove aveva combattuto nelle file dei repubblicani, contro Franco. Le immagini ci riportavano infine a Lipari, alle acque che avevano visto allontanarsi il motoscafo in quella notte del luglio 1929: una notte — rilevava il documentario — che era veramente da ricordare fra le date della storia italiana perché segnava uno dei primi inizi della Resistenza.

(Il documentario fu proiettato a Lipari nel luglio del 2009 nei giardini del Centro Studi in occasione degli 80 anni della fuga da Lipari di Rosselli, Nitti e Lussu).

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1) BERTARELLI T.C.I. 1909.Coatti

Dei coatti di Lipari dirò solo ciò che ho intraveduto in due visite brevissime che le circostanze non mi hanno permesso di prolungare ed approfondire, l’una fatta adesso, l’altra già dieci anni or sono in inverno. Nulla aggiungerò. Se il quadro pare troppo fosco per essere credibile non posso che dire: andate a vedere.

Una stradetta bastionata a feritoie si arrampica sul fianco della scogliera che domina Lipari, interclusa da postierle vedove dell’antica saracinesca. Il castello che stava sulla spianata non esiste più. C’è in suo posto, sulla grande piattaforma di 300 metri di diametro, un ammasso di casupole cadenti circondate da una cinta, che servono di prigioni notturne per i coatti.

Questi, che sono attualmente, dicesi, circa 500, alla sera verso le 17 debbono presentarsi in Castello e per la notte vengono rinchiusi nei “”cameroni”” . Al mattino escono e sono liberi di girare in Lipari, con certe restrizioni, ove col permesso delle autorità hanno facoltà di lavorare presso i privati quando lo vogliono e soprattutto quando trovano occupazione. Purtroppo, le occupazioni, che non sono numerose, sono quelle di cavatori, macinatori e trasportatori di pomice, faticosamente adatte per pochi. Lo Stato non fornisce loro che alloggio coatto in Castello, e 50 centesimi al giorno per il mantenimento.

Andai in Castello al cader del giorno, guidato da persona che vi ha le grandi e piccole entrate. Entrando vidi un corpo di guardia di soldati e uno di agenti di pubblica sicurezza, ed una casupola chiusa come un baule coi soliti cassettoni di legno alle finestre, sulla cui portineria serrata solidamente, è scritto “Carcere giudiziario”.

LA VITA DEI COATTI ALLE ISOLE LIPARI - Rossana - Rivista mensile del Corriere della Sera. 1908.  1.JPG

LA VITA DEI COATTI ALLE ISOLE LIPARI - Rossana - Rivista mensile del Corriere della Sera. 1908. 2.JPG

UN COATTO. BERTARELLI t.c.i. i cotatti a lipari.jpgdomiciliati_coatti.jpg

 

E’ un deposito per i coatti che hanno commesso qualche reato per cui debbano essere sottoposti ad un nuovo procedimento penale. Vi è pure un carcere disciplinare, che rimase a me inaccessibile per i coatti in punizione. Davanti si apre una lunga stradetta irregolare quasi senza pavimentazione, con alcuni vicoli laterali, formata da tuguri quasi tutti di solo pianterreno, dall’aspetto cadente di lazzaretto abbandonato. E’ un po’ una via di Pompei con intonazione infinitamente più triste perché alla solitudine che parla di memorie grandiose è qui sostituito il formicolo di un’umanità immonda e sofferente.

Tale è l’insieme delle prigioni notturne. Ciascuna di quelle casupole è formata da uno o due “cameroni”. Tirato il chiavistello di una porta mezzo sconficcata, mentre una guardia stava di fuori, entrai in un camerone ove i coatti erano già rinchiusi. Mi si affacciò un grande stanzone lurido, basso, in parte senza pavimento, addossato per due fianchi allo scoglio e perciò da due lati senza finestre. Il terzo è quello d’entrata colla sola apertura della porta. Il quarto ha una finestrella senza vetri ed una comunicazione larga ad arco ribassato che mette in una seconda vasta camera, nelle stesse condizioni d’aria mefitica, di mancanza di luce, di sgretolamento generale di miseria trasudante da ogni angolo.

Metà dello spazio era occupato da pagliericci senza lenzuola, a file di tre o di quattro , non soltanto lungo i muri ma anche in mezzo alla stanza: giacigli sconquassati dall’aspetto sudicio, ricettacoli di chissà quali colonie di parassiti.

Come fantasmi in quell’ombra terra, stavano ritti, perché non vi sono sedie né panche, a guardarsi, gruppi di coatti. Ma mano che il mio occhio si andava adattando a quel crepuscolo di cripta mi sentivo stringere il cuore di dolorosa sorpresa. E’ un’abitazione umana questa? – pensavo.

Qualche parola che io dissi sollevò da parte dei coatti un incrociarsi di proteste contro la loro vita. Pareva che attendessero qualcuno di sconosciuto in cui versare la piena delle loro amarezze perché andassero oltre quelle tristi mura, oltre quelle spiagge mute.

Uscii di là per entrare in un altro camerone. Le stesse cose, le stesse parole, la stessa opprimente impressione di dolorosa sorpresa. Quest’altro camerone è composto di due grandi stanze formanti gomito l’una coll’altra.

La seconda è cieca, il piano del pavimento sta tre gradini sotto il livello della strada. Mi accorgo che non vi sono latrine ma soltanto dei vasi cilindrici alti 50 0 60 centimetri aperte cloache schifose, che appestano le due stanze ove soffocano d’estate e battono i denti d’inverno venti o trenta uomini.

Ma tiriamo innanzi. La mia guida mi spiega che i coatti se ne hanno i mezzi, si raggruppano in sei, otto, dieci; camorristi con camorristi, mafiosi con mafiosi, teppisti con teppisti, così come la loro mala sorte o le male loro amicizie li legano e prendono in affitto sempre nel Castello, dei cameroni di proprietà privata a quattro, sei lire al mese. La cosa è rimasta per me inesplicabile. Non comprendo come case private, le quali sono identiche nella miseria loro, a quelle che dà l’Amministrazione carceraria debbano venir affittate, soltanto per permettere delle riunioni non certo fatte per il miglioramento morale di quei disgraziati.

Entrai in uno di questi cameroni spaventevoli, davvero ancora più spaventevoli che gli altri, poiché il fatto del dover pagare vi stipa ancor più orrendamente i tristi inquilini. Aveva la camera da me misurata le dimensioni di 3,80 per 2,80 con 2,20 di altezza e conteneva sei giacigli. Essa era piena, con un piccolo passeggio tra le due fila di tre. Nel fondo questa camera aveva una latrina di 2 metri per 2 con 1,80 di altezza: cucina e latrina ad un tempo s’intende senza scolo. La camera ed il retro sono entrambe cieche, hanno per unica apertura la porta, chiusa di notte e ventilata dal solo spiraglio di una finestrella a inferriate di 40 centimetri per 60.

Anche nelle case private non udii che reclami, proteste, lamentele senza fine. Da una delle guardiole chiuse un povero diavolo mi diede un allegro “buona sera”. Lo salutai e gli strinsi la mano. Perché? Non lo so, ma davvero in quel momento non l’avrei stretta ad un quest’urino.

E ancora: perché? Non è più alto la responsabilità di crudeli e inutili sevizie?

Sull’estremo limite della piattaforma del Castello vi è una gran chiesa, la Matrice di Lipari. Entrai a vedere. E’ di una delle solite chiese meridionali , barocche, tutte imbianco candido a fondi celesti, senza valore artistico. Soltanto pittura è interessante. Comparve un pretino giovanissimo e gentile che mi accolse e mi mostrò le cose più sciocche con una compunzione ed una serietà che stentavo a prendere sul serio. Il sagrestano accese le candele alla nicchia di un san Vincenzo artisticamente deplorevole. Mi mostrò anche un pallio in argento di nessun valore ed una “tela di Raffaello dipinta su legno” da un Buonascopa qualunque. Queste sciocchezze abituali alla vista dei monumenti dove non c’è niente da vedere, mi riposarono un po’ lo spirito fisso ai coatti. Il coro invece e una sagrestia tutta intagli di noce, sono abbastanza belli.

Dal portone della chiesa, volto ad occidente, filtrano, strisciando il suolo, gli ultimi bagliori del sole morente, e rifrangendosi nei prismi di cristallo dei lampadari, dipingono sugli stalli severi, immersi nella penombra, vagolanti spettri, ondeggiamento di luci variopinte.

Sotto il coro, in una cripta, stanno ritti addossati alle pareti fredde, gli scheletri trentadue canonici come una macabra pittura cui lo spirito sovreccitato prestasse il rilievo del vero. Orrida visione di femori e di piedi mal composti, di braccia slogate, terminanti in mani cui sono cadute le falangi, di spaventevoli teschi in berretta nera. Di mandibole sgangherate, gli alveoli semivuoti, coi denti superstiti orrendamente sporgenti; minacciosa atavica espressione di guerra e di odio. Ancora penso: homus homini lupissimus.

2) Grazie alla Biblioteca Nazionale Braidense.

LA VITA DEI COATTI ALLE ISOLE LIPARI - Rossana - Rivista mensile del Corriere della Sera. 1908.

LA VITA DEI COATTI ALLE ISOLE DI LIPARI.

Al sud del mar Tirreno, tra la Calabria e la Sicilia, sta il gruppo delle isole Eolie e Lipari, chiamate anticamente col primo nome perché una vecchia leggenda ne faceva la dimora di Eolo, re dei venti, e giustificava con la presenza di questo dio le rapide e continue alterazioni delle correnti atmosferiche.

I gruppo è composto di sette isole: Stromboli, Panaria, Salina, Filicudi, Vulcano, Alicuri e Lipari; da quest’ultima, più grande di tutte, prende il nome l’arcipelago che ha intorno a sé una corona di altre dieci isolette minori.

Stromboli e Vulcano hanno il loro omonimo in perenne eruzione, le altre isole invece sono come il vuoto sepolcro di un’antica divinità; il silenzio che le attornia incombe fatalmente e stupisce il visitatore, che si arresta ammirato davanti a quello spettacolo indimenticabile di selvaggia bellezza. Dagli enormi muraglioni di tufo, delle vere montagne di lave frantumate, scorie e pietre di un color rosso basaltico ammantano gli antichi vulcani ora spenti; delle rocce nere e lucenti sbucano qua e là mentre si scorgono ancora le vestigia delle correnti di lava che precipitarono al mare. Frequenti gole misteriose si aprono e lasciano zampillare impetuosamente delle acque minerali i cui vapori solfurei imbiancano e scompongono tufi e lave come nelle zolfare di Pozzuoli, spargendo un odore metallico ma non disgustoso.

Nessun punto pittoresco d’Italia o della Svizzera o dell’Egitto può offrire un quadro più impressionante di questo: avvallamenti dolcemente inclinati verso il mare, monti alti oltre 600 metri che si elevano a picco, creste frammentate di rocce candide e scintillanti sotto il sole dove i mille barbagli delle pomice si frangono come diamanti, vigneti coltivati lungo le falde dei vulcani estinti, olivi meravigliosi contorti e difformi come spasimanti di vite………

Chi desiderare visitare queste isole deve rinunziare a qualsiasi speranza di comodità di viaggio, deve rassegnarsi e andare senza troppa fretta a dorso d’asino, ma in compenso quale incantevole spettacolo! Dalle acque di San Calogero al Campo Bianco è un succedersi continuo di panorami, dove i monti, gli ubertosi declivi e il mare hanno una nota originale che ricorda le rive di Nazaret e la terra di Palestina.

La solitudine e il silenzio sono così profondi così suggestivi, che pare che le onde stesse frangendosi sugli scogli mitighino il loro rombo possente per non turbare l’incanto.

Posta su tre coni vulcanici spenti, accidiosamente specchiantisi sul mare, sia la vecchia città di Lipari che ebbe, un tempo, alta rinomanza e per le sue miniere di allume provenienti dalla natura vulcanica del suolo e per l’abbondanza delle sue sorgenti termali, che furono meta di principi e di nobili desiosi di salute e di riposo.

Un versante dell’isola è aspro e diruto, l’altro adorno del verde-cupo delle carrubbe e della elegantissima vite chiamata malvasia, dalla quale si spreme il profumato vino che corre anche oggi tutti i mercati del mondo. A destra il grande Campo bianco, chiamato così per la pomice candida che si estrae con fatica e che trovasi in commercio sempre più ricercata. Accovacciata sta l’antica Liparus, che i pirati più volte devastarono, ma che Diana sempre protesse in virtù del tempio a lei dedicato. Così per secoli la città potè mantenere i suoi commerci, cioè il vino di malvasia, le uve secche, i fichi, l’olio, la pomice, lo zolfo l’allume, il pesce secco furono una grande sorgente di ricchezza che giustifica il suo nome di Lipara, cioè grassa.

Anche, sotto l’Impero romano era quest’isola destinata come terra d’esilio pei delinquenti politici, ed oggi essa ospita nel suo castello oltre 560 coatti, raccolti tutti nella penisola italiana.

Sopra un’alta roccia che si alza a picco sul mare, mostrando le sue inaccessibili scogliere di basalto, si leva l’antico maniero normanno diroccato, smantellato ma terribile ancora ed imponente. Vi si accede per un lungo andito ad arcate a sesto acuto di meravigliosa fattura e i lastroni di pietra rossastra che formano il pavimento portano ancora l’impronta delle zampe ferrate dei cavalli normanni.

Bisogna con la fantasia immaginare una città squassata dal terremoto o distrutta dai secoli, una seconda Pompei, dove le mura e gli archi atterrati, le vie accidentate, gli alti starti di pietre e calcinacci rendono malagevole il cammino; una città morta, dove delle vigili scolte ancora passeggiano con le armi in pugno……….ecco lo spettacolo che si presenta a chi sale per visitare il castello di Lipari.

Dentro antri grandiosi ma cadenti, stanno delle enormi stanze, scrostate dalla calce, col pavimento di terra battuta, il soffitto a volta, nere, sporche, rigurgitanti d’animali schifosi e che sono adibite a dormitori per i coatti. Sugli spalti secolari non ancora distrutti, tutta una fioritura miserevole e ridicola di piccole fabbricazioni fatte dai condannati con creta e vecchio materiale, con porticine, finestrini, scalette irrisorie che assomigliano quasi ad una malattia vergognosa uscita dalle antiche muraglie del luogo.

Quattro chiese e l’antica cattedrale di Lipari sono chiuse dentro le mura del castello. Le loro porte sono sbarrate con spranghe di ferro e sono nell’interno, assai bene conservate, ricche di buoni dipinti di Alibrando da Messina e di Giovanni Barbera di Barcellona. Queste chiese attestano del luogo soggiorno dei gesuiti e dei padri francescani; nella cattedrale, pregevole e nota agli studiosi d’arte, è la bellissima sacrestia tutta rivestita di legno, finemente intagliato con un soffitto dove gli affreschi di un ignoto pittore sono artisticamente lumeggiati dai riflessi del mare che si frange e spumeggia sotto l’ampio balcone posto a 125 metri di altezza.

Però la parte esteriore delle chiese è in uno stato miserando; l’ira e lo sfregio dei coatti si sono sbizzarriti nella forma più vandalica che si possa immaginare. Gli scalini per accedere sono spezzati, sbocconcellati, corrosi dal tempo e dalla furia umana; le porte qua e là bruciate mostrano i rattoppi e le spranghe di solido ferro poste per salvare i tesori dei reliquari lì dentro conservati; i campanili atterrati, i muri coperti d’iscrizioni oscene ed ingiuriose, la sporcizia che corre lungo tutto il muro esterno è messa in armonia con quel luogo di desolazione e di pena, dove tutti i detriti umani sono riuniti e costretti a vivere in comune in una pericolosa ed immorale promiscuità.

Quale larga messe di esempi agli studi criminali presenta questo luogo! Se qualcuno volesse osservare tutta questa deteriorata produzione umana, potrebbe fare uno studio giuridico sociale non indegno dei nostri tempi, poiché tutti i delitti, tutte le colpe, le psicopatie e le deficienze qui sono rappresentate, è un campo sperimentale che indisturbato svolge la sua fatidica parabola.

Orbene, come vivono questi 560 sciagurati?

Una compagnia di soldati di fanteria, un plotone di guardie di questura, un plotone di guardie di mare, un delegato, un maresciallo e due brigadieri sorvegliano i coatti per quello che riguarda l’evasione e la loro vita nell’interno del castello; per il resto, essi sono abbandonati a sé stessi, ai loro istinti, ai loro vizi, senza nessun criterio educativo, senza nessun obbligo al lavoro, senza nessun rudimentale tentativo di correzione.

Alle sette del mattino suona la diana che li caccia dal dormitorio, la pulizia di questo è affidata al caporale che deve stare attento perché ognuno faccia il suo giaciglio senza asportare oggetti di biancheria e coperte; queste sono cambiate ogni venti giorni e presentano il ributtante spettacolo della loro sporcizia cosparsa d’insetti che come vampiri succhiano il sangue di quei tristi abitatori.

Alle dodici è la distribuzione della Massetta, cioè la distribuzione dei cinquanta centesimi che il governo paga ad ogni coatto per il suo mantenimento. Mezza dozzina di soldati con la baionetta innestata e altrettanti questurini armati di rivoltella si schierano in una stanzetta al pian terreno situata sotto l’avanzo di un’antica torre.

In quella stamberga diruta ci sono due porte; fra l’una e l’altra sono tirati i cordoni e nel mezzo un tavolino sul quale sono schierate 560 mezze lire di rame…. null’altro. Né sedie, né mobili, né alcuna cosa che richiami la dignità dello Stato o quella della legge. Il brigadiere fa l’appello, uno alla volta passano davanti al tavolo e ricevono lo spillatico, continuando poi a camminare escono dall’altra porta. Impossibile dunque il furto, impossibile la ribellione, l’attentato, inutile ogni insidia. Gravi o sorridenti, accigliati od ironici, vanno l’uno dopo l’altro e in quell’impressionante defilè di cinismo e di miseria offrono allo sguardo dell’osservatore quanto avvi di più rivoltante nei detriti della razza umana.

Un lontano barlume di sentimento si manifesta nell’ora di distribuzione della posta.

Certi occhi si fanno attenti e gravi, qualche occhio si vela, una curiosità vivisima accende tutte le facce…..Sono le notizie del continente! Osservai un giovinotto alto e biondo di bell’aspetto che con atto felino si appartò dai compagni per sapere quanto conteneva una lunga lettera che egli leggeva compitando. Altri delusi o irritati, dopo qualche minuto, si disperdeva sghignazzando.

Il resto della giornata essi sono completamente liberi. Quelli che vogliono lavorare possono farlo tranquillamente; infatti moltissimi sono occupati nelle cave di pomice, nei mulini, nel porto e questi riescono a guadagnare anche tre lire al giorno. Ma a che giova? Nessun senso di economia o di ordine è in loro; si notano rarissime eccezioni di invio di denaro alle famiglie o alle donne, che quasi sempre hanno abbandonato sul marciapiede di qualche città; per la massima parte essi consumano quanto hanno guadagnato, mangiano, bevono, giocano, finchè all’Ave maria ubriachi cadenti, senza un soldo e con la bocca piena di bestemmie, si ritirano dentro il castello dove suona la ritirata.

E gli altri, quelli che non lavorano?

Neghittosi, letteralmente coperti di sudiciume, stanno con indolenza stesi al sole lungo le vie di Lipari, o sulle panchine del porto, o addossati alle macerie della rocca, vivono in un pauroso letargo da quale sortono o per rubare o per uccidere.

Un sellaio si è preso uno stanzino in una via della città e, quando non ha bevuto troppo lavora e canta divertendo i passanti con certi topi che ha messo in una gabbia circolare, ed ha ammaestrati. Un napoletano vivacissimo fa il venditore ambulante; con la mimica speciale dei suoi concittadini egli offre al pubblico i più svariati e stravaganti oggetti: un ombrello, non perfettamente nuovo, delle stoviglie da cucina, dei cappelli; ma soprattutto vende nascostamente le scarpe che l’amministrazione dello Stato passa ai coatti perché non vadano scalzi.

Questo commercio frutta moltissimo a Lipari. Ogni sei mesi i disgraziati hanno un paio di scarpe ch’essi vendono immediatamente, comperando invece per pochi soldi delle vecchie ciabatte.

Un tipo interessante è questo abruzzese , maestro di scuola completamente sordo. Per la modesta somma di una lira al mese, egli fa lezione tutti i giorni a quei ragazzi che vogliono imparare a leggere e scrivere. Guardandolo intento al suo ufficio si direbbe col poeta:

La faccia sua era di uom giusto

Tanto benigna anca di fuor la pelle

E d’un serpente tutto l’altro fusto…..

Infatti egli gode fama di uomo astutissimo; è insuperabile nell’arte di combinare dei colpi finanziari; in apparenza paziente e mite, egli passa le sue giornate in una specie di sottoscala, dove su due tavole sostenute da sedie egli elabora le cinque classi elementari suddivise in 22 ragazzi che largamente approfittano della sua sordità per fare un chiasso indiavolato. Calmo, indisturbato, egli intanto macchina delle combinazioni e dei piani che danno poi lavoro ai colleghi del castello.

Molti coatti sono impiegati come servi nelle case dei privati e più specialmente nelle case dei molti francesi che sono appaltatori delle cave di pomice; (Si dovrebbe trattare della ditta Bacot); altri sono barbieri, calzolai, fornai, orefici, pescatori….e si spargono dall’alba al tramonto per le vie della città, svolgendo la loro fatica fra la diffidenza e il disprezzo della popolazione, sfuggiti da tutti senza che mai una parola amorevole o cortese venga loro rivolta.

Essi non sentono che comandi aspri, rimproveri duri e le invettive dei compagni; scalzi mal vestiti, con gli occhi torvi e le teste arruffate essi lavorano, ma con odio, con collera, con furore quasi, e la sera con l’anima satura di fiele si gettano su quel sacco di vecchia paglia, popolata di luridi insetti sognando la coltellata che li liberi dalla vita.

In questo terribile ambiente , fatto di tutti gli avanzi della scostumatezza e della miseria morale, fervono passioni e vizi di una violenza ripugnante. L’usura lo strozzinaggio si esercitano con attività dissanguante causati e mantenuti dal gioco d’azzardo; fra un’ora e l’altra si prestano quattro soldi per verne sei, se ne prestano sei per averne dieci, e quelli che lavorano nelle cave sono i più sfruttati, perché nella loro furia distruggitrice del denaro essi giocano tutta la loro settimana, senza neppure contare quelle lire che faticosamente hanno guadagnate.

Una statistica originale ce li presenta divisi in regioni; ad esempio, i veneti sono più miti, si limitano a lavorare per bere e quando sono presi dal vino si gettano a letto e stanno tranquilli.

I calabresi e i siciliani rubano tutto quello che capita loro sotto mano. Quando nei dormitori, nella infermeria o in città avvengono dei piccoli furti, le guardie agguantano i calabresi e i siciliani certi di trovare fra loro la refurtiva.

I romani e i romagnoli sono sanguinari, l’uso del coltello è per loro una necessità organica. Nei pomeriggi estivi, sugli spalti del castello sono spesso disarmati e puniti perché tirano di scherma con il coltello a serramanico mostrando in questo esercizio una destrezza spaventosa. Ma pochi giorni dopo essi sono ancora in possesso della loro arma preferita; per comperare questo infido compagno essi si sottopongono a qualsiasi lavoro, a qualsiasi privazione.

I napoletani sono gli organizzatori delle molte società di ladruncoli, manutengoli, spacciatori di refurtiva, ecc.; essi esercitano la camorra con quella audacia e prepotenza che li rende poi temuti e rispettati; sono per lo più oziosi, spendono con una superiorità insolente i danari dei loro protetti.

Questa ciurma costretta nel breve spazio del castello diroccato, nella tristezza di quel luogo che contrasta con l’incanto dal panorama stupendo che la natura stende ai suoi piedi, questa ciurma degenerata, purulenta e peccaminosa che vive a spese dello Stato, ogni tanto si permette dei banchetti succolenti, delle grandi feste che solennizzano per lo più il matrimonio di qualche collega.

La popolazione libera sta in guardia contro i coatti, né mai si stanca di protestare, come può, per il loro soggiorno a Lipari, né mai per nessuna sventura o gioia cittadina si fonde a loro; nell’animo di ogni isolano cresce la pianta della diffidenza e del disprezzo; specialmente le donne sanno che ogni padre, ogni fratello sarebbe pronto a togliere da questo mondo se sospettassero soltanto un’intensa con un coatto. Tuttavia una certa quantità di infelici donne vengono gettate dal continente sulle rive di quest’isola incantata, e poiché i giovani coatti possono sposare e avere una famiglia, sempre però ritirandosi soli la sera al castello, così di frequente accadono questi orribili matrimoni festeggiati con grande schiamazzo dalla ciurma ubriaca. Si può immaginare una cerimonia più umiliante di questo mariage che si compie tra il cinismo e i lazzi osceni di quella gente perduta?

Nessun vincolo sentimentale, nessuna considerazione morale lega i due sposi che spesso si conoscono appena e compiono le formalità del rito reciprocamente canzonandosi e chiamandosi con soprannomi ridicoli o infamanti, mentre attorno suona il dileggio più plateale, l’ironia scomposta di quei seicento incoscienti che nelle loro manifestazioni di gioia rievocano la visione di una bolgia infernale.

Né mai è accaduto che una donna si sia redenta, né che scontata la pena, l’uomo l’abbia portata con sé. La depravazione e l’ignominia sono tali, lì dentro, che nessuno pensa di assumere un dovere o di accettare una responsabilità dando il suo nome e la sua firma ad una donna.

Questa diceva il delegato che mi accompagnava è l’università del delitto; qui oltre alla quotidiana delinquenza spicciola, si organizzano, si preparano dei buoni colpi che si tenteranno a pena finita, e le menti sono messe alla tortura per escogitare qualche cosa di eccezionale, di sicuro, che conduca ad un reato degno di ladri superiori ed evoluti.

Per questo quasi tutti sono recidivi, che dopo breve soggiorno fra gli uomini essi ricadono nelle mani della giustizia, la quale li rimanda con nuove e più lunghe condanne.

Eppure nulla, proprio nulla si può fare per costoro? Questi giovani che hanno dai 20 ai 30 anni potrebbero essere tolti ad una strada delittuosa e sono lasciati per mesi ed anni in compagnia di vecchi incalliti nel vizio che indisturbati tengono cattedra quasi tutte le sere, fomentando con la descrizione della colpa e con l’esaltazione del reato tutti i cattivi istinti e le male tendenze degli ascoltatori.

Perché accumulare e abbandonare a sé stesse in un ozio neghittoso, tutte queste energie che potrebbero essere adibite al lavoro? Se questa immensa rocca normanna, oggi rifugio di delinquenza, dove le macerie, il letame e la miseria s’accumulano paurosamente con le più turpi degenerazioni, dove i gufi e le civette fanno il loro nido, il mare corrode e il vento bersaglia, questa rocca dove 560 uomini languono accidiosi e sbadiglianti nell’inerzia, si tramutasse in un’ampia spianata dominante il mare e attorno corresse un fabbricato semplice e sano che avesse della scuola e dell’infermeria insieme, non sarebbe asilo più adatto per correggere ed educare questi traviati?

Se dell’antica cattedrale partisse una larga strada che conducesse verso monte Sant’Angelo e sulle lave, sulle scorie dell’antico vulcano fossero piantati vigneti, ulivi e gelsi….se si tracciassero degli orti, si scavassero dei pozzi e questa umanità degradata si tramutasse in una colonia agricola, non sarebbe forse compito degno della civiltà moderna e di quella scienza giuridico-sociale tanto discussa teoricamente ma che ancora non ci ha dati i frutti della sua praticità?

ROSSANA.

3) L’isola di Eolo 1915di Fritz Mielert. Con 6 illustrazioni originali.

Il mio facchino si offrì subito a farmi da guida sull’isola ed io rimasi stupito, quando la coppia che mi ospitava mi annunciò con una risata larga e brutta, che quest’uomo era un coatto, ovvero un detenuto. Solo adesso mi sono ricordato la particolarità per la quale Lipari è nota, ovvero che è una colonia penale per detenuti che si sono macchiati di reati gravi, i quali dopo aver scontato la loro pena nel penitenziario dell'Italia continentale, vengono mandati a Lipari per altri cinque anni, dove, sotto stretta sorveglianza, devono affrontare una sorta di fase di transizione dalla prigionia all’inserimento nella società civile.

Per l’isola e per i suoi onesti abitanti questa colonia penale naturalmente non rappresenta né una referenza né un vantaggio, anzi fa sì che l’isola, che vale la pena visitare, sia di fatto evitata dai visitatori forestieri. I Liparoti temono quanto disprezzano i coatti. Soprattutto la parte femminile della popolazione, austera e pia, li chiama sterrati („I senza radici“), ed hanno tutte le ragioni per farlo, in quanto da queste parti furti e altri crimini contro le persone da parte di questi coatti non sono una rarità. Il tipo che mi accompagnava e che la coppia mi aveva presentato come affidabile, aveva circa 35 anni ed era di Genova. Da me interrogato, mi rispose che era stato condannato a cinque anni per un reato contro le donne, che aveva già scontato la pena nel carcere di Genova e che ora si trovava a Lipari da tre anni. Dato che voleva accompagnarmi a Canneto, il paese vicino Lipari, e a tal scopo era necessario avere un permesso dal comando, mi recai insieme a lui nella cittadella fortificata. Un vicolo stretto e tortuoso conduceva ad una porta tipica di una fortezza, sotto la quale era di guardia un soldato. Qui il detenuto ricevette il suo documento ed io ebbi l’opportunità di conoscere più da vicino il mondo dei coatti. Si tratta di una piccola cittadella con vicoli scuri, dove la rara vegetazione presente non ravviva le rocce a picco ed il muro di pietra. Una sorta di caserma è provvista di sedici grandi sale, in cui vivono e pernottano circa 800 detenuti. Naturalmente l’arredamento degli interni è molto povero, l’illuminazione è ovunque scarsa. Nei vicoli si trova un certo numero di negozi di cianfrusaglie, barbieri e taverne, che sono gestiti da ex detenuti. A questi ultimi è consentito, purché non abbiano pene pendenti, di restare in città ad eccezione della domenica e dei giorni festivi, di mattina a partire dalle otto e di pomeriggio fino al suono della tromba alla sera. Possono spostarsi nel circondario solo se sono in possesso di un permesso e in compagnia di persone affidabili. A mezzogiorno alle ore 12 c’è l’appello, in occasione del quale essi ricevono il loro compenso giornaliero che ammonta a 50 centesimi (40 Pfennig). Essi sono tuttavia liberi di guadagnare denaro in città, ed è così che alcuni detenuti hanno la possibilità di guadagnare fino a 4 lire al giorno.

Le punizioni sono molto dure, il che naturalmente è opportuno, quando si ha un’orda di 600-800 uomini, tra i quali si trovano le peggiori categorie di criminali. Anche i reati minori vengono puniti con l‘arresto che dura settimane, con la reclusione in celle buie ed isolate, e con l’uso della camicia di forza e delle catene. È deplorevole che le persone non vengano richiamate a seguire degli orari di lavoro. I più trascurati tra essi preferiscono naturalmente l’ozio a qualunque tipo di lavoro anche se leggero, ed hanno un effetto negativo anche su quei compagni che hanno ancora qualche speranza di recupero. La cosa brutta è che qui convivono tutti i tipi di criminali e quindi si crea una vera scuola del vizio. Questi coatti costano allo Stato italiano una somma considerevole. Il solo approvvigionamento della colonia penale di Lipari comporta una spesa giornaliera pari a 400 Lire (320 Marchi), il che significa un onere finanziario annuale per il bilancio di 150.000 Lire solo per il cibo. Oltre a Lipari, l’Italia ha altre sette colonie penali. Deplorevole è anche il fatto che anche coloro che sono stati condannati alla reclusione per reati politici siano mandati nelle colonie penali, dove sono costretti a convivere con i peggiori criminali. I detenuti più facoltosi indossano abiti borghesi, anche se sobri, essi sono comunque soggetti come tutti gli altri alle stesse rigide regole.......................

 

 

 

La Libertà giornale della concentrazione antifascista 19.02.1928

DALLA GALERA MUSSOLINIANA Un giornalista inglese visita le isole maledette

Vincent. Sheean, reporter inglese che vide troncate dalla censura dalle potenze europee e dalle autorità cinesi le sue corrispondenze dall’Oriente giallo, ultimamente ha visitato l’Italia e le isole maledette nelle quali Mussolini ha rinchiuso i suoi oppositori, e manda al suo giornale degli articoli che tutta la stampa borghese associata alla North American Newspaper Alliance, compresa l'Etoile Belge, di Bruxelles, dal quale traduciamo, in questi giorni riporta. Da queste corrispondenze, pur attraverso comprensibili e chiare inesattezze, il pubblico, anche il più indifferente al fascismo, sta apprendendo quale regime di onta e di ignominia sia il regime fascista. E diamo la parola al giornalista.

Una visita all’Isola di Lipari
II mondo è un altro pianeta per gli esiliati di Mussolini sparsi nelle 70 isole vulcaniche del Mediterraneo, al largo della costa siciliana. E’ là che l'Italia ha imprigionati i suoi più importanti detenuti politici.

La. cattività di questi esiliati è regolata con una severità feroce dalle camicie nere e i prigionieri non hanno comunicazione con l'esterno che a mezzo di rare missive.
I visitatori non possono sbarcare.
I fogli mussoliniani dicono che il numero dei confinali si eleva a seicento, tutti i gruppi segreti della opposizione dicono, ed è il solo punto sul quale essi concordano, che il numero reale è di almeno 2.300.
I confinali appartengono a tutte le classi sociali, dal più umile lavoratore al più ricco industriale e dall'anarchico al nazionalista, compresi i preti. Essi subiscono il « confino politico» per un periodo che varia da tre a dodici anni.
Le isole sono sprovviste di acqua e frequentemente di qualsiasi vegetazione. Una popolazione scarsa le abita, vivendo della pesca e. nei punti più favoriti, della coltura dell'olivo e della vigna. Questa popolazione è in questo momento tenuta in perpetuo sospetto.
Ci si può fare un'idea di questa «polvere di Siberia » dal racconto seguente.

Avevo voluto visitare due esiliati politici miei amici : Morea e Mario Magri.
Morea, repubblicano, era membro del parlamento italiano ; Magri fu il capo di stato maggiore di Gabriele D’Annunzio durante le giornate di Fiume. Tutti e due hanno fatto la guerra e sono decorati.
Due anni fa Morrà mi salvò la vita al Marocco traendomi fuori da un’imboscata quando un accesso di malaria mi aveva tolta la forza di camminare. Recentemente mi scrisse di essere esiliato a Lipari e che poteva andarlo a trovare. Mi sono dunque messo in viaggio. A Roma mi apparve chiaramente che non avrei mai ottenuto l'autorizzazione ufficiale ili andare a Lipari, e allora risolsi di farne senza. A Napoli e a Messina i miei sforzi arrivarono a constatare che i vapori settimanali e bisettimanali che vanno alle isole non ammettono alcuno straniero a bordo senza l’autorizzazione di Mussolini. I pescatori e padroni di barca della regione cambiavano di colore alla sola idea di prendermi con essi. Ma a Milazzo, piccolo porto sulla costa settentrionale della Sicilia, c’è un battello che fa il servizio postale compiendo la traversata tutti i giorni. Dopo una discussione, soprattutto finanziaria, potei imbarcami per Lipari.
Ma gli indigeni delle isole sono rigorosamente perquisiti quando sono ammessi a bordo, la mia sola fortuna sarebbe stata di passare prima del gruppo. Feci un inutile sforzo per riuscirvi, disgraziatamente la polizia mandò una barca incontro al battello, mi prese e passai il resto della gior nata fra due carabinieri.

Rimasi a Lipari ore, poi fui condotto a Salina per tornare ancora a Lipari.
Il commissario di polizia avvertì Morea e Magri che avevo tentato di andarli a visitare e permise loro di mandarmi un biglietto che fu sottoposto a censura. Questo biglietto, di apparenza indifferente, lasciava trasparire un accento di disperazione che avrebbe fatto onore a un russo.
Ero a tre metri dallo sbarcadero e potevo vedere tutto ciò che si trovava nella più prossima viuzza della piccola isola, ma Morea e Magri non furono autorizzati a farsi vedere. Al tramonto, mentre il battello si apprestava a partire, un giovane isolano venne furbescamente a mettersi non lontano da me. I miei carabinieri non facevano, in quel momento, attenzione alcuna alla mia persona, l’isolano coraggioso si sporse sopra il parapetto. E avendo l'aria di guardare il mare azzurro e il cielo morente mi lanciò queste parole : « Morea e Magri sono dispiacenti di quanto accade. Non vi si lascerà sbarcare in nessun luogo. Vi ringraziano molto e vi salutano. Vi consigliano di abbandonare al più presto questa parte della Sicilia. Più presto che potete. Non rispondetemi ». Seguii alla lettera il suo consiglio.

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Come sono divisi i confinati
La più importante delle isole della «Siberia fascista » è l’isola di Lipari, nella quale sono detenuti quattrocento politici e giornalisti. Un centinaio di prigionieri di queste categorie sono sparsi nelle isole Filicudi, Alicudi e Salina. Il resto occupa le isole Marittima, Levanto e Favignana all'ovest della Sicilia, Lampedusa, Linosa e Pantelleria al sud, Sant'Antioco e San
Pietro al sud ovest della Sardegna, Ustica al nord di Palermo, e infine Santo Stefano, Ventotene, Ponza e Calmarola nel golfo di Gaeta.
Di più, è stata formata nella provincia di Nuoro in Sardegna, una nuova colonia di prigionieri venuti dalla regione Triestina e da Trieste. Quelli di Trieste sono dei nazionalisti slavi che fanno delle obbiezioni alla «rigida nazionalizzazione» del programma fascista. Lipari è occupata dalla aristocrazia dei prigionieri, quelli che in ragione della loro popolarità e della loro influenza, devono essere trattati con particolari riguardi.
Si dice che molti dei prigionieri di Lipari sono vittime di «vendette personali ».Morea. per esempio, è considerato esiliato a causa della inimicizia del potente generale Balbo, ex comandante in capo delle camicie nere. Morea obbligò Balbo a dimettersi nel 1924, durante l’affare Matteotti, che sollevò tanta passione. Egli aveva pubblicato delle lettere autentiche di Balbo ai suoi dipendenti raccomandando loro l’uso della violenza.
A Ustica sono confinati i più pericolosi Comunisti, gli anarchici e i socialisti estremisti. Fra essi si trova Bordiga. capo del partito comunista, come pure Cilla e Leonetti, noti scrittori comunisti.
L’isola di Ustica non raccoglie soltanto i prigionieri più pericolosi, ma essa è sottoposta al più severo dei regimi. A Ustica le camicie nere regnano sovrane e la polizia è inoperante, e benché le camicie nere ma da quando sono costituite in « milizia » si siano assoggettate di più alla disciplina esse sono ancora bollenti e sprezzanti della legge, come ne testimonia l’esecuzione sommaria di Spartaco Stagnetti che rifiutava di fare il saluto fascista.
II generale Bencivenga, deputalo e uno degli eroi della guerra, è stato inviato ad Ustica tre mesi or sono per opposizione a Mussolini. Un'altra personalità italiana, il deputalo socialista Todeschini. aveva accusato il ministro delle finanze Volpi di certe operazioni tenebrose circa alcuni lavori pubblici a Venezia, lo stesso.
L’arcipelago ha pure l’onore di ricevere i fascisti che sono incorsi “nella collera del Duce. Fra essi, il gruppo De Vecchi di Torino, che terrorizzò il Piemonte quattro anni fa. Essi erano gli amici e i luogotenenti del conio De Vecchi, attualmente governatore della Somalia, quando questo dignitario era il dittatore del Piemonte. La violenza di questa Cricca prese tali proporzioni che Mussolini risolse di spezzarla ; mandò il capo in Africa ed esilio i peggiori gregari. Alcuni dei membri della banda De Vecchi commisero, come essi si vantano, quattro o cinque « delitti patriottici». (A simiglianza del famoso Domini, che dichiarò di aver assassinato nove uomini « per il sua paese »).
Un’altra celebrità fascista che «piglia
il fresco» nell’arcipelago pelasgico è Ugo Clerici, ex direttore del servizio privato di informazioni di Mussolini. Fu mandato in esilio lo scorso autunno per aver tentato di vendere certi documenti compromettenti ad una potenza straniera.
Nelle isole, di Santo Stefano, Ventotene, Ponza o Carnarola, sono detenute persone accusate di essersi date agli stupefacenti o di aver commesso dei «delitti sociali». Questi ultimi non figurano sulla lista dei detenuti politici, ma siccome sono tutti più o meno antifascisti, si può contarli come tali.
Infine a Maritiima, Levante e Favigna sono detenuti una cinquantina di ricchi proprietari i cui delitti non sono chiaramente definiti, fra essi il multimilionario commendator Grandi di Torino al quale è stata confiscata una parte della fortuna.

La “Siberia” soleggiata degli esiliati politici italiani

La vita condotta dagli esiliali politici nelle settanta isole « Siberie » italiane
è più facile di quella dei prigionieri russi nella vera Siberia. Ciò significa che gli esiliati italiani non sono sottoposti ai lavori forzati o non vivono nelle celle e nelle fortezze. E di più possono godere abbondantemente del sole della Sicilia.
D'estate vanno a fare il bagno nel mare, o fintanto che osservano i regolamenti possono passeggiare liberamente nella zona loro assegnata. Le isole sono tutte piccolissime. di origine vulcanica e quasi sprovviste di vegetazione. L’acqua potabile e i legumi devono esser portati dal continente e dalla Sicilia.

Non esiste alcun ospedale nè alcuna installazione sanitaria.
Sulle tre colline rocciose di Lipari, la più grande isola dell’arcipelago, sono disseminate. una dozzina di baracche lunghe e bianche : sono le abitazioni degli esiliati. A seconda delle dimensione della baracca essi vi vivono in cinque o in quindici. Non hanno domestici e si servono
da soli, ma quelli che posseggono del proprio, sono autorizzati a farsi lavare la biancheria dagli abitanti.

Il governo assegna ad ogni prigioniero dieci franchi al giorno per tutte le spese.
Chi possiede qualche cosa può ottenere l’autorizzazione di spendere quindici lire supplementari. Nessuno può spendere più di venticinque lire al giorno in tutto.
Poco tempo dopo la formazione delle colonie di confino si accorsero che i carabinieri avevano tendenza ad annodare relazioni amichevoli con gli esiliati. Allora essi vennero sostituiti dalle camicie nere. Questo, reclutate specialmente nella classe popolare delle grandi città, costituiscono-una delle principali caratteristiche della organizzazione fascista. Furono esse a somministrare l’olio di ricino, a bruciare le case a distruggere le tipografie, ad impedire il voto agli elettori e ad eseguire tutti gli ordini ritenuti necessari compresovi l’omicidio. Però nel 1924, dopo lo scandalo dell’assassinio del deputato socialista Matteotti, Mussolini si accorse che le camicie nero diventavano un problema di vaste proporzioni. Alcuni battaglioni della milizia furono mandati in Africa per combattere i ribelli. Altri furono incorporati nell’esercito. Lo zelo di queste reclute fu considerevolmente indebolito da queste misure che cambiarono
radicalmente la natura militare delle camicie nero tanto è vero che non se ne vedono più molte per le vie d'Italia.
Ve ne restano sufficientemente però, per impedire qualsiasi gusto all’esilio nelle isole rocciose. Essi sono incaricati di far rispettare i regolamenti, d’impedire ogni comunicazione cogli abitanti al di fuori di quelle necessarie per gli acquisti, e di vigilare affinchè non si produca alcun movimento politico. Quanto all’evasione non c’è neanche da pensarci.
Inutile dire che gli incidenti saranno inevitabilmente numerosi, fin tanto che le camicie nere saranno incaricate della sorveglianza dei prigionieri : la morte di Stagnetti ne è una prova. Gli esiliati che vogliono conservare un atteggiamento di docilità però non sono maltrattati. Essi non possono scrivere che due lettere al mese e devono farla passare dalla censura, non possono leggere che libri e giornali fascisti, sono privati delle loro libertà o delle loro famiglie, stroncati nella loro carriera.

 

 

 

TOURING CLUB ITALIANO rivista mensile n. 8 agosto e n. 9 settembre 1909 ESCURSIONE ALLE ISOLE EOLIE di L.V. BERATRELLI

Gli articoli di Bertarelli sulle Eolie furono riportati anche dalla rivista francese L'ILLUSTRATION-

3 parte

Le case liparote hanno un aspetto prettamente orientale. La maggior parte sono basse, con tetto a terrazzo lievemente convesso per inviare le acque alle cisterne. Purtroppo non vi sono nell'isola sorgenti. Tutta l'acqua che si beve è piovana di regola, neppur grossolanamente filtrata. Vi sono due pubblici serbatoi accanto ai quali furono installate delle piccole pompe col criterio igienico di impedire che nella loro acqua fossero immersi i secchi di tutti, ma, forse per non guastar le pompette, queste sono chiuse accuratamente da uscioli di legno, la cui chiave sarà, credo, al Municipio e così tutti attingono colle proprie corde ed i propri secchielli. Nel nord, al dire dei medici, ce ne sarebbe abbastanza per microbizzare tutta una popolazione; qui pare non sia così.

Nelle pittoresche casette, brillanti internamente di sempre rinnovato imbianco, la pulizia privata lascia a desiderare, non meno di quella pubblica, in troppi siti. Dalle screpolature, assai spesso sismiche che un po' dappertutto fanno capolino alla sua superficie degli intonachi, vengono fuori, specialmente alla sera a prendere il fresco, insetti di ogni qualità che non sono abbastanza entomologo per classificare, ma che vanno dai centopiedi e dai ragni dei quali la dimestichezza non è poi tanto spiacevole, alle blatte e alle cimici di cui guai a preoccuparsi, perchè non si avrebbe più il coraggio di dormire. E le pulci? Che dire delle pulci? D'estate in generale in tutta la Sicilia sono un flagello. Io che ho una pelle da signorina (un po' stantia) finisco a diventarne idrofobo. Nel mio ultimo giro alle Eolie ho però portato con buon successo un piccolo carico di razzia, di quella vera e genuina razzia dalmata che è il simbolo dei sonni tranquilli. Chi mi diede alloggio nelle Eolie deve però aver pensato di me che io sia qualche grande sporcaccione, trovando le lenzuola tutte gialle di un'ignota polvere, che chissà quale diavoleria avranno pensato fosse.

Nulla dico delle zanzare. Ho esperimentato con successo un'ingegnosa armatura di fili di ferro e di garza per installare una zanzariera attacandomi alle colonnette di ferro dei tetti. Ma in molti luoghi i letti constano soltanto di asticelle con paglierecci senza alcun lusso di colonnette ed allora mi sono rifatto con quella piacevole combustione della razzia, mediante la quale le zanzare rimangono imbecillite, precisamente come il viaggiatore, che crede di dormire pacificamente ed è invece soltanto asfissiato.

A Lipari vi sono del resto numerose case di ricchi negozianti, di industriali in vino ed in pomice e di agricoltori che nulla lasciano a desiderare, ma sono case private alle quali naturalmente non può accedere chi vuole.

Io ebbi nella mia recente visita una fortuna che mi mancò la prima volta: quella che il Touring ha pensato ad un console, il signor Filippo De Pasquale, uomo che tra i vasti suoi affari trovò il tempo di viaggiare mezza Europa e che nell'animo vivace, colto e pieno di spirito moderno trae un senso di ospitalità gentile, di cui particolarmente segno e di cui gli rendo qui grazie riconoscenti.

In una sua bella lancia cortesemente posta lascia a mia disposizione con due barcaioli, feci l'escursione indimenticabile di Vulcano. Rasente la costa di Lipari arrivai alle Bocche di Vulcano. Mi avvicinai quanto me lo permise il mare mosso a quella meravigliosa Pietralunga, che si slancia come una colonna dall'acqua a 400 metri dalla riva di Lipari ed a 1600 da quella di Vulcanello.

La punta meridionale dell'isola di Lipari è tutto ciò che di più straordinario possa immaginare la mente di un artista amante delle più selvaggie scene. Il mare ha demolito le grandi cascate basaltiche staccandone delle guglie arditissime, dei campanili che paiono ritti solo per miracolo di equilibrio, ma saldi invece da millenni contro gli attracchi dei marosi furibondi. La punta Crepazza, le Formiche, il Perciato, la Pietra Menalda, ed altre roccie che hanno nomi che non conosco, si presentano l'una dopo l'altra tremende e imponenti, sospese sul capo di chi costeggia questa scenografia magnifica.

Ma più di tutte grandiosa è la Pietralunga, pinnacolo arditissimo isolato isolato nelle onde, eretto da chissà quali profondi abissi a 60 metri fuori di esse (fig. 13).

Nera, imponente, inaccessibile, la Pietralunga è di una bellezza inesprimibile. Io tentai di avvicinarmi senza poter giungere però del tutto al suo piede, perchè il mare agitato me lo impediva. Volate di gabbiani stridenti si aggiravano sul mio capo quasi beffandomi dei miei sforzi, pur veramente eroici perchè la fotografia che presento della Pietralunga è stata fatta tra i capperi e i ruggiti di un mal di mare che ricorderò.

Questa grande colonna oppone tale brusca resistenza alla distesa dei marosi di ponente, che questi si infrangono contro di essa, salendo a grandi altezze. Io ebbi la fortuna, quando dieci anni sono passai le bocche di Vulcano durante un fortunale rimasto memorabile, di vedere un caso raro: le ondate salire dietro la Pietralunga fin sopra la sua cima e scavalcarla con una nube di spruzzaglie bianche che si alzavano certo almeno una trentina di metri al di sopra del suo cocuzzolo.

Straordinario anche è il Perciato (fig. 4) galleria naturale dentro i basalti, abbastanza vasta perchè quando il mare non vi si precipita con violenza si possa attraversarla in barca. La fotografia che ne do mostra quanto pittoresco sia quest'angolo dell'isola. E se lo spazio non me lo vietasse potrei presentarne un'altra: quella del Capo Perciato dell'isola di Panaria, di cui la finestra è ben più vasta (circa una quarantina di metri di altezza per una trentina di larghezza).

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TOURING CLUB ITALIANO rivista mensile n. 8 agosto e n. 9 settembre 1909 ESCURSIONE ALLE ISOLE EOLIE di L.V. BERATRELLI

Gli articoli di Bertarelli sulle Eolie furono riportati anche dalla rivista francese L'ILLUSTRATION-

(2 parte)

Le cave sono in parte comunali affittate, od in parte di proprietà privata: profonde, caldissime nell'interno; anzi talora raggiungono temperature insopportabili. Sono coltivate con metodi vecchi, industrialmente non lodevoli ed igienicamente pericolosi. La loro interna struttura si assomiglia a quella delle solfare siciliane.
Dura vi è l'opera di estrazione, che si fa col piccone; durissimo il trasporto all'esterno, entro sacchi e recipienti di stuoie e di vimini, al quale sono adibiti anche ragazzi giovanissimi evidentemente senza alcun rispetto alla legge sul lavoro (fig. 8).
Producono abbastanza per tutta Europa ed anzi per esportare oltre mare. Dei vapori sono sempre sotto carico a Canneto o ad Acquacalda, dove in grandi molini, di cui vari appartengono ad una ditta tedesca, si opera una cernita di materiale ed in parte la sua macinazione in mezzo ad un pulviscolo folto, persistente, che si diffonde a distanza come una nebbia intorno agli stabilimenti ed è visibile a più chilometri, quasi questi fossero circonfusi di una nube semitrasparente.

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Siccome vi è una tassa comunale di imbarco sulla pomice, qualunque ne sia l'origine, il bilancio comunale di Lipari non ha bisogno di imporre altre tasse. Rara avis! Non di meno non si può dire, almeno da quanto io ho visto, che Lipari si avvantaggi pubblicamente molto di questo fortunato stato di cose. Essa mi è sembrata quest'anno, identica alla Lipari di dieci anni fa, quando un'altra volta visitai le Eolie. Anche oggi trovai l'identica mancanza di comfort e la stessa sporcizia per la quale messo piede nell'Albergo Nazione, che passa per il principale, fuggii in strada inorridito senza saper bene dove avrei posato il mio scarso bagaglio.""

Mi indicarono un altro albergo di cui poi da altri sentii parlare come di un canile, ma mentre mi avviavo fui fermato per la strada da un bottegaio che mi offrì una camera mobiliata dove stetti discretamente. (Tutto del resto è relativo perchè, tanto per accennare un dettaglio del servizio, mi fecero il letto per due giorni verso le 17!).

Non vidi nella pubblica edilizia alcun che di mutato in dieci anni. Dietro la Capitaneria del Porto vi è ancora come allora (dettaglio zoliano ma caratteristico di cui non posso defraudare i lettori della Rivista!) un pubblico ed utile ritrovo. E' costituito da una sal a intorno alla quale corre una speice di divano orientale o gradino, coperto di piastrelle bianche con vaghi disegni azzurrini, opportunamente perforato nel piano superiore da una dozzina di buchi rotondi di trenta centimetri, come una cucina economica . Su questo bel piano si assidono per le proprie occorrenze i cittadini liparoti, conversando piacevolmente dei propri affari, e dimostrano così una grande attività poiché senza perder tempo compiono due servizi. L'ingegnoso monumento vespasiano ritrae particolare pregio dall'esser impostato sopra una grossa roccia quasi a raso del mare, in cui guardano direttamente i sopradetti trafori. Quando c'è un po' di maretta gli schiaffi delle onde battono di sotto in su e il rinfresco deve essere detersivo e delizioso.

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Anni 90 On. Ordile Regione Siciliana disegno di legge per un museo della pomice, di cui articolo Gazzetta del Sud come da foto del 1993.

Dottor Angelo Sidoti il gran lavoro di un progetto di realizzazione programma di riqualificazione e recupero sostenibile delle aree di Cava dell'Isola di Lipari finito nel nulla non per colpa sua.

Dottor Pino La Greca dieci idee per il Museo e Parco Geominerario della Pomice..................

Ma vedrà mai la luce qualcosa ma soprattutto quando si metterà in sicurezza quell'area.

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FRANCOBOLLI EOLIANI

Sino a ora sono tre i francobolli che sono stati emessi dalle Poste Italiane e stampati dall'Istituto Poligrafico della Zecca Statale.

Il primo risale al 1985 e raffigura, con un valore postale di 450 lire, l'isola di Stromboli (vista dall'isolotto di Strombolicchio) con il suo perenne pennacchio di fumo bianco e l'abitato.

Il secondo francobollo, invece, è del 1999 e gli è stato attribuito un valore di 800 lire. Vi è rappresentato, in un dipinto dell'artista P.N. Arghittu, su uno sfondo di mare azzurro, il Castello di lipari con le antiche mura, l'anfiteatro greco, la cattedrale, i giardini, le chiese e gli edifici adibiti, oggi alla conservazione dei reperti archeologici.

L'ultima emissione (valore postale di euro 0,52) è del 2002, e celebra l'inserimento dell'Arcipelago Eoliano quale Patrimonio dell'Umanità. L'immagine fotografica fa vedere l'attività fumarolica del cratere di Vulcano con una parte dell'isolotto di Vulcanello e delle isole di Lipari e di Salina adagiate sul mare.

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TOURING CLUB ITALIANO rivista mensile n. 8 agosto 1909 ESCURSIONE ALLE ISOLE EOLIE di L.V. BERATRELLI Gli articolo di Bertarelli sulle Eolie furono riportati anche dalla rivista francese L'ILLUSTRATION-(1 parte)

Non è facile riassumere in poche pagine le impressioni multiple di una escursione in queste gruppo appartato di piccole isole, così caratteristico pei fenomeni geologici che hanno impresso nel suo paesaggio linee indelebili, così vario per marine ed orizzonti ed anche così selvaggio da equivalere, per chi ha poco tempo disponibile, ad un viaggio in più lontani luoghi........

Il breve viaggio alle Lipari può compiersi in molto modi, ma Stromboli, che ne è il coronamento regola per così dire l'itinerario, imperniato sui suoi scarsi servizi marittimi.

Di solito si comincia da Milazzo da cui un vaporino ogni giorno tocca le tre isole principali: Lipari, Salina, Panaria, mentre una volta la settimana si spinge fino a Stromboli per ripartire immediatamente. Cosicchè si dovrebbe aspettare sette giorni prima di valersi ancora dello stesso vapore pel ritorno, se una linea Napoli-Milazzo, che tocca pure Stromboli, non permettesse di ridurvi il soggiorno a sole tre giornate. E' dunque un complesso di servizi molto adatto pel turismo.

Chi soffre il mal di mare (io me n'intendo, oh se me n'intendo!) non deve paventarlo molto. Se Eolo sta di casa qui, la traversata è però così breve e spesso a coperto della costa, che senza essere eroi si può cavarsela discretamente..............

Il vaporino, che non ha la velocità di un caccia-torpediniere poiché deve fare per convenzione otto nodi all'ora, dà tempo di ammirare la costa dirupata del lungo Capo di Milazzo, sul pianoro del quale posano parecchie canide villette, poi esce nel mare aperto colla prova su Vulcano, che presto imprende a costeggiare.

L'isola è lunga 8 chilometri, completamente deserta, tagliata a coni tronchi per la sua stessa natura vulcAnica, scura e rosseggiante di basalti e di trachiti dove non è nera di ossidiane o di lunghe sciare (frane di lapilli, pietre e bombe vulcaniche) o biancheggiante per vaste sublimazioni di allume, di acido borico, di solfo.

La sua più alta cima (Monte Aria) si eleva a 490 metri e termina in un altipiano che fu già pure un cratere. Più avanti il pendio del gran cono ne interessa un secondo detto Fossa Vecchia o il Gran Cratere di Vulcano, alto 386 metri, circondato nel lato orientale e settentrionale da mobili e bollenti fumarole.

Il Gran Cratere ricade a sua volta al piano del mare su una lingua di terra bassissima, oltre la quale a nord, nel 183 a.C. Sorse un vulcano più piccolo chiamato Vulcanello, alto 125 metri. Mentre il vapore fila deliziosamente a un chilometro lungo la costa, si resta incantati a veder svolgersi questo panorama eccezionale nella sua nudità di linee, senza verde, senza abitati, coll'accenno di frequenti

conche crateriche che ricordando le pustole lunari viste in un cannocchiale di ingrandimento.

Presto si è davanti alle Bocche di Vulcano, stretto marino di mille metri fra Vulcano e l'isola di Lipari. Tra le due barricate nere delle isole l'occhio si slancia avanti nel Tirreno immenso e azzurro verso Alicudi e Filicudi, mentre a nord si disegnano sempre più nettamente Panaria, Basiluzzo e Stromboli. Tre chilometri ancora e si sbarca col solito baliamme a Lipari.

E' questa una simpatica cittadina di 6000 abitanti, capoluogo di un comune di 16000, che comprende nell'isola stessa il centro importante di Canneto (2500 abitanti) ove si fa specialmente la lavorazione della pomice e le isole di Stromboli (2600 abitanti), Panaria (600 abitanti), Vulcano con 200 circa, Filicudi con 1500, Alicudi con 700.

Le mura di un castello che non esiste più dominano la città da un basso colle. Ivi è la triste colonia dei coatti di cui parlerò più avanti.

Lipari vive del suo mare, pescoso e commerciale, dei suoi campi di grano, dei ricchi vigneti che producono un vino di forza infernale ed un malvasia pregiatissimo e dell'uva e dell'uva passolina. Vive soprattutto delle sue cave di pomice.

Nei fianchi dei suoi monti vi sono immense formazioni di questa roccia leggera e biancheggiante che dà ai luoghi nomi pittoreschi, come ad esempio Monte Pelato, riscontro ad altri come il Monte Rosa, il Capo Rosso, che dimostrano come la natura mineralogica si imponga qui all'attenzione popolare.

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NOTIZARIO DELLE ISOLE EOLIE DEL 16.11.1956 FILICUDI la bella ritrosa

Sembra proprio che da un po’ di tempo a questa parte le isole Eolie siano state prese dalla smania di piacere e di aggiungere alla loro bellezza già di per se stessa meravigliosamente notevole, il fascino raffinato, che in una donna si chiamerebbe trucco e che in una terra prende il nome di Turismo. Un bel giorno infatti gli esterefatti isolani videro Lipari alle prese con schiere di stranieri dai volti pallidi e bionde dal linguaggio gutturevole e duro, videro Stromboli costellarsi di grands hotels e Panarea andare orgogliosa dei suoi bar all'americana, videro infine la selvaggia Vulcano ostentare con fierezza le nuove colonie ed i nuovi clubs del Touring, mentre una fitta rete di piroscafi, collegano i vari centri con tutti i punti della Sicilia e della Italia stessa, fece di questi scampoli di paradiso terrestre delle affollatissime spiaggie alla moda..................

e scoprire i suoi tesori di bellezza, nascosti negli anfratti della sua misteriosa scogliera, ma qualche volta dei motovelieri si dirigono da quella parte e l'isola sembra venire incontro suo malgrado, ai visitatori, che non conosce........................

A molti metri di distanza dalla costa il mare blu cupo assume un colore violetto, un vero mare da surrealista: questo curioso giuco di tinte è dato soltanto dal riflettersi della montagna rossastra nell'azzurro carico dell'acqua e dal fondersi di queste due forti grdazioni. Così su quella pennellata originale di colore, che sembra buttata là da un pittore allucinato, s'innalza l'isola, arida e severa. Il monte alto e scosceso, che testimonia ancora l'origine vulcanica si allarga in una conca piuttosto vasta, dove giace il paese più importante: “Pecorini”..................................

Filicudi, così come appare di primo acchito, è semplice e lineare come una buona mela tutta, senza mistero e senza contrasti. Ma nulla nell'arcipelago di Eolo riesce a mantenersi eguale ed uniforme, senza riservare sorpresa a chi si preoccupi di visitarlo a fondo, non per semplice curiosità ma con sensibilità ed amore. Così anche Filicudi, la calma e ritrosa Filicudi, scopre il suo Eden di delizie, il suo angolo unico ed indimenticabile, così denso di fascino e di mistero da turbare oltre che commuovere. E' la costa a ponente dove i motovelieri navigano lentamente, quasi pavidi di udire da un momento a l'altro il canto mortale delle sirene..............

…..un'insospettata piscina naturale, dove l'acqua è verde, tiepida e misteriosamente limpida: è l'acqua della Fortuna; arrivare ed immergersi vuol dire assicurarsi molti anni di felicità!...

A quale mistero si riallacci questa popolare diceria, e difficile saperlo. Ogni punta ogni sasso ha un mito suo proprio, che trae indistintamente la sua origine nel Vangelo dei libri di magia, conservando però sempre un significato denso e profondo.

Ma finalmente Filicudi lascia scorgere il suo tesoro più bello di armonia e di poesia, la sua grotta ampia e profonda, dove l'eco argentino rimanda il mormorio dell'onda, che si frange nell'interno buoi. L'ingresso è largo, solenne e quasi mistico nell'oscurità, l'acqua è blu scura, quasi nera, ma il sole sferzandola obbliguamente, se ne serve come uno specchio, per gettare sulla volta, costituita dalla fuga di tre arcate, una rete di fili d'oro e di argento , che tremano, si rincorrono e si accavallano in uno scintillio abbagliante......

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Grazie alla Biblioteca Comunale di Lipari il numero del Notiziario delle isole eolie del 23.11.1973 con articolo del decesso dell'Avv. Saltalamacchia fondatore del giornale.
GRAVE LUTTO PER IL NOTIZIARIO E’ MORTO L’AVV. SALVATORE SALTALAMACCHIA.

L’AVV. Salvatore Saltalamachia, Direttore responsabile, fondatore e proprietario del Notiziario delle Isole Eoli, sprirato alle ore 10 del 23 novembre 1973.

Un male, incurabile, esploso nell’ultimo mese, ma che covava da tempo, ha provocato improvvisamente un vuoto incolmabile nella numerosa famiglia nel folto gruppo degli amici estimatori; nella Pretura di Lipari ed anche nella vasta famiglia dei lettori del Notiziario delle Isole Eolie.

Egli se ne è andato, si può dire, serenamente, senza disturbare troppo, più di quanto non fosse strettamente inevitabile. Ci ha lasciati, con quella stessa discrezione e prudenza con le quali aveva vissuto. Specialmente negli ultimi giorni, allorquando le pietose bugie dei medici e dei familiari non lo convincevano più sulla possibilità di una guarigione ed egli assisteva lucidamente alla propria distruzione fisica interiormente la istintiva ribellione che naturale nell’uomo davanti la morte incombente, inseparabile compagna dei propri ultimi giorni, durò pochissimo, il tempo di un sorriso di rassegnazione. Egli allora si è quasi chiuso in se stesso, soffrendo nel più composto silenzio, per non disturbare gli altri.

Chi ha avuto l’occasione di capire giorno per giorno l’ultimo mese della vita del nostro direttore, dall’ultimo pranzo in ristorante romano, col pane casereccio e il vino bianco dei castelli, alle ultime parole appena percettibili nel letto, al di là di ogni commozione e di ogni retorica non può fare a meno di ricordare ai lettori del notiziario questo aspetto dello Scomparso il suo “stile”, fatto essenzialmente di modestia, di prudenza, ma soprattutto di speranza, ancor più verso gli avversari e i deboli, che non per tutti gli altri...

possono testimoniare come Egli fosse un esempio di piacere, più che di un avvocato difensore. Prima di fare una causa, Egli cercava in ogni modo, non di farla nel miglior modo possibile, ma “di non farla”, suggerendo l’accomodamento bonario. Un atteggiamento questo non certo antiprofessionale, ma da umano giudice conciliatore.

Un tale “stile”, oggi rarefatto nella nuova società dei consumi e del profitto, che ha inquinato massicciamente anche le Eolie, è stato marcatamente impresso a questo Notiziario. Anche per quanto, il compito di chi sta tentando di assicurarne la sopravvivenza è più difficile.

Il nostro Direttore ha finito la sua vita operosa, senza peraltro lasciare ricchezze. La sua eredità più importante, riteniamo, è questo Notiziario, privo di valore venale, ma di inestimabile valore morale, se i Compaesani vorranno giustamente valutarlo. Una impresa editoriale di tutta modestia, ma con il bilancio in pareggio come si conviene all’amministrazione del buon padre di famiglia. Portata avanti con sacrificio personale, con assoluto disinteresse, al di fuori di quello di una soddisfazione morale.

Forse qui gli Eoliani che il destino ha portato all’estero, sono più in grado di apprezzare il valore di questo “stile”, che poi è quello della gente antica di Lipari. Anche per questo il nostro Scomparso andava dicendo che il suo giornale era fatto soprattutto per i compaesani emigrati, più che per quelli rimasti in patria, spesso indifferenti a quel legame affettivo, oltre che di cronaca, che il Notiziario aveva creato.

Abbiamo voluto mandare alla stampa questo numero di novembre del Notiziario, che l’avv. Saltalamacchia voleva preparare e che non ha avuto il tempo di completare.…voluto affidare, a chi scrive, questa sua creatura, quasi in adozione, affinchè sopravvivesse con lo stile che gli era congeniale. Ed è con questo spirito, quasi di adozione, che abbiamo voluto accollarci questo onere in un momento nel quale avremmo preferito piuttosto, per il vincolo di filiale affezione che ci legava allo scomparso, soffrirne la perdita dentro di noi stessi o al massimo nell’intimità familiare.

Diciamo pertanto che, interpretando il desiderio del nostro Direttore scomparso ed accollandoci la responsabilità di adottare la creatura lasciata, ci proponiamo di tentare di fare sopravvivere il Notiziario delle Isole Eolie. Ma precisiamo che non siamo sicuri di farcela, perché non dipenderà solo da noi. Dipenderà anche ed essenzialmente dalla comprensione e dall’affetto dei suoi 500  (o forse mille) lettori, ancor più che al loro sostegno materiale, ma pure da quest’ultimo...

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Grazie alla biblioteca comunale di lipari immagini dell'articolo del Notiziario delle isole Eolie n.11 del novembre 1971 sull'affondamento del traghetto costa gaia e trascrizione dell'articolo della stampa del 27.11.1971 sull'evento.
La Stampa sabato 27 novembre 1971.

Messina, 26 novembre. La nave traghetto « Costa Gaia » di 290 tonnellate, adibita al trasporto di automezzi tra Milazzo e le isole Eolie, è affondata stamane nel porto di Lipari durante le operazioni di sbarco degli autocarri. Un camionista, Santo Maiuri, di 53 anni, da Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), è morto, imprigionato nella cabina del veicolo.

Al momento dell'incidente, sull'unità, che appartiene alla « Società traghetti delle isole » di Trapani, vi erano nove camionisti, tre passeggeri e otto membri di equipaggio. Tutti, tranne il Maiuri, si sono tuffati in mare mentre la nave calava sul fondo, inclinata sul fianco, e hanno raggiunto la riva.

L’affondamento della “Costa Gaja” è avvenuto alle 9.50 circa. Secondo la prima ricostruzione del fatto, un autocarro, durante le operazioni di scarico, ha sbandato ed è finito contro una fiancata della nave provocandone l’inclinamento. Anche gli altri camion sono scivolati verso la stessa fiancata della nave e il carico ha fatto imbarcare acqua alla nave, che sbandato sulla dritta di 90 gradi, poi si è capovolta sul fianco destro, finendo con l'adagiarsi a cinque metri di profondità.

Tutte le persone a bordo si sono buttate in acqua, tranne il Maiuri che era nella cabina del suo camion, carico di bottiglie di acqua minerale della società « Ciappazzi ». Veniva dato l'allarme. I primi ad accorrere erano alcuni pescatori, poi due « sub » del luogo, Francesco Vaiarelli e Paolo Giuffrè, i quali ricuperavano il corpo del Maiuri. Venivano anche compiute diverse immersioni nella zona di mare vicino alla banchina e nella parte sommersa della nave alla ricerca di altre eventuali vittime, ma le perlustrazioni non davano esito alcuno.

Il traghetto era comandato dal capitano Alberto Incarbona, di 50 anni, di Trapani. A bordo erano inoltre il nostromo Salvatore Incalcaterra, di 43, il motorista di seconda Lauriato Figliomeni, di 39, tutti di Trapani, il giovane di macchina Giovanni Paratore, di 25 anni, da Messina, e i marinai Antonio Virgilio, di 41 anni , Agostino Lucido, di 35 (entrambi di Trapani) e Francesco Sergi, di 28 anni, da Messina. a.c.

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L.V. Bertarelli nel 1894 fu, insieme con Federico Johnson e con altri cinquantacinque velocipedisti, uno dei soci fondatori del Touring Club Ciclistico Italiano, che nel XX secolo diverrà poi Touring Club Italiano, di cui fu anche vicepresidente nel 1906 e presidente nel 1919. Grazie alle molteplici iniziative da lui intraprese con il valido aiuto di Arturo Mercanti, che dal 1906 al 1915 fu Segretario Generale dello stesso T.C.I., il numero degl'iscritti superò ben presto la cifra di centomila. Diresse la compilazione della Guida d'Italia del Touring Club Italiano edita in 17 volumi a partire dal 1914, della Carta d'Italia del Touring Club Italiano in 58 fogli e dell'Atlante Internazionale del Touring Club Italiano.

Fu anche speleologo: nel 1900 fu il primo ad esplorare, se pure parzialmente, la grotta Remeron (nei pressi di Varese); scrisse anche, assieme ad Eugenio Boegan, il libro Duemila grotte: quarant'anni di esplorazioni nella Venezia Giulia (Touring Club Italiano, 1926).

L.V. BERATERELLI ALLE EOLIE:

nel 1898 suo articolo in Note di una passeggiata ciclistica in Sicilia 1898.

Un giornale francese pubblica articolo con le sue foto:

L'illustration journal universel n° 3001 - gravures: les voyageurs excentriques, arrivée à paris d'un globe-trotter cul-de-jatte par duval - aux iles éoliennes, vues diverses prise à stromboli (photographies et dessins de m.j.-v. Bertarelli).

Nel 1909 rivista mensile del T.C.I. n. 8 agosto e n. 9 settembre 1909 articolo del suo viaggio alle eolie.

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Attinente a quanto detto sul Settimanale del Notiziario Flash dal titolo: "In...cantati",
legge riguardante la tassa comunale sulla pietra pomice nell'isola di Lipari n. 10 5 gennaio 1908.

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Un piccolo stralcio, purtroppo non ho avuto il tempo di poter fotografare l’intero articolo.

CRONACA DI LIPARI

Solennemente inaugurata la mensa aziendale della ditta Th. Ferlazzo.

C’è da precisare, come mi è stato riferito, che alla creazione della mensa contribuirono, si attivarono, tutte le varie Ditte, fu una iniziativa associativa lodevole, la collocazione presso la Ditta Th. Ferlazzo avvenne solo per motivi di spazio. 

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FRANCOBOLLI EOLIANI

Sino a ora sono tre i francobolli che sono stati emessi dalle Poste Italiane e stampati dall'Istituto Poligrafico della Zecca Statale.

Il primo risale al 1985 e raffigura, con un valore postale di 450 lire, l'isola di Stromboli (vista dall'isolotto di Strombolicchio) con il suo perenne pennacchio di fumo bianco e l'abitato.

Il secondo francobollo, invece, è del 1999 e gli è stato attribuito un valore di 800 lire. Vi è rappresentato, in un dipinto dell'artista P.N. Arghittu, su uno sfondo di mare azzurro, il Castello di lipari con le antiche mura, l'anfiteatro greco, la cattedrale, i giardini, le chiese e gli edifici adibiti, oggi alla conservazione dei reperti archeologici.

L'ultima emissione (valore postale di euro 0,52) è del 2002, e celebra l'inserimento dell'Arcipelago Eoliano quale Patrimonio dell'Umanità. L'immagine fotografica fa vedere l'attività fumarolica del cratere di Vulcano con una parte dell'isolotto di Vulcanello e delle isole di Lipari e di Salina adagiate sul mare.

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Dell’unificazione giuridica delle diocesi di Messina, Lipari, Santa Lucia del Mela nell’unica arcidiocesi di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela, ne fu data esecuzione il 30.09.1986 da Mons. Ignazio Cannavò.

Copia del decreto tratta da due millenni di storia eoliana di alfredo adornato.

In merito ci furono proteste a Lipari per l'unificazione, come riporta articolo dell'Agi del 16.10.1986.

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Rarità. Vulcano abitazione di un minatore da una escursione alle isole Eolie di Filippo Porena

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Grazie alla biblioteca comunale di Lipari da un vecchio numero del notiziario delle isole eolie.
Edward Re Un Italo Americano Chiamato Ad Un Alto Incarico a Washington

Il 28 febbraio, con la presenza del Segretario di Stato Rusk e dei rappresentanti del governo Americano ha prestato giuramento EDWARD RE, chiamato all’alto incarico di Assistente Segretario per gli Affari Culturali nel governo di Washington. Lo intervento di Rusk alla cerimonia ha sottolineato l’eccezionalità dell’avvenimento in seno all’amministrazione Johnson, ma soprattutto il prestigio che la nomina di Re dona alla comunità di origine Italiana.

Re è nato in Italia, a Salina, nelle Isole Eolie, nel 1920, e vive negli Stati Uniti dal 1928. La sua carriera politica è cominciata nel Marzo 1961, allorchè Kennedy lo nominò direttore di un organismo che accorda indennizzi per le nazionalizzazioni e altri danni di guerra. Confermato nell’incarico da Kennedy, il presidente Johnson lo aveva nuovamente nominato Direttore dello stesso organismo nell’ottobre 1966. Un mese fa la scelta di Johnson per l’importante incarico degli affari culturali al Dipartimento di Stato è caduto su Re, segnando così lo avvento di oriundi Italiani a posizioni di spiccato rilievo nel campo della politica estera. Insieme con l’assistente presidenziale Joseph Califano, Re è l’italoamericano nella posizione più alta del Governo Federale e tutto lascia supporre che la sua carriera politica sarà brillante...

 

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L’isola di Eolo di Fritz Mielert. Con 6 illustrazioni originali 1915 grazie per la traduzione a Valeria G. quarta ed ultima parte.

Mi sarebbe piaciuto poter fare qualche altro giro dell’isola, soprattutto per conoscere le rocce vulcaniche delle montagne di Lipari. Secondo Bergeat, l’isola si è formata in seguito all’attività esplosiva di diversi vulcani, ma solo uno di essi ha conservato la sua forma originale, il Monte Pelato, altri invece sono stati sommersi dal mare, altri ancora hanno perso la forma originale perché ricoperti di depositi di tufo di varia origine. Ancora oggi, tuttavia, sono riconoscibili sull’isola non meno di dodici crateri o vulcani. E sotto di essi si trovano ancora nascosti i vulcani ancora più antichi. Oggi, l’attività vulcanica sull’isola è completamente estinta.

Ed infine, per concludere, un fatto interessante che riguarda sia la città di Lipari che l’intera isola. Anche se l’isola è ricca di attrazioni paesaggistiche e anche se sia il comune che gli abitanti sono in una condizione agiata, sull’isola vi sono pochissime strade e in cattivo stato. Il trasporto della pietra pomice e di altri prodotti avviene su mulattiere terribilmene accidentate. I carri qui non sono affatto conosciuti. Queste cattive condizioni delle strade potrebbero senz’altro migliorare se l’isola fosse aperta al turismo. Che esso non vi sia fino ad oggi non è dovuto solo alla lontananza (solo apparente) dell’isola, né alla presenza sull’isola della colonia penale, ma è merito di un vescovo di Lipari, monsignor Todaro, esperto di mondo e ben intenzionato, vissuto intorno alla metà del secolo scorso.

Egli diede ordine di sotterrare un magnifico ed esteso complesso termale romano, che era stato scoperto a Lipari verso la metà del XIX secolo, al solo scopo di tenere gli stranieri lontani dall‘isola. Certo, il comportamento di questo vescovo è sorprendente, e qualcuno potrebbe essere tentato di definirlo anacronistico, ma pensate a quante sventure, assenza di cultura, e malcontento si sono diffusi in quei luoghi che possono vantare l’afflusso di stranieri, e se si pensa all‘esistenza tranquilla e felice degli isolani di Lipari, che, direi quasi, vivono contenti come se fossero in un paradiso incontaminato chiuso al resto del mondo, allora si può comprendere la nobile intenzione del vescovo, il cui amore per il suo paese e per la sua comunità ha dettato questo suo particolare modo di agire.

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Da un vecchio numero del Notiziario delle isole Eolie, grazie alla biblioteca comunale di Lipari, rotabile Canneto Acquacalda attraversamento zona pomicifera.

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Grazie alla biblioteca comunale di Lipari da un vecchio numero del Notiziario delle isole Eolie, ammodermento centrale elettrica di Lipari nel 1966

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L’isola di Eolo di Fritz Mielert. Con 6 illustrazioni originali 1915. (3 parte, grazie a Valeria G. per la traduzione).

Al soffio del tiepido Zefiro ci siamo scambiati i ricordi del nostro paese, la Germania, che agli abitanti di questa casa manca molto, nonostante l’incantevole bellezza offerta qui dal paesaggio, dal mare e dal cielo. È soprattutto la mancanza di contatti con persone di pari livello intellettuale, la completa assenza di conversazioni di un certo spessore, che alimenta la nostalgia di casa, sentimento condiviso sia dalla moglie, che dalla sorella di lei, entrambe tedesche, cresciute nelle Indie Occidentali a Port au Prince. L’intrattenimento musicale e i giornali tedeschi rappresentano l’unico contatto con la patria. Prima dell’alba è come essere in una favola. Attraverso le alte finestre aperte della bella camera da letto il mio sguardo cadeva sul mare, che brillava luminoso e piatto come uno scudo d’oro ed illuminava il paesaggio con un bagliore rosa oro. Il paesaggio circostante era pervaso da una tranquillità incredibilmente rilassante, che ben si adattava all’aria fresca ed ai colori dorati del mare e della terra creando un effetto di bellezza indescrivibile. In lontananza, tinta d’azzurro, spiccava l’isola a forma di piramide del misterioso Stromboli, dalla cui cima si sprigionava una densa nuvola a intervalli così regolari che potevano quasi essere calcolati in minuti.

Alla sera avevo già rimandato indietro il detenuto a Lipari, accompagnato da un isolano da Canneto a Lipari, in quanto l’autorizzazione valeva solo un giorno, e anche perché i padroni di casa non volevano vedermi partire così presto. Per l’accompagnamento del detenuto è prescritta una tassa per il tragitto da Canneto a Lipari (3/4 d’ora). Con una barca della ditta, che naturalmente aveva i colori tedeschi, mi recai a Campo bianco. Raggiungemmo prima il pittoresco gruppo di case di Canneto, passando per le ineguagliabili formazioni di scogli e per le baie tranquille fino poi ad arrivare all’imponente Campo bianco. Il vento spazzava la leggera polvere della pomice creando dense nuvole sui pendii, sembrava che una tempesta di neve stesse soffiando sulla superficie bianca, sembrava un paesaggio invernale, per un momento si poteva davvero pensare di trovarsi sulle coste innevate dell’Islanda.

Sulla via del ritorno sul mare blu scuro e profondo, che contrastava meravigliosamente con le montagne bianche come la neve, ho visto dei pescatori pescare come si faceva una volta utilizzando il tridente. I pesci vengono prima attirati con l’esca e poi infilzati con il tridente. Tra le case del Canneto vi è una magnifica e selvaggia gola di roccia in cui si possono ammirare incantevoli formazioni rocciose e vari tipi di vegetazione, che conduce ovunque ripida e senza sentieri fino alla cima del Monte Chirica. La coppia che mi ospitava ed io ci siamo addentrati il più possibile nella gola, e abbiamo assaggiato le grandi more che qui crescono in abbondanza così come i rinfrescanti fichi d’India.

Anche qui si può trovare ovunque la pietra caratteristica di questa zona, la pomice, ed insieme ad essa, sia in pezzi grandi che piccoli, la pietra vulcanica primitiva, l’ossidiana, che sembra fatta di schegge di vetro nero come la pece. Entrambe, l’ossidiana e la pomice, sono rocce simili, nel senso che l’ossidiana è la massa solida e la promice, nonostante il suo aspetto diverso, è la stessa roccia che raffreddandosi ha assunto un aspetto per così dire schiumoso.

Nel magazzino e nel mulino della ditta mi furono poi mostrati e spiegati i diversi tipi di pietra pomice, che qui veniva immagazzinata e classificata con cura. Tra queste si distinguono:

Pezzame, scarti, prezzo ogni 100 kg = 1,40 Lire

Parapara Frasca, stato grezzo non lavorato, prezzo ogni 100 kg = 20 Lire

Limata nera, pomice levigata di colore tendente al nero, ogni 100 kg = 19 Lire

Limata dubbiosa, metà bianca, metà nera, levigata, ogni 100 kg = 27 Lire

Limata bianca, qualità selezionata, bianca, levigata, ogni 100 kg = 70 Lire

Fiore II, qualità selezionata, particolarmente leggera e bianca, ogni 100 kg = 250 Lire

Fiore I, la migliore qualità, ogni 100 kg = 400 Lire

La pomice di qualità migliore viene utilizzata per le corde di violino. La pomice macinata, di cui la migliore ha una granello di 1/10 di millimetro, viene invece usata nelle fabbriche che producono cera e nelle vetrerie. Le cinque varietà migliori qui menzionate sono utilizzate per levigare il legno, il metallo e il marmo. La Limata nera è invece usata come pietra pomice per la stanza da bagno.

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L’isola di Eolo di Fritz Mielert. Con 6 illustrazioni originali 1915 2 parte grazie per la traduzione alla Sig. Valeria G.

I liparoti devono la loro prosperità principalmente al fatto che l’isola possiede una grande quantità di pietra pomice che invece scarseggia in altri luoghi e che essa è anche di qualità particolarmente buona. Circa un terzo dell’intera isola contiene questo prezioso materiale, e non a caso gli isolani chiamano le loro montagne Montagna d’Oro. In un gruppo di montagne colorate, verdi e rosse, si erge una montagna più alta con una roccia chiara impressionante, il Monte Chirica (603 m). Essa scende sul mare con pendii ampi, ripidi e selvaggi, che brillano bianchi come la neve.

Essi sono i famosi „campi bianchi“, la maggiore attrazione di Lipari, e con le loro grotte sono in effetti uno spettacolo molto particolare. I due comuni di Lipari e Canneto, quest’ultimo situato ai piedi del Campo bianco, hanno in questo luogo proprietà considerevoli. Su di essi ogni cittadino dei due comuni è autorizzato ad estrarre pietra pomice. Naturalmente, questo non viene fatto in modo casuale, né senza che il comune si assicuri un proprio profitto. La regola è la seguente. Poiché durante l’estrazione avviene che si estragga non solo pomice, ma anche roccia sterile, il lavoro risulterebbe troppo lungo e costoso per una sola persona, quindi 10-15 persone si uniscono in un gruppo di lavoro e dividono i profitti. Spesso bisogna prima scavare degli strati spessi di roccia prima di arrivare alla roccia che interessa e così di solito si impiega molto tempo, a volte mesi, prima che si possa anche solo parlare di guadagno. Così invece si riesce a guadagnare somme considerevoli in poco tempo.

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Il Comune ha istituito un servizio di guardia all’ingresso delle valli dove avviene l’estrazione. Le guardie pesano ogni sacco di pomice che viene condotto al di fuori della zona di estrazione e rilasciano un permesso. Più avanti il sacco ed il permesso vengono controllati di nuovo anche da un altro funzionario comunale. I trasportatori devono pagare una tassa, che ammonta a 2 Lire per ogni 100 kg, la tassa è maggiore per le pomici di qualità superiore. Questa tassa è, o meglio era, ciò che davvero ha reso ricca la città di Lipari, poiché in passato la tassa rendeva al comune non meno di 100.000 lire all’anno! Queste grandi entrate portarono tuttavia il comune ad imprese azzardate e alle speculazioni, che portarono alla rovina, e ad una grave crisi. Le cui conseguenze si sentono ancora oggi, anche se si riscontra una ripresa grazie all‘intervento della ditta tedesca di esportazione di pietra pomice Theodor Haan di Dresda.

Quest’ultima ha il diritto di estrazione su tutta l’isola, il Comune in cambio riceve ogni anni 65.000 lire di interessi, di certo un buon guadagno, soprattutto perché non comporta per il Comune un solo centesimo di spesa. Dal momento che la florida ditta tedesca ha già raggiunto accordi simili con novanta proprietari terrieri ed è sulla buona strada per ottenere il monopolio su tutta l’isola, essa può influire sulla definizione dei prezzi della pietra pomice in tutto il mondo, dal momento che la pietra pomice oltre che a Lipari si trova solo a Tenerife, e che inoltre lì la pietra non è così leggera e bianca (come quella di Lipari), ma molto più ruvida e affilata. Le esportazioni sono estese a tutte le parti del mondo, anche se il mercato principale è la Germania. Il totale delle esportazioni nel 1913 ammontò a circa 26.000 tonnellate, delle quali circa 14.000 furono esportate dalla sola ditta Haan.

In genere l’estrazione avviene nel seguente modo. La pietra pomice viene divisa in pezzi con un piccone nelle profonde gallerie della montagna, principalmente nelle località Campo Bianco e Capo Castagna. I lavoratori, il cui numero varia da 10 a 15 uomini, si recano alla miniera alle otto di mattina, e lavorano fino alle due o alle tre di pomeriggio e poi portano sulla schiena in apposite ceste le pietre pomici raccolte a Canneto, dove essi hanno affittato un magazzino o qualche altro pezzo di terra, e dove lasciano la pietra pomice per settimane o per mesi, affinché essa diventi completamente asciutta.

Appena hanno raccolto una grande quantità pomice, la offrono al miglior offerente. Il prezzo di oggi, che è variabile, è quello della pietra grezza, ovvero della pietra così come viene estratta dalla montagna, 18-26 Lire per 100 kg. A Campo Bianco viene utilizzato un metodo di estrazione diverso e più semplice. Qui, molte grotte sono o in basso o a metà del pendio della montagna. Poiché le falde da utilizzare sono all’esterno, l’estrazione avviene in superficie. Si lascia scivolare il materiale lungo il pendio della montagna fino al mare oppure fino all’entrata delle grotte. Facendo scivolare e rotolare il materiale, la terra resta lungo il percorso, mentre la pietra arriva giù e viene asciugata nelle grotte e nelle cave. Poi la pietra viene trasportata con la barca a Canneto e condotta ai mulini, dove essa viene trasformata in polvere. La terra che era rimasta lungo il percorso viene anche portata in parte a Canneto e viene utilizzata come materiale per la malta. Le gallerie di solito formano passaggi che portano nelle profondità della montagna con una pendenza di 45 gradi.

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Dei gradini bassi facilitano la salita e la discesa nel sottosuolo, dove gli uomini lavorano vestiti solo con dei pantaloni e portano un sacco appoggiato sulla testa e una semplice piccola lampada ad olio per far luce. Con il detenuto scesi dalla fortezza fino a Marina Lunga di Lipari, una lunga e fitta schiera di case che si stende sulla spiaggia. Qui le montagne dell’isola si alzano magnificamente dietro le case, e come se fosse una montagna impervia, così sale il sentiero dalla fine dell’insenatura fino al Monte Rosa, che si proietta lontano sul mare. Impressionante è su questo sentiero la vista sulle floride valli dell’isola, cosparse di semplici case di campagna, e i molteplici picchi magnificamente colorati del bianco Monte Chirica, la montagna di pietra pomice. Al di là del Monte Rosa, che come le altre montagne dell’isola è di origine vulcanica, si trova, affacciato su una baia simile anche se più piccola, il paesino Canneto.

Una delle case più grandi del posto porta la grande insegna della ditta Theodor Hann di Dresda, che può essere vista anche da lontano. Quando entrai nell’ufficio della ditta, fui salutato da cinque uomini, tutti tedeschi e tutti senza dubbio sassoni, alcuni di essi non avevano perso il piacevole dialetto natìo nonostante vivessero da anni, e nel caso di due di essi addirittura da decenni, in un paese straniero. Tre di questi signori sono sposati e vivono in comodi alloggi affittati dagli isolani. Particolarmente belle e grandi sono le stanze che ho preso in affitto nella casa dell’ingegnere Pflug e di sua moglie, dove ho trovato l’accoglienza più cortese. Dal balcone del soggiorno la vista cade sul ripido vicoletto su cui si affaccia la casa e su una serie di tipiche abitazioni rurali con il loro patio, le piccole scale a labirinto, le logge sorrette da colonne grezze e imbiancate a calce, su cui si intrecciano le viti, gli archi e le altane, ravvivati dai pomodori rosso fuoco uniti in grandi grappoli, messi qui a seccare.

 

 

 

Da un numero del Notiziario delle isole Eolie di anni fa, grazie alla biblioteca comunale di Lipari uno stralcio di un articolo, purtroppo non sono riuscito a riportarlo per intero

Alla foto dell’articolo ne aggiungo una da “EOLINA 1977”.

Il pellegrinaggio alla Madonna della Catena per la mattina del giorno 8 settembre, veniva organizzato tra gruppi di famiglia con tre quattro settimane di anticipo.

Tradizione che si tramanda da decine di anni e che, tuttavia, è sentita ed osservata dai Liparesi.

Si partiva da casa la mattina verso le ore 3 e ci si erpicava lungo la mulattiera di S. Leonardo, poi dalla Nunziata, di Varisana, Castellaro, e si raggiungeva la pianura antistante la piccola chiesetta alle prime luci dell'alba, proprio in tempo per assistere alla celebrazione della prima Messa.

Era una fila di lampioni che si muoveva ed un mormorio continuo di recite delle preghiere, mentre i giovani si davano agli scherzi più impensati.

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Nella spianata della Chiesa ed ai bivi per Canneto ed Acquacalda ci si incontrava amici e conoscenti, stanchi, ma lieti della passeggiata fatta.

Oggi una bellissima rotabile fa affluire sul posto incantevole, dalla vigilia alla sera della festa, un numero enorme di automezzi, i quali spesso fanno la spola.

Si ritorna alla tradizione e si prende l'occasione per una gita magnifica.

Anche nelle belle giornate del corso dell'anno, lo spiazzo antistante la Chiesa è occupato da macchine di gitanti che si beano del panorama dello spiazzo di mare sottostante quasi a picco sotto la Chiesa e degli abitati dell'isola di Salina, che sembrano vicinissime.

Tutto è cambiato sul posto: la Chiesetta anche se esternamente non è stata modificata, ma solo pulita, all'interno è rimessa a nuovo le piccole navate comunicanti, il pavimento in similmarmo................................

La pubblicazione delle due fotografie, quella riproducente la situazione odierna, offre ai lettori l'immagine della descrizione fatta.

La leggenda vuole, il parroco Bergellini parla di storia, che regnando in Sicilia Martino 1, spesso della Regina d'Aragona, tre giovani erano stati condannati alle forche.

Il giorno stabilito per l'esecuzione vennero condotti nella piazza Marina di Palermo, ove era stato eretto il patibolo e la sentenza doveva essere eseguita alla presenza di gran folla.

Ma mentre si preparavano i preliminari dell'esecuzione, improvvisamente, il cielo si è coperto da densi nuvoloni ed una scrosciante pioggia cominciò a cadere.

Tutti scapparono e persino coloro che erano addetti alla custodia e che dovevano fare eseguire la sentenza abbandonarono la piazza e si rifugiarono in Chiesa vicina.

La esecuzione, pel perdurare del temporale, venne rimandata, ma vennero prese ulteriori precauzioni perchè i condannati non potessero scappare.

Vennero aumentate le catene con le quali erano immobilizzati e lasciati nella Chiesa per essere pronti il giorno successivo alla esecuzione.

Durante la notte, quando i secondini si erano addormentati, gli infelici condannati si trascinarono davanti al simulacro della Madonna e fervidamente La pregarono perchè la loro innocenza venisse proclamata.

Le catene si spezzarono, la porta del Sacro Tempio si è misteriosamente aperta ed una voce proveniente dall'infinito ripeteva........................

e tutto il popolo in fervorosa preghiera impetrò dal Re la grazia che venne concessa in omaggio al miracolo della Madonna.

Alla Madonna della Catena accorrono oggi tutti gli Eoliani fiduciosi, a chiedere le grazie per le loro famiglie.

D. Bargellini è fiero della sua missione ed è instancabile.

Non si accontenta di quanto già realizzato: ha in programma di costruire accanto al piccolo tempio una grande sala da adibire a convegni, ed ai trattenimenti nei numerosi matrimoni che si svolgono ora lassù ed ha in programma di ampliare la piazza, insufficiente, nei giorni di festa a contenere il numeroso pubblico.

Vuole essere aiutato da tutti in queste sue iniziative: da quelli in loco e all'estero; da tutti coloro che nutrono e professano le fede per la Vergine SS.M.A della Catena.

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Ne ho parlato in passato nelle rubrica con Gennaro Leone, adesso riporto in 4 puntate l'articolo tradotto in italiano grazie alla sig.ra Valeria.
L’isola di Eolo

di Fritz Mielert. Con illustrazioni originali 1915

1-  In tutto il Mediterraneo ci sono pochi arcipelaghi splendidi come quelli delle isole Eolie. Esse emergono dal mare vellutato, che durante il giorno è blu violetto, la sera è oro e la notte argentato, con splendidi ammassi rocciosi, sui quali la calura del sole del Sud con l’ebbrezza di un sole eterno fa vibrare l’aria gradevole e fa risuonare le baie dai colori vivaci e i declivi ricoperti di frutteti.

La regina delle sette isole1, che compongono l’arcipelago è Lipari, che con 37,70 kmq di superficie e con 9000 abitanti è la più abitata.

Secondo la mitologia greca Lipari era dimora del dio del vento e per questo veniva chiamata Eolia.

Eolo doveva essere un anziano affabile, viveva in modo patriarcale come un buon padre di famiglia con moglie e dodici figli, ma era anche re ed oltre a ciò, a seconda della sua inclinazione e del tempo a disposizione, era anche dio del vento. Banchettava con „mille cibi prelibati“ al dolce suono di flauti. Per quanto riguarda la sua funzione di dio del vento, egli liberava a seconda del suo umore e dell’aria l’uno o l’altro vento, e di contro, essendo amante dell’ordine, chiudeva altri venti mettendo ciascuno in un apposito sacco. Inoltre, sembra che fosse un vero gentiluomo e che avesse il dono dell‘ospitalità, per questo fu lodato dallo stesso Odisseo:

„E arrivammo all’isola Eolia; vi abitava

Eolo Ippotade caro agli die immortali,

su un’isola galleggiante; un muro di bronzo infrangibile

la cinge tutta, s’eleva liscia la roccia.

Mi ospitò tutto un mese

Un otre mi diede, scuoiatolo da un bue di nove anni,

e vi costrinse le rotte dei venti ululanti;

perché il Cronide lo fece custode dei venti,

sia di arrestare sia d’eccitare quello che vuole.

In nove giorni Odisseo giunse ad Itaca con i venti dell’Ovest che gli erano stati donati, tuttavia poco prima di giungere sull‘isola si addormentò, stanco per il lungo viaggio. I suoi compagni spinti dalla curiosità approfittatorono di quest’occasione per scoprire quali segreti racchiudesse il sacco del vento. I venti mugghiarono fuori dal sacco aperto imprudentemente in modo così volento, che la nave venne spinta di nuovo in mare e colui che era stato messo alla prova tante volte si trovò con sua disperazione di nuovo a Lipari. Egli ebbe il coraggio di chiedere di nuovo al vecchio Eolo un vento favorevole; ma il vecchio, in genere così gentile, assai infuriato per l’oltraggio fatto al suo dono, si mostrò maldisposto e allontanò il povero Odisseo innocente con le ultime parole risuonanti: „Va` via dall’isola, subito, ignominia dei vivi!“

Ci chiediamo se questa leggenda abbia un fondo di verità, se quindi l’isola sia un luogo dove soffiano spesso venti forti, ma la cosa in realtà non corrisponde al vero, in quanto qui il vento non è né meno forte né meno debole rispetto ad altri luoghi.

Durante il mio viaggio da Milazzo, che è sulla costa settentrionale della Sicilia, verso Lipari e durante la maggior parte del mio soggiorno in questa e nelle altre isole delle Eolie ha regnato infatti un’assenza di vento assoluta, e solo nel pomeriggio soffiava una dolce brezza marina. Meravigliosa è stata la prima volta che ho visto Lipari, isola straordinariamente ampia e massiccia con le sue cattedrali di roccia dai bei colori e la sua particolare costa rocciosa.

In una baia a forma di mezzaluna, sulla quale le alte montagne dai fieri pendii scendono a picco, si ammassano le bianche case della piccola città di Lipari (6000 abitanti). Una cittadella fortificata, interamente di roccia massiccia, presenta una bianca, possente cinta muraria, e sul piccolo approdo di terra brilla la statua di marmo di San Bartolomeo, il patrono della città e dell’isola. È sorprendente che questa sia l’unico monumento a Lipari, qui non si trova né una statua di Garibaldi, che è presente invece in ogni città italiana, né un Corso Vittorio Emanuele, altrettanto diffuso sulla penisola. I barcaioli, che ci portarono a riva, erano di corporatura muscolosa e abbronzata, le barche a vela e le barche, tirati a riva al riparo sotto la cittadella fortificata, riposavano una accanto all’altra e, coperte con le vele su di esse distese, ricordano le antiche imbarcazioni dell‘epoca del leggendario Odisseo.

Un uomo con un berretto da marinaio malandato, vestito con dei pantaloni di fustagno blu arrotolati fino alle ginocchia ed una camicia colorata, portò il mio bagaglio a casa di Francesco Traino. La coppia, che qui viveva, si assomigliava sia nel mostrare la stessa cortesia affettata sia nell’aspetto esteriore, in quanto sia il marito che la moglie erano tanto bassi quanto grassi e rotondi e mi diedero l’idea di persone ripugnanti ed avide. Il loro comportamento ed in particolare il conto che mi presentarono alla partenza con espressione piena di speranza e sguardo scrutatore, confermarono la mia impressione. Questo episodio è stato, tuttavia, bisogna dirlo, l’unica nota stonata del mio soggiorno sull’isola di Eolo. Il mio facchino si offrì subito a farmi da guida sull’isola ed io rimasi stupito, quando la coppia che mi ospitava mi annunciò con una risata larga e brutta, che quest’uomo era un coatto, ovvero un detenuto. Solo adesso mi sono ricordato la particolarità per la quale Lipari è nota, ovvero che è una colonia penale per detenuti che si sono macchiati di reati gravi, i quali dopo aver scontato la loro pena nel penitenziario dell'Italia continentale, vengono mandati a Lipari per altri cinque anni, dove, sotto stretta sorveglianza, devono affrontare una sorta di fase di transizione dalla prigionia all’inserimento nella società civile.

Per l’isola e per i suoi onesti abitanti questa colonia penale naturalmente non rappresenta né una referenza né un vantaggio, anzi fa sì che l’isola, che vale la pena visitare, sia di fatto evitata dai visitatori forestieri. I Liparoti temono quanto disprezzano i coatti. Soprattutto la parte femminile della popolazione, austera e pia, li chiama sterrati („I senza radici“), ed hanno tutte le ragioni per farlo, in quanto da queste parti furti e altri crimini contro le persone da parte di questi coatti non sono una rarità. Il tipo che mi accompagnava e che la coppia mi aveva presentato come affidabile, aveva circa 35 anni ed era di Genova. Da me interrogato, mi rispose che era stato condannato a cinque anni per un reato contro le donne, che aveva già scontato la pena nel carcere di Genova e che ora si trovava a Lipari da tre anni. Dato che voleva accompagnarmi a Canneto, il paese vicino Lipari, e a tal scopo era necessario avere un permesso dal comando, mi recai insieme a lui nella cittadella fortificata. Un vicolo stretto e tortuoso conduceva ad una porta tipica di una fortezza, sotto la quale era di guardia un soldato. Qui il detenuto ricevette il suo documento ed io ebbi l’opportunità di conoscere più da vicino il mondo dei coatti. Si tratta di una piccola cittadella con vicoli scuri, dove la rara vegetazione presente non ravviva le rocce a picco ed il muro di pietra. Una sorta di caserma è provvista di sedici grandi sale, in cui vivono e pernottano circa 800 detenuti. Naturalmente l’arredamento degli interni è molto povero, l’illuminazione è ovunque scarsa. Nei vicoli si trova un certo numero di negozi di cianfrusaglie, barbieri e taverne, che sono gestiti da ex detenuti. A questi ultimi è consentito, purché non abbiano pene pendenti, di restare in città ad eccezione della domenica e dei giorni festivi, di mattina a partire dalle otto e di pomeriggio fino al suono della tromba alla sera. Possono spostarsi nel circondario solo se sono in possesso di un permesso e in compagnia di persone affidabili. A mezzogiorno alle ore 12 c’è l’appello, in occasione del quale essi ricevono il loro compenso giornaliero che ammonta a 50 centesimi (40 Pfennig). Essi sono tuttavia liberi di guadagnare denaro in città, ed è così che alcuni detenuti hanno la possibilità di guadagnare fino a 4 lire al giorno.

Le punizioni sono molto dure, il che naturalmente è opportuno, quando si ha un’orda di 600-800 uomini, tra i quali si trovano le peggiori categorie di criminali. Anche i reati minori vengono puniti con l‘arresto che dura settimane, con la reclusione in celle buie ed isolate, e con l’uso della camicia di forza e delle catene. È deplorevole che le persone non vengano richiamate a seguire degli orari di lavoro. I più trascurati tra essi preferiscono naturalmente l’ozio a qualunque tipo di lavoro anche se leggero, ed hanno un effetto negativo anche su quei compagni che hanno ancora qualche speranza di recupero. La cosa brutta è che qui convivono tutti i tipi di criminali e quindi si crea una vera scuola del vizio. Questi coatti costano allo Stato italiano una somma considerevole. Il solo approvvigionamento della colonia penale di Lipari comporta una spesa giornaliera pari a 400 Lire (320 Marchi), il che significa un onere finanziario annuale per il bilancio di 150.000 Lire solo per il cibo. Oltre a Lipari, l’Italia ha altre sette colonie penali. Deplorevole è anche il fatto che anche coloro che sono stati condannati alla reclusione per reati politici siano mandati nelle colonie penali, dove sono costretti a convivere con i peggiori criminali. I detenuti più facoltosi indossano abiti borghesi, anche se sobri, essi sono comunque soggetti come tutti gli altri alle stesse rigide regole. Nella cittadella fortificata alta 65 metri oltre alla colonia penale vi sono altri vicoli e l’anonima Cattedrale di Lipari, che, come è noto, è la sede episcopale. Il palazzo vescovile è un edificio senza pretese, modesto anche al suo interno.

Anche la Cattedrale non contiene nulla che sia davvero degno di nota, fatta eccezione per la statua del patrono della diocesi di Lipari San Bartolomeo, cesellata in argento e decorata con un’antica corona d’oro. Imponente è il convento attiguo, in cui vengono impartite lezioni a circa 700 ragazze. Già questo è un segno di come tra i liparoti vi sia un dominante bisogno di istruzione e di prosperità generale contrariamente a quanto accade nell’Italia continentale dove vi è un considerevole tasso di analfabeti (60-70%). Questo bisogno di istruzione comporta un certo zelo nello studio.

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Due stralci dell'Unità dedicati a vario titolo alle Eolie:

L'Unità 12 agosto 1986 "su quelle isole combattevano il fascismo..."

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L'Unità 12 agosto 1998 "una favola sotto il vulcano..."

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Da un vecchio numero del Notiziario delle isole Eolie, grazie alla biblioteca comunale di lipari, articolo sull'inaugurazione del servizio aliscafo.

Il 9 agosto 1957 il Presidente della Regione on. La Loggia ha ufficialmente e formalmente inaugurato il servizio Aliscafo tra la Sicilia e le Isole Eolie e, per tale circostanza, abbiamo avuto piacere di avere tra noi anche quasi tutti i deputati Nazionali e Regionali. Il Sindaco, giustamente interpretando i sentimenti della popolazione, ha ringraziato il Presidente della Regione e le altre personalità per la visita fattaci e per la fortunata coincidenza dell’inizio del nuovo servizio.

Noi, Eoliani che in certi momenti sembriamo tanto irrequieti, insofferenti, nel fondo siamo di una docilità e bontà straordinaria: ringraziamo tutti.

Anni addietro abbiamo ringraziato la soc. Navisarma per la istituzione del servizio dello “Strombolicchio” perché non sapevamo che la Regione paga tre milioni all’anno di sovvenzione; oggi ringraziamo la società “Aliscafi” che, in concomitanza con l’art. 5 della L. 7.6.57 n. 30, ha istituito questo servizio e per il quale, certamente le sarà corrisposta la sovvenzione prevista dalla detta legge.

Diciamo subito, però, che il servizio così come è congegnato negli itinerari e negli orari oggi in vigore non serve agli Eoliani, né all’incremento turistico delle Isole Eolie.

Non serve gli Eoliani perché parte da Messina appena poche ore dopo che da Milazzo ha avuto inizio il viaggio del piroscafo postale di linea, ed arriva a Lipari quasi allo stesso orario riparte da Lipari quasi contemporaneamente al piroscafo di linea.

Per la partenza da Messina non dà possibilità agli Eoliani che ivi si siano recati di potersene servire pel ritorno giacchè, stabilita la partenza alle 10, difficilmente, a quell’ora, ognuno avrà potuto sbrigare anche un solo affare.

Per la partenza da Lipari, solo la rapidità del percorso potrebbe indurre alla preferenza, data la coincidenza delle due partenze quasi allo stesso orario.

Non serve neppure, si ripete, allo sviluppo turistico delle Eolie, anche se, per la istituzione del servizio ci si giova di una legge fatta esclusivamente a vantaggio delle Isole minori.

Infatti per concreto sviluppo turistico della zona non può intendersi l’afflusso numeroso di gitanti forniti della colazione a sacco e della bottiglia dell’acqua per bere: deve, invece, intendersi la permanenza in loco di persone con tutto quello che ne consegue.

Allorchè comotivi numerose di turisti partono la mattina da Taormina in pullmans, arrivano a Milazzo, s’imbarcano sul piroscafo per le isole e rientrano la stessa sera a Taormina, dopo avere consumato durante il viaggio la colazione fornita dall’albergo o dalla pensione di quella stazione turistica di fama mondiale, non può veramente affermarsi che ciò incrementi il turismo delle Eolie.

Sono un po’ da paragonarsi alle gite che si organizzano nelle stazioni di soggiorno per non rendere monotona la permanenza, ad esempio da Fiuggi per Castelgandolfo, pel di Nemi, con rientro la sera. Ebbene con queste gite non si alimenta e tanto meno si promuove lo sviluppo turistico di Castelgandolfo o del lago di Nemi, ma si consolida quello di Fiuggi. E così pel servizio dell’Aliscafo, che prende i turisti la mattina a Giardini, li porta in giro nelle isole e li riporta la sera a Giardini; consolida il turismo di Taormina, ma non promuove quello delle Isole.

Con questa nota abbiamo creduto di segnalare alle Autorità competenti il nostro pensiero sull’argomento, che riteniamo pienamente condiviso dai nostri concittadini e dalla Amministrazione comunale, e non dubitiamo che le nostre segnalazioni siano valutate tanto dal presidente dell’Ente Provinciale del Turismo. Comm. Ballo, ch’è anche presidente della soc. “Aliscafi” e che sempre molta simpatia ha mostrato per queste isole, che dalle Autorità Regionali, onde sia concretato ed attuato uno itinerario orario che promuova il turismo per le Eolie e sia, nel contempo, giovevole agli Eoliani.

Salvatore Saltalamacchia - Avvocato

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Ancora ricordi del turmalin sempre da stralci del Notiziario delle Eolie grazie alla biblioteca comunale di Lipari.
L'inaugurazione e Bartolino Famularo con la presentatrice Emma Danieli.

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Da un vecchio numero del Notiziario delle isole Eolie grazie alla biblioteca comunale di Lipari, ricordi del Turmalin con Bartolino Famularo, Mike Bongiorno....

L'indimenticabile "patron" Famularo per decenni è stato anche l'organizzatore di concorsi per eleggere "Miss".

In giuria tra i suoi preferiti vi erano il famoso giornalista Luigi Barrica di "Repubblica" e l'attuale direttore del Notiziario Bartolino Leone, all'epoca anche corrispondente del "Giornale di Sicilia" e dell'agenzia "Agi"

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Grazie all’Istituto storico della Resistenza e dell'Età contemporanea di Parma, foto di Dante Gorreri a Lipari nel 1927 con la moglie Rosina Pianforini. Diritti dell'Istituto sopracitato.

(La foto si trova anche nel libro NEMICI IN PATRIA antifascisti al confino Marco Minardi).

Dante Gorreri

Nato a Parma il 15 maggio 1900, deceduto a Parma il 28 giugno 1987, idraulico, parlamentare comunista.

Organizzatore a Parma degli "Arditi del popolo", nel 1922 fu tra i protagonisti della "battaglia dell'Oltretorrente" contro i fascisti di Italo Balbo. Con la promulgazione, nel 1926, delle Leggi eccezionali fasciste, per Gorreri cominciarono dieci anni di carcere e confino a Favignana, Lipari, Ponza. È il 1942 quando Gorreri può rientrare a Parma, dove, in clandestinità, è segretario di quella Federazione comunista. Dopo l'armistizio eccolo partecipare alla guerra di Liberazione; organizzatore del movimento partigiano prima nel Parmense e poi nel Comasco, Dante Gorreri (nome di copertura Guglielmo), agli inizi del 1945 è catturato dalle Brigate nere. Riuscito a fuggire e a riparare in Svizzera, torna in Italia e rientra nella sua 52ma Brigata Garibaldi con la quale combatte sino alla Liberazione e alla cattura di Benito Mussolini in fuga (camuffato da soldato tedesco), con altri gerarchi fascisti. Coinvolto nelle vicende del fantomatico "tesoro di Dongo", Gorreri subì per questo una serie di procedimenti giudiziari.

Diversi fonti riportano...... scagionato dalla testimonianza di Enrico Mattei poté riprendere la sua attività di parlamentare, che ha svolto come deputato all'Assemblea Costituente e nella III, IV e V Legislatura...........

In realtà il processo "oro di Dongo" non giunse mai a sentenza, ma cadde in prescrizione, per cui Mattei - che pure fu tra i vari testimoni che intervennerò nelle udienze - non poté nei fatti scagionare nessuno. Gorreri poté tornare in libertà solo in conseguenza della sua elezione (plebiscitaria) al parlamento nel 1953 e, quindi, dell'immunità parlamentare che ne derivò. Il processo si celebrò nel 1957, senza mai concludersi.

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di Ugo Buzzolan

VIAGGI E VACANZE LA STAMPA Mercoledì 2 Giugno 1971 Anno 105 - Numero 125 Dietro i richiami della cronaca, un panorama di luoghi incantevoli Isole di Sicilia: ritratto attuale Una guida alle "sette sorelle.

Ecco un piccolo dizionario delle isole Eolie (Vulcano, Lipari, Salina, Panarea, Stromboli, Filicudi, Alicudi), frutto di dieci anni di vagabondaggio in quello che si può giustamente definire « l'arcipelago delle meraviglie ». ACQUE CALDE: particolarmente a Vulcano (ma anche in alcune grotte di Lipari e davanti a Panarea tra le isolette di Bottaro e Lisca Bianca) il mare anche d'inverno è tepido o scotta per effetto di sorgenti sottomarine di origine vulcanica. Se si guarda Sul fondo con la maschera, si scorgono salire da minuscole bocche orlate del giallo dello zolfo miriadi di bolle simili a monete d'argento. Se il fenomeno è accentuato, il mare in superficie si agita misteriosamente con sordo borbottio.

ARCHEOLOGIA: sulla storia delle Eolie si potrebbero scrivere parecchi volumi densi di fatti mirabolanti, dal periodo neolitico alle zuffe navali tra romani e cartaginesi, dai normanni al pirata Barbarossa che assaltò Lipari e portò via, schiava, l'intera popolazione, dalle rapine dei corsari tunisini agli scontri frontali delle flotte francesi e spagnole (e intanto l'arcipelago s'arricchisce di un nuovo « pezzo », Vulcanello che emerge fra terremoti ed esplosioni nel 183 avanti Cristo e che nel giro di circa cinque secoli si salda a Vulcano mediante un sottile istmo). Restano ricordi affascinanti: un villaggio dell'età del bronzo sul promontorio del Milazzese a Panarea, avanzi di un altro villaggio preistorico su Capo Graziano a Filicudi, vestigia greche, romane, medioevali e spagnole a Lipari, e « roba antica » che di tanto in tanto vien fuori dal mare: vasi, candelabri, piatti, anfore e pezzi di vascelli... Ogni anno, anche il più modesto subacqueo sogna, grazie ad un'immersione di pochi metri eseguita con l'assistenza affettuosa e trepida della moglie, di ripescare, in barba alla Finanza, forzieri rigurgitanti di tesori.

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GROTTE: In rapporto all'estensione sono le Eolie le isole più sforacchiate d'Italia e tra le più sforacchiate del Mediterraneo? Pare di si. Ce ne sono per tutti i gusti. Ma più che le grandi grotte (del Cavallo a Vulcano, del Bue Marino a Filicudi) sono le piccole a impressionare por il numero e per la varietà e la bizzarria della struttura: a più camere, con corridoi dove a malapena riesce a infilarsi la grossa testa del sottoscritto, provviste di sifoni, di vasche, di « finestre », di pertugi sottomarini, di doppia e tripla uscita: e luminose o tenebrose, azzurrine o verdi o rossastre, silenziose o mormoranti, sussurranti, tuonanti. POMICE: uscendo dal porto di Lipari, dirigete la prua verso la baia di Canneto e, girato il promontorio di Monte Rosa, resterete qualche minuto con la bocca spalancata per lo stupore: tutta una falda dell'isola vi apparirà ricoperta da un alto strato bianco che sembra neve caduta di fresco. E' invece una distesa di pomice che sta sotto alla gran colata di ossidiana (vetro vulcanico con cui gli uomini primitivi si fabbricavano armi affilate) e che scende giù, come un ghiacciaio, sino in mare. Al bianco accecante fa da contrasto l'acqua in quel punto color smeraldo.

Tutti, ormai, conoscono le vicende di Filicudi e sanno qual è stata la reazione degli abitanti dell’intero arcipelago.

Vogliamo ricordare che nelle Eolie il turismo è un fatto molto recente. Le guide Touring di cinquant’anni fa ne magnificavano la bellezza ma mettevano in guardia magnificavano la bellezza ma mettevano in guardia gli audaci viaggiatori «sulla mancanza d’ogni confort”, e aggiungevano che «l'escursione può anche essere fatta da signore, purché si adattino ai disagi di sistemazioni fortunose”. Erano isole dimenticate e abbandonate, nessuno si rendeva conto dell’evidenza. Il fascismo le destinò a confino per gli avversari del regime. Aveva tentato di relegare a Lipari delinquenti comuni ma la popolazione insorse compatta. E’ un episodio che oggi assume un interessa particolare, di clamoroso precedente. Nell'agosto del 1926 al suono delle campane, la folla si radunò nei pressi del Castello di Lipari e protestò con irruenza danneggiando, tra l’altro, le casupole in cui dovevano essere rinchiusi i coatti. Nell'isola furono inviate truppe, ci furono arresti e denunce. Si sollecitò da parte del comitato di agitazione un intervento di Gabriele d’Annunzio. Il « divin poeta » si mosse e dal governo ottenne che i coatti venissero ritirati “per sempre” (successivamente d’Annunzio inviò una lettera, conservata negli archivi del Comune, in cui accenna al progetto di un viaggio alle Eolie al fine di “polire la mia prosa con la poesia di Lipari”).

Bisogna arrivare agli Anni '50 per sentire parlare dell'arcipelago. Esce Stromboli di Rossellini con la Bergman e subito dopo esce Vulcano di Dieterle con la Magnani, Il cinema desta le attenzioni di qualche appassionato delle isole. Calano dalla Francia gruppetti di “sub”. Ma è solo sulla fine degli Anni '50 e al principio degli Anni ’60 (quando Antonioni gira le più suggestive sequenze de L'avventura davanti a Panarea, sullo scoglio di Lisca Bianca) che il turismo prende piede.

Diremmo che la scoperta è duplice: da parte di italiani «e di stranieri) che s'accorgono finalmente dell'esistenza di terre di sogno per chi ama la natura primitiva e, quasi ovunque, incontaminata; e da parte dei locali che vissuti, per secoli, poveramente di durissimo lavoro di pesca, di coltivazione e di lavorazione della pomice, si avvedono che con il turismo la loro la loro esistenza sin qui fiera e dignitosa, ma estremamente grama può cambiare………

SABBIE NERE: sempre per effetto dell'attività vulcanica la sabbia, nei pochi posti dov'è presente (Vulcano e Stromboli), non è bionda, dorata, tradizionale; ma nera, di un nero lavagna, un nero drammatico e perentorio, senza sfumature: il che non esclude una finezza quasi impalpabile, conferma del carattere « meraviglioso » delle Eolie.

SCOGLI: ci ricolleghiamo al discorso sulle grotte. Ci sono scogli a volontà, d'ogni tipo e foggia: si va dalle vere e proprie isolette (come il fantastico Strombolicchio e come Basiluzzo, dove sorgeva una villa romana, e Spinazzola irta di cuspidi, e l'enigmatica Lisca Bianca cara all'Antonioni de « L'avventura ») alle punte subdole che affiorano d'un metro e sotto hanno la consistenza di una montagna, dalle torri monumentali (bucate come i Faraglioni di Lipari o di incredibili forme come la Canna di Filicudi, alta ottanta metri) agli archi e ponti naturali giganteschi (come In località Pollara di Salina). La roccia tormentata ha creato miriadi di figure: volti umani e bestiali, vecchi filosofi e monaci a bizzeffe, profili di uccellacci, mostri, madonne, diavoli e santi.

SPECULAZIONE EDILIZIA: purtroppo è arrivata sin qua. Errori gravissimi sono già stati compiuti (vedi Vulcanello), altri sono in preparazione. Autorità competenti, governo, ministri, uomini politici, sovrintendenze, enti, amici della natura: e se finalmente puntassimo i piedi e riuscissimo a non permettere che le meraviglie eoliane vengano ignobilmente sconciate? Intanto è stata presa nei giorni scorsi una provvida decisione, quella di proibire le auto dei turisti a Vulcano. Si tratta un duplice favore: alla tranquillità dell'isola e agli stessi turisti che della loro trappola, una volta scaricata sul molo di Levante, non sapevano cosa farsene per mancanza quasi assoluta di strade.

 

 

I fratelli Carlo e Nello Rosselli furono due importanti figure di politici, giornalisti e attivisti dell'antifascismo italiano. Vissero a lungo in esilio a Parigi e furono uccisi a Bagnoles-de-l'Orne il 9 giugno 1937 da formazioni locali di estrema destra, probabilmente su ordine proveniente dai vertici del fascismo.

Fondò il movimento antifascista a Parigi, nell’estate del 1929, dopo essere fuggito dal confino fascista di Lipari.

In merito articolo dell’Unità del 08.06.2008, di Nicola Tranfaglia, un piccolo stralcio e ritaglio della rivista Détective, n° 451, 17 juin 1937 con due immagini “”molto crude” del loro volto dopo l’uccisione.

IL 9 GIUGNO 1937 furono uccisi, a Bagnoles-sur l’Orne, i due fratelli Carlo e Nello. Ma il pensiero del leader di Giustizia e Libertà è ancora attuale e, forse, può ancora insegnare qualcosa alla sinistra democratica italiana...

Sono passati ormai settantuno anni dall’assassinio di Carlo e Nello Rosselli a Bagnoles-sur l’Orne il 9 giugno 1937.

Ma il pensiero e l’azione di Carlo Rosselli è, senza dubbio, attuale e tale da poter costituire una prospettiva concreta per la sinistra democratica italiana.

Il comunismo è un ideale battuto dal collasso dell’Unione Sovietica nel 1991 e dagli sviluppi, tutt’altro che incoraggianti, del comunismo cinese e da altri minori esperimenti  (tra i quali la Cuba di Castro o il Nord Vietnam).

Vorrei spiegare, nello spazio di un articolo,  perché io penso che si tratti di una prospettiva praticabile.

Nel pensiero di Rosselli c’è la salda convinzione della necessità di adottare in politica un metodo liberale e libertario.

Che ha bisogno per attuarsi di una profonda rivoluzione culturale in senso democratico,  da cui l’Italia degli anni trenta è assai lontana.

Ma l’obiettivo politico del movimento di Giustizia e Libertà che egli fonda a Parigi nell’estate del 1929, dopo esser fuggito dal confino fascista di Lipari, è quello del socialismo democratico e liberale.

Per un simile obiettivo, che Rosselli sviluppa nel suo primo libro Socialismo liberale apparso a Parigi nel 1930 ma anche negli scritti successivi fino al giugno 1937 nei Quaderni di Giustizia e Libertà usciti negli anni successivi e poi nel settimanale GL con lo stesso nome pubblicato a Parigi, due aspetti appaiono prevalenti su tutti gli altri.

Il primo è l’analisi della dittatura fascista in Italia e in Europa, la forte consapevolezza di trovarsi di fronte a un regime reazionario di massa, effetto e non causa della crisi e del crollo dello Stato liberale.

Rosselli è convinto del carattere imperialistico del regime, della corsa alla guerra propria del fascismo.

La previsione si rivelerà fondata perché il nesso tra guerra e fascismo porterà Mussolini prima all’impresa coloniale di Etiopia,  poi all’intervento avventato nella seconda guerra mondiale, al fianco della Germania di Hitler.

È questa una diagnosi precoce che il giovane leader italiano fa nei primi mesi del 1933, all’indomani della conquista del potere da parte del Fuhrer tedesco che troverà conferma esemplare alla fine degli anni trenta.

C’è, nella riflessione di Rosselli, una critica aperta alla maggior parte delle forze politiche antifasciste raccolte nella Concentrazione antifascista di Parigi, che lascia già nel 1934, come nel partito comunista d’Italia subordinato alla politica dell’Internazionale che fa capo a Stalin e al partito comunista sovietico ma per lui importante, in quanto rappresenta le classi lavoratrici in catene.

La sua visione del futuro è chiara.  Egli è convinto dell’urgenza di una liberazione autonoma del paese da parte di chi non è fascista per le sue idee o perché ha sperimentato il fallimento della dittatura nel suo programma sociale.

Ma non pensa in nessun modo a una dittatura di qualsiasi colore.

Ritiene, al contrario, che debba esserci nel nostro paese una vera e propria rivoluzione politica e culturale in senso democratico.

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Una foto, per quanto non molta nitida, inedita e di notevole importanza storica, di cui ho fatto un ingrandimento, di una parte, grazie a Silvia Carbone ed una foto tratta da un testo di Renato De Pasquale testimoniano l'avvenimento qui descritto dal prof. Giuseppe Iacolino:

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di Giuseppe Iacolino

Duecentocinquantaquattro anni dopo, toccò all'arcivescovo mons. Angelo Paino la sorte di cogliere l'occasione giusta per risvegliare quell'idea da gran tempo sopita. Dal Patriarca e dal Capitolo della Cattedrale di Venezia mons. Paino aveva ottenuto un (frammento di pelle) di S. Bartolomeo. Voleva farne dono ai concittadini eoliani. Inclusa nel Vascelluzzo dei Messinesi e accompagnata dallo stesso presule, la reliquia fu portata a Lipari su una torpediniera della Regia Marina che diede fondo nella baia di Portiniente la mattina del 22 agosto del 1926.Incontenibile il tripudio della folla in attesa. Nel suo primo discorso mons. Paino ebbe a dire: "dovete avere anche voi il vostro Vascelluzzo... stasera il Vascelluzzo di Messina girerà in processione per le vostre vie e voi lo caricherete d'oro per il vostro Vascelluzzo". Mons. Paino diede il primo esempio di generosità deponendo un suo anello pastorale.

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Il vescovo mons. Bernardino Salv. Re (1928-1963) alimentò il pio proposito e ai suoi appelli generosamente risposero gli Eoliani residenti e quelli emigrati d'America e d'Australia. Così il 23 agosto del 1930, alle ore 19.30, il vescovo Re in Cattedrale benedisse l'artistica navicella. Opera di eccellente fattura, uscita dall'oreficeria palermitana Perricone-Marano, il Vascelluzzo, contiene kg. 2 di oro e 30 di argento. Nel mezzo della tolda e sul casseretto troneggiano la preziosa teca contenente il "frammento di pelle" e la statuetta di S.Bartolomeo tutta d'oro massiccio (kg. 1,100). Il Vascelluzzo precede il simulacro d'argento di S. Bartolomeo nelle quattro processioni annuali.

Nel Vascelluzzo di Lipari va ravvisata la chiara testimonianza della cultura degli avi tutta compenetrata dalla fede e che perciò stesso non riusciva a distinguere la netta demarcazione fra il sacro trascendente e il quotidiano di quaggiù, ammettendo, anzi, una mutua contaminazione tra le due sfere sino ad interpretare le causali coincidenze terrene - anche le meno edificanti - come compiacente manifestazione del soprannaturale. Eccessi di certo non tollerabili per l'ortodossia. Ma, "cionondimeno, una religione agirà sempre in tal modo fino a quando sarà veramente viva". Appartiene agli uomini, infatti, anche se sono i teologi i soli deputati a gestirla.

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FOTO D'EPOCA. ACQUACALDA 1972 COMIZIO DEL MSI CON TANTISSIMI GIOVANI EOLIANI IN PRIMA LINEA...
SETTIMANALE EPOCA N. 1127 foto di Sergio Del Grande.

 

NUOVE EFFEMERIDI N. 46 1999 ARCHEOLOGIA SUBACQUEA LA COSTRUZIONE DI UNA BARCA TRADIZIONALE di Valeria Li Vigni.

Uno stralcio di articolo molto interessante presente nella rivista, ad una foto tratta da essa aggiungo una foto ed un fermo immagine di Alberto e Nunzio Indelicato, storici maestri “d’ascia” a Lipari.

Lo studio delle tecniche di costruzione e degli obiettivi a cui sono finalizzati alcuni metodi permettono di addentrarsi nei significati che assume la barca per il pescatore. Si stabilisce un rapporto di dipendenza affettiva dettato dall'esigenza di avere un mezzo efficiente al quale affidare la propria vita e il futuro economico della propria famiglia. Le cure frequenti, finalizzate a una migliore funzionalità, preservano dai pericoli reali e sim­bolici del mare.

La struttura della barca è basata su un sistema di incroci che richiama la croce di Gesù il nome, quasi sempre di un sunto è un elemento apotropaico che esorcizza il pericolo invocando la protezione divina. La barca diviene fulcro di attività lavorative. di rapporti sociali, ma anche familiari. Rappresenta I’elemento della cultura materiale che cl introduce alla cultura del mare individuando relazioni interpersonali e simboliche che caratterizzano la comunità dei pescatori.

Lo Coco, nel corso della sua opera di maestro d’ascia finalizzata alla costruzione della barca che abbiamo documentato, ci ha spiegato i vari accorgimenti indispensabili.

PER SAPERNE DI PIU' CLICCARE NEL LINK LEGGI TUTTO

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La costruzione di una barca avviene solitamente su ordinazione. La sua forma e le sue attrezzature corrispondano alle esigenze ben precise del committente E’ frutto del lavoro manuale e può essere generata solamente da un mastro d’ascia, espressione di una tradizione familiare, appresa sin da piccoli. Quest’arte viene trasmessa gelosamente da padre in figlio, chi cerca di imparare da autodidatta non riuscirà mai ad addentrarsi nelle tecniche più recondite che si possono apprendere soltanto per volontà di chi possedendole decide di farne partecipi gli altri.

Diverse maestranze sono coinvolte nella costruzione della barca formando una piccola industria composta dal mastro da seta, dal calafato e dal fabbro ferraio che lavora secondo la tradizione saldando i pezzi a caldo alla forgia. Con l'avvento della meccanizzazione, alla bottega artigiana si sostituirà ruffiana meccanica dove si effetua la saldatura autogena con la fiamma ossidrica, rendendo il lavoro più semplice ed omologato, riducendo il numero degli artigiani e trascurando la cura del particolare.

La costruzione prevede una fase preliminare essenziale per Ia buona riuscita della barca, che consiste nella scelta del legname condizionata da regole stagionali. La scelta del legno da utilizzare nella costruzione è tanto importante da pregiudicarne il buon esito. Un bravo mastro d'ascia sa bene che dovrà scegliere un legno molto duro per lo scheletro in modo che non crepi, mentre dovrà privilegiare l'impermeabilità per il fasciame. Dovrà scegliere legname che assecondi, per quanto è possibile, le parti da costruire. Sarà legname curvo per le parti curve, in modo da rispettare le fibre del legno, e dritto por le parti diritte. Naturalmente, se necessario il mastro d'ascia piega a fuoco il fasciame. La ricerca del legname avveniva solitamente nei paesi montani dell'interno, dose ci si avvaleva come punto di riferimento dei maestri carrai che davano indicazioni circa i luoghi dove comprare il legname migliore.

Lo Coco ci ha raccontato che il legname prima lo comprava a Capo D'Orlando, dove giungeva dai Nebrodi. Si comprava a tronchi comportando notevoli difficoltà nel trasporlo. Adesso si preferisce compralo a Napoli, da dove arriva già tagliato a fasciami.

Le essenze legnose venivano scelte attentamente in funzione delle varie parti strutturali. Si preparavano con legno di quercia la chiglia, il dritto di prua, la poppa e il dritto di poppa, fissandoli su una base di legno. Si posavano, poi, le ordinate (in gelso bianco) che formavano lo scheletro dell’imbarcazione dal centro verso prua e verso poppa dopo averle misurate e tagliate servendosi dello strumento di misura usato dal mastro d'ascia e che si differenzia da una bottega all’altra.

Si fissava, quindi il fasciame che formava la cinta all’altezza del primo banco, in modo da poter inclinare la barca senza che ciò potesse pregiudicarne la struttura. Si procedeva, quindi a completare i bagli, i banchi ed il pagliolato. II fasciame esterno veniva sagomato a fuoco. Un tempo si faceva il fuoco a terra, adesso si usa la fiamma ossidrica. Generalmente l'opera morta veniva ultimata alla fine. Sull’ultima tavola dell’ opera morta venivano fissati gli scalmi che reggevano la fasciatura dell'opera morta stessa. Infine si fissava il torello e il controtorello. Talvolta alcune parti venivano immerse in acqua e sale affinchè il legno, dopo parecchi giorni, diventasse più impermeabile. Si procedeva, infine, al calafataggio che si effettuava inserendo tra le tavole del fasciame canapa catramata in modo da colmare le possibili lacune tra una fascia e l'altra. A calafataggio ultimato si effettua la verniciatura e la costruzione delle parti che riguardano l'armamento velico al quale collabora un altro artigiano. Una particolarità delle barche di Porticello è la prua slanciata.

La costruzione tradizionale rappresenta un sapere assoluto gelosamente custodito dall’artigiano e tramandato solamente al tiglio e in casi eccezionali al ragazzo di fiducia della bottega.

II corretto uso del mezzo garbo determina la riuscita della barca. Si tratta, infatti, di uno strumento indispensabile per la costruzione delle barche. L’uso di questo strumento fa parte del bagaglio di conoscenze dell'artigiano. Il mezzo garbo riproduce la mezza sezione maestra dell‘imbarcazione da costruire e serve a creare le curvature del corpo centrale dello scafo.

Lo Coco ci ha raccontato che prima di intraprendere la costruzione di una barca generalmente preparava il modello. Il modello si provava nella vasca per stabilire la linea di galleggiamento ed il peso dei serbatoi di carburante e idrici e del motore che starà nella barca. Preliminare è il disegno su carta, tracciando la chiglia dello scafo e il piano orizzontale per vedere la larghezza che lo scafo deve avere. Successivamente si ripete l'operazione a distanza intermedia. Su tavole intermedie si traccia una semi larghezza; si uniscono dopo le tavole in base all’esperienza del maestro, si raccordano le varie curve e si scompone il modello. Si vedono così le linee d'acqua che si riportano su un foglio in scala e quindi, sulle ordinate. Tracciando il garbo in base al modello si tracciano le ordinate. Tutte queste operazioni sono affidate all'esperienza del mastro d'ascia.

La barca della quale si è documentata la costruzione è lunga m. 7.20 con la chiglia di m. 5.20. È larga m 2.50 e dovrà essere utilizzata per la pesca del calamari, per la pesca con palangaro. con o senza un verricello idraulico. Le parti che si facevano prima in ferro adesso si fanno in acciaio.

La barca in questione monterà un motore di 180 cv e sarà in grado di avere una velocità di 12 nodi. Sarà attrezzata di salpa ancore, timonerie, passacavi e potrà trasportare 9 persone.

Per quanto riguarda la manutenzione ordinaria si riporta l'esperienza effettuata sulle barche della tonnara di Favignana. La tecnica consiste in una fase preliminare in cui si riempiono le barche d'acqua intervenendo dove si presentano dispersioni con canapa e scalpelluzzo. Battendo il fasciame con lo “scarpidduzzu” l'artigiano esperto riconosce ulteriori falle. Con una fiocina ricoperta di canapa accesa e una ricoperta di vello di montone si passa omogeneamente la pece liquefatta sul fuoco. Mediante la fiocina ricoperta di vello di montone si stende la pece, tenuta costantemente liquida dal calore prodotto dalla matassa di canapa, confezionata con le reti in disuso, che brucia lentamente all’estremità dell'altra fiocina. In questo modo la canapa che si trova negli interspazi del fasciame si impregna di pece e crea una maggiore impermeabilizzazione.

Effettuata la fase di manutenzione si passa a un’altra fase che precede il varo e consiste nel cospargere di “sivu” i “parati” su cui dovrà scivolare la barca facilitando la discesa a mare che si verifica previa tradizionale “annacata” accompagnata dalla benedizione della croce (“spicu”) e dai canti.

Il recupero di queste tecniche arcaiche di manutenzione deve essere oggetto della nostra attenzione In quanto il mantenere vivo questo sistema dà la possibilità di tramandare usi che fanno parte di un sapere destinato a scomparire perché patrimonio di pochi artigiani…

 

 

Con molta pazienza nel tempo libero ho trascritto l'articolo della stampa domenica 30 maggio 1971 sui "mafiosi a Filicudi", allego un ritaglio del giornale e di altri due giornali, tra i tanti che allora parlarono di quel fatto, esattamente: il Popolo 27.05.1971 e AVANTI 27 MAGGIO 1971.
La Stampa domenica 30 maggio 1971 FILICUDI

Filicudi: le campane diedero l'allarme "Sbarca la mafia, e la gente fuggì via. Nell'isola sono rimaste una decina di persone malate ed invalide - Dice il sindaco: « Hanno messo un dito sulla carta geografica ed hanno trovato l'isola; ecco come si rovinano le Eolie» - Gli unici a non perdere la calma sono i quindici presunti mafiosi - Hanno voglia di parlare, si mostrano quasi divertiti - Nell'«operazione Filicudi» sono stati impegnati 400 uomini, dragamine, motovedette, aliscafi, motopescherecci, autofurgoni cellulari e un elicottero (Dal nostro inviato speciale) Filicudi, 29 maggio. « Se Gesù Cristo fosse nato a Palermo, direbbero che è mafioso pure lui, e lo manderebbero al soggiorno obbligato », brontola Giacomo Coppola. E' un gigante in abito sportivo, mani vigorose, spalle e mento da pugile.

L'uomo mi parla sporgendosi dal piccolo terrazzo in cui i quindici mafiosi (o sarà meglio chiamarli presunti mafiosi?) confinati a Filicudi sono riuniti come su un palchetto di teatro. Tutt'intorno si svolgono le più incredibili operazioni di polizia da sbarco della recente storia d'Italia: in terra e in acqua, in mezzo ai cespugli e sulla passerella di attracco non si vedono che carabinieri e agenti, gli occhi rossi di sonno, le facce disfatte dalla fatica, il moschetto a tracolla, lo zainetto con i lacrimogeni.

In rada sono ancorate una motonave, una nave-traghetto, due motovedette. Sul ponte della nave-traghetto si scorgono alcuni autocarri militari. Questa è la scena per quel che riguarda le forze dell'ordine. Per quel che riguarda invece gli abitanti di Filicudi, li vedi scaprettare in lunga fila, giù per i sentieri della montagna, fagotti alla mano, bambini in testa, diretti alla banchina d'imbarco. Nei giorni scorsi, i filicudini hanno dichiarato impossibile la convivenza dei mafiosi, dentro loro fuori noi: è stata l'alternativa.

«E' gente che ammazza i bambini, perché ce li avete portati qui? », han gridato nei giorni scorsi le donne di Filicudi in faccia ai colonnelli, ai questori, ai commissari con la sciarpa tricolore venuti con la truppa a consegnare l'imbarazzante comitiva dei quindici « indesiderabili ». Ma gli ordini sono ordini e per tutta risposta e arrivata da Palermo un'altra motonave carica di carabinieri: ed è apparsa in rada questa nave-traghetto, che tra lo sbalordimento e il sarcasmo degli astanti, ha manovrato lungamente per attraccare a Filicudi. Ma Filicudi ha i fondali molto bassi, e se anche fossero stati profondi, tutto quel materiale non si sarebbe mai potuto sbarcare, perché Filicudi non ha strade: solo mulattiere e sentieri da capre. Dice il sindaco di Lipari, Francesco Vitale: « Hanno messo un dito sulla carta geografica e hanno trovato Filicudi. Ecco come han rovinato l'economia turistica delle Eolie ».

Ora, la gente sta sfollando dalle case: suonano le campane a martello e i filicudini, centocinquanta persone in tutto, si imbarcano alla spicciolata sull'aliscafo per Lipari: episodio unico di resistenza passiva alla mafia e a chi l'ha mandata qui. I mafiosi sono affacciati al loro balconcino, tutti insieme, a spalla a spalla, circondati dai carabinieri. Sono gli unici che, in questi giorni di trambusto e di disagio, non abbiano perduto la calma. Anzi, via via che la perdevano gli altri, sembrano aver acquistato un umore beffardo, una commiserante filosofia di rassegnazione e di scetticismo per le cose di questo mondo. Hanno voglia di parlare. «Scriva, ma scriva giusto! », mi esorta Giacomo Coppola. «Avete scritto che sono nipote di Frank Coppola; il famoso gangster. Vi siete dimenticati che i Coppola a Partinico sono tanti. Perché non fate le ricerche anagrafiche? Io non sono nipote di Frank Coppola; non l'ho mai visto, mai conosciuto, eppure per colpa di questo zio che non ho, mi trovo qui».

Purtroppo non è solo il nome di Coppola che getta una ombra su questo gigante querulo: ci sono anche storie di droga di cui i magistrati non sono riusciti a venire a capo del tutto. Dietro il gruppo dei mafiosi confinati a Filicudi c'è un'impressionante catena di processi mal riusciti, di indagini incompiute, di istruttorie lacunose, d'insufficienze di prove strappate a torto o a ragione, in istruttoria o in dibattimento, nel primo, nel secondo o nel terzo grado del giudizio.

Affacciato allo stesso muricciolo, come un prete dal pulpito, Antonio Buccellato, un attempato signore che all'aspetto potrebbe ascriversi alla categoria degli imprenditori edili, perora la causa del buon diritto: « Vuol sapere perché son qui? Per l'invidia della gente, per le lettere anonime. Ho fatto fortuna con l'edilizia. Se la fortuna è mafiosa, anch'io sono mafioso. Se io le dico che questa è tutta una montatura, che ci han mandato qui perché ci son le elezioni in vista e si vuol dare la polvere negli occhi alla gente, lei lo scriverà?».

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Accanto a lui si leva la voce di un patriarca dell'insufficienza di prove. Giuseppe Chiaracane, un uomo quadrato, chiome bianche, cappello in testa, ritenuto il « boss » di Misilmeri: « Quindici pulcini hanno preso, i galli grossi li hanno lasciati fuori ». Ora, dal terrazzo dei mafiosi si sporge Gaetano Badalamenti: « Guardi, ma guardi questo signore! » (mi mostra il decano della comitiva, accanto a lui, Rosario Terrisi, settantenne, che ha gli occhi umidi pianto). « Stamattina, riprende Badalamenti, io ho visto piangere come un bambino questo signore, perché pensava a sua moglie lontana. Lei può credere che sia proprio questo un "terribile mafioso" come viene descritto? Lo guardi, lo guardi bene!».

Li guardiamo, li guardiamo bene. La parte delle vittime, nessuno meglio di loro conosce l'arte d'incarnarla: vittime dell'invidia dei rivali, dell'incredulità dei giudici, della situazione politica, delle angherie dell'apparato poliziesco e della maldicenza, infine, a tutti i livelli dell'opinione pubblica. Davanti a questa balconata di «vittime», e sotto gli occhi sbalorditi dei filicudini, le forze dell'ordine hanno offerto in questi giorni uno spettacolo di spropositate dimensioni. L'operazione ha visto impegnati trecento - quattrocento uomini, forse anche cinquecento, tra carabinieri, agenti, guardie di finanza e sommoz- zatori, e il tutto con l'appoggio di dragamine, motovedette, aliscafi, motopescherecci, scialuppe, idranti, autocarri e autofurgoni cellulari, riflettori, radioline ricetrasmittenti, un elicottero. Guardiamo quest'isoletta. A Filicudi-Porto sono quindici sedici case in tutto, affacciate sulla piccola rada. Una listerella di terra battuta corre lungo un piccolo arco di spiaggia. Il resto è montagna, una montagna da manuale; in forma di cono, le pareti ripide e selvagge che salgono alla vetta velate da una tenera peluria di verde, qualche olivo, qualche vigna. Nel versante del cono, Filicudi presenta un'altra piccola sfilata di casette, affacciate su un altro piccolo molo, chiamato Pecorini-Mare. Anche i Pecorini-Mare ha dietro di sé dure spalle di roccia e di ginestra che rampano verso la sommità del cono. Gli abitanti sono in tutto 150, come si è detto, per lo più anziani, donne, bambini. Un prete, un medico, l'ufficiale di posta. Il telefono, con l'addetto al centralino, è appollaiato a mezza costa: tre quarti d'ora di mulattiera per salirci. Non c'è luce elettrica, a Filicudi. e il cinema non si è mai visto. E' un'isola di povertà assoluta. « Crescono bene i capperi », mi dice con un sospiro una donna che sta affrettando il passo verso l’aliscafo dei profughi, in partenza per Lipari. I capperi e i turisti. Dicono gli abitanti di Lipari: «Filicudi ha tutta la nostra solidarietà, i suoi abitanti riceveranno da noi gratuitamente tutta la nostra ospitalità, finché sarà necessario. Lipari senza Filicudi, Filicudi non può vivere senza Lipari. Le Eolie sono un sistema se si colpisce una parte dell'arcipelago, lo si ferisce a morte tutto quanto ». Questi sono i personaggi delle operazioni che si sono concluse ieri con l'abbandono di Filicudi da parte di tutta la popolazione, eccezion fatta per un moribondo, e una decina di invalidi e di malati. E' stata un'operazione sconcertante, sotto lutti gli aspetti, e i mafiosi l'hanno capito così bene, che si mostravano divertili, e persino grati per l'occasione loro offerta di una recita a soggetto in presenza dei giornalisti. Continua Badalamenti: « Mi dica un po' lei: come si può aggiustare questa democrazia? Al processo di Catanzaro mi hanno descritto come un “fedelissimo" di Salvatore Greco. Ma qui mi han messo accanto questo signore Gaetano Accardi, che sarebbe invece legato ad Angelo La Barbera. Saremmo secondo i magistrati, due nemici acerrimi. Se è vero, perchè mi han messo vicino il signor Accardi? Forse perché mi ammazzi? Ma non è vero. Né io ho mai conosciuto La Barbera, né Accardi il latitante Greco ». Oggi pomeriggio il gruppo di mafiosi confinati a Filicudi è stato trasferito dalla frazione Porto alla frazione Pecorini Mare nella stessa isola e sistemato in alcune stanze abbandonate dalle famiglie e requisite per la circostanza. Il grosso delle forze dell'ordine, carabinieri e polizia che ieri erano sbarcati nell'isola per domare la protesta degli eoliani contro l'arrivo dei « soggiornanti obbligati », è stato oggi ritirato: il gruppo dei sorvegliati è rimasto sotto il controllo di una quindicina di carabinieri, al comando del tenente Fedele. Si è completalo in giornata l'esodo della popolazione che ieri non aveva potuto essere ultimato a causa dell'ora tarda e del mare grosso. Sono state evacuate alcune famiglie e una giovane paralitica. Aurora Defina, di 23 anni.

Il delegato municipale di Filicudi, Stefano Zagame(i), ha spedito telegraficamente le sue dimissioni dalla carica al sindaco di Lipari. La Giunta comunale di Lipari, in segno di protesta contro l'assegnazione dei mafiosi al domicilio obbligato di Filicudi, si è dimessa e il Consiglio comunale ha pure consegnato le sue dimissioni al sindaco, con l'impegno di renderle operanti dopo il 13 giugno, nel caso non venga revocato il provvedimento che ha posto in crisi l'economia turistica dell'arcipelago. Il sindaco comm. Francesco Vitale, ha preannunciato che egli sarà il primo ad astenersi dal voto nella prossima consultazione elettorale regionale.

Il Comitato di resistenza passiva» pro-Filicudi ha annuncialo che inviterà i cittadini a gettare in mare certificati elettorali nelle prossime votazioni.

Gigi Ghirotti

 

 

Segnalo questo libro con tante testimonianze di confinati politici a Lipari originari di Parma ma non solo con diverse fotografie scattate a Lipari.

In copertina Lipari 1927. Umberto pagani con la moglie Elvira Bonacini e i figli Bruna e Giacomo.

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ALBERTO URSO E LAURA "IO CHE AMO SOLO TE..." DEDICATA A TUTTI GLI EOLIANI E GLI AMANTI DELLE ISOLE SPARSI NEL MONDO

 

L'Unità 17.05.1957 ritorno a Lipari.

Il battello di Lipari si prende a Milazzo, di buon mattino. La giornata è grigia e , fuori del porto, le acque si prevedono mosse. Davanti alia biglietteria, come la volta scorsa quando feci quel viaggio, un frate dall'aspetto trasandato tende la cassetta delle elemosine per l'obolo propiziatorio: ad uno ad uno individua i viaggiatori abituali, e li interpella famigliarmente; mentre agli altri s'avvicina umile e discreto, il collo torto.

Il viaggio dura un paio di ore o poco di più: e appena fuori del capo, già s'intravvede il profilo dell'isola dello Stromboli; ma i passeggeri sono rintanati nelle scalette o giù in basso, nelle corsie di seconda classe, dove si soffre meno. Sul ponte e rimasto solo un signore, e a lui mi rivolgo per scambiare quattro chiacchiere: è il professore Bernabò Brea che soprintende

agli scavi archeologici nel Mezzogiorno. Allora, quando feci il viaggio di lipari , era assente, il museo non era ancor aperto al pubblico e la

sua aiutante, Madame Cavalier si diceva fosse alquanto scorbutica coi giornalisti, e certo non invogliava a chiedere una deroga alle disposizioni: e dunque ora si sarebbe potuto visitare questo museo? Si, naturalmente, e se lo avessi voluto, lui stesso cortesemente si offriva per accompagnarmi.

Fu così che, all'arrivo, potei fare la conoscenza della sua famosa aiutante, Madame Cavalier: e a me parve tutt'altro che d'umor difficile, che anzi, percorrendo assieme quei cameroni che una volta servivano per l'alloggio dei confinati, e che ora hanno mirabilmente trasformati in museo, e avendole chiesto se i metodi in uso in certe altre zone, a Cerveteri, ad esempio, con sonde elettriche e assaggi acustici fotografici, più che a esplorale quella data zona archeologica non servissero a saccheggiare le tombe, per tutta risposta e come non avesse rilevato l'indiscrezione della domanda, veniva descrivendomi le ansie e, al tempo stesso, le gioie dell'esplorazione del sottosuolo con scavi sistematici dell’intero giacimento, senza peraltro ricorrere a strumenti scientifici moderni, ma semplicemente operando con estrema pazienza e con metodi che essi stessi andavano perfezionando di giorno in giorno. Così operando erano riusciti a ricostruire la successione delle culture umane dal periodo neolitico a quello del bronzo, del ferro, fino al periodo greco, tanto che ora, in quel loro museo si poteva abbracciare, in maniera unica, cinque millenni di storia della civiltà.

Il professore intanto s'era messo a parlarci dei periodi di prosperità e di decadenza delle isole Eolie, e ci andava sottoponendo frammenti di vasi in ceramica impressa oppure dipinta a bande rosse e nere, o ancora d'impasto bruno; eppoi lucerne, tazze. orci, maschere di personaggi della commedia attica e ateniese; e infine gioielli di diversa fattura, statuette, scarabei: oggetti che così come erano disposti nelle varie sale, rappresentavano la documentazione precisa della successione stratigrafica di quella area archeologica che comprende il milazzese e le isole Eolie: Filicudi, Panarea, Basiluzzo e, principalmente Lipari.

In tal modo dunque, questi scienziati che avevan dedicato la loro vita a frugare sottoterra alla ricerca di mondi scomparsi, indirettamente rispondevano a un laico che con poca discrezione li aveva richiesti d'un giudizio su metodi di ricerca che forse non li convincevano che per lo meno non avevano voluto essi stessi adottare: e ciò mi richiamava alla mente un racconto che lessi anni fa, d'un astronomo e di un tale suo conoscente che avendogli chiesto la conferma di non so quale cosa spiacevole che gli era occorsa, per tutta rispostagli s'era messo a parlare dei milioni d'anni che la luce d'un dato astro impiegava per raggiungere la terra.

Cassa del Mezzogiorno. L’isola di Vulcano dista poche miglia da Lipari, ma è poco conosciuta ai turisti per le difficoltà di comunicazione: il vaporetto non fa un servizio giornaliero e, nella stagione cattiva, può anche capitare di rimanervi segregati per qualche tempo.

G.B. CANEPA

 

L’altra volta che ci venni, tre anni fa, m’era parso il posto ideale per trascorrere qualche giorno in pace e in libertà, senza dover sentire gracchiar le radio e nemmeno poter leggere i giornali; e così, lasciata a Lipari la compagnia del vecchio Bongiorno, il papà di noi tutti quand’eravamo confinati, e gli altri amici che m’avevano accolto festosamente, m’imbarcai su un fuoribordo per godermi colà quei pochi giorni che mi rimanevano di vacanza, e magari e magari far qualche bagno d’acqua solforosa che m’aveva detto esser miracolosa per i primi acciacchi della vecchiaia.

Subito nei pressi dello sbarcatoio, c’è una dozzina di casupole malmesse: il paesino è in alto, a poco più di un’ora di cammino, nella estrema punta dell’isola; mentre di fronte all’insenatura fatta dalla sottile striscia di sabbia che unisce Vulcano a Vulcanello, sapevo che si poteva trovar alloggio in due pensioncine, dove si mangia del buon pesce fresco è il vino che servono è della Perrera, un vino d’un bel rosso corallino, generosissimo. E difatti, trovata ancor chiusa la prima pensione, bussai alla seconda, quella di Giuffre, dove subito mi accolsero cordialmente; e, deposti i bagagli, prima ancora di pranzo, corsi indietro, sulla penisoletta a godermi lo spettacolo di Vulcanello, coi colori strani e violenti delle sue roccie, e, di lassù, alle ultime luci del tramonto, la vista incomparabile dell’arcipelago. Ora, mentre m’incammino per quei luoghi un tempo deserti, avevo notato con meraviglia un gran fervore di opere; già s’era costruito un albergo e un altro se ne stava costruendo e come se non bastasse, una squadra di operai s’indaffarava a trasportar dei massi che poi venivano accatastati un sull’altro, costruendo in tal modo un muretto basso sulla sabbia, esattamente come fanno i ragazzi quando giocano sulle nostre spiaggie. E chiesto cosa significasse quel loro gioco, mi venne risposto che si trattava d’una vera strada carrozzabile; e che gli stecchi che vedevo affiorare ogni tanto dalla sabbia, erano un rimboschimento che avevan fatto e che naturalmente non aveva attecchito: “E così - borbottava un di loro - ci sarà ancora lavoro per quest’altro anno…..”.

Infine, prima d’andarmene, avevo chiesto chi finanziasse con tanti milioni quel lavoro di Sisifo, e m’ero sentito dire, in tono compiaciuto, che si trattava della Cassa del Mezzogiorno.

 

NUOVE EFFEMERIDI N. 46 1999 ARCHEOLOGIA SUBACQUEA

VINCENZO TUSA E BEPPE MICHELINI: pionieri di sicilia

intervista di franco Nicastro.(uno stralcio con foto)

L'inizio però era stato ancora più avventuroso..........

Michelini: “E anche più casuale. Tutto cominciò nei primi anni 50 quando un gruppo di amici, appassionati di pesca subacquea, ci recammo nell'ufficio del professor Tusa alla Soprintendenza. Gli presentammo un pezzo ripescato a mare. Era un fatto straordinario, anche se del tutto naturale: la Sicilia è un'isola e tutte le civiltà, dalla punica alla romana, sono venute dal mare. Una volta gli regalammo anche un'ancora”.

Tusa: “Pensai di stringere un patto di collaborazione. Loro non tenevano ai soldi, ma una remunerazione sotto forma di rimborso spese era giusto darla. Più che un dovere lo consideravo uno stimolo. Li ricordo ancora quei giovani pieni di vita della buona società palermitana, che univano un solido bagaglio culturale a una straordinaria sensibilità: oltre a Michelini, Ubaldo Cipolla, Cecè Paladino, Enzo Sole, Dick D'Ayala, Mario Savona”.

Michelini: Nel gruppo c'era anche Ottavio Zanca, un giovane ingegnere che morì proprio in un incidente subacqueo a Isola delle Femmine, nella zona di Orlata dove aveva recuperato alcune anfore poi donate dalla famiglia al Museo Salinas di Palermo.”

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Ma come proseguì, professore Tusa, quell'esperienza nata dall'entusiasmo e dalla tenacia di un gruppo di “bravi ragazzi”?

Tusa: “L'attività continuò fino alla fine degli anni 60. E purtroppo fu irrimediabilmente segnata da un episodio tragico. Nel 1968 con il gruppo dei giovani sub lavorammo su un relitto greco a Punta San pietro, al largo di Lipari. Alla ricerca partecipava anche l'Istituto Archeologico Germanico. Attorno al relitto erano stati recuperati pezzi di ceramica nera di tipo campano. I tedeschi erano catturati dal fascino del nostro lavoro. Vedevano i sub immergersi senza problemi e pensavano che fosse una cosa facile. Un giorno ci provarono anche loro, ma l'avventura finì molto male: due tedeschi ci lasciarono la vita.”

La collaborazione tra l'archeologia ufficiale ed i sub dilettanti, che invece di dare la caccia alle cernie scendevano in mare alla ricerca di antichi relitti, finiva in quel momento. Ma per lungo tempo quella è rimasta l'unica vera campagna di ricerche mai condotta in Sicilia, con le sole eccezioni di Luigi Bernabò Brea a Lipari e di Gerard Kapitan al largo di Siracusa. Sia Tusa che Michelini oggi non hanno dubbi ad affermare che quella esperienza irrituale si rivelò una carta vincente. Tusa cita, tra gli altri, due risultati, per tracciare un rapido bilancio: “Si deve in buona misura anche al lavoro dei sub dilettanti se il museo di Palermo riuscì a costituire la sezione archeologica. E poi non va sottovalutato il contributo scientifico di quelle campagne estemporanee. Dati e materiale archeologico di prim'ordine sarebbero andati perduti per sempre. E invece è da lì che sono ripartiti tutti gli studi successivi”.

Palermo , 9 marzo 1999.

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Ne avevo parlato abbondantemente e dettagliatamente nella rubrica con Gennaro Leone, in merito al "Relitto maledetto di Capistello", quì altro piccolo tassello.

QUANDO L’ARCHEOLOGIA E’ ROMANZO L'OSSERVATORE ROMANO - DELLA DOMENICA N. 15 DEL 11.04.1971.

Proprio un romanzo: così deve apparire l’archeologia ai membri delle Istituto Archeologico Germanico, continuamente operanti nelle varie località, comprese nell’area del mondo greco-romano, per la ricerca di sempre più dettagliate e precise notizie sui monumenti co­nosciuti, o per la scoperta di nuovi reperti e documenti che ci illuminino maggiormente sull’antichità classica.

Due sub germanici a Lipari

In questa visione romantica della archeologia, fa fede lo slancio con cui il dott. Helmut Schläger, vicedirettore dell’istituto, dopo avere — negli anni 1962-1968 — studiato e scavato in terra a Paestum, a Solunto, a S. Maria in Anglona, a Metaponto, a Segesta e in varie altre località antiche d’Italia, volle incominciare a scendere nel fondali sottomarini per tentare di tirar fuori, dalle coltri di fango, di alghe e di muschi, i resti di strutture edilizie « classiche » sommerse e i relitti delle navi romane perdute. L’archeologia subacquea era davvero affascinante e l’attività ad essa relativa non poteva non comparire negli annali del celebre e storico Istituto, in cui generazioni di esperti s’erano trasmessi l’uno all’altro la fiamma dell’amore per gli studi dell’antichità.

Dopo varie immersioni effettuate nell’antico porto di Lilibeo (Marsala), il sub Schläger si recò in Turchia ove, dal settembre al novembre del 1968 eseguì im­mersioni, a scopo scientifico, nell’antico porto di Phaselis.

Tornato in Italia, nel giugno del 1969 si recò a Lipari. Era una splendida estate. Insieme a Ugo Graf, suo assistente, egli prese a compiere numerose immersioni per l’esame subacqueo di un antico relitto affondato, a 60 m. di profondità, nei pressi dell’isola, con un carico di ceramica del III sec. a.C. Una volta completato tale esame, sarebbe tornato di nuovo a Segesta e a Metaponto, ove era atteso per ulteriori ricerche e studi. Ma il 9 luglio accadde la tragedia: Schläger e Graf, immersisi per un’ennesima volta, non risalirono più in superficie. La morte li aveva ghermiti entrambi presso quel relitto, in seguito al difettoso funzionamento degli apparecchi di respirazione.

La SCOMPARSA dei due studiosi fu certo una dura perdita, ma il Deutsche Archäologisches Institut era abituato alle prove.

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Da GENTE ALLE EOLIE Mariaelisa Donvito casa editrice ceschina 1959, libro di cui ho parlato nella rubrica con Gennaro, la Gita a Filicudi.

GENTE ALLE EOLIE Mariaelisa Donvito casa editrice ceschina 1959

Filicudi …… Siamo arrivati al porto. Un motoscafo della Navisarma è in partenza per Filicudi: decido di andare.

E’ un viaggio veloce, fatto tutto di azzurro. Arriviamo a Filucdi e quando sbarco chiedo:

- A che ora riparte il mezzo?

- A mezzogiorno circa, ma è meglio che sia sul molo alle undici e mezzo. Possiamo anche anticipare.

- Il paese di Filicudi se ne sta acquattato in alto, e sul mare ha mandato un’esile striscia multicolore di casette in fila. Dietro, la montagna, coronata, di verde precipita a balze e terrazze fin quasi in mare, trattenuta a stento dalla strada. Lungo la riva si snoda una diga di ciotoli levigatissimi che il mare mantiene lucenti con ogni onda. Tutte quelle rotondità a perdita d’occhio, disposte una sull’altra senza interruzione hanno la forza e il ritmo di forme primitive.

- - Ma il paese dov’è, io non lo vedo.

- Sta in alto, signorina, dietro quegli alberi, e lì, dove c’è la chiesa, è Valle di Chiesa.

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La guardo. Due occhi brucianti mi sorridono da un volto gentile. E’ tutta nera sotto l’ombrello; solo i capelli e il sorriso sono candidi. In quell’orgia di colori violenti è un punto fermo.

Ha ritirato la posta e si avvia sulle prime gradinate della strada, col suo sacco sotto il braccio, l’ombrello aperto, e l’andatura composta di chi dà al tempo un valore relativo.

Decido di salire anch’io a Valle di Chiesa.

- E’ arrivata ora a Filicudi, signorina?

Un uomo dal viso scavato, con occhi miti e la camicia svolazzante è sbucato da chissà dove.

- Vorrei salire a Valle di Chiesa… ma si va a piedi?

- Signorina, a piedi per carità. Voi volete la morte vostra. Ora chiedo a Salvatore se mi fa il piacere, se la Cecca non gli serve…..

La Cecca non gli serve; sta ruminando tranquilla la sua biada: sul basto di legno mi mettono un cuscino, e con la scorta al fianco inizio la salita.

La strada, anzi la scalinata, s’inerpica a zig zag, guadagnando una terrazzo dopo l’altra, e a ogni svolta si spalanca sempre più la finestra del cuore. Filicudi si rileva: carrube, fichi, vigneti, olivi, fichi d’india; ogni terrazza è un frutteto, tappezzato da ciuffi di capperi. La Cecca avanza sicura, e non sente la briglia e neppure le grida del mio cicerone. Da una casetta aggrappata a una sporgenza una donna ci guarda salire.

- E’ la signorina doveva arrivare?

- No, - dice il mio accompagnatore – questa è venuta a far fotografie.

La donna alla finestra approva col capo e mi saluta.

- E’ la sorella della postina. E quello è l’ufficio postale.

- Ma lei non si stanca a salire a piedi?

Asciugandosi il sudore che gli gronda copioso alza le spalle.

- Noi siamo abituati, signorina, e poi si va adagio…sa quante volte la faccio questa strada?!... Ino non sono di qui, vengo a comprare i capperi e poi li vendo nel continente, ma qui conosco tutti, come a casa mia.

Sempre più su. Ai bordi della strada, immense siepi di more brune ci accompagnano, e ai miei piedi l’isola si articola diventando bella e remota.

Il mare che la bagna è azzurro e puro, il profilo della costa soave.

Allungo una mano e mi riempio la bocca di more mature.

- Fanno male quando sono calde, non le mangi.

Mi guardo attorno. Da sotto una pergola, quasi sommersa fra vasi di gerani, una vecchietta mi osserva mentre li innaffia.

- Sia tranquilla, non ne magio più.

- Buon giorno – e continua a badare ai suoi fiori.

Sorpassiamo le case Filicudi alta, e il mio compagno scambia saluti e notizie con quelli che incrociamo.

Il mare, la costa sono ormai lontani, si respira solo il profumo dolce dei fichi.

- Aha, aha, Cecca!

Ma quella non mi dà retta: e ha ragione lei.

Uno strano silenzio stagna fra le case e davanti a porte e finestre inchiodate. La mia guida con uno sguardo rassegnato mi spiega tutto.

- Se ne vanno via, signorina, qui si vive male.

- Ma è coltivata bene, ci sarebbe da mangiare.

- Eh, signorina, con un po' di capperi, di fichi e di uva che vuol fare?

- E le more; perché non raccogliete le more, e le vendete?

- E a chi?

All’ombra di due case abbandonate, una minuscola vecchia fila: è assente e dimenticata, paga del fuso che prilla e della gallina che le razzola accanto.

- A Valle di Chiesa la porto dal signor Bonica, lui ha il vino più buono ed è felice di farlo assaggiare.

Il paese appare adagiato in una conca verde. Ma il signor Bonica non è in casa: mortificato, la mia guida manda un ragazzino ad avvertire sua cognata di mettere nel pozzo mezzo litro di vino.

- Così quando scendiamo, beviamo qualcosa di fresco.

Il piazzale della chiesa è deserto, il portale chiuso; ma intorno il muretto del sagrato è vivo di oleandri, gerani, nasturzi. Ci viene incontro un bambino, il viso stranamente pallido, nonostante tutto quel sole.

Un poco indolenzita mi riposo. Ma un pianto lacerante rompe l’aria: sotto la pergola della canonica vicina, il bambino pallido urla. Gli corriamo accanto, gli occhi senza lacrime ci guardano spaventati, e nel visetto macilento splende vermiglio il sangue.

Presto, l’acqua del pozzo; con un secchio pieno affoghiamo quel pianto.

- Nu te scantà: non è nulla, ora passa, - lo consola il mio compagno, battendogli una mano sulla camicia inzuppata.

- …Ma che hai fatto? Sei caduto? – Gli occhi, ancor più attoniti, annuiscono gonfi di lacrime non versate. Ai piedi del piccolo un cucciolo scodinzolante lecca ghiottamente il sangue caduto.

- Che ora è? Devo tornare.

La realtà del tempo mi è ricaduta addosso di colpo.

- C’è tempo, signorina, saranno le undici.

- Ma il mezzo parte ala undici e mezzo.

- Non si preoccupi: non perderà il mezzo. Ora scendiamo da mia cognata a bere.

Risalgo sulla Cecca, e il piccino ormai risanato, ci trotterella accanto.

- Peccato che non ci sia il signor Bonica. Lui sì che ha il vino buono. Quello di mia cognata non è così.

Sotto una folta pergola la cognata ci aspetta sorridendo. Il vino nei bicchieri è rubicondo.

- Com’è buono….potrei comprarne un poco?

- Certo, signorina,…vede io sono vedova, e allora mi tocca fare tutto da sola. Ho le mie sorelle con me, una è paralitica.

Nella stanza, rassettata con la meticolosità che solo certa povera gente conosce, la sorella paralitica mi saluta da una sedia con viso assurdamente giovane.

- Rimane un po' con noi, signorina?

- No, riparto subito. Sarà già ora di andare: il motoscafo non mi aspetta

- Ma c’è tempo. Stia tranquilla non lo perde.

Assaggi queste pere, sono piccole ma dolci… E poi un altro po' di vino, ha bevuto così poco.

Vorrei fermarmi più a lungo sotto quella pergola folta e amica, dove i grappoli di uva ancora acerba pendono accanto a quelli dei pomodori raccolti per l’inverno. La luce abbagliante del sole è lì fuori, e accende le corolle delle zinnie e delle petunie; ma nell’ombra il sorriso delle donne e la dolcezza delle pere mi fasciano di cordialità.

- Grazie, ora devo proprio andare, grazie, arrivederci.

- Arrivederci, e venga a stare un poco a Filicudi.

Col bottiglione del vino in mano riprendo la discesa a piedi. A rimontare sull’asino rischio di fare un volo al di sopra delle sue orecchie.

- C’è tempo, signorina, e poi perché si preoccupa, da mangiare c’è da dormire anche….perciò non c’è fretta. Dia la bottiglia a me, così cammina meglio.

Il sole arde alto sull’orizzonte e la strada ci rotola davanti. La Cecca, insensibile alla mia fretta, zoccola pacata.

- Ecco il signor Bonica: peccato che lei debba partire….Sa, quello ha studiato, fa le poesie.

Sotto l’ombra traforata di un albero di fichi un uomo si asciuga il sudore e si fa vento con una cartella di cuoio: la camicia bianca, sotto un gran ciuffo di capelli chiari, gli si è incollata addosso.

- La signorina è stata fino a Valle di Chiesa, e ha fatto tante fotografie. Forse farà un libro.

Mi stringe la mano col calore di una lunga amicizia.

- Brava, signorina, lei farà del gran bene alla nostra isola: e dica che produce tutto, che è bella, che si vive bene qui…Venga a casa mia… le farò assaggiare il mio vino…è buono….non si ferma un poco con noi?

Parla a strappi: la salita pesa ancora sulla sua voce.

- Dica che Filicudi è bella, e che la gente qui è buona…ma venga a bere il mio vino, la rinfrescherà.

- Non posso, signor Bonica, mi dispiace: il motoscafo parte tra poco.

- Allora l’aspetto…a bere il mio vino: si ricordi che è invitata, e poi le leggerò qualcosa di mio…Come mi dispiace, non ho niente qui…ecco, almeno queste.

E, frugando nella sua cartella, mi porge un fascio di cartoline di Filicudi.

Su una di queste, di modeste pretese, si vede sorgere dal mare a canna, l’alta roccia a guardia dell’isola e fra le nuvole campeggiano due versi:

sapienza divina qui mi staglia

a tua tutela Filicudi bella

P. Bonica

- L’aspettiamo, si ricordi – e l’invito cordiale mi raggiunge alla svolta della strada.

Arriviamo sulla riva che il motoscafo ha già il motore acceso. Corro sul molo, sempre seguita dal mio compagno.

 

 

 

 

LETTERA DALLE EOLIE Panorama 1965 di Paolo Pernici 6° ed ultima parte immagine dal testo di Luigi Salvatore d'Austria.

Naufragio al Pertùso 

Finiti i tonnàcchi incomincia il tempo degli squisiti calamari che si pescano come i tòtani, ma all’imbrunire. Bisogna perciò poter andare a mare, e d’inverno non è facile a Ginostra che è esposta a ponente, e quando il mare di ponente è superiore a forza tre, non ci sono storie: sei bloccato, non c’è nemmeno la piazzola per l’elicottero, se ti viene la peritonite devi morire.

Quando invece ponente è su forza 3, entrare e uscire dal Pertùso è questione di coraggio, bravura e stato di necessità. Il traghetto di passeggeri, posta e merci fra Ginostra e le navi che la collegano con Napoli e Messina è affidato al rollo: un equipaggio di tre uomini che cambiano sempre perché la Navisarma (la compagnia che appalta il servizio) non li stipendia, tanto il governo, ottocento milioni all'anno di sovvenzione glieli dà lo stesso.

Gli uomini del rollo lavorano a percentuale, senza assicurazione sulla vita (come del resto anche i passeggeri che trasportano) e sì che specie d’inverno occasioni di rischio, a Ginostra, se ne presentano parecchie.

 

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Quando il rollo è rischioso e le merci da sbarcare prevedono per l’equipaggio guadagni sull’ordine di 50 lire a testa, l'operazione, ovviamente, non si fa. Accade così che chi aspetta cibo o pacchi diventi crumiro, tentando di farsi il suo rollo privato. È capitato alcune volte anche a me, e una di queste facemmo naufragio, perché la moglie del capo-rollo, per paura che suo marito, punto sul vivo, seguisse il nostro esempio col sacco della posta che aveva già collocato sul suo gozzetto, espose a tradimento sul pennone la bandiera rossa che segnala alla nave di non fermarsi. Dovemmo uscire subito, allo sbaraglio, senza aspettare il momento di calmerìa che al Pertùso costituisce il segreto per farcela. Ci vennero incontro tre ondate di seguito, ci

sbatterono contro gli scogli come cubetti di ghiaccio in uno shaker da cocktails. Avevamo usato la lancia del bottegaio Petrusa ch'è solidissima: perciò ci salvammo. Avevamo varato in cinque, quando sbarcammo eravamo quattro. Il quinto (un cacciatore di conigli liparota che non sapeva nuotare) approfittando d’un cavallone che ci aveva alzati molto, s’era tuffato sulla banchina (che a mare calmo è due metri sul livello dell'acqua), e così s’era messo in salvo prima di noi.

Quest’autunno i tempi si son rotti male. Giorni e giorni di maltempo e isolamento totale, anche telefonico,  perché gli apparati della posta, reliquie americane del tempo di guerra, servono a tutto meno che a parlarci.  E a mare, niente cavagnole, niente cernie a riva, niente tonnàcchi, e, sempre per via del maltempo, pochissime le volte che i ginostrini sono potuti uscire a calamari. Resta la pesca più miserabile e sicura dell’anno: le boghe. C’è un punto sotto la Sciara del Fuoco, dove precipitano le lave del vulcano, che per le boghe è assolutamente sicuro: cali le apposite reti a una maglia al pomeriggio, le ritiri rapidamente a sera, e se le boghe ci sono ci sono, e possono anche essercene uno o due quintali. Le vendono ai grossisti siciliani a 300 lire al chilo, e una parte se le mangiano; e a Ginostra, quando il mare cattivo impedisce l’arrivo delle merci, le boghe sono il cibo fisso dei mesi invernali.  Boghe arrosto, lesse, in carpione, in brodo e in polpette, ed è anche per levarsi dalla bocca l’ormai ossessionante sapore di boghe, che in questi giorni i ginostrini scrutano con particolare attenzione l’orizzonte, quando il mare è jàncu dopo una mareggiata.

Un giorno o l’altro Favorito, Piemonte e lo Schiavo vedranno una gobba galleggiare addormentata. Gridando a tutti: « E tortùghe, e tortùghe!» scenderanno di corsa, coi binocoli al collo, prenderanno i coppi e vareranno in fretta le barche, prima che il cibo  si svegli, cambi idea, e si rituffi nel blu.

Paolo Pernici

 

 

 

La Stampa 09.04.1961 numero 85 pagina 7
Un destino desolato di povertà e di sofferenza è la sorte dei bambini nell'incanto di Lipari Italiani "dimenticati,, dalla nazione dopo cent'anni di vita unitaria Un destino desolato di povertà e di sofferenza è la sorte dei bambini nell'incanto di Lipari L'accorato appello a "Specchio dei tempi" di don Paino, parroco di Sopra la Terra, denunciava una realtà meno tragica del vero - Duemila persone abitano nelle casupole sgretolate di quel borgo: otto-dieci per stanza, senz'acqua, in confusa promiscuità - Sono pescatori, ricchi soltanto di figli; molte famiglie guadagnano 135.000 lire all’anno - I bambini crescono per strada; appena capaci di reggere il timone e gettare le reti, vanno in mare - Nella dura fatica dimenticano quel poco che hanno imparato a scuola, ridiventano tutti analfabeti; attorno ai 17 anni formano, di solito, una nuova famiglia - E' una condizione di primitiva e fosca miseria, immutata nei secoli « Specchio dei tempi > ha risposto all'accorata preghiera di don Onofrio Paino, parroco di Sopra la Terra a Lipari. «Aiutate gli infelici bambini del mio quartiere (aveva scritto).

Mandate' un giornalista, che descriva la disumana miseria di quest'isola e constati come gli altri italiani non hanno fatto nulla per alleviare la pena di questi fratelli ». Un inviato de La Stampa è giunto nell'isola e racconta oggi quello che ha visto. Speriamo che l'agghiacciante testimonianza risvegli In tutti— governo, autorità, opinione pubblica, cittadini di ogni regione — una concreta, solidale volontà di fare finalmente qualcosa. L'Italia unita ha cent'anni: è giusto, è lecito che degli italiani siano lasciati in una miseria cosi disperata e antica? Il modo più serio per celebrare il centenario, consiste nel cancellare queste macchie, nel riparare a queste colpevoli dimenticanze. (Dai nostro inviato speciale) Lipari, 8 aprile. Avrei desiderato svolgere questa indagine sul tema che i poveri soffrono anche in paradiso, ma accostandomi alla nuda, vera povertà, e non solo materiale, ho sentito le parole farsi inefficaci, offensiva ogni esposizione che non sia documento.

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Come si potrebbe descrivere la condizione dei coniugi Maria e Salvatore Puglisi, entrambi di quarant'anni, lui pescatore a 500 lire al giorno quando il tempo consente alle barche di scendere in mare, se non dicendo brutalmente che vivono, mangiano, dormono in una camera di quattro metri per quattro, quasi interamente occupata da due letti, in uno dei quali dormono i coniugi e nell'altro, insieme, i loro quattro figli, un ragazzo di 21 anno, una giovinetta di 16 e altre due bambine di 12 e 10 anni? Sbarcando a Lipari, queste cose non si vedono. Si corre alacri e leggeri verso l'isola in cui la giovinezza del mondo ancora ride con freschezza luminosa, dove cielo, mare, colli e declivi intrisi del profumo della zàgara in fiore sembrano i componenti ideali per una ispirata felicità terrena, e non si può, o non si vuole immaginare che il paradiso terrestre ospita anche due inferni: uno è bianco fino al delirio, le cave di pietra di pomice di cui dirò altra volta; uno nero, gremito di casupole sgretolate dal tempo, con le facciate dipinte in rosa, o in tenero verde, e gli interni anneriti dal fumo di sbrecciati camini, e da secoli di respiri affannosi di esistenze opache. Lipari accoglie i turisti con molte seduzioni, linda e agghindata come tante stazioni balneari alla moda, ma lo schermo è troppo fragile per nascondere l'altra realtà dell'isola. E' sufficiente un po' di calore umano, il desiderio di accostarsi a questi uomini che sembrano germinati dalle pietre vulcaniche, di cui pare abbiano assorbito fin l'ardente e greve aridità, per comprendere come si può essere infelici anche in paradiso. Dai due moli, i visitatori entrano per le porte grandi di Lipari, tra nobili case dai rigonfi balconi in ferro battuto traboccanti glicine e gerapi, fra sontuose scenografie di chiese barocche, e pochi pensano di spingersi al quartiere Sopra la Terra, che si addossa alla città luminosa come un grumo di tetra miseria. Ci sono andato per incontrare don Onofrio Paino, parroco del quartiere. Il sacerdote aveva scritto una patetica lettera a « Specchio dei tempi » per chiedere che qualcuno lo aiutasse a costruire un asilo in cui accogliere i bimbi di Sopra la Terra, le offerte sono arrivate generose, e « Specchio dei tempi » ha già spedito una somma cospicua a don Paino, ma la povertà di cui l'angosciato sacerdote settuagenario parlava nella sua lettera era solo un modesto campionario di ciò che ho veduto. Il quartiere è attraversato da una strada principale, via Marte, larga 4 metri e lunga 150; ai lati, per una profondità complessiva di 60 metri, altre case si affacciano su scuri vicoli tutti stranamente dedicati a divinità pagane; via Saturno, Venere, Giove, ecc. Su un'area di complessivi 9000 metri quadrati si intasano circa 2000 persone, i casi di gente che vivono in sei, otto, dieci in una sola camera sono molto numerosi. Don Paino si preoccupa dei bambini liparesi e il suo progetto parte da una visione esatta della realtà, perché è impossibile tentar di costruire una umanità nuova se non creando nei giovanissimi l'esigenza di una dignità, e, soprattutto, di una moralità che ora non sono nemmeno intravedute. I bambini di Sopra la Terra sono un esercito, nella sola via Marte ve ne sono 150 dagli 8 anni in giù, un bimbo per ogni metro di strada; in tutto il quartiere ve ne sono circa 400. Ho calcolato i bimbi degli 8 anni perché oltre quell'età sono già considerati adulti; appena sono in grado di reggere il timone, aiutare a innescar ami, a manovrare reti, i genitori li portano in mare, alla pesca. Escono nel pomeriggio alle tre e rientrano la mattina dopo, verso le cinque.. Mi sono fermato a conversare con Orazio Puglisi, un ragazzo di 11 anni col volto bellissimo già oscurato da ombre maliziose. Da quasi tre anni accompagna il padre nella pesca notturna, ha frequentato la terza elementare e spera di non dimenticare il poco che ha imparato. Il ragazzo, forse, era sincero dicendo che continuerà a esercitarsi nel leggere e scrivere, ma sarebbe illusione sperarlo, tutti i giovani sui vent'anni coi quali mi sono intrattenuto a conversare, e che hanno fatto la trafila di Orazio Puglisi, sono tornati totalmente analfabeti perché le condizioni di vita cui sono costretti gli impediscono ogni applicazione che non siano il lavoro e le manifestazioni di un'esistenza elementare, pressoché animalesca. Quasi tutti gli abitanti di Sopra la Terra sono pescatori e trascorrono in media quindici ore del giorno sul mare; le altre le passano a prepararsi per la spedizione successiva. Ho domandato al padre di Orazio Puglisi in quali ore può dormire il suo figliolo undicenne e mi ha risposto: «Dorme un po' in barca, dopo gettate le reti, un paio d'ore la mattina presto ». Forse, la fatica e l'estrema giovinezza tolgono ogni sensibilità al bambino buttato sul letto con gli altri fratelli, altrimenti che sonno potrebbe essere il suo accanto al letto dei genitori? In pochi anni ha veduto il già esiguo spazio che gli era riservato affollarsi di due sorelline. I bimbi di Sopra la Terra non hanno l'ignara gaiezza dei bambini ; anche se il cielo ride sopra le loro teste e la luce dilaga sui colli vicini, hanno negli occhi ombre di precoce malizia e pieghe ambigue nel sorriso che dovrebbe fiorire innocente sulle loro labbra fresche. Non dimenticherò la undicenne Franca, grandi occhi saraceni, già conscia di molti aspetti della vita ed un acerba civetteria- nell'incedere. A quell'età, i bimbi di Sopra la Terra sono già adulti, non nel corpo ancora gracile, ma nella mente sollecitata anzitempo dagli istinti naturali di ciò che sentono durante i loro sonni accanto ai genitori. I ragazzi di Sopra la Terra si sposano presto, in media sui 17 anni, e buona parte dei matrimoni avvengono dopo la «fuga» dei fidanzati. Un tempo, se i genitori si opponevano alle nozze, il fidanzato rapiva la ragazza per rendere inevitabile il matrimonio; oggi la «fuga» avviene col consenso dei parenti che desiderano veder normalizzare una situazione sentimentale già visibile agli occhi di tutti, e poiché la sposina, secondo la tradizione, non potrebbe andare all'altare in quelle condizioni col virginale fiore d'arancio fra i capelli, viene simulata la «fuga» anche per evitare le ingenti spese nuziali cui ogni famiglia, per quanto miserabile, si sentirebbe obbligata per non sfigurare. Su dieci matrimoni celebrati l'anno scorso a Sopra la Terra, sei sono avvenuti dopo la « fuga», e quasi subito allietati dall'erede. Come ho già detto, gli abitanti dell'infelice quartiere sono ricchi soltanto di prole, che continua a crescere nelle condizioni dei genitori, dei nonni e dei bisnonni ; questa gente, nulla è mutato dalle origini del mondo, sono quasi tutti analfabeti e se alcuni hanno la radio in casa, non l'accendono, la considerano un ornamento non diverso dai fiori di plastica posati dinanzi all'effigie di San Bartolo, patrono di Lipari e tanto venerato che, per bestemmiare, i pescatori liparesi. dimenticano il buon Dio e la Madonna per scagliarsi contro il loro santo più familiare. Ho domandato ad alcuni ventenni, tutti sposati e con figli, se hanno sentito parlare del centenario dell'unità d'Italia; mi hanno risposto stringendosi nelle spalle, forse, anche la parola Italia non ha per loro un preciso significato. Sarebbe assurdo pretendere che lo sappiano perché, per loro, Sopra la Terra è l'universo nel quale vivono soffrono e imprecano inutilmente. Nella lettera a «Specchio dei tempi » don Onofrio Paino aveva scritto: « Roma è lontana, la politica non ha bisogno di noi, la vita dei ricchi non pensa a noi » e nulla è più efficace di quelle parole per dire quanto non è stato fatto per questa gente. Non si può negare che l'amministrazione comunale abbia tentato iniziative per risanare il quartiere, ma con scarsi risultati. Un gruppo di case popolari con 24 alloggi sono state costruite vicino all'ospedale civile proprio per i pescatori, ma il giorno in cui saranno terminate, pochi potranno occuparle perché, -per quanto basso, l'affitto costerà almeno diecimila lire al mese. I pescatori di Sopra la Terra che non sono proprietari di barche, e sono la maggioranza, guadagnano 500 lire al giorno, ma nell'anno vi sono i mesi invernali, le notti di burrasca e lutta piena che impediscono allei barche di scendere in mare; calcolando con larghezza 270 giorni di lavoro, guadagnano 135.000 lire l'anno, e l'affitto dell'appartamento gli costerebbe 120 mila. Perciò, i pescatori di Sopra la Terra continueranno ad abitare nelle tetre camere del loro quartiere, coi letti uno a ridosso dell'altro e fratelli e sorelle sotto le stesse coltri. Il nome del quartiere è tragicamente allusivo, la vita di tante persone è davvero sopra la terra un opaco germinare di esistenza che diventerebbe intollerabile se solo un barlume di luce folgorasse queste menti intorpidite da una fosca ignoranza. Coi molti che hanno risposto a « Specchio dei tempi » inviando offerte per costruire un asilo in cui accogliere i bimbi di Sopra la Terra, alcuni hanno scritto direttamente a don Onofrio Paino lettere di biasimo. «Fate come i settentrionali, — dicono presso a poco le lettere, — costruitevi da soli le scuole, non aspettate sempre tutto da Roma. Vi lagnate della sporcizia dei bimbi, ma l'acqua non vi manca, imparate almeno a lavarvi». A Lipari c'è tanta acqua, è vero, ma ostile e infida; l'acqua del mare che logora l'esistenza dei pescatori; di acqua vera, quella che potrebbe trasformare l'isola in giardino se si potesse irrigarla, ci sono poche gocce al giorno per cuocere gli scarsi pasti di pesce e lavare i coloriti stracci che formano l'abbigliamento; le navi cisterna portano 25.000 tonnellate di acqua l'anno per tutto l'arcipelago delle Eolie, una popolazione che sfiora i 13.000 abitanti, ai quali bisogna rie di- casipole dirute, ma [non « àncora questo fl sudi "! aggiungere le migliaia di. turisti che d'estate affollano le isole. Facciano i conti i biasimatori e vedano di quanti litri d'acqua dispongono i liparesi. . I bimbi di Sopra la Terra sono sporchi, giocano tutto il giorno tra i rifiuti che si accumulano accanto alle abitazioni, ruzzano come cuccioli randagi tra le marciume che preoccupa. Eravamo sul molo, dinanzi al mare azzurro e immenso. Un gruppo di bambini erano buttati su fasci di corde, alcuni dormivano al sole, altri sonnecchiavano, come fossero più che delusi e stanchi, già vecchissimi. Li interrogai dopo che Aldo Moisio li ebbe fotografati; avevano tutti undici anni e attendevano l'ora di partire per la pesca. Gli domandai se ricordavano ancora qualche cosa di quanto avevano imparato a scuola e mi risposero alzando le spalle, come a dire che non li annoiassi con quelle superfluità. Appoggiandosi' a due rozzi bastoni, una bambina poliomielitica arrancava dietro a una schiera di monelli che correvano verso la spiaggia. Si chiamava Maria, aveva dieci anni. Le domandai se andava a scuoia. «Non voglio andarci», rispose seccamente, quasi con ira. L'aspra vocetta di quella bimba infelice mi sferzò come una condanna; chi potrà offrire ai bimbi di Sopra la Terra condizioni di serenità infantile che preludano a una esistenza di umana dignità? Francesco Rosso Maria, la piccola poliomielitica di 10 anni, arranca, appoggiandosi a' due rozzi bastoni, dietro una schiera di monelli «he corrono verso la spiaggia (f. Moisio) I bambini di Sopra la Terra crescono per strada, come cuccioli randagi, fra le macerie di casupole in rovina L'arcipelago delle Lipari (detto anche delle Eolie) si trova nel Tirreno, ad una cinquantina di chilometri a nord della Sicilia. E' composto di sette isole principali: Vulcano, Lipari, Salina, Filicudi, Alicudi, Basiluzzo e Stromboli. Di origine vulcanica, hanno la superficie complessiva di 115 kmq. (meno del territorio comunale di Torino). Uniche risorse la pomice; la terra è brulla, uva e carrube) che basta popolazione è di 13 mila pesca e l'estrazione della cresce poca frutta (fichi, appena al consumo locale

 

 

 

 

 

 

Canneto: anni 30

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LETTERA DALLE EOLIE

Panorama 1965 di Paolo Pernici  Le isole della fame 5

Gli regalavo degli abiti, altre volte che andavo in continente mi commissionò dei blu-jenas. Ringraziava del dono, pagava le commissioni, ma al momento d'indossare gli indumenti si pentiva, pensava che portandoli si sarebbero consumati, e finivano regolarmente in te a càssia, cioè nella cassa. Nella sua casa squallida dove non si mangia quasi mai cucinato e per economia si misura il petrolio dei lumi, il ricco Giovanni ha una quantità di cassiè colme di cose nuovissime che gli darebbe l'angoscia portare. Il giorno che morirà di fatica indosserà ancora gli stessi vecchi calzoni dal cavallo a ginocchio e la stessa camicia che sembra a scacchi e invece son pezze, che gli vidi addosso arrivando a Ginostra nel 1963. Solo allora, se non si saranno mangiato tutto i topi, laveranno per lui de a càssia il vestito nuovo che finalmente, morto, accetterà di consumare. Due volte in tutta la sua vita (43 anni) Giovanni è uscito dal microcosmo ginostrino: per andare militare a Trapani, e a Palermo. Tutto il resto delle sue 330.000 ore di vita, dai sei anni in poi, l'ha impiegato a sgobbare, per scacciare un fantasma che più o meno profondamente è annidato nell'inconscio di tutti gli eoliani: la paura di morire di fame.

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Le Eolie che al turista estivo appaiono così incantevoli, sono infatti in realtà il sud del sud, l'Africa dentro l'Africa che abbiano ancora in casa. E' qui che prima di qualunque altro luogo del sud è nata l'emigrazione dei tempi del passaporto rosso verso le Americhe e l'Australia; è qui che chi non è scappato via, se ha forza per vivere, può diventare un Giovanni Giuffrè: l'uomo più ricco di Ginostra, che dopo aver coltivato vigne, colto olive, piantati capperi e rizzati muri a secco per quattordici ore al giorno, trova il tempo, con ai piedi pezzi di camera d'aria da camion per risparmiare le scarpe, di portar su dal molo sacchi e sacchi di cemento, finchè la morte non lo divida dal suo medioevale terrore della fame.

Su sette isole che compongono l'arcipelago delle Eolie sei, a esclusione di Salina, dipendono dal di Lipari, dove c'è un'amministrazione strana: basti pensare che non meno di 10.000 abitanti complessivi e con una tangente annua netta di 150 milioni sulle cave di pomice di Canneto, in tutto il comune non c'è un asilo per i bimbi, né un ricovero per i vecchi.

Torniamo a Ginostra quando la scomparsa dei pochi turisti comincia il periodo delle grandi pesche, quelle autunnali. E' infatti a settembre, costeggiando col motore al minimo gli scogli sottoriva, che si prendono a traina le cavagnole (una specie di piccole lecce) e sono il pesce più buono del Mediterraneo. Finito il passo delle cavagnole, a metà di settembre avviene di solito la rottura dei tempi: una decina di giorni di mare cattivo, dopo di che, se l'anno è buono, viene la calmeria d'ottobre. E quando ottobre è buono, dal punto di vista della pesca, è il migliore mese dell'anno. Negli scogli sotto la chiesa e il terrazzo di casa mia, su tre-quattro metri fondo, compaiono cernie da dieci a trenta chili che approfittando dell'acqua giusta sono venute a prendersi i bagni d'aria in supeficie.

La tecnica di caccia col fucile è tutta speciale, ma per chi non sa prendere queste cernie, restano i tonnàcchi. Si tratta di tonni giovani, che quando compaiono sottocosta in branchi verso l’inizio d’ottobre sono sui due etti e mezzo, e quando scompaiono al largo verso i primi di novembre sono diventati da due chili l’uno. Si catturano anch’essi, a traina.

Se incontri il branco, l’emozione è indimenticabile: dieci, quindici, venti tonnàcchi che sotto il banco di prua dove li hai buttati appena sganciati dall'amo della traina, martellano il fasciame della barca con velocissimi colpi di coda, finché dura la loro agonia piena di sangue, poi si bollono in salamoia e si mettono sott’olio: ne sa qualcosa u parrino (cioè il parroco) don Gianni che a causa della passione per i tonnàcchi due autunni fa ne combinò una abbastanza grossa a Stromboli. U parrìno, finché i reumatismi e un editto del vescovo di Lipari non glielo proibirono, fu il più famoso sub dell’arcipelago. Sull’acqua però ci può ancora andare con la sua lancetta bianca e verde, e a fine estate del 1963, fu lui il primo a catturare i tonnàcchi. Una lenza in mano e reggendo la barra del suo « Seagull » da due cavalli e mezzo col fondo della schiena, ne mise a bordo un cin-Iquanta chili, cioè circa duecento, prima di perdere il branco. Poiché i tonnàcchi, per conservarli sott’olio, vanno bolliti freschissimi, don Gianni corse a casa a spanciarli, dimenticandosi ch'era domenica e c’era la processione di S. Bartolo. Quando ebbe finito, l’orario era passato da molto tempo, i fedeli s’erano portati per loro conto la statua in giro per il paese, aiutati all’ultimo momento da un altro prete, spretato a suo tempo dal vescovo di Lipari per via di certe speculazioni alberghiere.

 

 

Lipari, Pasqua 1958 di Renato De Pasquale

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Portinente - Porto delle Genti un ""tot"" di anni fa!

LIPARI ED I SUOI CINQUE MILLENNI DI STRORIA LEOPOLDO ZAGAMI (1).JPG

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LETTERA DALLE EOLIE Panorama 1965 di Paolo Pernici 4 parte Relitti pop

Ne resta anche, in compenso, sopra e sott'acqua, un incremento del paesaggio di Punta 'mbarcatùri, perchè attraverso la maschera lo spettacolo di un relitto vicino a riva in sei metri di fondo (cioè accessibile a tutti) è indubbiamente, agli occhi di un cittadino in vacanza, qualcosa di molto eccitante. Questo sott'acqua, mentre sopra l'acqua, su un lungo scoglio che è da solo una piccola isola, c'è un cimitero di lamieroni accartocciati, argani, pullegge, enormi ganci, grilli da settanta chili, gallocce da un metro, tendifilo alti come ciclopi, ingranaggi d'impiego misterioso: tutto ciò insomma che un palombaro può aver estratto da una nave sommersa e poi lasciato lì nella salsedine, la ruggine l'ha sigillato per sempre sotto uno strato uniforme di ceralacca marroncina. Guai se ci venisse uno scultore di pop-art: segherebbe tutto a pezzi, li spedirebbe a Milano firmati e li venderebbe a un milione l'uno.

Di sera era buio si andava a totani con la lampada a petrolio e l'ontrato: un lungo amo dal gambo di piombo e in fondo una coroncina di ganci acuminati a cui, attratti dalla luce, i totani s'attaccano e quando li tiri a bordo, per vendicarsi, ti schizzano in faccia mezzo litro d'acqua. Meno pregiati ma più abbondanti dei calamari, i totani arrivano anche a tre chili.

Le sere di luna, i totani non abboccano. Per chi a Ginostra non aveva sonno l'alternativa era dare l'SOS col faro subacqueo a sommergibili e transatlantici dal terrazzo di casa mia a picco sul mare, farsi tre quarti d'ora in barca per andare a guardare latin lovers coi bermuda fatti in casa dalla mamma branciar tedeschine al bar Italia di Stromboli, o salire a castello dal dottor De Savelli (un'autentica, piccola corte gattopardiana), a mangiar gelidi melograno dolci e pepati come in Arabia, armare mi da coffe, imparare come si piantono capperi dalla viva voce di Giovanni Giuffrè, il contadino più ricco del paese.

Sbranati quattro etti di pasta e sarde, un pesce e mezzo coniglio innaffiati da bicchieroni di vino che a casa sua non beve mai perchè l'avidissima moglie Iolanda glielo vende tutto, Giovanni compariva sempre un po' bevuto dalla cucina del dottore, e, immancabilmente, il dito puntato sulla tua faccia, iniziava un serrato monologo su come si debbono piantare i capperi. I capperi (la maggior risorsa economica di Ginostra) nessuno li pianta, nemmeno in Marocco: si colgono soltanto, una volta alla settimana da maggio a settembre, dopo averli potati due volte, a dicembre e gennaio, e di fatica c'è n'è già abbastanza, per un contadino di Ginostra, che deve curare vigna e uliveti raggiungibili solo dopo dure camminate, alzare continuamente muri a secco e appostare trappole da conigli in luoghi impervi, se vuole mangiare di tanto in tanto un po' di carne.

Oltre a fare tutto questo, unico al mondo, Giovanni, per aumentare i guadagni, trovava il tempo di fare anche il facchino, portando su dal porto, per cento ripidissimi gradini, bombole di gas liquido e colli a 200 lire l'uno. L'ottobre scorso, in piena colta delle olive, quando tutti in paese lavorano dalle sei del mattino alle otto di sera altrimenti il raccolto s'inacidisce, Giovanni accettò di portar su dal molo cinquanta sacchi di cemento per 10.000 lire. Cinquanta viaggi con in groppa 50 chili che avrebbero sfiancato un mulo, e questo fu il suo straordinario dopo una giornata a olive di 14 ore.

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Giuseppe Iacolino – Destinazione Panarea.

Per un itinerario così interessante qual è quello che per la rotta di NE ti porterà da Lipari (capoluogo dell’arcipelago eoliano) a Panarea sceglieremo un accompagnatore d’eccezione, quell’abate Lazzaro Spallanzani, na turalista e professore emerito, che talvolta alle sue pagine di scienza seppe aggiungere deli ziosi tocchi di poesia.

Un facile slittamento nel tempo, come in sogno, ed eccoci immersi nell’incerta luce mattinale di una giornata dell’ottobre 1788, in Lipari. Attracco di Tramontana, detto pure di Sottomonastero. C’è l’occasione buona: una feluca pronta a salpare per Stromboli. « Era di buon mattino — narra lo Spallanzani — soffiava un forte ma spiegato libeccio accom pagnato da interrotte nubi temporalesche. Agi tato era il mare, ma, favorevole essendo il vento, per questa velata il padrone della feluca, che era altresì il timoniere, sperar mi fece che non incontreremmo disastri, e sol mi disse, scherzando, che avremmo ballato. Spiegate erano tutte le vele, e l’andar nostro non era un correre, ma un volare.

Nonostante che il vento e il mare ingagliardissero sempre di più e che or ci vedessimo sospesi sulla punta di un’onda, or sprofondati come su una voragi ne, nulla avevamo a temere per essere sempre stato il libeccio intavolato per poppa. Per qualche tratto di viaggio fummo accompagnati da una torma di marini animali che ci fecero una specie di corteggio. Questi erano delfini che, preso in mezzo il nostro legnetto, si die dero a scherzarvi attorno e a trastullarsi guiz zando da prora a poppa e da poppa a prora, d’improvviso profondandosi nell’onde, poi ri comparendo e, fuori cacciato il muso, lancian do a più piedi d’altezza il getto d’acqua che a riprese espellono dal forame che sul capo si apre. E in quegli allegri lor giochi appresi cosa mai da me veduta nelle migliaia di questi piccoli cetacei in altri mari osservate. Ciò fu l’indicibile loro prestezza nel vibrarsi dentro l’acqua. Uno o più delfini talvolta movevano da prora a poppa. Ad onta di dovere allora rompere' l'impetuoso scontro del fiotto, vola vano con la rapidità d'un dardo ».

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Il contatto di simpatia tra il visitatore e l'isola di Panacea s’instaura assai prima dello sbarco al molo di San Pietro perché l'abbrac cio che quel corpo roccioso tende al forestiero s’anticipa a notevole distanza facendosi ampio e molteplice. Mentre il battello piega a Nord per venire a rada, da levante fanno gioiosi am miccamenti una mandria di isolotti e di scogli bizzarri di forma, strani nei colori e nei nomi, disseminati qua e là, ora raggruppati ora di spersi, alcuni lontani oltre due miglia: è un formicolio ridente di onde e di spume, di ri flessi di mare e. di frammenti di rupi immobili. Ma anche queste masse, nel resistere che fanno alle folate di brezza che increspano la marina, paiono tutte muoversi in unica direzione, come le formiche. E Formicole, appunto, chiama rono i pescatori panarioti di moltissimi anni fa le quattro o cinque pietre lisce che, lì presso, affiorano, dall’acqua. C’è poi Lisca Nera e Li sca Bianca, Dàttilo e Bòllaro, più in là ancora Panarelli e, sullo sfondo ceruleo, quasi addos sati a Stromboli, Spinazzola e Basiluzzo.

È un arcipelago, dunque, Panarea, un ar cipelago in miniatura facente parte di un altro arcipelago più esteso, un minuscolo sistema inglobato in una più dilatata galassia.

Ma può pure considerarsi un pianeta a sé stante il comprensorio di Panarea, un pianeta in fase di declino e di dissolvimento, un cam pionario di residuati di rocce, tutto mozziconi, spuntoni, slabbrature; un pianeta che, da al meno settecentomila anni, ha subito per prima le violenze dei fuochi e dei sismi, poi le in giurie dei venti e delle tempeste. Ora, « addo mesticato ». giace nel profondo assopimento che gli deriva dalla sua lunga e sofferta gio vinezza.

Per la sua posizione amena e per i suoi ter razzi naturali facilmente difendibili Panarea fu prescelta come punto ideale da insediamento da gruppi neolitici del III millennio a. C.. Evidenti affiorano le tracce di quella facies culturale in località Calcara, ma quanto mai significativi appaiono i resti del villaggi Punta Milazzese che risalgono all’età del bronzo, ad un tempo che va pressappoco dal XV al XIII secolo a. C..

Anche in età greco-romana Panarea e Basiluzzo ebbero nuclei abitativi e furono stazioni preferite da sofisticati nababbi liparoti. Taluni tratti di fondazioni di ville aristocratiche, benchè sommersi per via dei bradisismi, sono ancora oggi distinguibili nei fondali adiacenti. Avanzi ancor più cospicui notarono i naturalisti del nostro Settecento che visitarono questi luoghi. «Panarea — afferma l’Houel — ha avuto edifici superbi come Lipari, Stromboli e Basiluzzo, sia al tempo dei Greci, sia al tempo quando i Romani, per il loro gusto del lusso si servivano di tutti gli elementi per le costruzioni ».

La frequentazione umana, a Panarea, praticamente si bloccò per oltre un millennio, dal V al XVI secolo della nostra era. Fu quello il millennio in cui qua da noi imperversò la pirateria più spietata, da quella vandalica a quella araba e, infine, a quella turchesca.

I primi a tornare nell’isola, alla fine del ’500, furono pochi anonimi coraggiosi contadini di Lipari i quali a Panarea e a Basiluzzo ci venivano a coltivar le terre che i vescovi davano assegnando al clan dei borghesi liparoti. Ci venivano solo per compiere i lavori stagionali e riposavano in misere capanne di frasche, senza né mogli né figli, perché vietato dalla legge portare nelle isole minori donne, vecchi e ragazzi.

Più tardi, come dimostra la chiesina S. Pietro la cui fabbrica originaria risale 1681, i colonizzatori ci fecero residenza stabile a Panarea rivestendo le colline di fitti uliveti e seminando tanto buon grano sui pianori soleggiati. Panarea — dicono le carte del 1691 somministrava « a Lipari non poco grano ed in abbondanza legumi e frutti ».

Pure a Basiluzzo ci prosperavano i legumi e varia granaglia.

Si lavorava sodo a Panarea nei secoli passati e, come se ciò non bastasse, si viveva come sul piede di guerra sotto l’incubo costante e mortale delle incursioni barbaresche. Ancora nel 1772 — riferisce l’Houel — per i cento abitanti di Panarea « gli attacchi dei Turchi e dei Barbareschi rappresentano la più grave calamità che possa colpire gli uomini ».

Fu in questo clima pionieristico — in cui il contadino si fa cacciatore e pescatore e di venta anche guerriero — che i Panarioti si legarono tenacemente alla loro terra e si die dero a scoprirne ogni angolo più riposto. E ad ogni zolla assegnarono un nome improvvi sando, accanto a quella antichissima, una nuo va toponomastica carica di significazione.

Drautto si disse il primo tratto abitato di Panarea, ma in origine questo era il nome della piccola rada antistante dove nel ’500 ve nivano a mettersi alla posta gli sciabecchi del feroce corsaro Dragùt. Segue, poi, il settore di San Pietro con le due chiese, la vecchia e la nuova. S. Pietro, nel ’500, rappresentava il Cristianesimo trionfante, fortemente impe gnato ad arginare l’invadenza del turco infe dele. L’estrema frazione più a Nord fu chia mata « i Ditedda » per via di certi funghi a forma ramificata come di una mano che pro tenda in alto le dita ravvicinate.

Sarebbe lungo un discorso tutto centrato sulla toponomastica di quest’isola bella, bella nella sua natura e bella nella tormentata quanto umile ed occulta sua storia. Ma il fatto è che il turista che viene a Panarea non sa starsene tranquillamente a prendere il sole. Egli vuole anche vedere ed essere informato di tutto. Più specificamente la sua curiosità s’ap punta su Basiluzzo, su Dàttilo e su Spinazzola. Tre scogli, tre meraviglie. E noi l’acconten teremo.

Basiluzzo è la versione dialettale di una voce greco-bizantina, Basiliscos, che vuol dire piccolo re. Ma ciò non basta a spiegare. Oc corre sapere che la cultura zoologica degli an tichi favoleggiò di un animale che si diceva prolificasse nell’Africa incognita e che era il frutto dell’innaturale connubio di un gallo con una pitonessa. Ne nacque un mostriciattolo dalla schiena marcatamente gibbosa, con un capo turricefalo su cui, al posto della cresta, propria dei gallinacei, figurava una corona cir colare. Perciò si disse basilisco o principino.

Ora, se ben si osserva lo scoglio di Basiluzzo chiaramente emerge la somiglianza strettissima tra la sua sagoma e quella del fiabesco animale. Il Dàttilo è connesso — chi non lo sa? –al dàctylos greco. Ma solo indirettamente Dàctylos vuol dire dito e ha dato nome del dattero da palma che ha appunto l ’aspetto della falangetta del pollice. Dal colore marrone del dattero gli antichi chiamarono dàttilo una pietra d’un certo pregio che gli odierni gioiellieri dicono occhio di tigre. Dall’analogia con questo colore venne al nostro scoglio il nome di Petra ’i Dattilu.

Spinazzola ci riporta alle tragiche storie dei Turchi. Fu così detta la massa rocciosa, isolata e irta di guglie, che sta di fronte all’immaginario basilisco. Ma la ragione di tal nome è spiegabile solo se rapportata alla spinazza o spinazzola che era solita acquattarsi in quei pressi. Era, la spinazza (dal francese èpinace, cioè fatta di pino), una minuta quanto agilissima imbarcazione a remi che i Panarelesi del passato inviavano in avanscoperta in caso di sospettata incursione piratesca.

Codesto fascino dei nomi antichi oggi non si avverte più. E del tutto dimenticato svanite sono le belle risorse di flora e — quaglie, conigli, uova di cavazze deliziose a sorbirsi, come attesta l’Hoeul — che consentivano ai Panarellesi d’una volta di mangiare carni bianche del tutto genuine.

Non si deve, dunque, credere a chi affermma che l’isola è giunta a noi “intatta” madre natura la fece.

Certo, la natura, quando può — e qui si vede che lo può — ripara ai dissesti provocati dall’uomo e si può ben dire che qui a Panarea la natura campeggi ancora onnipresente tutte le forme della sua benignissima nudità.

Ma la più squisita peculiarità di - l’« anima » vorremmo dire — resta adagiata nei recessi dei millenni, nell’obliata realtà di travaglio di una lunga serie di generazioni umane votate alla fatica e alla lotta mortale.

Una chiave per intenderla?

Forse, più che negli archivi polverosi, la vera dimensione interpretativa la si ritrova nella ricca e varia toponomastica. Le contrade, i pizzi, le balze, le innumerevoli rocce seminate nel mare senza confini.

 

 

 

 

 

LETTERA DALLE EOLIE

Panorama 1965 di Paolo Pernici

Ginostra 3 parte

A Ginostra però spada non se ne trova: nessuno ha barche abbastanza grandi per pescarne, a causa anche dello scalo che è troppo piccolo ( si chiama appunto “u Pertùso” che vuol dire “il buco) e non permette di ormeggiare i natanti che vanno tirati a secco ogni volta con i verricelli. Chi vuole mangiare pescespada, a Ginostra, deve andarlo a comprare a Stromboli, dall'altra parte dell0isola. Il fondale davanti a Ginostra sarebbe ottimo: si vedono a volte spada giganteschi affacciarsi alla superficie come delfini, ma nessuno ne pesca per due altre ottime ragioni. Primo il traffico: sottocosta al mare profondo di Ginostra c'è, anche di notte, un continuo passaggio di petroliere, transatlantici, incrociatori e sommergibili che vanno e vengono fra Napoli e Gibilterra, e fatalmente, con le loro eliche distruggerebbero i cuonzi. Secondo, manca il consumo locale. I ginostrini, infatti, sono quasi tutti vecchi (i giovani sono emigrati nelle Americhe e in Australia) che per antica abitudine alla parsimonia consumano in dieci come un milanese.

I due bottegai locali si riforniscono in proporzione; per cui bastano dieci turisti più dei dieci previsti per causare gravissime crisi di congiuntura alimentare, come accadde in agosto. Per una mareggiata improvvisa che impedì lo scarico delle provviste dalla nave, restammo tre giorni senza pane. L'acqua minerale costava 300 lire alla bottiglia, esattamente come il vino, che non era più nemmeno il ricordo del formidabile vino di Ginostra (18 gradi, odoroso di lava il nero, più secco di un porto il bianco) che compravamo in primavera a 200 lire al litro, ma un intruglio acido sfacciatamente annacquato, e guai rinfacciarlo ai bottegai senò s'offendono e non te davano più. Le uova bisogna prenotarle a 60 lire l'uno da una certa signorina Sara che le cedeva con riluttanza, come pegni d'amore. Scatoline di tonno di sottomarca, spesso anche marce, costavano 320 lire; pagai una bombola di liquigas da 15 litri 3500 lire, e i conigli selvatici cacciati di frodo con le trappole, da 300 lire l'uno, erano arrivati a 500. Pesci da fucile se ne vedevano, ma erano cernie smaliziatissime che si tenevano sotto i 15 metri in attesa che il passo dei turisti (i soli che a Ginostra posseggono fucili) finisse.

Si vedevano anche saraghi e cefali rispettabili, ma affacciati al relitto del cargo militare affondato otto anni fa, chi dice per la nebbia, chi dice per misteriosi sabotaggi. Era francese, andava in Indocina, giace su sei metri di fondo e da tutti i buchi, fra cingoli di carri armati, granate che ogni tanto esplodono e baffi d'alga, s'affaccia una quantità incredibile di pesci pronti a rendersi irreperibili appena t'immergi. Un palombaro napoletano, certo Fraiasso, ne assunse in appalto il recupero che poi lasciò a mezzo avendone assunto nel frattempo altrove un altro più redditizio. Col tempo la salsedine si mangiò tutto, il primo recupero diventò antieconomico, per cui oggi del cargo che andava in Indocina restano, a Ginostra, alcuni motori arrugginiti e un pontone in disarmo che ostacolano gravemente, in terreno demaniale, la protezione delle barche tirate in secco dalle mareggiate invernali.

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LETTERA DALLE EOLIE

Panorama 1965 di Paolo Pernici

Ginostra 2 parte.

Un mare ricco di prede 2

Esposta a sud-ovest, con un clima secchissimo e il sole visibile fino all'ultimo istante del tramonto prima d'inabissarsi in mare fra le sagome coniche di Filicudi e Alicudi, Ginostra appare veramente un sogno a chi, come accade a me l'anno scorso, ci ritorni a maggio dopo una sosta di due mesi a Milano. Le cattedrali di fichi d'India e i bastioni di ginestre che costituiscono l'architettura naturale del paese, in questo mese magico, fanno da contrappunto selvaggio al mare trasparente, gelido, e ricco di prede. Uscii subito a mare con le reti a pattuglia del medico Aurelio De Savelli, di Mario Piemonte e di Mario lo Schiavo legate insieme , e prendemmo, oltre ai pesci, quattordici aragoste.

La parte di Mario andò tutta regalata al vescovo e agli avvocati di Lipari, perchè i ginostrini sono religiosi e litigiosi, con sempre qualche messa grande da dedicare a qualche loro morto con la massima solennità e sempre qualche causa in atto contro qualche vicino di casa. La parte del dottor Savelli (il Gattopardo dell'arcipelago) andò nei suoi soliti pranzi da sei portate, da cui almeno uno degli ospiti esce immancabilmente svenuto. La mia parte me la cucinai io, alla griglia e bollita consapevole che aragoste così il più miliardario dei milanesi non avrebbe potuto mangiare mai.

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L'aragosta, infatti, è sensibilissima, bisogna cucinarla appena presa: l'ideale sarebbe avere in barca un calderone d'acqua bollente dove buttarla subito dopo che l'hai staccata dalla rete. Invece d'agosto, quando alle Eolie c'è il passo forte dei milanesi, le conservano giorni e giorni in sacchi di iuta legati a un galleggiante o dentro alle nasse. Il crostaceo così si spaventa, le carni dell'aragosta spaventata s'avvelenano, e non valgono più nulla.

Sempre di maggio, uscivamo in due in barchetta verso le dieci del mattino, trascinandoci dietro a remi la polpara innescata con un pesce qualunque. Un polpetto o una seppia abboccava sempre, allora si cambiava fondo, calavamo i bolentini innescati a patelle e ufali: donzelle e perchie venivano su a due per volta, e prima di mezzogiorno avevamo messa insieme una zuppa squisita. Guardando sott'acqua con lo specchio in cerca di polpi più grossi, si vedevano, affacciate alle tane sul gradino dei 15-20 metri, cernie sui dieci chili mimetizzate di grigioverde. A giugno, chi avesse avuto abbastanza fiato e una buona tuta di neoprene per proteggersi dall'acqua pungente poteva già andarsele a prendere col fucile, mentre per gli sfiatati, sul gradino degli otto-dieci metri, cominciavano ad apparire, frementi e nervose nel blu, le favolose lecce: le prede regine di tutti i pescatori subacquei del mediterraneo, che qui, fra giugno e luglio, sono di casa.

Se ci sta, la leccia fa tutto lei, come una donna innamorata. Le aspetti a qualunque ora, pinneggiando in superficie sopra il gradino degli otto metri col fucile assicurato a una sagola d'una quindicina di metri, assicurata a sua volta alla barca d'appoggio che ti segue a remi. Le lecce arrivano improvvisamente, dal blu confuso della profondità, e se non ci stanno, niente, spariscono via. Se ci stanno, intorno a te che ti sei immediatamente tuffato e raspi il fondo fingendo di interessarti a scoglie e alghe senza guardarle, descrivono un paio di giri sempre più stretti, e si tratta di sparare a quella che passa più a tiro. Tutto qui, e ricordo quel giorno di fine luglio ad Alicudi che, ormai al termine di fiato, su un fondo di nove metri, ne sparai una piccolina che sarà stata sei chili, un tiro troppo lungo per il fucile non potentissimo che avevo, la colpii all'estremità del dorso, si liberò con un colpo di coda dall'arpione, scomparve a sessanta chilometri all'ora. Doveva essere una lecce affamata (l'aveva attirata, oltre alla mia presenza, un torsolo di mela che la mia ragazza aveva buttato giù dalla barca poco prima) perchè subito dopo ricomparve, e due metri davanti a me si fermò a mangiare i pezzettini di carne che l'arpione le aveva strappato via; e io ci rimasi di sale, e imprecai lungamente dentro alla smaschera, perchè non avevo avuto la preveggenza di ricaricare subito il fucile.

Man mano che finiva luglio, le reti diventano sempre meno redditizie; sempre meno aragoste e sempre più pietre e ramoscelli di corallo matto da sfilare pazientemente dai tremagli delle pattuglie. Era al colmo, in compenso, la sola pesca professionale che sia esercitata nell'arcipelago delle Eolie: la pesca dello spada coi cuonzi calabresi. Col cuonzo da spada va bene fino a tutto agosto, il mese dei turisti tradizionali, durante il quale pesci da rete e fucile (si direbbe che lo sappiamo) non se ne vede quasi. Il cuonzo sono chilometri di nailon sostenuti ai due lati da sugheri con sopra due lampade a petrolio. Ogni qualche metro c'è un bracciolo con un grosso amo, ogni decina di braccioli c'è un galleggiante. I piccoli pescherecci dell'arcipelago, con un equipaggio medio di tre uomini, si trascinano dietro l'arnese tutta notte vegliando a turni di tre ore ciascuno. Ogni tanto una lampada scompare sott'acqua: è segno che il pescespada ha ferrato, tutti si svegliano gridando, ed oltre alle veglie estenuanti nella notte vegliando a turni di tre ore ciascuno. Ogni tanto una lampada scompare sott'acqua: è segno che il pescespada ha ferrato, tutti si svegliano gridando, ed oltre alle veglie estenuanti nella notte gelida, oltre i reumi che s'accumulano dormendo sottocoperta su materassi semivuoti e fetidi, ciò che fa un mestiere infame di questa pesca che al turista che v'assiste per una volta appare così romantica, sono i rischi connessi al recupero del pesce. Gli spada infatti superano spesso il quintale, un quintale ch'è quasi tutto un muscolo solo. Con un disperato colpo di coda a muso in giù, sono capaci di tirarsi sotto, d'un colpo, una una quarantina di metri di cuonzo. Allora, appuntiti ami da dieci centimetri sibilano da tutte le parti, e guai a chi si lascia afferrare: squarci spaventosi in un braccio, una gamba, dappertutto, com'è capitato.

A volte non era poi spada, ma soltanto un pesce, come chiamano qui alle Eolie i pescecani. Gridando di rabbia lo issano a bordo lo stesso, gli fanno mentre s'agita ancora, le necessaria toeletta coi coltellacci. Via la coda lunata, via le pinne ampie e spesse come ali d'un jet, via la testa minacciosa incoronata di denti appuntiti: cinque minuti di chirurgia e l'ex-tigre dei mari, avvolta in un identico sudario di felci, parte come spada per i mercati continentali a duecento lire al chilo. Lo spada vero lo spediscono invece ai grossisti siciliani, che lo pagano 800 lire al chilo. Ne prendono, a volte, due o tre in una notte e i più piccoli li vendono alle pensioni a mille lire al chilo; e bisogna venire qui alle Eolie per rendersi conto della squisitezza che è una fetta di spada pescato la notte prima, tagliata alta mezzo centimetro e appena scottata sulla brace.

 

LETTERA DALLE EOLIE
Panorama 1965 di Paolo Pernici 1 parte

Ginostra di Stromboli: Uno di questi giorni Piero Favorito o Mario Piemonte o Mario Lo Schiavo o magari tutti e tre insieme, saliranno di corsa la ripidissima scala che come un castello di streghe alza il paesino di Ginostra dal suo porticciolo. “E' tortughe, e tortughe!” grideranno, e via a casa a prendere il binocolo, e poi di nuovo giù a tirar fuori i lunghi coppi custoditi sotto il telone marcio di salsedine che ricopre il pontone in disarmo del palombaro napoletano Fraisso, e poi, in tutta fretta, vareranno a tutto motore puntando al largo per paura che le prede se ne siano andate.
Potrebbe essere naturalmente chiunque altro, ma è molto probabile che sia uno di loro, il primo a segnalare le tartarughe.

Pino è contadino, Piemonte impiegato di posta e lo Schiavo è bottegaio, e il primo non possiede nemmeno una barca, ma sono egualmente i tre migliori pescatori di Ginostra, da quando il più bravo di tutti, il gigantesco maestro Criscillo, per paura dei reumatismi, ha disertato il mare ed è emigrato sottovice ufficiale postale aggiunto a Stromboli, dove ci sono strade su cui si può andare in lambretta: quasi una metropoli.
Gennaio è il mese delle tartarughe, e Ginostra (un paesino di poco più di cinquanta abitanti sulla costa suovest dell'isola di Stromboli) è con la lontana Alicudi il luogo delle Eolie dove hanno le maggiori probabilità di poter praticare questa pesca fra le più semplici del mondo. Essenziale una giornata serena e di “mare jancu” cioè bianco (come lo chiamano qui quando è calmissimo) dopo una violenta mareggiata, che, dicono gli esperti, sveglia le tartarughe in letargo a mezz'acqua e le invoglia a salire a galla dove s'addormentano al sole. La teoria presenta lacune dal punto di vista strettamente scientifico, ma quel che importa è che succede proprio così, gli inverni che le tartarughe hanno voglia di passare.

Quattro o cinque miglia al largo, con l'aiuto dei binocoli, si individuano le loro gobbe da lontano sul mare immobile; si accostano a remi, e senza parlare, senò si svegliano e fuggono giù, si acchiappano col coppo (un grande robusto retino dal lungo manico) e si scaricano a bordo, pancia all'aria attenti per tutto il viaggio di ritorno che non si stacchino un dito dai piedi col rostro tagliente come un tronchese. Dal momento della cattura fino a quando non la decapiteranno sopra una ciotola ove raccoglierne il pregiatissimo sangue, a tortuga, trascorrerà sempre così, a pancia all'aria, i restanti giorni della sua vita: più di una settimana, a volte come accadde nel gennaio del 1963, quando a Ginostra il passo fu ricchissimo, ne presero esemplari intorno al quintale, e davanti a ogni casa c'era sempre una o più tartarughe rovesciate, che agitavano senza posa le zampe palmate come piccoli mulini a vento, e intanto, spurgandosi, la carne diventava più magra e saporita.

L'inverno 1964, invece, il passo delle tartarughe non ci fu a causa – dicono gli esperti – delle troppe scarse mareggiate. Quest'anno che l'inverno è stato precoce dovrebb'essere buono per le tortughe: tutti le aspettano a Ginostra, scrutando attentamente l'orizzonte ogni mattina che escono a mare, come dicono loro, è jancu. Un buon passo di tartarughe, oltretutto, sarebbe il giusto riconoscimento che il cielo deve agli isolani dopo un'annata come quella del 64' che fu scarsa di vino e d'olio, e l'unica cosa abbondante, i capperi furono pagati dai grossisti di Lipari cento lire al chilo meno dell'anno scorso, e le pesche tradizionali dell'autunno, dalle cavagnole ai tonnacchi e ai calamari, sono state un fallimento.

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IL POSTALE
La corsa Palermo-Messina per le marine ha anche l'incombenza di trasportare la posta diretta alle isole Eolie (Lipari, Vulcano, Stromboli, Panarea, Salina, Filicudi, Alicudi). Il trasporto della corrispondenza avviene da Milazzo con mezzi estranei all'Amministrazione postale quali le "barche" militari e quelle di commercio.

Lo scambio avveniva con una cassettina munita di lucchetto con duplice chiave, una a disposizione del cancelliere comunale di Lipari (dopo la chiusura dell'Ufficio postale di quella località) e l'altra a disposizione dell'Ufficiale Postale di Milazzo. Ogni qualvolta avveniva il collegamento, molto irregolare e saltuario, il cancelliere rimandava la cassettina con le lettere in partenza, quelle non distribuite e il denaro riscosso per conto dell'Amministrazione postale.

Le cose non cambiarono con il passare dei tempi e i collegamenti tra Milazzo e le isole Eolie rimasero affidate a barche di commercio fino al 1860.

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Con i ricordi di Gennaro Leone protagonista organizzativo di produzione e tra le comparse...

Un amore così fragile, così violento ITALIA – 1973

Regia: Leros Pittoni

Attori: Fabio Testi - Gerolamo Poliziani, detto Gepo, Paola Pitagora - Assunta, Daniele Dublino - Don Gesualdo, María Baxa - Signora milanese, Gino Santercole - Ruzzo, Franco Ressel - Maresciallo dei carabinieri, Luigi Casellato - Medico, Ugo Cardea - Carmelo, Giovanna Di Vita - Mammana, Franco Bartella - Giorgio, Filippo Tarantino - Alfonso

Tratto da: Romanzo omonimo di Leros Pittoni. Il film nasce dal libro scritto da Leros Pittoni che fu il regista. Girato direttamente a Lipari con molte comparse eoliane. L'idea di finire il film con un gruppo di bambini che di corsa venivano giu' verso la piazza di Marina Piccola partendo dalla chiesa di San Giuseppe con teli di plastica a fare vela piatta sopra la testa. Fra pontili della pomice, cave e spiagge porticello divento' l'epicentro.

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Scene fra cavatori frustrati da quel gigante palermitano dipendente della Italpomice. La vigliaccata della produzione che dopo aver ottenuto tutti i permessi ed aiuti materiali dalla Pumex per girare le scene dentro le cave, per farsi pubblicita' diedero alla stampa la falsa notizia che l'attore Fabio Testi, soprannominato orecchie di scimmia, svenne durante la lavorazione perche' si ammalo' di silicosi. Paola Pitagora era molto triste, mentre l'altra attrice Maria Baxa di Belgrado, deceduta nel (notiziario Eolie del 18 novembre 2019) qualche anno fa, si innamoro' di un giovanissimo eoliano oggi affermato architetto a Roma.

Una giovane fanciulla cannetara svenne quando ha stretto la mano a Fabio Testi, bello e con un bel fisico. La troupe alloggiava alle Rocce Azzurre. Il film, genere drammatico, non ebbe molto successo. Un falegname romano in 2 giorni costruì con le tavole comprate da Tanino Cassara' una casetta in legno sulla spiaggia bianca. Fra le comparse era stato scelto Turi Alivo per la sua faccia definita una rete. Durante le riprese le comparse eoliane fecero uno sciopero per ottenere il raddoppio della paga.

Come citato da Gennaro uno dei giornali che ne diede notizia, della presunta ""silicosi"". Cronaca del 1972 StampaSera 29.11.1972.

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LIPARI PALAZZO DEGLI STUDI datata 01.02.1920 edizione esclusiva per le isole eolie G. Tonelli.

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