di Massimo Ristuccia
ALMANACCO DEI GRIGIONI 1965 di Aldo Godenzi. Stromboli.
Due cose attirano l’attenzione arrivando a Stromboli. Una palma altissima e solitaria piegata dal vento e un’insegna che a caratteri cubitali annuncia al turista: “Ich verkaufe alles”. Solo più tardi mi accorsi che la spiaggia era fatta da cenere vulcanica e che le case dal tetto piatto e senza finestre formavano un villaggio uguale a quelli dell’Africa del nord. Il fatto poi di aver vissuto alcuni giorni sul vulcano più attivo della terra incominciò a diventare realtà quando le altre impressioni si tramutarono in ricordo.
Il vulcano Stromboli è cosi impressionante, così lontano da ogni immaginazione che non ci si può assuefare al primo istante. Solo più tardi, ordinando i differenti campioni di roccia e osservando le diapositive scattate macchinalmente, quello che era sembrato un sogno divenne realtà... alla quale si unì ben presto la nostalgia, nostalgia di mare azzurro, di case bianche, di rocce nere. nostalgia di un’eterna colonna di fumo bianco che il vento spinge verso est. Nostalgia di eruzioni spettacolari, di boati che fanno agghiacciare il sangue. Stromboli lascia nell’animo l’impronta indelebile di una bellezza selvaggia e primordiale………………………
Le esplosioni accompagnate da getti di magma incandescente, da cupi boati, si susseguono regolarmente ogni mezz'ora. La lava possiede quel grado di fluidità che permette ai gas di sprigionarsi attraverso la bocca e di trascinare con sè il materiale che giace nel cratere. E’ pure probabile che alcune esplosioni avvengono in seguito all’accendersi di una miscela di gas, composta d’aria, metano, idrogeno e monossido di carbonio. Di questo vulcano e di altri, che si comportano in maniera analoga si dice che si trovano in fase “stromboliana”.
Alle quattro del pomeriggio la nostra guida Lorenzo si mette in testa alla comitiva e prende il viottolo che costeggi il mare. Il suo volto è teso, i suoi gesti tradiscono una certa nervosità. Forse nel suo animo si svolge una lotta tra responsabilità, guadagno e superstizione. Egli infatti è responsabile deIla nostra vita. Non solo deve condurci sulla “Montagna” ma deve anche riportarci sani e salvi all'albergo. La somma che gli verrà versala dopo l’ascensione gli permetterà di vivere onestamente. Il lavoro nel piccolo porto non gli permetterebbe di nutrire la famiglia. La superstizione, certo non deve lasciarlo indifferente. Per la maggior parte degli abitanti, il vulcano è la porta dell'inferno, la porta della casa del male. Chissà quante lotte avrà combattuto il nostro Lorenzo prima di diventare guida.
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Al vecchio Osservatorio Labronzo si raggiunge il versante nord e si incomincia a salire. Un buon sentiero conduce attraverso un folto canneto che toglie ogni visuale. A 200 m la vegetazione cessa improvvisamente, lasciando vagare libero lo sguardo sulle case bianche allineate sulla riva del mare, verso l’immensità del cielo e delle acque. Poco dopo raggiungiamo il filo di cresta che costeggia la sciara del fuoco. Impressionante è lo sguardo in questa voragine nera, fatta di cenere e di lava, che scende vertiginosa e si inabissa nel mare.
Mentre saliamo guardiamo non senza timore alla nube che, sospinta da un forte vento, sfiora la cresta sulla quale dobbiamo passare. Molte comitive hanno dovuto far ritorno perchè la colonna di fumo era sutura di gas tossici e la nebbia impediva ogni procedere.
Intanto il sole scivola lentamente ma inesorabilmente verso l’orizzonte. Le nubi si fanno di bragia e tingono il mare di riflessi meravigliosi. La notte ci sorprende mentre cauti scendiamo sull’orlo di una cresta che doveva essere certamente la sommità della caldera.
Alle sette abbiamo raggiunto il nostro punto di osservazione. Ci ripariamo alla meglio dietro alcuni spuntoni di lava, mettiamo addosso tutto quello che abbiamo portato con noi, e ci sediamo gli uni vicino agli altri nell’illusione di riscaldarci un poco. Il freddo è infatti insopportabile, Un vento umido soffia a raffiche dal mare e penetra attraverso ogni indumento facendoci rabbrividire. Mai, in nessuna scalata nella catena delle Alpi, in nessuna stagione ho sentito il freddo penetrare lentamente fino alle midolla come sulla cresta dei Vanacori, a 923 metri. Per fortuna, scavando un po’ nella cenere trovai una piccola emanazione di calore tanto da riscaldare almeno una piccola parte del corpo.
La prima operazione fu quella di preparare la macchina fotografica. Così all’oscuro, con le mani intirizzite, non fu cosa facile. Poi montammo la macchine sul trepiede cercando di indovinare la direzione della bocca più attiva, il nostro corpo è immobile, il nostro occhio fisso nell’oscurità, i nostri nervi tesi. I minuti sembrano secoli. Qualcuno racconta del suo caldo salotto a Zurigo, un altro del suo morbido letto a Berna. Il mio amico parla di spaghetti e di malvasia….. un boato cupo e profondo ci toglie la parola, ci mozza il respiro…E’ la terra che trema, è la sua voce possente, inconfondibile che ci giunge dalle sue viscere. Questo è il segno che preannuncia l’eruzione. Passano alcuni minuti interminabili, poi la terra sussulta, vacilla. Un frastuono assordante, formato da sibili, esplosioni boati ci fa rabbrividire. Un getto di lava incandescente viene scaraventato verso l’immensità della notte. Una nube di gas si accende di una luce vivida ed esplode con un fragore infernale illuminando a giorno la sommità del cratere. Poi tutto tace. E’ il silenzio che segue a questo a questo cataclisma sembra ancora più sepolcrale. Quasi nessuno ha azionato il dispositivo di scatto della sua macchina fotografica. I più sono stati come paralizzati da questo fenomeno spettacolare che supera anche l’immaginazione più feconda.
Passati i primi momenti di sgomento si torna a respirare l’aria che ora sa di zolfo. Ora attendiamo una seconda esplosione. Le bocche sulla nostra testa emanano gas che s’incendia ed esplode con sordi boati. Su un piccolo cono oscilla una fiamma da seduta spiritica. Poi un’esplosione di rara violenza ci fa sussultare. Le mani intirizzite afferrano la macchina fotografica….. la terra trema mentre un getto di fuoco sale verso il cielo.
E’ ora di ritornare. La colonna sale lentamente verso la Porta delle Croci. Il lume della lanterna si confonde colle stelle del firmamento. Scendiamo direttamente al villaggio lungo un ripido pendio fatto di cenere. Tutto si muove e la comitiva scende nella massa farinosa affondando fin oltre le caviglie. Io che ho il compito di chiudere la colonna vendo letteralmente soffocato da una nuvola di polvere nera che penetra ogni dove. Il lume delle lanterne, la luce rossastra delle esplosioni vulcaniche e la tenue luce delle stelle rischiarano questa scena che non si può descrivere. Così sarà la fine del mondo, quando gli elementi della natura si scateneranno colla più inaudita violenza.
A mezzanotte sediamo davanti ad un piatto di spaghetti. I più hanno ritrovato la loro loquacità, altri non sanno ancora ordinare nella memoria il susseguirsi degli eventi nelle ultime ore. Lorenzo ci ha lasciati col cuore gonfio e una lacrima negli occhi. La “Montagna” è stata clemente. Non si sa mai – diceva – accomiatandosi – un’esplosione violenta potrebbe spazzare via il margine della caldera e quanti vi siedono sopra.
La notte seguente ci imbarchiamo sulla nave Lipari che punta verso Napoli. Il mare è calmo, solo il rumore dei motori ci dice che viaggiamo. Le acque e il cielo si sono uniti in un unico corpo impenetrabile. Solo lontano, sospeso nell’oscurità, Stromboli, il vulcano più attivo della terra si diverte a scolpire nel nulla i suoi geroglifici di fuoco.
https://www.pgi.ch/it/almanacco-del-grigioni-italiano
L’«Almanacco del Grigioni Italiano» è edito dalla Pgi sin dalla sua fondazione nel 1918. È la pubblicazione storica del Sodalizio con la maggiore diffusione: l’«Almanacco» viene infatti distribuito a tutti i fuochi grigionitaliani e conta oltre 400 abbonati nel resto della Svizzera, per una tiratura complessiva di circa 8'000 copie.
Ormai da cent'anni l’«Almanacco» è e resta la pubblicazione più importante della Pgi, non solo per i suoi «numeri» ma anche per la sua funzione di coesione e di creazione della identità grigionitaliana.
Il Cantone dei Grigioni (tedesco Kanton Graubünden; romancio Chantun Grischun o Cantung Grischung; lombardo Cantun Grisgiun; alemanno Kanton Graubünde o Kanton Graubündä; francese: Canton des Grisons; francoprovenzale: Quenton des Gresons) è uno dei 26 cantoni della Svizzera. È il più esteso e orientale, oltre a essere l'unico cantone trilingue[2], con italiano, romancio e tedesco come lingue ufficiali.
Il Cantone dei Grigioni (tedesco Kanton Graubünden; romancio Chantun Grischun o Cantung Grischung; lombardo Canton Grisgion; alemanno Kanton Graubünde o Kanton Graubündä; francese: Canton des Grisons; francoprovenzale: Quenton des Gresons) è uno dei 26 cantoni della Svizzera. È il più esteso e orientale, oltre a essere l'unico cantone trilingue[2], con italiano, romancio e tedesco come lingue ufficiali.
Geologia e morfologia della Val Poschiavo
Godenzi, Aldo;
Aspetti geologici e morfologici della Svizzera italiana by Aldo Godenzi
Ricerche sulla morfologia glaciale e geomorfogenesi nella regione fra il Gruppo del Bernina e la Valle dell'Adda con particolare riguardo alla Valle di Poschiavo. Tesi, etc. [With plates, including maps and charts.] by Aldo Godenzi( Book )
1 edition published in 1957 in English and held by 2 WorldCat member libraries worldwide
Ricerche sulla geomorfogenesi delle Alpi Retiche Meridionali by Aldo Godenzi( Book )
2 editions published in 1970 in Italian and held by 2 WorldCat member libraries worldwide
Geologia e morfologia della Val Poschiavo by Aldo Godenzi( Book )
3 editions published in 1955 in Italian and held by 2 WorldCat member libraries worldwide
Die Seen des Val di Campo by Aldo Godenzi( )
1 edition published in 2000 in German and held by 1 WorldCat member library worldwide
Il massiccio bregagliotto by Aldo Godenzi( )
1 edition published in 1961 in Italian and held by 1 WorldCat member library worldwide
Anche in Australia è stato celebrato il Patrono San Bartolomeo...
GIUSEPPE IACOLINO Il culto del Protettore San Bartolomeo nelle Isole Eolie I LUOGHI I SEGNI LE MEMORIE ALDO NATOLI EDITORE LIPARI
La Cattedrale di Lipari sotto il titolo di San Bartolomeo
Dopo il crollo dell'Impero romano d'Occidente (a. 476) si avvertirono in Sicilia i pericoli delle incursioni vandaliche e l'oppressione degli Ostrogoti. Pertanto i Liparéi, ormai cristianizzati, ritennero prudente rinserrarsi nel circuito della Città Alta e di trasferire nel cuore stesso dell’abitato la residenza episcopale.
La nuova Cattedrale — di dimensioni assai ridotte e per nulla paragonabili a quelle della chiesa attuale — si impiantò nel sito stesso in cui, in età classica, credibilmente si ergeva un tempietto pagano. Essa venne distrutta nell’838 allorché le Eolie, insieme con l’intera Sicilia, divennero possedimento islamico.
Dopo circa duecentocinquant’anni di vuoto storico, l'abate Ambrogio e i suoi Benedettini, inviati qui dal «liberatore» Ruggero I il Normanno, gettarono le premesse della ricolonizzazione del territorio e della rifondazione della Città di Lipari e, sempre nel sito centrale del Castello edificarono la chiesa abaziale con l’attiguo monastero. La chiesa abaziale, intitolata a S. Bartolomeo, divenne Cattedrale nel 1131 con la promozione a vescovo del secondo abate Giovanni di Pérgana.
Giovanni ingrandì la chiesa (a navata unica) e anche il monastero che
si sviluppò attorno al chiostro (il primo chiostro latino-normanno di Sicilia) dei cui quattro originari ambulacri ne sono avanzati tre recentemente riportati alla luce.
Ulteriori ampliamenti la Cattedrale subì tra il 1450 e il 1515. E, completata che fu con un artistico soffitto di legname a capriate, venne incendiata dai Turchi nel 1544.
Ricostruita nella seconda metà del Cinquecento e conclusa con una magnifica volta a botte, risultò alta e oblunga, per cui ai fianchi trovarono sviluppo varie cappelle; per le cappelle del lato destro furono utilizzati e perimetrati con muri taluni spazii d’intercolunnio dell’ambulacro Nord del chiostro.
Per la nostra Cattedrale il secolo XVII segnò un’epoca di radicali innovazioni e nelle strutture e nelle ornamentazioni: gli affreschi della volta, raffiguranti scene bibliche, rimontano agli anni attorno al 1700; nel 1728 vennero eseguiti la statua d’argento del Protettore e il relativo altare ligneo; fra il 1755 e la fine del secolo venne innalzato il campanile, e nel 1772 la Cattedrale fu ingrandita delle due navatelle laterali, una delle quali (quella di destra) comportò la demolizione di un intero settore del chiostro benedettino.
Anche il prospetto di pietra paglierina vesuviana fu messo in opera intorno al 1772 e venne a dare un nuovo senso di armonica compattezza all’insieme architettonico dll Duomo. Nell’ultimo decennio del secolo simpose prepotentemente, nella Cattedrale, la policromia del marmo, e di marmo furono rivestiti gli altari che vennero altresì sormontati dalle belle tele di Antonio Mercurio.
Nel 1859 un fulmine fece crollare il timpano della facciata e un paio di campate della volta. L’intervento di ripristino fu immediato ed ebbe termine nel 1861. Le pitture scomparse non sono state sino ad oggi reintegrate.
Da sempre la Cattedrale di San Bartolomeo di Lipari assolse il ruolo di chiesa parrocchiale unica con giurisdizione su tutto il comprensorio dell’Arcipelago. Ma mons. Angelo Paino (1909-1921) volle snellire l’azione pastorale delle tante chiese vicarie o sacramentali e, sollecitato il decreto governativo del 28 ottobre del 1910, istituì nella Diocesi le prime sedici parrocchie autonome, compresa quella della stessa Cattedrale.
Pienamente immersa, per lunghi secoli, e svettante nel mezzo del groviglio di case dell’antico tessuto urbano, la Cattedrale fu testimone della vita religiosa e civile della gente isolana. Ed è per tal motivo che i fedeli ordinariamente la chiamano ’ Citàti, perché essa, la Cattedrale, è sintesi altamente rappresentativa di una Città che non è più, e nel contempo rimane centro propulsore di quella straordinaria forza aggregante che lega tutti i figli delle Eolie, i vicini e i lontani.
Foto storica, grazie a Iacono Donatella, senza data pesci spada a Canneto.
Prima parte del testo tratto da:
T.C.I. LE VIE D’ITALIA LA PESCA DEL PESCE-SPADA NELLO STRETTO DI MESSINA. 1919.
Uno dei prodotti più squisiti nei nostri mari è, senza dubbio, il pesce spada, degno «delle mense più raffinate. Sebbene abbastanza diffuso anche altrove esso, come è detto nel cenno che fa della sua interessante pesca la Guida di Sicilia del T. C. I., costituisce un prodotto particolarmente importante, e gradito, delle acque dello Stretto di Messina.
Lippure è raro il trovare sulle mense questo boccone prelibato più a nord di Roma: colpa della nostra imperfetta rete ferroviaria e dei mediocri mezzi di trasporto nostri, soprattutto della scarsità dei vagoni frigoriferi, che soli possono permettere di far giungere il pesce a grandi distanze.
Ed è questo un non piccolo danno, tra i grandissimi che derivano da tale stato di cose; ma è lecito sperare che possa via via attenuarsi.
La gola che, trai vari peccati mortali, è certamente uno dei più benemeriti nei riguardi del commercio, faciliterà certo un giorno o l’altro anche la diffusione di questo prodotto, degno dei più raffinati gourmets nostrali o stranieri non meno di tanti altri «frutti di mare » o di terra, che una avveduta pubblicità e la rapidità dei trasporti faceva viaggiare prima della guerra, e farà viaggiare appena superato questo primo faticoso periodo postbellico, per tutti i mercati di Europa.
È l'industria del pesce-spada, ora relativamente ristretta e primitiva, potrà espandersi, organizzarsi meglio e contribuire in buona misura al benessere delle popolazioni calabro-sicule.
Nell'attesa che anche questo buon prodotto nostro sia messo in valore come si merita, non saranno sgraditi ai nostri lettori alcuni cenni su questa pesca così sportiva e curiosa, che rimonta con le sue tradizioni ai bei giorni della Magna Grecia.
ll pesce-spada (Niphias gladius) è uno de' pesci più grossi del nostro mare. Ad un anno pesa dai 25 ni go chilogrammi, a due da 80 a 150. Raggiunge talora anche i 250. È di colore violaceo oscuro sul dorso, bianchiccio con riflessi argentei all'addome. Porta una lunga spada sul muso, donde gli venne il nome. Forse per lo stesso motivo i genovesi lo chiamano imperatore e per motivi analoghi fu detto altre volte milite, galeota galeotto. Misura, adulto, in lunghezza da 2 a 3 metri dall'estremo della spada all'estremo della coda. Se ne son visti anche di maggiore lunghezza, La spada, depressa, tagliente e dentellata ai lati, è lunga la terza parte dell'intero animale. Ha il corpo fusiforme, la testa a cuneo è l'iride verdastra.
Porta sei pinne, delle quali la maggiore sul dorso presso il capo.
Si nutre di pesci delicati, preferendo nei nostri mari le seppie, i calamari e le anguille, che uccide con la spada e trangugia volgendosi supino. Merita poco o nulla il nome di mostro fiero e battagliero, che gli davano gli antichi, e non attacca che per difendersi.
La sua carne è di un bel bianco roseo, diversa per consistenza, gusto è sapore a seconda delle varie parti del corpo: nell’insieme, però, è tutta deliziosa, salubre e nutritiva. Giovio lo paragona allo storione. Ateneo ed Archistrato lo chiamavano cibo divino, e Cartesio lo ritiene rimedio eccellente a molte malattie.
Vive in vari punti del Mediterraneo sulle coste d’Italia, di Provenza e di Spagna. Si mostra anche presso il Capo di Buona Speranza ed altrove nei mari australi. In nessun punto, però, è così frequente come nel Canale di Messina, ed in quel lembo del mar Tirreno, che raccoglie o scarica, con laa montante o la scendente del Canale, le sue acque nel Jonio. Per sei mesi dell’anno, da ottobre a marzo, par che dorma nel fondo del mare: si trattiene rasente il suolo, sia perché le acque a quella profondità sono più calde, sia perché vi trova agevolmente di che nutrirsi. Nei primi giorni di aprile sale a galla e si dirige verso le coste principalmente del golfo di Patti, dalla baia di Milazzo, di Gioia Tauro, Palmi, Bagnara e Scilla, e girando, secondo la corrente ed il vento che predominano ed il bisogno di esca, risiede per tre mesi in quelle acque facendosi spesso vedere alla superficie. In giugno va in fregola. Si appaiano maschio e femmina e vanno sempre insieme. Indi la femmina depone più volte le uova, che divengono indi a poco pesciolini che vagano per quelle acque fino ad ottobre, epoca in cui spariscono dalla superficie per ritornare a galla in aprile.
I pesci adulti, dal 15 giugno in poi, entrano nello Stretto, e si dirigono verso la costa di Sicilia; spesso a paio e qualche volta anche a tre, una femmina e due maschi, e ciò accade quando uno di questi ultimi, a compensarsi della perdita della propria compagna, si fa a corteggiare quella dell’altro……
La pesca si fa sulle coste calabre da Palmi a Scilla di notte con le reti, e da Palmi al Capo Coda delle Volpi di giorno con la traffinera, specie di fiocina, in aprile, maggio e giugno; in Sicilia in luglio ed agosto, di notte con la rete da S. Teresa a Gazzi, di giorno con la traffinera dal Salvatore dei Greci al Capo Peloro. Si pesca pure, ma raramente, nelle acque delle Lipari, e fin presso Tropea in Calabria, e incappa nelle tonnare.
La palamadara, che serve per la pesca, è una rete di canape ben ritorto e solidamente legato agli angoli delle maglie.
Le reti sono d’ordinario Iunghe 800 metri, larghe 16 ed intessute a maglice di 17 centimetri. Tese in mare scendono a varie profondità secondo le esigenze della pesca. La rete è scortata sul posto designato da una solida barca con albero, vela e timone e otto rematori.
Giunti sul posto prefisso, e scelto il momento opportuno, si getta in mare il segnale, un grosso gruppo di sugheri di circa un metro quadrato, con una campana collocata in modo da mandare il suo squillo ad ogni piccolo movimento delle onde. A questo segnale si attacca un capo della corda superiore, da cui pende la rete e l’altro capo ad altro segnale parimenti fornito di campana
La corda superiore tesa tra’ due segnali è inanellata in una serie di piccoli sugheri e galleggia; la corda inferiore, invece, è guarnita di piccoli piombi, sicchè la rete si tende da sè e forma una vasta parete verticale che sbarra la via al pesce.
Questo, nuotando, infila il lungo rostro dentro una maglia. Però, urtando indi a poco col capo la rete, sente l'ostacolo e cerca mutar strada. Però, volgendosi, infilza la ‘spada in altra maglia e poi in una terza, in una quarta, tanto che più si volge più si avviluppa, anche con la coda e con le lunghe pinne, resta preso e muore attaccato alle reti.
La pesca con la traffinera è una vera caccia. Ci vuole molta destrezza e gagliardia per esercitarla, ed è così dilettevole che, non di rado, vi han preso gusto e passione anche principi e guerrieri illustri. La storia racconta che Don Giovanni D'Austria, trovandosi nel 1571 in attesa della flotta, che poi debellò, nella giornata del 7 ottobre, la potenza turca a Lepanto, volle: anch'egli istruirsi in questo nobile esercizio, e vi si applicò così che, in breve, divenne uno dei più bravi lanciatori, tanto che una volta uccise sei pesci-spada di sua mano. Gli accadde, anzi, che un pesce-spada ferito, ma non rassegnato a morire, si avventò contro la barca e la perforò da banda a banda. Il Principe mandò a suo padre, Carlo V, la spada di questo pesce, segno dello scansato pericolo.
Per l'esercizio di questa pesca occorrono delle vedette o degli speculatori che, siti in punti eminenti, avvertono da lontano, anche sott'acqua, il pesce; e poi, uno o due battelli, spinti rapidamente da vigorosi rematori, per portare il lanciatore ove il bisogno lo richiede, fintanto che questo non pianta il suo formidabile dardo nel corpo dell'animale. Il ferro, che è uncinato, resta nella bestia che fugge, e l’asta, per contraccolpo, salta in mare: ma freccia ed asta restano entrambe legate ad una fune che si molla dietro al fuggitivo, finchè, stanco od esamine, Viene ritirato e gettato nel battello.
Per eseguire questa pesca si armano ogni anno, nella riviera del Ringo, dal Salvatore dei Greci alla punta del Faro, ventun poste o stazioni. Ciascuna consta di due feluche e di quattro battelli, qualche volta cinque.
Ognuna agisce per sè e nel suo esclusivo interesse, ma son tutte soggette a regole e consuetudini, rigorosamente osservate.
La prima regola si è che le poste devono, per turno, cambiare di stazione, facendo in maniera che la prima di oggi sia la seconda di domani, poi la terza e così via via.
Una seconda è questa; la posta che avvisa per prima di avere scoperto il pesce, anche se più vicino alle altre poste, è la sola che ha il diritto d'inseguirlo.
Ogni posta consiste, dunque, in due feluche dalle 10 alle 16 tonnellate ciascuna e quattro battelli addetti due per feluca. Alcune stazioni ne hanno anche un quinto per le comunicazioni con la rada. Dei quattro battelli, due portano a prua ciascuno un lanciatore, nel mezzo sopra un alberetto detto garriere, un esploratore, e cinque rematori, dei quali tre al centro sul medesimo panco vogano in avanti per imprimere il moto al battello, gli altri due dalla parte di poppa vogano in modo da dare la direzione.
Agli altri due battelli, con due o quattro pescatori, viene affidata la corda col pesce-spada ferito, I quattro battelli stanno presso alle feluche, pronti a scoccare come saette dalla vedetta che sta in cima all’antenna della feluca. Ciascuna feluca porta infatti nel mezzo un'antenna o albero, alto non meno di 20 metri e bene assicurato con forti funi.
Una scala di corda con piuoli di legno, distanti 50 centimetri l'uno dall'altro, corre in senso verticale e parallelo all’antenna; con quella il pescatore sale in cima all’antenna e vi rimane quattro ore di seguito.
Quest'uomo prende il nome di antenniere, e deve essere di vista così acuta da potere avvistare il pesce a considerevole distanza, anche se a 3 o 4 metri sott'acqua, anche se il mare è increspato ed il cielo coperto di nubi. Deve essere anche forte e resistente, dovendo restare sotto la cocente sferza del sole di luglio ed agosto, senza speranza di essere rilevato che dopo 4 ore di guardia e senza altro refrigerio che un sorso d’acqua, riscaldata essa pure dai raggi del sole, essendogii proibito di prender cibo.
La vedetta, poi, che sta sull'alberetto piantato nel centro del battello che porta a prua il lanciatore, si chiama foriere o foliere. L'alberetto si chiama garriere; è alto 5 metti circa, e ad un metro quasi dalla cima ha un bottone circolare di legno su cui salta e si mette in piedi o a cavalcioni il foriere, che deve, secondo i cenni dell'antenniere, scoprire a sua volta il pesce ed indicarlo al lanciatore del battello detto ontro o luntro.
Appena l’antenniere scopre il pesce, dà il segno convenuto e lo continua a ripetere, stendendo la destra verso la direzione del pesce sinchè il foriere non avrà a sua volta Visto il pesce è non lo avrà indicato al lanciatore, che sta fermo, dritto ed immobile al suo posto, fino a quando non ha a tiro il pesce e non gli avventa il colpo, gridando « Viva S. Marco benedetto !».
Il grido con cui l’antenniere avverte i suoi compagni è il seguente: va susu.... va, se il pesce prende verso il Faro; va jusu.., verso oriente, ve ‘nterra va... va se il pesce prende per terra.
Fino a pochi anti addietro questi stessi segni si davano in lingua greca. Qualche dotto delle vecchie cronache immaginò che così si facesse perchè il pesce si dilettasse si lasciasse attrarre dall'armonia del greco!
Il volgo, più scaltro, diceva invece, che si parlasse in greco per non essere intesi dal pesce e non prendesse la fuga. In realtà quel greco altro non attestava che l'origine achea dei pescatori ed i tempi remotissimi in cui la pesca venne inventata.
Grazie al geom. Aldo Natoli da ARCIPELAGOIN del marzo-aprile-maggio 2004: “ Gli animali vivi non puzzano” – Un’asina a bordo del “Santa Marina”.
Di GIUSEPPE IACOLINO
Sessantacinque anni fa, nel gennaio del 1940, XVIII dell’era fascista.
Il canonico don Giovanni Barresi era uno di quelli che dividevano il loro tempo tra i comodi della città e la salubrità della campagna. Lui tra Lipari e Quattropani. Una cavalcatura gli era indispensabile considerando che i collegamenti stradali altro non erano allora che sentieri da capre, stretti ed impervii.
Dovendo sostituire la propria asina, ormai avanti negli anni, ne acquistò una a Salina, dal parroco di Rinella don Giovanni Favaloro il quale si premurò di spediglierla con vapore postale Santa Marina sullo scalo di Acquacalda. A quel tempo Acquacalda era il porto di Quattropani.
Arrivata che fu la bestiola il can. Barresi la tastò ben bene e si accorse che non era di suo gradimento e che, tutto sommato, non rispondeva agli accordi convenuti, cosichè col successivo giro del postale la respinse al mittente, non senza prima aver fatto intervenire sul posto i Carabinieri, il Vice Brigadiere della Regia Guardia di Finanza e il medico condotto che trovò l’animale “in ottimissime condizioni””.
E giacchè si trattava di merce non deperibile, il Barresi fece porre le spese di spedizione a carico del destinatario don Favaloro.
A sua volta il parroco di Rinella, sceso alla banchina, notò che “la bestia era ridotta a mal partito; e rifiutò il ritiro. Né intese pagare le L. 29,90 del nolo. Così l’agente marittimo di Rinella rimase con una scopertura di cassa di L. 29,90 e con una bestia da accudire con “spese giornaliere di mantenimento e custodia che superano certamente le lire sette”.
Queste cose scrive il Cappadona, il 4 di gennaio, all’agente di Acquacalda (e p.c. alla “Eolia” Anonima di Navigazione in Messina) pregandolo di “….recuperare dal sac. Barresi le L. 29,90 dato che il nolo doveva essere pagato prima”, cioè all’imbarco, nell’agenzia di Acquacalda.
Ma l’agente di Acquacalda (che forse era un tal Rodriquez) mette i punti sugli “i” appellandosi al regolamento merci e facendo il distinguo tra merci e non deperibili (per le quali il nolo poteva esser pagato indifferentemente dal mittente e dal destinatario) e per le merci deperibili era d’obbligo pagare in anticipo. Sta ora a vedere se l’asina è da considerarsi merce deperibile o no.
Una questione sottile che il Rodriquez scioglie al collega di Rinella in questi termini: l’asina non è merce deperibile, ma animale vivo, e, “come voi sapete, gli animali vivi non puzzano; e non puzzando non sono soggetti a deterioramento”.
Quanto alla validità dell’argomentazione non ci sentiamo di esprimere il nostro parere.
Ma gustiamocela tutta per intero la requisitoria del Rodriquez.
Acquacalda 7 gennaio 1940. All’Agenzia “EOLIA” di Rinella E p.c. alla Direzione di Messina.
In pronto riscontro alla Vs/ del 4 c.m. di cui abbiamo preso buona nota del suo contenuto e vi comunichiamo quanto appresso.
Abbiamo interrogato il Can. Barresi il quale ci fa rilevare che il vero proprietario dell’asina è costì il Parroco Favaloro, il quale gli aveva venduto l’asina a certe condizioni e che per cui il Barresi si trova nel suo diritto di aver provveduto alla restituzione; quindi ci fa inoltre rilevare che è inopportuno il procedimento del Favaloro e che per conseguenza non intende rispondere di niente, né intende accettare nella maniera più assoluta l’eventuale restituzione.
Per quanto riguardano le condizioni dell’animale come Voi dite, Vi facciamo notare che da qui è partita in ottime condizioni, ed imbarcata e messa a bordo con tutte le cautele alla presenza dei Reali Carabinieri e del V. Brigadiere della R.G. di Finanza, ed è stata giudicata in ottimissime condizioni da questo medico condotto.
Evidentemente se la bestia come Voi dite, si trova in condizioni poco discrete, ciò fa supporre che se eventualmente così fosse è dovuto alla poca cura di codesto personale nell’operare lo sbarco di bordo a terra.
Per quanto poi riguarda lo incasso del nolo prima, Vi facciamo notare che il regolamento merci tratta di merci deperibili e non di animali vivi, poiché come voi sapete gli animali vivi non puzzano, e non puzzando non sono soggetti a deterioramento, accrediteremo quindi a Vs/ debito quanto è gravato in polizza alla Società.
Per tutto il resto stando così le cose non abbiamo nulla da suggerirvi, vi regolerete quindi secondo quanto vi suggerisce il regolamento.
Sempre a Vs/ disposizione e ben distintamente vi salutiamo.
L’agente
A quanto pare, le cose si erano messe male e la patata bollente restò in mano al povero Cappadona di Rinella, guardando in prospettiva, vedeva che la situazione si sarebbe ulteriormente aggravata. Intanto scrive: “L’animale è in cattive condizioni, e non possiamo rispondere della vita della bestia ridotta com’è a mal partito…., e se rimarrà qui a lungo difficilmente potranno, dalla vendita, ricavarsi le spese”.
Quali siano stati gli sviluppi di questo gioco a quattro – due preti e due agenti marittimi – non c’è dato sapere, perché a questo punto i documenti tacciono. O, meglio, non esistono per niente.
Grazie al Geom. Aldo Natoli, con la speranza di non aver sbagliato il riferimento al numero.
Da ARCIPELAGOIN MARZO APRILE MAGGIO 1995
Il gruppo delle ragazze di pallavolo liparesi, ci manda una lettera che volentieri pubblichiamo:
” forse anche per le ragazze di Lipari esiste la possibilità di praticare uno Sport.
Grazie infatti allo Snoopy club, da un paio di mesi una ventina di giovanissime ha intrapreso una serie di allenamenti per potere partecipare al prossimo campionato primaverile di pallavolo.
A sinistra: La squadra di Snoopy Club. In piedi: Alessandra Cerquetti, Lucia D'Albora, Zino Nunzia, Rosaria Corda.
Sedute: Enrica Carnevale, Maria Arena, Isabella Cullotta, Marilena Merlino.
A destra: Marilena Merlino alzatrice della squadra (foto singola).
Michele Giacomantonio il sindaco di quasi due legislature e personaggio di grande cultura.
Un ricordo tra quanto ha fatto negli anni sia in ambito culturale e amministrativo:
Grazie al Geom. Aldo Natoli da ARCIPELAGOIN del Giugno/Luglio 1994. Michele Giacomoantonio eletto sindaco di Lipari.
CON 719 VOTI DI SCARTO SU MICHELE FUSCO SI AGGIUDICA IL BALLOTTAGGIO
Michele Giacomantonio eletto Sindaco di Lipari
PER IL PRIMO CITTADINO TURISMO + PARTECIPAZIONE POSSONO FAR DECOLLARE IL COMUNE VERSO UNO SVILUPPO ECONOMICO SOCIALE CULTURALE E MORALE.
La lunga maratona per l’elezione del Sindaco nel comune di Lipari si è conclusa. La poltrona di primo cittadino è stata conquistata da Michele Giacomoantonio con 3530 voti su 6591 votanti nella seconda tornata elettorale del 26 Giugno che lo vedeva opposto al candidato del Polo della Libertà Michele Fusco, ribaltando così il risultato che nelle elezioni del 12 Giugno lo vedeva secondo (2.204 voti) dopo Fusco (2.357 voti) e primo rispetto all’escluso Mariano Bruno (2.100 voti).
Michele Giacomantonio nasce a Lipari il 31 ottobre 1940 e qui vive fino al settembre 1951 quando la sua famiglia si trasferisce a Pavia. A Lipari tornerà sempre per le vacanze estive e natalizie e con una frequenza maggiore nell’ultimo quinquennio impegnato in attività culturali, sociali, giornalistiche e — a partire dal giugno 1991 — anche amministrative. Laureato in economia e commercio, giornalista pubblicista, ha insegnato, ha lavorato nell’editoria e dal 1971 fa parte del gruppo dirigente nazionale delle Acli occupandosi, nel tempo, dei problemi del lavoro, del Centro Studi, dell'editoria aclista, della direzione del settimanale e della rivista di cultura, dell’emarginazione, dell’organizzazione ed infine del Centro istituzioni nazionale del quale conserva la carica di vicepresidente. Giacomoantonio nelle Acli è stato presidente provinciale di Pavia, vicepresidente della Lombardia, segretario nazionale dal 1975 e infine vicepresidente nazionale. Carica da cui si è dimesso per candidarsi alle ultime elezioni politiche per la Camera, nel collegio Milazzo-Lipari.
Ha collaborato e collabora a diverse riviste culturali e politiche ed ha svolto una intensa attività saggistica soprattutto nel capo dell’etica sociale, del sottosviluppo meridionale, della programmazione, della storia e del movimento cattolico.
A Lipari bisogna ricordare il suo impegno in diverse iniziative del Centro Studi e delle ACLI, la sua esperienza di Consigliere comunale e la travagliata vicenda di capogruppo della DC, la fondazione del mensile “QuestEolie” di cui è il direttore.
La situazione del Comune di Lipari è veramente disastrosa. L’eredità che Giacomoantonio raccoglie non è certamente confortante. I debiti dell’ente accertati superano i cinque miliardi. La spazzatura ha invaso tutte le strade dell’isola. L’acqua scarseggia. Gli approdi vacillano I servizi sono penalizzati. Insomma la poltrona conquistata è certamente “rovente”. Siamo però convinti che la capacità, la buona volontà, l’esperienza e soprattutto le doti di mediatore, indispensabili per domare e convivere con la realtà consiliare, consentiranno a Michele Giacomoantonio di ridare al nuovo splendore alle nostre bistrattate isole. Abbiamo rivolto al nuovo Sindaco, già al lavoro sin dal primo giorno dell’insediamento, alcune domande.
D. Può riassumere per i nostri lettori la parte più concreta del programma con il quale ritiene che il nostro Comune possa decollare verso uno sviluppo economico, sociale, culturale e morale?
R. Si potrebbe rispondere, amando il paradosso: turismo più partecipazione. La partecipazione è indubbiamente il motore dello sviluppo civile e morale e vuole dire; trasparenza, dare rappresentanza alle isole ed alle frazioni, dialogo continuo con l’elettorato, mantenere vivo ed aperto il movimento di base “Una Speranza per le Eolie”. Se la partecipazione si vivacizza e si approfondisce anche le azioni di rilevo più immediatamente economico e sociale assumono uno smalto diverso. Ed a questo proposito bisogna dire che va riaffermata la centralità del turismo senza dimenticare la pomice, la pesca l’agricoltura e l’artigianato. Il turismo è il nodo principale. Occorre compiere a questo proposito un salto di qualità rispetto al passato: ricercare tenacemente il prolungamento della stagione (con il termalismo, il turismo culturale, i meeting…), indirizzare e coordinare l’azione degli operatori economici e turistici sulla base di un programma comune, curare la promozione della nostra immagine a scala nazionale e internazionale. Bisogna pensare ad una grande operazione di marketing per il “prodotto Eolie”…
D. Quali provvedimenti urgenti intende assumere per affrontare l’«emergenza estiva?
R. Questa «emergenza» consiste soprattutto in cinque problemi nettezza urbana, traffico, rifornimento idrico, attracchi portuali, locali per le scuole nelle isole. Poi ve ne è un sesto che rappresenta in qualche modo la premessa: la macchina amministrativa. Certo nessuno può aspettarsi già questa estate soluzioni originali. La giunta si insedia il 6 di luglio, in piena stagione turistica e può solo pensare di tamponare. Non bisogna inoltre dimenticare che il Comune deve assumere sempre più i caratteri di una azienda sociale che sappia coniugare efficienza e solidarietà ma procede comunque con la prassi della pubblica amministrazione. Ogni acquisto, ogni locazione, ogni assunzione anche temporanea deve passare per una precisa, spesso complessa e a volte lunga trafila di adempimenti. Stiamo cercando di usare la nostra migliore fantasia per essere tempestivi senza incorrere in alcuna irregolarità, soprattutto nel campo delle nettezza urbana dove finalmente sono indette molte gare d'appalto ma i tempi per effettuarle ci portano inesorabilmente oltre la stagione estiva. Bisognerà ridurre all’essenziale il ricorso alle ordinanze e avviare con il Coreco un rapporto più diretto rivendicando il diritto ad essere ascoltati sulle nostre deliberazioni. Comunque rimane indispensabile la collaborazione del Consiglio comunale……………………….
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Da Giuseppe Iacolino ACQUACALDA DI LIPARI IL TERRITORIO LA COMUNITA’ UMANA LA CHIESA UN DISPERATO TENTATIVO DI PRESERVARNE LE MEMORIE:
…………… Poi ci fu la storica svolta dei sindaci scelti direttamente dalla consultazione popolare e garantiti di una stabilità quadriennale; e così Michele Giacomantonio — eletto il 7 luglio del 1994, confermato, con referendum, nel 1996, e rieletto per un secondo mandato il 24 maggio del 1998 — ebbe modi, mezzi e possibilità di inserire nel suo vasto programma decisivi interventi a favore di Acquacalda.
A far convergere l'attenzione di Giacomantonio su Acquacalda e a far chiarire e maturare i suoi propositi, di certo contribuirono due straordinari eventi: uno drammatico, piuttosto remoto, del 1978, l’altro tragico e più recente, verificatosi nel 1993 quando Giacomantonio era consigliere comunale e direttore — nonchè fondatore — del mensile Quest’Eolie……….
Giacomantonio ribadisce sintetizzandolo, il suo pensiero:
“L’opera di riqualificazione più significativa e complessa è quella studiata per Acquacalda. Qui non si tratta solo di emancipare questa borgata trasformandola da borgo minerario in cittadina del turismo, ma anche di creare due grandi attrazioni come il Laboratorio di ecologia marina e Campus Universitario, e il Museo della Pomice. La scommessa è di fare di Acquacalda un polo di attrazione della cittadina di Lipari, permettendo zione riequilibratore della cittadina di Lipari, permettendo così uno sviluppo equamente distribuito sull’intero territorio dell’isola, rompendo il centralismo liparese, che tende ad assommare, nel proprio abitato, tutti i centri di interesse, costringendo gli altri centri urbani a divenire perfiferia o dormitori”……………………………………..
Vorrei anche ricordare quando si torna a parlare di una ipotetica riapertura delle terme di San Calogero uno studio fatto per conto dell’allora amministrazione comunale di Lipari negli anni 1997-1998, dalla società CHEMGEO s.a.s..Nell’estate del 1997 per conto della ditta “CHEMGEO s.a.s.” di Pisa, lo studio Geologico Ambientale “CROCETTI” ha partecipato allo “Studio geologico dell’area limitrofa ai Bagni Termali di S. Calogero, Isola di Lipari (ME)”. Nel 1998 vi furono indagini dell’Università di Napoli Federico II.
I risultati di questi studio furono illustrati e pubblicati dall’allora sindaco Dott. Giacomantonio.
Segnalo questo libro."La Maga e il velo. incantesimi, riti e poteri del mondo eoliano" di Maffei Macrina Marilena
Un libro sulla medicina tradizionale e sulla magia che inizia raccontando le storie di vita di 3 donne eoliane: la maga più famosa dell’arcipelago del novecento, una donna posseduta dal dio Eolo e una donna affatturata. Storie del passato che ci raccontano modi di vita trascorsi.
Grazie alla Biblioteca comunale di Lipari dal numero del Notiziario delle isole Eolie del maggio 1965.
Santina Giambò vincitrice del “CONCORSO VERITAS”
In una atmosfera di entusiasmo si è svolta a Roma, presso l'Auditorium a palazzo Pio, l'annuale premiazione finale del concorso Veritas.
L'iniziativa promossa dal C.E.N.A.C. (Centro di attività catechistiche) che chiama ogni anno gli studenti delle scuole superiori a concorrere presentando uno studio approfondito su una delle verità proposte dalle fede cattolica, ha riservato nel suo turno, uno speciale riconoscimento alla a Santina Giambò da Canneto studentessa presso il Collegio “S. Anna” di Messina.
La tesi presentata dalla Signorina Giambò conteneva 50 cartelle dattiloscritte contenenti uno studio ampliamente documentato ed approfondito sul tema: La virtù teologale della fede.
Alla tesi della Sig.na Giambò la Commissione arcivescovile di Messina, oltre al viaggio gratis a Roma offerto a tutti i vincitori, ha conferito pieni voti e lode, attribuendo nel tempo stesso, su tutti i concorrenti della diocesi la speciale borsa di studio posta in palio.
La cerimonia della premiazione, che assume ogni anno carattere di particolare solennità, si è svolta a Roma alla presenza di massime autorità religiose e di rappresentanti del Ministero della Pubblica Istruzione. Presenti i Signori Cardinali Pizzardo Traglia e Lercaro.
La speciale udienza del S. Padre con l’augusta parola di elogio e di incoraggiamento congiunta alla benedizione apostolica ha così felicemente coronato il gaudio spirituale dei fortunati 850 vincitori del concorso nazionale “Veritas”.
Per la Sig.na Santina Giambò, alle più vive felicitazioni della Parrocchia di S. Cristoforo in Canneto siamo lieti aggiungere quelle del Notiziario Eoliano.
Cesarino Gualino seguì il marito confinato a Lipari passando le giornate, tra l’altro dipingendo paesaggi eoliani, case ecc.
Stralcio da L’ARTE DELLE DONNE NELL’ITALIA DEL NOVECENTO a cura di Laura Iamurri e Sabina Spinazzè.
Il 26 gennaio 1931, dopa sette giorni di carcere, un processo durato dieci minuti e una condanna a cinque anni di confino per aver recato “grave nocumento” all’economia italiana, Riccardo Gualino parte per l’isola di Lipari. Cesarina, dalla sera dell’arresto riesce a imballare alcuni mobili, considerati oggetti personali, i suoi e altri quadri, i ritrat¬ti di Casorati, alcuni Fattori, la chiesa di Utrillo e molti li¬bri, prima che i sigilli rendano, definitivamente, le case di Cereseto, Sestri e Torino immagini della memoria,
Cesarina raggiunge Riccardo a Lipari un mese dopo, nella casa tra gli orti. Arreda le piccole stanze, cucendo le fodere dei divani (i mobili erano del parroco) e soprattutto attaccando alle pareti, con un nastrino azzurro senza corni¬ci, i suoi quadri, mentre Riccardo scrive quattro libri che sono già di ricordi, Non più cartoncini ma spesse tavole che aggiungono memoria ad altre memorie. Gli ulivi e il grano di Lipari, la fortezza-carcere sul mare, il suo volto sereno, le case…
EPOCA 21 GIUGNO 1964 EOLIE LE LEGGENDARIE ISOLE DELLE SIRENE. foto di Giac Casale testi di Guido Gerosa.
I 117 chilometri quadrati delle Isole Eolie racchiudono un sogno millenario: dalla più remota antichità queste sette gemme del mare (Lipari, Vulcano, Stromboli, Panarea, Salina, Filicudi, Alicudi, incastonate a nord-est della Sicilia nel purissimo azzurro del Mediterraneo, sono la terra del mito. Qui, forse, Ulisse invocò una tregua alle sue peregrinazioni senza fine, rifugiandosi presso Eolo dio dei venti, in un’isola “cui tutta un muro d’infrangibil rame – e una liscia circonda eccelsa rupe”.
Il paesaggio vi appare veramente omerico: le monumentali masse grigieparlano di un mondo perduto, quando queste pietre erano squassate dalla furia dei vulcani e le pareti a picco strapiombavano sul mare ruggente e le caverne misteriose erano popolate da mostri. Cos’ Virgilio immaginò “Lipari aspra dai sassi fumanti”.
Ma questa terra, ieri come oggi, accanto alle smisurate ombre del mito esprimeva la luminosa serenità dei grandi spazi mediterranei. Queste isole erano la superba dimora degli dei, di Eolo e di Vulcano: e, secondo la leggenda, le anime del dei morti, nel compiere il viaggio senza ritorno, passavano accanto ad esse, per capitarvi un’ultima volta il fulgore della natura, mentre di scoglio in scoglio, nella luce abbagliante, si levano sulle acque le voci incantatrici delle divine Sirene.
Giac Casale è nato a New York il 1° dicembre 1926.
Fotografo e regista, è laureato in storia dell’arte alla Wesleyan University, Connecticut e in Cinematografia alla U.C.L.A. California. Prima pittore, negli anni ‘50 si appassiona alla fotografia, “un’arte più attuale, tutta da scoprire”.
Giac è cresciuto professionalmente nella sua città fotografando per le famose riviste come LIFE, LOOK, Vogue e Harper’s Bazaar e per le grandi agenzie che hanno rivoluzionato la comunicazione pubblicitaria negli anni ‘60. Con Anna Marina, sua moglie veneziana e “bellissima modella preferita” (da ragazza lei ha lavorato con Orson Wells) nel 1963 si sono trasferiti a Milano. Hanno quattro figli e 7 nipoti, una famiglia d’artisti fra cui la cantante e compositrice Rossana Casale.
Nella sua lunga carriera, 60 anni, ha ottenuto i più importanti premi e riconoscimenti internazionali fra cui il GRAN PRIX KODAK, un “LEONE” a Cannes, i premi europei EUROBEST, EPICA, e il PREMIO ALLA FOTOGRAFIA dall’Art Directors Club italiana, Per tre anni, dal ’94 al ’96, Giac ha ricevuto il PREMIO AFIP PER LA RICERCA (per “I FUOCHI”, per ”STORIES OF GOLD”e per “JAZZ”) e al New York Festivals ’93 il GRAND AWARD, primo premio a livello mondiale alla fotografia.
Alcuni articoli sul relitto “maledetto” della secca di Capistello. ll Subacqueo Marzo 1979
La Nave di Capistello di Sandro Picozzi
Ci risiamo. Un’altra volta è accaduto che un istituto di ricerca straniero si sia appropriato di un’occasione di studio giacente nelle nostre acque territoriali.
Un’altra volta, una delle tantissime da quando esiste la ricerca archeologica subacquea, il nostro Meridione è stato teatro prima di spogli e ruberie, poi di interventi scientifici ad opera di istituti stranieri.
Parlo del famoso relitto di Capistello, universalmente noto come “il relitto della Secca” (la secca di Capistello, appunto). Dove si sono immersi decine di subacquei italiani e stranieri e che è passato alle cronache, anche quelle giudiziarie, per la morte improvvisa di due ricercatori tedeschi. Al largo delle Isole Eolie, ad oltre sessantacinque metri di fondo, una nave del II secolo a.C. colma di anfore e piatti di ceramica a vernice nera aveva picchiato sulla scarpata sommersa ed aveva rovesciato il proprio carico verso il blu più profondo: ottanta, novanta e perfino novantacinque metri. Le prime notizie certe del relitto vennero fornite dai soliti clandestini locali alla metà degli anni sessanta e già allora appare importantissima la scoperta, soprattutto a motivo del carico, così composito e così ben rappresentativo di una particolare produzione greco-italica della ceramica.
Le prime immersioni si rilevano subito assai difficoltose e la Soprintendenza della Sicilia Occidentale, diretta dal prof. Bernabò Brea, peraltro meritevole per iniziative diversa da questa, preferisce apporre un generico divieto di immersioni, che darà qualche frutto. Ma che localizzerà in modo irreparabile il relitto. Cominciano i sequestri in massa di beni archeologici provenienti dal relitto. Tanto che ora la maggior parte dei reperti è sicuramente quella di provenienza furtiva, recuperata dalla Guardia di Finanza o dalla Benemerita.
Nel 1969 pensano di risolvere ogni cosa gli archeologi dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma, i quali, affiancati da alcuni ricercatori locali, conducono una campagna di studio e di sommario rilievo del relitto, La Secca compie le due prime vittime. I profesori Schlaeger e Graf, utilizzando il congegno allora assai di moda e chiamato “acquastop”, subiscono un grave incidente alle apparecchiature e ci lasciano la pelle. Non si è mai accertato quale dei due abbia avuto per primo l’incidente. Forse è stato Schlaeger a subire il blocco del proprio erogatore o lo sventramento di uno dei due tubi corrugati del monostadio, all’attacco con la scatola di erogazione. Forse è stato lui che nell’affannosa ricerca di aria e, bisogna dirlo, un po’ inesperto ed appesantito dagli anni, ha strappato di bocca l’erogatore al compagno ed assistente. Ugo Graf lasciando la vita propria e quella del suo collaboratore sul relitto. La stampa dà immediatamente grande rilievo all’avvenimento ed enfatizza i toni del dramma senza dire quello che è soprattutto importante: e cioè che due professori patentati abbiano voluto scendere di persona a verificare lo stato delle cose, ritenendo che questo fosse l’unico modo di portare a compimento un lavoro scientifico. Anche Lamboglia, oltre cinque anni dopo e polemizzando con me dalle colonne di questa rivista, osservò che male avevano fatto i due ricercatori tedeschi, dal momento che ben altro è il compito dell’archeologo. Fatto sta che la morte dei due tedeschi fa nascere una leggenda sul relitto ma non serve di ammonimento ai clandestini. Un altro ci rimette la pelle un anno dopo. E’ un milanese e viene ritrovato dal noto sub locale Oddo a quasi novanta metri di fondale con due anfore piene di fango legate alla vita ed un solo autorespiratore ormai vuoto. Il relitto della secca diventa così il Relitto Maledetto ed altro non potevano sperare i predoni locali. Dalle acque di Capistello e dalla sua scarpata tentatrice si terranno lontani i subacquei forestieri e, soprattutto, la Soprintendeza avrà una buona scusa per tenere lontani i ricercatori italiani, i quali intervenendo tempestivamente, avrebbero ridotto di molto l’incidenza negativa dei danni arrecati dai clandestini.
Ma le storie di mare, anche le più terribili, finiscono quasi sempre bene. Anche questa a modo suo ha un finale rosa, anche se per noi italiani è un finale giallo.
Nel 1977 gli americani dell’AINA – American Institute of Nautical Archeology con sede nel College Station del Texas, ottengono l’autorizzazione per lo scavo sdubacqueo e riportano in superficie trentatrè (così poche ne sono rimaste) anfore greco-italiche recanti bolli con indicazioni in lingua greca, e numerosi frammenti di altri vasi. Vengono recuperati anche numerosi frammenti di ceramica a vernice nera con le caratteristiche impressioni a palmette e viene raggiunta perfino la chiglia del relitto, che è stata conservata da uno spesso strato di sabbia e fango accumulatosi ai piedi della scarpata sommersa. Un sintetico reportage sulle ricerche è pubblicato in lingua inglese sulla rivista Nautical Archeology, mentre il materiale è stato pubblicato su una rivista scientifica tedesca, in lingua tedesca, da un noto studioso teutonico, H. Blanck.
Mi si obietterà che la cultura non ha frontiere e che dunque i beni culturali del nostro Paese devono essere a disposizione degli studiosi di tutto il mondo. Ciò che non è chiaro perchè mai una Soprintendenza dello Stato Italiano abbia un così spiccato rapporto preferenziale con commissioni di studio e gruppi di ricerca esteri da lasciare sconcertati. Mi si obbietterà ancora che solo gli Americani, noti esploratori degli spazi siderali, sono in grado di esprimere una tecnologia sufficientemente alta per consentire il buon fine di ricerche così pericolose e difficili.
E qui arriviamo al finale del giallo della storia di mare relativa al Relitto Maledetto. L’istituto di ricerca texano ha richiesto mezzi e uomini alla SSOS e cioè alla società italiana Sub Sea Oil Service di Milano, il cui responsabile tecnico è noto a tutti i subacquei italiani: si tratta di Victor De Sanctis. Ebbene, i sub della SSOS hanno lavorato per 157 ore complessive. , durante l’estate del 1977, dopo che, nell’estate dell’anno precedente, avevano portato a compimento un’indagine sul relitto, sempre di concerto con l’istituto americano e sotto la direzione del grande Katzev. Va fatto rilevare che gli operatori subacquei erano italiani e sono stati scelti proprio per l’altissimo grado di qualificazione tecnica raggiunto in anni ed anni di lavoro specialistico per immersioni e lavori a quote fino a 240 metri.
In sostanza, anche i supertecnici americani sono stati obbligati, probabilmente anche per motivi di economicità dovendo lavorare in acque italiane, a servirsi di una compagnia di lavoro di alto subacqueo italiana, che ha consentito lo svolgimento di un lavoro di alto fondale con miscele. La nave appoggio era dotata di una campana batiscopica, chiamata Robertina, da dove gli archeologi americani per loro stessa ammissione si sono limitati a seguire i lavori ed a prendere delle fotografie. Il prof. Bernabò Brea, che ha assistito allo svolgimento delle due campagne e che ha dato qualche delucidazione storica ed archeologica al team italo-americano, era perfettamente a conoscenza del fatto che una compagnia italiana sarebbe stata in grado di effettuare i lavori di ricerca e scavo, anche se guidata da archeologi italiani, che nella specie ed alla presenza di così grandi profondità, avrebbero potuto starsene senza vergogna (una volta tanto) nella campana. Peraltro, occorre pure segnalare il fatto che gli americani hanno scelto, per le foto sul relitto, una comunissima quadrettatura di tubi rigidi ed una macchina fotografica con flash non elettronico sistemata su un trespolo metallico.
Del rilievo generale è stata pubblicata solo la riproduzione che anche noi pubblichiamo, senza tuttavia evidenziare le caratteristiche grafiche della restituzione in folio. In più di quanto sarebbe logico immaginare, gli americani hanno utilizzato un sottomarino del tipo P51 equipaggiato con una telecamera con obbiettivo a grandangolo, nonché circuito interno di restituzione delle riprese televisive, meglio noto come “videotape”. Proprio le riprese effettuate dal sottomarino hanno rappresentato, a mio modo di vedere, la vera novità ed il documento probabilmente più importante dell’intera operazione. Si è infatti dimostrato una volta di più che la campana batiscopica non è adatta alla ricerca archeologica, anche quando essa sia un ordigno particolarmente perfezionato, come è la Robertina. Tanto la scarsa capacità di campo visivo degli oblò, quanto la difficoltà di spostamento in senso normale al piano del fondo della campana, reso oltretutto pericolosissimo in condizioni di mare improvvisamente cattive, ne sconsigliano l’uso, almeno quando è possibile sostituire la campana o con un sottomarino o con una presenza fisica dell’archeologo sul posto. Non si creda che solo gli americani dispongono di un mezzo così importante come il P51.
Già nel 1972 Zoboli ed altri corallari della sua specie criticavano l’uso di un piccolo batiscafo per la ricerca “sicura” del corallo. Il sottomarino era stato armato da una società di ricerca dell’oro rosso e si era impegnato, con scarso profitto per la verità, in tutta la Sardegna settentrionale. Anche quell’attrezzatura era dotabile di telecamere e videotape.
A parte le polemiche, che ritengo siano doverose di fronte a fatti di questo genere, rimangono alcuni risultati scientifici ottenuti dall’Ente americano di indubitabile valore. Intorno alle imbarcazioni sono stati rinvenuti numerosi ceppi di ancore di piombo e uno di ferro, che sono stati studiati anche da Kapitan, altro conoscitore (straniero pure lui) della acque siciliane. Dal fasciame della chiglia sono stati recuperati alcuni chiodi di rame e di ferro, la cui lunghezza massima è di quindi centimetri ed il cui stato di conservazione può assumersi buono. Delle trentatrè anfore “bollate” la maggior parte è intatta e numerose sono quelle ancora sigillate con un tappo di pece. Cosa contenevano? L’analisi dei materiali organici contenuti è ancora da completare, ma dalla prima relazione sembra che le anfore riportate alla superficie contenessero tracce di olive e di uva.
Gli americani dell’AINA ci danno anche delle importanti indicazioni sui modi e sulle tecniche per continuare i lavori, nel caso beninteso che non siano loro stessi, magari con un nuovo “agreement” col la SSOS, a condurli e ci indicano gli studi conclusi su argomenti analoghi, con cui confrontare per esempio i dati relativi alla imbarcazione: Capistello (Owen) e Filicudi (Kapitan). E gli italiani? Per i ricercatori di tutto il mondo esiste soltanto Lamboglia e le sue pubblicazioni sulle anfore e sulla ceramica campana. Neppure un nome di italiani figura tra gli osservatori di tecniche costruttive di imbarcazioni antiche e neppure uno figura tra quelli di tecnici di rilevamento di giacimenti archeologici sommersi. La storia del relitto di Capistello è sotto questo punto di vista esemplare. Dopo essere stati depositari di beni archeologici di prima importanza, i rappresentanti della nostra cultura nel Meridione, hanno prima impedito che altri italiani scendessero per eseguire quei lavori che erano in grado di fare ed hanno poi consentito che un fantomatico istituto straniero si prendesse il patrocinio ed il merito scientifico di quegli stessi lavori. Poco conta che in acqua siano andati i supertecnici della italiana SSOS e poco conta che senza di loro e senza la loro apparecchiatura il lavoro non sarebbe ma stato portato a compimento: tanto la firma in calce alla pubblicazione non è quella di uno studioso italiano. La storia che abbiamo raccontato ci spinge, purtroppo, ad una amara considerazione. L’Italia è ancora un Paese in cui hanno cittadinanza le gelosie tra studioso e studioso a tutto vantaggio dell’attività di colonizzazione culturale di altri e potenti Paesi. Nel Mediterraneo altri Paesi sono colonizzati al pari del nostro: la Turchia, la Grecia, il libano e saltuariamente i Paesi dell’Africa settentrionale. Poco colonizzata è la Spagna e per niente lo è la Francia. In Francia non danno permessi ad istituti di ricerca stranieri di fare indagini archeologiche nelle acque territoriali, né consentono che il materiale relativo a studi e ricerche effettuate in Francia venga pubblicato in lingua diversa dal francese. Da noi non è così, ma forse i responsabili dell’amministrazione della nostra cultura preferiscono che gli italiani siano indotti a studiare il francese, l’inglese, il tedesco e lo svedese. L’archeologo potrebbe essere una buona occasione.
L'OSSERVATORE ROMANO - DELLA DOMENICA N 15 DEL 11.04.1971.
QUESTA visione romantica della archeologia, fa fede lo slancio con cui il dott. Helmut Schläger, vicedirettore deiristituto, dopo avere — negli anni 1962-1968 — studiato e scavato in terra a Paestum, a Solimto, a S, Maria in Anglona, a Metaponto, a Segesta e in varie altre località antiche d’Italia, volle incominciare a scendere nel fondali sottomarini per tentare di tirar fuori, dalle coltri di fango, di alghe e di muschi, i resti di strutture edilizie « classiche » sommerse e i relitti delle navi romane perdute. L’archeologia subacquea era davvero affascinante e l’attività ad essa relativa non poteva non comparire negli annali del celebre e storico Istituto, in cui generazioni di esperti s’erano trasmessi l’uno all’altro la fiamma dell’amore per gli studi dell’antichità.
Dopo varie immersioni effettuate nell’antico porto di Lilibèo (Marsala), il sub Schläger si recò in Turchia ove, dal settembre al novembre del 1968 eseguì im¬mersioni, a scopo scientifico, nell’antico porto di Phaselìs.
Tornato in Italia, nel giugno del 1969 si recò a Lipari. Era una splendida estate. Insieme a Udo Graf, suo assistente, egli prese a compiere numerose immersioni per l’esame subacqueo di un antico relitto affondato, a 60 m. di profondità, nei pressi dell’isola, con un carico di ceramica del III sec. a.C. Una volta completato tale esame, sarebbe tornato di nuovo a Segesta e a Metaponto, ove era atteso per ulteriori ricerche e studi. Ma il 9 luglio accadde la tragedia: Schläger e Graf, immersisi per un’ennesima volta, non risalirono più in superficie. La morte li aveva ghermiti entrambi presso quel relitto, in seguito al difettosofunzionamento degli apparecchi di respirazione.
La SCOMPARSA dei due studiosi fu certo una dura perdita, ma il Deutsche Archäologisches Institut era abituato alle prove.
Ne parla anche NUOVE EFFEMERIDI n. 46 1999 Archeologia Subacquea, di cui una foto: lipari enzo sole ezio marasà e helmut schlaeger 1969.
Ne parlò anche un articolo della domenica del corriere del 7 ottobre del 1969 di cuna foto: un gruppo di anfore.
Ne parlò AMERICAN INSTITUTE OF NAUTICAL ARCHEOLOGY di cui immagine: la secca di capistellao 1977.
Ne parlò anche ARCHEOLOGIA SOTTOMARINA ALLE ISOLE EOLIE MENSUN BOUND PUNGITOPO 1992 di cui immagine della pag. 39 del libro.
Ne parlò il prof. LUIGI BERNABO' BREA in BOLLETTINO D'ARTE GUERRA DEL MARE INTORNO ALLE ISOLE EOLIE NELL'ULTIMO VENTENNIO 1985 di cui un piccolo ritaglio di una pagina.
Grazie a Istituto Storico della Resistenza in Toscana (isrt@istoresistenzatoscana.it)
1. corrispondenza tra Ester Parri e Miriam Roselli, rispettive consorti di Ferruccio Parri e di Carlo Rosselli, cartolina ed. cappa datata 8 giugno 1929, Lipari sbarcadero e Monte Rosa.
2. cartolina datata 7 settembre 1928 spedita da Lipari da Carlo Roselli a Giorgina Zabban, foto Alberto Albergo edizioni Filippo Belletti, veduta generale del castello e del paese.
Salina stava per diventare porto turistico (1970). TEMPO N. 22 30 MAGGIO 1970. DUE PORTI ALL’ORIZZONTE
di Enzo Catania e Mauro De Mauro – foto di Livio Fioroni
Dove metteremo le nostre barche? Abbiamo ottomila chilometri di coste, ma non più di dieci soni i porticcioli turistici veramente funzionanti. Tutta colpa, si poterebbe dire, dell’incremento della nautica da diporto, che nell’ultimo decennio ha visto un autentico “boom”, al quale, in effetti, non ha fatto riscontro un’ incremento analogo nell’organizzazione infrastrutturale, organizzativa, assistenziale e ricettiva.
E così i pochi porticcioli esistenti sono anche intasati! Spesso non si trova un posto nemmeno a pagarlo a peso d’oro. In alcune località, s’è persino instaurata la cosiddetta “mafia dei porticcioli” che, a sua discrezione, “taglieggia” con tariffe esose i diportisti in transito. In altre località, i veri padroni si identificano nei “vitelloni” della flotta pigra” in coloro cioè che, trovato un attracco non lo mollano più per paura di perderlo e tengono il loro ingombrante yacht a galleggiare proprio come un vitellone. Intanto i turisti si rifugiano in massa sulle coste slave e francesi, dove è già sorto o è in via di costruzione un porticciolo ogni 15 chilometri.
I più preoccupati restano i proprietari delle mini barche, dei piccoli cabinati e delle barche a vela, di tutto coloro insomma che da anni continuano a incrementare il fenomeno della nautica popolare.
Gino Gervasoni, vice presidente dell’UNCINA (Unione cantieri industrie nautiche ed affini) ha lanciato il suo SOS: “O i sassi in mare o le industrie in mare”. Il che significa: o ci mettiamo davvero a costruire questi benedetti porticcioli turistici, oppure prima o poi le industrie nautiche andranno a gambe per aria, poiché la gente non comprerà più, non sapendo che farsene d’una barca ferma nel box di Milano, di Roma, di Torino.
Costruire dunque: di chi il compito: Stato e privati si palleggiano le responsabilità. Il primo dice: nessuno nega la drammaticità del momento, però com’è possibile pensare di risolvere il problema dei porticcioli turistici, se prima non si risolve quello dei grandi porti commerciali, che attraversano una crisi non meno consistente? Gli altri aggiungono: lo Stato pensi dunque ai porti commerciali e dia a noi il permesso di costruire i porticcioli turisitici.
Raffaele Cusmai, direttore generale del Naviglio presso il ministero della Marina mercantile, in una “storica” seduta dell’11 dicembre 68 ha ribattuto: “ Lo Stato è pronto ad aprire un fattivo dialogo di collaborazione. Purtroppo mi risulta che attualmente, in giacenza presso i Ministeri, non si trovano domande di costruzione inoltrate da gruppi privati. Si facciano avanti. Saranno bene accolti!”.
Il suo appello è stato raccolto. I due esempi più sintomatici riguardano le isole Eolie e Rapallo. L’arcipelago ha quasi surclassato Taormina come polo turistico. Alberghi, ristoranti e ritrovi sorgono come funghi, sullo scenario d’un paesaggio incantevole, tanto selvaggio quanto affascinante. Le Belle Arti, l’Ente Provinciale del Turismo di Messina e l’Azienda autonoma di Soggiorno locale devono farsi in quattro per salvaguardare le attrattive maturali dell’avanzare indiscriminato del piccone, del bulldozer e del cemento. Le presenze turistiche aumentano di anno in anno. L’86 per cento, così dice una recente statistica, arriva dal Nord
Per la maggior parte si tratta di pescatori subacquei i quali preferiscono le Eolie per i fondali puliti, per le acque non ancora contaminate dagli scarichi industriali e per la ricchezza della fauna ittica. La fama di Lipari, di Vulcano e di Panarea, autentici paradisi terrestri della cernia gigante, si è ormai diffusa in tutto il mondo: il suo richiamo è talmente irresistibile che gli americani organizzavano voli “charter”, arrivando in aereo sino a Napoli, a Palermo, a Messina e a Reggio Calabria, raggiungendo poi l’arcipelago in aliscafo.
Un’èquipe svizzera di studiosi di turismo internazionale ha calcolato che le Eolie potrebbero triplicare le presenze attuali, diventando la “più colossale attrazione paesistica del mediterraneo”, se efficienti approdi riuscissero ad evadere le pressanti richieste d’attracco. Ora la situazione non è certo incoraggiante. Il porticciolo di Lipari riesce a stento a disbrigare il normale traffico quotidiano imperniato sulle navi ed i battelli di linea e sui traghetti adibiti al trasporto delle mercanzie necessarie ai fabbisogni di tutto l’arcipelago. E’ vero che i diportisti possono attraccare al molo di Pignataro; però è anche vero che la disponibilità è irrisoria, non certo pari alle esigenze del turismo diportistico di massa.
Vulcano è in una posizione difficile: infatti mentre le barche restano efficientemente riparate dai venti del nord, sono sempre alla mercè di quelli del sud. Teoricamente l’isola più privilegiata è Salina, poco toccata dall’incremento turistico, i cui abitanti traggono i loro proventi dalla pesca, dalla coltivazione del cappero e dall’uva malvasia. Essa dispone infatti d’un porto naturale formato da un laghetto e delimitato per quattro quinti da una sottile striscia di terra chiamata per la sua caratteristica “Lingua di salina”.
Ebbene: proprio in questo laghetto il costruttore di motoscafi Carlo Riva intende costruire un porto artificiale, ampliando la ricettività sino a consentire il ricovero contemporaneo di un minimo di 200 imbarcazioni sino a un massimo di 600. Riva ha già affidato la progettazione del porticciolo e del suo entroterra a uno studio urbanistico-commerciale di Messina.
Nei giorni scorsi, durante una seduta del consiglio comunale di Salina, un avvocato, Carmelo Brandoni, a nome di Riva ha esposto e sottoposto a discussione il progetto. Più che un dibattito, si è avuto un vero e proprio dialogo tra persone che sembravano volere la stessa cosa: da una parte gli industriali che intendono valorizzare col loro intervento una precisa zona, dall’altra gli abitanti di Salina, gli amministratori e gli esperti delle Belle Arti.
Si è appreso così che le aree interessate potranno essere pagate 1500 lire al metro quadrato, anche in contanti (la cifra potrà essere ancora discussa), che gli eventuali accordi di vendita saranno legati all’approvazione del progetto da parte di tutti gli enti interessati (cioè: Belle Arti, demanio marittimo, ministero del Turismo, Assessorato regionale all’urbanistica e allo sviluppo economico) e , questo è l’importante, che il progetto prevede oltre alla costruzione del porticciolo anche tutte le strutture ricettive indispensabili, dal “boat service” alle gru di servizio, ai posti di rifornimento del carburante e dei lubrificanti.
Il quadro che ha fatto del progetto Carmelo Brandoni è naturalmente dei più allettanti: “Non vogliamo affatto deturpare il paesaggio. Vogliamo solo fare del buon turismo, portare un ulteriore incremento delle isole Eolie, innestandoci nell’habitat, nell’ambiente genuino che è, a nostro avviso, la principale attrattiva turistica dell’isola. Modificarlo? Siamo i primi a guardarcene bene!”.
Ora s’aspetta l’esito. Se le trattative dirette, a tu per tu, per la vendita dei vari spezzoni di terreno, dovessero concludersi favorevolmente, nel giro d’un paio d’anni le Isole Eolie avranno proprio a Salina il loro porto turistico.
”L’Italia, come fondali non ha nulla da invidiare né alla Francia, né alla Jugoslavia, dice Riva. Basterà quindi sollecitare la nascita d’una fitta catena di approdi, per calamitare l’interesse di tutto il turismo internazionale in transito, con grandi vantaggi per la economia nazionale. Purtroppo le lungaggini burocratiche sono esasperanti e spesso fanno anche la voglia di insistere in iniziative del genere…”.
LE VIE D’ITALIA 1955 Torri costiere lungo il basso Tirreno
Sono rimaste a ricordare nove secoli di lotta sostenuta dai paesi
rivieraschi contro la pirateria .
Torri cilindriche e quadrangolari, integre o diroccate, isolate o circondate da costruzioni minori come il pastore dal gregge, spesso adibite agli usi più diversi, sorgono ancora qua e là lungo le coste dell’Italia Meridionale, soprattutto sul Basso Tirreno. Sono rimaste a narrare gli ultimi nove secoli (dal IX al XVIII circa) della lotta sostenuta dai paesi rivieraschi contro la pirateria, piaga del Mediterraneo fin dai primi tempi della- navigazione e che influì profondamente sulla vita costiera. Di due specie erano le torri: d’allarme e di difesa.
Le prime sono le più antiche: cilindriche, alte, sottili, senza ornamenti e con rare piccole aperture verso l’alto. A quel tempo il monopolio della pirateria l’avevano i Saraceni e le torri dovevano segnalarne l’arrivo con fuochi, il cui numero e modo di succedersi stava a indicare i vari casi: assalto, incendio, battaglia, ecc. Nelle notti serene — giacche i pirati, per la leggerezza dei loro legni eran costretti a scegliere stagioni propizie e a chiedere complicità alle tenebre — dalle torri cilindriche delle località rivierasche si accendevano i grandi falò che l’uno all’altro si rispondevano. Colli e rive fiammeggiavano e le popolazioni fuggivano nei boschi, nelle caverne, sui monti; e spesso quegli improvvisi fuochi accesi dalle scolte insonni, avvertendo che le città erano deste e preparate, consigliavano i pirati a cambiar rotta.
Ma non sempre i fuochi evitavano gli sbarchi, nè la fuga i saccheggi. Così si cominciarono a costruire torri difensive, non più cilindriche, ma quadrate, più adatte allo scopo. Dapprima furono poche e abbandonate all’iniziativa di privati o di singole comunità e solo per proteggere i luoghi dove era più facile lo sbarco. Col tempo però si moltiplicarono, finche al principio del XVI secolo, sotto la crescente minaccia dei Turchi e dei’’ Barbareschi”, i Viceré di Napoli ne ordinarono la costruzione su larga scala e secondo un programma ben definito, in modo che tutte le coste del vicereame spagnolo ne fossero munite.
I Barbareschi erano un accozzaglia di gente diversa: schiavi fuggiti al remo delle galere militari e mercantili, perseguitati per reati comuni, disertori. Dei loro capi, astuti e crudeli avidi e senza scrupoli, sono passati alla storia Kair ed din (Ariadeno detto il Barbarossa), ammiraglio di Solimano, e Dragut, suo luogotenente. he loro flotte erano protette dagli stati dell’Africa mediterranea e assoldate non solo dai Turchi, che se ne valse perfino la Francia. Per questo si sogliono, anche troppo sottilmente, distinguere dai pirati, le cui scorrerie non avevano alcun aspetto politico.
I Viceré di Napoli ordinarono dunque la costruzione di torri su vasta scala e, poiché si era ormai nell’epoca delle armi da fuoco, ne dettarono le caratteristiche più opportune, he torri avrebbero avuto una pianta quadrata di 10 metri di lato e un’altezza di 20, con muraglie spesse 3-4 metri, e scarpate all’esterno, dal cordone in già; tutt’intorno, caditoie, porta sopra il cordone e ponte levatoio. All’interno, tre piani, col soffitto a volta e congiunti da una scaletta interna: al primo i magazzini, al secondo gli alloggi, al terzo l’artiglieria, ha quale consisteva in una colubrina, due petriere e altri pezzi minuti: la colubrina era una lunga bombarda; le petriere catapulte atte a lanciar pietre, montate su una piccola piazzala; i pezzi minuti colubrinelle o manesche, sul tipo delle colubrine ma più piccole e facilmente spostabili.
Le torri erano scarpate fino al cordone, perchè seguendo i princìpi di Leonardo da Vinci e di Giorgio Martini, fino al cordone la muraglia era fatta a sghembo, per deviare il proiettile; ma siccome questo tipo di costruzione poteva facilitare l’assalto, questo era evitato appunto dal fatto che il tratto obliquo fosse scarpato.
Non è da credere che queste disposizioni per la costruzione delle torri siano state rispettate alla lettera; qualche variazione ci fu, dovuta alla presenza o meno sul luogo di particolari materiali edilizi e alla qualità del terreno su cui doveva sorgere la torre. Intervenne ancora a modificare le costruzioni l’iniziativa di privati, che per vedere difesa sollecitamente la costa, anticiparono o donarono i mezzi per costruire; talvolta il gusto locale portò modifiche, tanto è vero che qualche torre rotonda, ben diversa però dalle antiche, fu costruita ancora.
Ma è certo che l’ultimo trentennio del Cinquecento fu tempo di baldoria per gli appaltatori o « partitati » che ne fecero di crude e di cotte, secondo gli usi del tempo, tanto che più di un crollo fu dovuto a difetto di costruzione.
In ogni modo molte di queste torri quadrate resistettero. E ben 359 se ne contavano ancora quando il 21 febbraio 1827 (l’epoca della pirateria
era, o sembrava, ormai tramontata) un regio decreto disciplinò l’uso delle torri, cedendone una parte alle amministrazioni dello Stato, e specialmente ai Ministeri delle poste e della guerra, ai corpi della finanza, o a privati che le acquistarono per trasformarle in civili abitazioni.
Lo scopo della difesa contro i corsari non esisteva più; ma le torri servirono ancora a qualchecosa, e soprattutto alla repressione del contrabbando e come cordone sanitario contro la peste.
Vogliamo ora metterci in viaggio e rintracciare e segnalare qualcuna delle torri esistenti, per esempio, da Terracina fino a Policastro?
Fino a Sperlonga, ove sorge ancora una bella torre, pochi segni di difesa; abbandonato o quasi era stato quel tratto di costa nella prima metà del Cinquecento. E ciò rese possibile nel luglio del 1534 l’incursione corsara a Fondi. Sembra che il gran Solimano, imperatore dei Turchi, si fosse invaghito, o per sentito dire o per averne visto il ritratto, della feudataria del luogo, donna Giulia Gonzaga vedova di Vespasiano Colonna e avesse dato al suo ammiraglio Ariadeno Barbarossa l’incarico di rapirla.
Il corsaro, al comando di ottanta galere, già aveva saccheggiato i lidi della Calabria e sera gettato su Procida.
Donna Giulia fu avvertita che i corsari saccheggiavano Sperlonga e si dirigevano a Fondi e fuggì su un velocissimo cavallo, senza neppur vestirsi, « all’incamisa » dice un cronista, e si nascose, con il piccolo seguito, in sotterranee grotte, ove stette morta di freddo e di fame un
giorno e una notte. Intanto Sperlonga veniva arsa, arsa e saccheggiata Fondi e per l’ira della preda sfuggitagli il Barbarossa depredò, trucidò e fece scempio degli abitanti.
Alla foce del Garigliano sta la torre che nel tempo delle incursioni saracene Pandolfo Capodiferro, principe di Capua, fece elevare coi materiali raccolti tra le rovine della romana « Minturnum ». È una gran torre con barbacani, dall’aspetto monumentale.
I Saraceni, padroni della Sicilia e d’un vasto impero, risalivano non solo il Garigliano ma, in barche, il Tevere stesso, entrando a piedi o a cavallo nel territorio laziale, varcando il Teverone, per depredare la Sabina. « Corron la terra come locuste — scriveva il papa Giovanni Vili — e a narrare i guasti loro sarebbero mestieri tante lingue, quante foglie hanno gli alberi dei nostri paesi » e in altra del settembre 876 « ...tra non guari, verranno ad assalirci in Roma, poiché stanno armando cento legni e quindici navi da traghettare cavalli ».
Tanto non osarono mai i Barbareschi che si limitarono a farsi qua e là piccoli approdi e nascondigli; e infatti le torri alle foci dei fiumi servirono dal Cinque al Settecento soprattutto a impedire che i corsari si rifornissero d’acqua dolce.
Nel Golfo di Napoli le torri sono presenti, più che nella costruzione, nei toponimi: come Torre del Greco, che prese nome da una torre probabilmente sveva, la turris octava di Federico lI e Torre Annunziata, nata intorno a una torre e a una cappella.
Non mancano però anche anche le torri, come a Massa Lubrense, cittadina che fu detta appunto per le sue molte costruzioni difensive, « la turrita ». Infatti, dopo la terribile incursione del 1558 si iniziò il progetto e nel 1567 la costruzione di otto regie torri difensive, oltre quelle di cui si provvidero molte case. Le regie esistono ancora tutte, alcune dirute, altre modificate. Al tempo dei francesi ( 1807) alcune servirono d’alloggio ai soldati del presidio, e appartennero poi all’Orfanotrofio militare.
Altre torri si trovano sulle isole, a Capri e a Ischia. Celebre il Torrione a Torio d’ischia, una delle sette costruzioni elevate nel Cinquecento, « de particolari citadini ben munite d’armi, ne le quali si ponno salvare le gente quando è correria de Turchi ». All’estremità meridionale del golfo, sulla Punta della Campanella, sorge la Torre Minerva, la cui costruzione fu ordinata da Roberto d’Angiò con lettera del 18 novembre 1334, quando si accertò che una grotta del promontorio era ritrovo e sosta di pirati.
Entriamo ora nel golfo di Salerno, dove non v’è località, anche minuscola, che non conservi una sua torre perchè, data la natura impervia della costiera, ciascuna località era pressoché isolata, senza comunicazioni via terra e senza possibilità di sfogo verso l’interno [la splendida strada costiera che oggi le unisce era ancora ben lontana dalla sua realizzazione).
Tre torri sorgono a Positano: del Fumilio (trasformata in villino), di Trosita e della Sponda; una è a Vettica maggiore, una a Vettica minore, anch’essa ridotta a villa. Quella di Conca dei Marini fu per un certo tempo un cimitero, dove le bare venivano calate dall’alto, con le funi: un cimitero posto in un luogo d’incanto, sopra una piccola cala, che par fatta di lapislazzoli.
Dell’antica repubblica d’Amalfi è rimasta, stagliata netta nel cielo, cupa e solitaria, sulla piccola altura del Monte Aureo, la torre cilindrica di Ziro o di Ciro, detta anche « del buon tempo », restaurata, come è consacrato nelle lapidi, nel 1292, 1305, 1335, 1490. In essa si narra che fosse uccisa Giovanna d'Aragona, duchessa d’Amalfi, rea di avere, vedova a vent’anni, sposato il suo maggiordomo. Ricorderemo che questa storia sentimentale e tragica diede origine a « El mayordomo de la duquesa de Amalfi » di Lope de Vega.
Ad Amalfi era anche la torre di Santa Sofia, sui ruderi della quale fu dapprima innalzato un monastero francescano, cui furono particolarmente devoti angioini e durazzeschi; e divenne poi l’Hôtel Luna; anche questa torre riallaccia l’Italia, terra di ispirazione e riposo ai poeti, alla letteratura mondiale, perchè, in una camera dell’albergo, Enrico Ibsen scrisse « Casa di bambola ». Di fronte allo stesso albergo è la torre dei Piccolomini. Ad Atrani è una bella torre, a pianta quadrata, detta del Tumolo o di S. Francesco; a guardia del lido di Praria, spazzato nella recente alluvione con le sue barche e le sue reti dal torrente di fango, sta un’altra torre. Numerose torri rimangono di quelle costruite intorno a Maiori per difendere l’accesso alla valle di Tramonti e intorno a Vietri per chiudere la valle di Cava de’ Tirreni, uniche vie possibile per invadere, dal Golfo di Salerno, la piana del Sarno.
A sud di Salerno, torri e avanzi dì torri sono alle foci dei piccoli fiumi, alcuni dei quali a carattere torrentizio, una sul Seie, una presso Paestum, a cui fanno da sfondo le solenni rovine di quei templi dorici.
Da Agropoli a Policastro, che furono particolarmente battute dalle incursioni, diciotto torri erano state progettate nel 1566 e diciotto appunto ne segna ben chiaramente una carta del Principato Citeriore di circa un secolo fa; esse son tutte segnalate nei documenti dell’Archivio di Stato di Napoli, e fan parte di quelle censite. Alcune sono dirute, altre conservate alla meglio.
Ecco verso Castellabate la torre di Velia accanto al luogo dove sorgeva la greca Elea; ecco le torri d’Ogliastro, di Pagliarolo, di S. Marco; ecco, raggiunta attraverso boschetti sempre verdi d’olivi, la torre d’isola, sopra uno scoglio e quelle di Zancale e dell’Olivo, tutti luoghi anch’essi visitati più volte dal Barbarossa. Dire il nome di tutte sarebbe ormai troppo lungo; e qui, sulla costa del montuoso e pittoresco Cilento poniamo termine al nostro viaggio.
Dal golfo di Policastro s’inizia la costa lucana e seguono le altre, più ricche di ruderi che di torri.
GINA ALGRANATI.
Da ARCHITETTURE EOLIANE di Giuseppe Lo Cascio. Uno stralcio su torre in contrada Mendolita
Merita di essere visitata poi, in contrada Mendolita, pressocchè inalterata, una delle tante torri di avvistamento e protezione realizzate a difesa delle scorrerie dei pirati, verso la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, e che vennero codificate con estrema precisione dall'architetto Camillo Camilliani nella sua “Descrittione delle marine del regno di Sicilia, così delle torri fatte, e dove di nuove convenga farsene...” del 1584.
Anziché alle tante torri di avvistamento che sorgevano lungo le coste, di proprietà demaniale, dette anche “di deputatione”, che venivano realizzate in posizione predominante in modo da avere comodo campo visivo su ampie estensioni di mare, tale torre appartiene certamente a quel gruppo di torri che sorgevano in prossimità di trappeti, tonnare, vasti magazzini, e che proprio per la loro immediata vicinanza con l'oggetto da difendere, non avevano finalità diverse dalla difesa immediata della “robba”, e non quindi fini di generale utilità.
Il loro periodo di costruzione, come quello delle altre torri di proprietà demaniale, va comunque sino al primo trentennio del 1600, poi il fervore costruttivo viene a cessare, pur non mancando di sottoporre spesso a consolidamenti questi importanti elementi del sistema difensivo delle nostre coste.
Di questa torre in particolare, brevi note ed un abbastanza preciso disegno vengono riportati nella pubblicazione su Lipari di Luigi Salvatore d'Austria, che riporta peraltro l’esistenza di un’altra torre, questa in località Zinzolo, detta “a turri i don Turiddu Marraffa”.
L'architettura di questa, conosciuta invece come “a turri d'a Mennulita”, pur non rispondendo fedelmente a tutti i canoni classici catalogati dal Camilliani, ne riprende e rispetta tuttavia le principali caratteristiche, quali la pianta a base quadrata, lo sviluppo articolato su più elevazioni (la base, il piano operativo, la terrazza), il “pedamento”, o leggera scarpata a ringrossare la struttura delle prime elevazioni.
AI vano del piano seminterrato, sì accede dal fronte di levante, ed al di sotto di questo vano (come prescritto da una “ordinazione” del 1595), si ha una piccola cisterna, del tipo a campana.
AI vano della prima elevazione, la base, si accede dal fronte di ponente, verso il territorio interno come dai dettami del Camilliani, per evitare eventuali bombardamenti dal mare da parte di eventuali assalitori, o che questi ne impedissero comunque con facilità l’accesso e l’uscita dei difensori.
Ai vani della seconda e terza elevazione, il piano operativo, si accedeva mediante scale retrattili.
La parte superiore del fabbricato, al di sopra del pedamento, ha spigoli piombanti, e la muratura prosegue al di sopra del piano-terrazza, coronata poi da una merlatura di tipo ghibellino.
Si hanno cinque merli sul fronte-sud (e si suppone ve ne fossero altrettanti su quello nord, crollato) e quattro invece su quelli est ed ovest.
Su tre fronti si avevano, al piano-terrazza, vaste aperture ad arco a tutto sesto, con uno spesso parapetto ed al di sotto di questi, dei mensoloni in pietra sagomata, facenti parte del sistema difensivo della torre.
Sul quarto fronte, proprio al di sopra dell'apertura della prima elevazione, si ha (sempre all'altezza della terrazza) una “caditoia” o “piombatolo”, classico elemento dell’antico sistema di difesa piombante.
È questo un piccolo corpo aggettante, che Luigi Salvatore d'Austria definisce genericamente “postazione di lancio”, che poggia su tre mensoloni in pietra, chiuso dai lati e vuoto nella sua parte inferiore, in modo da consentire la caduta, o “piombata”, di armi ed oggetti da difesa proprio dinanzi l'apertura dell'ingresso.
A questa architettura, sono annesse al piano terreno, due pinnate ed altri piccoli magazzini, oltre ad un’ampia stalla, e che certo costituivano l'oggetto primario da difendere.
AVVENTURA A LIPARI (1961) di VICTOR A . DE S A N C T IS 1 parte
Le riprese di "Avventura a Lipari" iniziarono il 26 luglio dello scorso anno e terminarono in brevissimo tempo grazie alla valida collaborazione di tutti i soci del Club Mediterranée ospiti in quel villaggio.
Tra di loro De Sanctis scelse anche il protagonista della vicenda narrata nella pellicola.
Come misi piede a terra sulla banchina del porto la mia prima preoccupazione fu quella di contare i bagagli. Avevo compiuto i l viaggio da solo, con la vettura carica fino all'inverosimile, e a velocità piuttosto sostenuta. Nei pressi di Terracina avevo anche evitato, per miracolo, un investimento. Insomma, ero riuscito ad arrivare sano e salvo con i miei 21 colli da Torino e sarebbe stato davvero imperdonabile, proprio ora, perderne qualcuno nelle manovre di carico e scarico.
« ... 19... 20... 21 ». C'erano tutti. Tirai un respiro di sollievo. Ma non c'era nessuno del Village ad attendermi, e questo complicava un po' le cose.
« Al clubbe volesse andare? Lasciasse fare a noiantri! », un ragazzotto dalla pelle scura si era avvicinato con un capace battello e una muta di picciotti al rimorchio. Come diedi a vedere di essere d'accordo sul trasferimento via mare, i ragazzi, si precipitarono sui bagagli per l'imbarco. In un amen le due cineprese subacquee, le due macchine per esterni, i due autorespiratori, il magnetofono, le macchine fotografiche, i riflettori solari, i treppiedi, le cassette della pellicola, i sacchi delle mute e le custodie dei fucili, tutto fu sistemato sulla "Concetta madre", insieme con la lampada di illuminazione subacquea e la valigia degli effetti personali.
L'avventura di Lipari incominciava.
« Questo — mi disse Alex Stroinowsky, capo del Village — è Jakie Masson, capo istruttore. A lui ti potrai rivolgere per tutto quello che ti servirà sui battelli, .«sopra e sott'acqua ». I l tipo che mi stava davanti era un giovanotto solido, occhi azzurri, volto sorridente ed aperto, incorniciato da una caratteristica barbetta a collare. Lo avrei avuto come collaboratore per quasi un mese. "Barbarossa" a sua volta cominciò a presentarmi gli altri istruttori del club: Bernard Baes di Nizza, Pierrick Parlonar, un bretone modesto e taciturno, Claude Ferrari, un altro Claude e infine un ragazzo inglese, di cui non ricordo il nome. In quel momento rumorosi saluti si levarono dal ponte del “Vittorio Veneto", uno dei due grossi battelli adibiti alle sortite subacquee del club:
Marc e Annette Jasinsky mi chiamavano a gran voce un tipo piccoletto, mi corse incontro: era René Thierry della televisione belga e da quel momento mio stretto collaboratore alla realizzazione del film "Avventura a Lipari".
Sul pontone, grondante di acqua, era intanto salita Virginie la "prima attrice" della vicenda che avremmo filmato. Buona sommozzatrice, l'amico Bob Lombaert me ne aveva scritto da Bruxelles. Ora Ia sua alta figura d'indossatrice mi stava dinanzi, i capelli fradici incollati alla nuca, sulle guance, sul collo.
« Quest'oggi stesso — dissi alla piccola troupe riunita — cominceremo i sopraluoghi e la sceneggiatura ». Erano le 12 del mattino del 24 luglio. Mare e cielo apparivano di un azzurro intenso, il tempo era decisamente al buono stabile, tutto lasciava presumere che avremmo potuto svolgere un buon lavoro.
Il mattino del giorno 26 cominciarono le riprese. Bisogna riconoscere che il cinema moderno ha, tra i suoi vantaggi, quello di una straordinaria rapidità dì preparazione. Due soli giorni erano bastati per sviluppare la sceneggiatura del soggettino che mi ero portato dietro. Thierry e Marc mi erano stati di valido aiuto, per la scenografia vera e propria il primo, per i sopraluoghi il secondo.
Ci dividemmo i compiti amichevolmente. Discussioni piuttosto vivaci suscitò invece la scelta di colui che sarebbe stato il protagonista maschile del film. Tutti erano naturalmente d'accordo che . avrebbe dovuto essere un buon subacqueo: ma chi scegliere nel ricco campionario a disposizione? L'importante decisione venne presa durante n pranzo. Un po' di eccitazione regnava tra i G.M. presenti e specialmente fra gli istruttori. Personalmente, mi sarebbe andato bene uno qualunque di quei signori, ma alla fine prevalse l'idea. René, e la scelta cadde su Pierrick, solido giovanotto di taglia media, che meglio di tanti altri avrebbe potuto identificarsi col reale protagonista di una vicenda del genere.
Non avrei dovuto pentirmi della scelta. Il mattino del 26, ripeto, eravamo già in acqua per girare le sequenze sulla scuola d'immersione. La faccenda cominciò con una arrabbiatura. Ero appena sceso in acqua dalla "Stella Immacolata", il battello che doveva servirci come base durante le riprese, quando vidi René e Marc, in piedi sopra un prato di posidonie sette metri più sotto, che se ne stavano giocando allegramente alla palla ovale. Fin qui nulla di straordinario se non fosse stato per il pallone che era rappresentato dalla grossa lampada Galeazzi dentro alla quale erano sistemate le batterie di accumulatori.
I miei gesti dovettero essere di una incisività che non lasciava adito ad equivoci, se i due credettero opportuno risalire immediatamente a galla per sorbirsi, a mo' di aperitivo, una serie nutrita di epiteti, sotto la divertita attenzione della gente di bordo.
Questa gente, che era poi costituita dai membri del club, dimostrava una grande simpatia per il nostro lavoro, e ci diede la più efficace collaborazione, almeno nei primi giorni.
In particolare il testo di cui all’immagine trattasi di un taccuino inedito, quello di una crociera alle Isole Eolie (Aspara), dal 13 al31 luglio 1967. Questo taccuino è riprodotto in facsimile. È integrato da una bibliografia selettiva per gli anni dal 1983 al 1985 e da note bibliografiche. Notizie sull’autore:
Una vita di poeta e diplomatico. Dai Caraibi al Mediterraneo, passando per l'Asia e l'America, Alexis Leger di Saint-John Perse (1887- 1975) ha raccolto nel corso della sua vita - ad eccezione degli anni diplomatici - Un'opera essenziale della poesia francese del XX secolo, acclamata 1960 dal Premio Nobel per la Letteratura. Figlio delle isole, à cresciuto con le sue tre sorelle in Guadalupa. La perdita del regno dell'infanzia con l'arrivo della famiglia in Francia, i suoi incontri con Francis Jammes poi Paul Claudel cosi come la scomparsa di suo padre, lo incoraggiano a cercare la fuga allo stesso tempo attraverso la scrittura e la stabilità di una carriera all'estero. Affari. Dopo un notevole inizio nella scrittura poetica (Anabasis, scritta in Cina nel 1917), abbandono la poesia e preferì la carriera diplomatica. Destituito dall'incarico chiave di Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri nel 1940 da Paul Reynaud, privato dei suoi diritti dal governo di Vichy, andà in esilio negli Stati Uniti dove scrisse le sue più grandi poesie:
Exile, Vents, Amers- e non ritorno in Francia fino al 1957 e si stabili in Provenza, sulla penisola di Giens dove mori nel 1975. IL suo lavoro, come la sua esistenza, si pone sotto il segno del nomadismo e dello stupore di fronte al mondo, agli elementi e alla natura. Ha quattro cicli: Indie Occidental, Asia, America, Provenza. Questi luoghi portano scoperte, avventure ma anche solitudine ed esilio, fonti di creazione. Composta da materiali selezionati, la poesia mondiale di Saint-John Perse collega continenti e conoscenze attraverso un linguaggio sorprendente. Per lui "più che una modalità di conoscenza, la poesia à innanzitutto uno stile di vita — e di vita integrale”. La Fondazione Saint-John Perse riunisce ora il suo patrimonio letterario e politico nella Biblioteca. Notizie sull’opera:
Saint-John Perse Premio Nobel per la letteratura nel 1960, visitò le Isole Eolie nel 1967 con lo yacht “”aspara”” dal 13 al 31 luglio, compilando un diario del viaggio. Quinta crociera nel Mediterraneo sullo yacht Aspara: tra Italia, Sardegna e Sicilia, alle Isole Eolie o Lipari, con ancoraggio davanti alle isole Panarea, Stromboli, Lipari e Vulcano, non lontano da “la Pietralunga” e dagli altri aghi basaltici delle “Bocche di Vulcano”; navigazione lenta, molto ravvicinata, intorno alle isole Salina, Filicudi e Alicudi, per l'osservazione della loro struttura vulcanica e delle loro curiosità geologiche: pietre vetrificate, colate di ossidiana rossa, fumarole latenti e cinture di insidie basaltiche; lo Stromboli costeggia due volte all'imbrunire, per meglio seguire, alla luce dei suoi anfratti fiammeggianti, le colate laviche e le rocce incandescenti precipitano in mare. Rientro lungo la costa italiana, con tappe a Napoli, Capri, Ischia e Ponza. Aspara uno yacht a motore, un ex incrociatore della marina inglese, gestito da un intero equipaggio. Anche C. Thiébaut ci illumina sull'identità dei compagni di crociera del Legers: tra loro Raoul Malard, il proprietario della barca, un ricchissimo industriale Nord che condusse una vita brillante a Parigi sotto l'occupazione; la sua compagna Jacqueline, ex Miss Francia; Marta di Fels, vecchia amica del poeta, che sarà stata secondo le sue stesse parole "la donna" della sua vita". Con la Contessa di Fels, i Malard e gli ospiti occasionali come Lord Warwick (alias Michael Brook, attore Hollywood) e sua moglie, tutto un entourage elegante e ricco che viene menzionato, la cui azienda apprezza Alexis Leger...
Oltre a questa presentazione, l'edizione speciale di Souffle de Perse contiene iconografie poco conosciute al pubblico (foto di passeggeri a bordo dell'Aspara, foto della barca), documenti in formato appendice (carta delle Isole Eolie, estratti dalla Guida Blu, dove lo scrittore ha disegnato interi brani, testo delle canzoni Napoletani da lui citati) e numerosi indici che permettono al lettore di farlo sfoglia il quaderno secondo le sue curiosità (e quelle del poeta) o studiarlo sistematicamente da un aspetto o dall'altro.