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di Gaetano Sardella

O Padre, che nel tuo Figlio ci hai chiamati amici, rinnova i prodigi del tuo Spirito, perché, amando come Gesù ci ha amati, gustiamo la pienezza della gioia.

Signore Gesù, mio Dio e mio Tutto, aiutami a lasciarmi coinvolgere nella tua Amicizia per imparare a divenire amico dei «Fratelli tutti».

Signore Gesù, riflesso dell’Amore del Padre, aiutami a dimorare in te per riflettere il tuo Amore.

Signore Gesù, Figlio del Padre del cielo, tu che dimori in lui fino a essere una cosa sola con lui,
aiutami a dimorare in te per essere una cosa sola con gli altri.

Signore Gesù, Amico mio, fa’ che trovi in te il porto sicuro della Misericordia per sentirmi sempre dire “amico”.

Signore Gesù, Fratello di tutti, tu che ti sei fatto prossimo di tutti e di ciascuno, aiutami ad amare come tu mi hai amato.

Signore Gesù, mio diletto Amore, aiutami a comprendere che la vita cristiana o è vita da innamorato o non è vita cristiana.

Signore Gesù, Amore perfetto del Padre, fa’ che comprenda che amare come te è garanzia di una vita riuscita, di una vita “colma di gioia”.

NOTIZIARIOEOLIE.IT

9 NOVEMBRE 2019

LE INTERVISTE DE "IL NOTIZIARIO". Lipari, l'interfaccia con la Chiesa di San Pietro. Parla Don Gaetano Sardella di Gennaro Leone

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La bibbia è un libro pieno di olivi, di fichi e di viti. Pieno di uomini di cui Dio si prende cura e dai quali riceve un vino di gioia. Con le parole di oggi Gesù ci comunica Dio, cose da capogiro, attraverso lo specchio delle creature più semplici.

Ci porta a scuola in un vigneto, a lezione dalla sapienza della vite e da un Dio contadino, profumato di sole e di terra.

All’inizio della primavera mio padre mi portava nella vigna dietro casa. Sui tralci potati affiorava, in punta, una goccia di linfa che tremava e luccicava al vento di marzo. E mi diceva: guarda, è la vite che va in amore!

C’è un amore che muove il sole e le altre stelle, che ascende lungo i ceppi di tutte le viti del mondo, e l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire.

Dobbiamo salvare la linfa di Dio, il cromosoma divino in noi.

Che Dio sia descritto come creatore non ci sorprende, l’abbiamo sentito. Ma Gesù afferma oggi una cosa mai udita prima: io sono la vite, voi i tralci. Io e voi la stessa cosa! Stesso tronco, stessa vita, unica radice, una sola linfa.

E mentre nei profeti antichi Dio appariva piantatore, coltivatore, vendemmiatore, ma sempre altro rispetto alle viti, oggi ascoltiamo una parola inaudita: Dio e io siamo la stessa vite; lui tronco, io tralcio; lui mare, io onda; lui fuoco, io fiamma. Il creatore si è fatto creatura. Dio è in me, non come padrone, ma come linfa vitale. E’ in me, per meglio prendersi cura di me.

Rimanete in me e io in voi. Non è da conquistare l’unione con Dio, è cosa di cui prendere consapevolezza: siamo già in Dio, ci avvolge con il suo affetto, lo respiri, lo urti! E Dio è in noi, è qui, è dentro, scorre nelle vene della vita. Dio che vivi in me, nonostante tutte le distrazioni e i miei inverni, e tutte le forze che ci trascinano via. Ma via da lui non c’è niente.

Questa comunione precede ogni liturgia, è energia che sale, cromosoma divino che scorre in noi.

Ed ogni tralcio che porta frutto, egli lo pota perché porti più frutto.

Il grande e coraggioso dono della potatura! Potare non è sinonimo di amputare ma di dare vita, ogni contadino lo sa. Togliere il superfluo equivale a fare molto frutto.

Il filo d’oro che cuce il brano e illumina ogni dettaglio è “frutto”. Sei volte viene ribadito ribadisce, perché sia ben chiaro: il vangelo sogna mani di vendemmia e non mani perfette, magari pulite ma vuote, che non si sono volute mischiare con la materia incandescente e macchiante della vita.

Per il vangelo la santità non risiede nella perfezione ma nella fecondità. Dov’è mai questa perfezione nei discepoli di Gesù, pronti alla fuga e alla bugia, duri a capire…

La morale evangelica ha la colonna sonora delle canzoni della vendemmia, di una festa sull’aia; sogna fecondità e non osservanze. Più generosità, più pace, più coraggio.

E mi piace tanto il Dio di Gesù, che si affatica attorno a me perché io porti frutto, che non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della vigna. A contemplarmi, con occhi belli di speranza.

Il Vangelo di Emmaus si snoda, come una grande li­turgia, in tre momenti: la liturgia della strada, della pa­rola e del pane.

La liturgia della strada. Em­maus dista da Gerusalemme due ore di cammino, due ore trascorse a parlare di quel so­gno in cui avevano tanto spe­rato, un sogno naufragato nel sangue. Camminano, benedet­ti dal salmo 84 dice: beato l'uo­mo che ha sentieri nel cuore.

Che ha il coraggio di mettersi in cammino. Anche la fede è un perpetuo camminare, perché Dio stesso è una vetta mai con­quistata, e l'infinito ci attende all'angolo di ogni strada.

Pasqua è voce del verbo pèsa­ch, passare. Fa pasqua chi fab­brica passaggi dove ci sono muri e sbarramenti, chi apre brecce, chi inventa strade che ci portino gli uni verso gli altri e insieme verso Dio.

Ed ecco Gesù si avvicinò e cam­minava con loro. Un Dio spar­pagliato per tutte le strade, un Dio vestito di umanità (Turol­do), un Dio delle strade, conti­nuamente in cerca di noi.

La liturgia della parola. Spie­gava loro le scritture, mostran­do che il Cristo doveva patire: la sublime follia della Croce è la parola definitiva che ogni cri­stiano deve custodire, tra­smettere, scrutare, capire, pre­gare.

Gesù fa comprendere che la Croce non è un incidente ma la pienezza dell'amore, che cambia la comprensione di Dio e della vita.

I due camminatori scoprono una verità immensa. C'è la ma­no di Dio posata là dove sem­bra impossibile, proprio là do­ve sembrava assurdo: sulla cro­ce. Così nascosta da sembrare assente, mentre invece sta tes­sendo il filo d'oro della tela del mondo. Non dimentichiamo­lo: più la mano di Dio è nasco­sta più è potente.

La liturgia del pane. Resta con noi, perché si fa sera. Ed egli ri­mase con loro. Da allora Cristo entra sempre, se soltanto lo de­sidero. Rimane con me e mi trasforma, cambiandomi tre cose, il cuore, gli occhi, il cam­mino. La Parola ha acceso il cuore, il pane apre gli occhi dei discepoli: Lo riconobbero allo spezzare del pane. Il segno di riconoscimento di Gesù è il suo Corpo spezzato, vita conse­gnata per nutrire la vita. La vi­ta di Gesù è stata un continuo appassionato consegnarsi. Fi­no alla croce.

Infine la parola e il pane cam­biano il cammino, la direzione, il senso: Partirono senza indu­gio e fecero ritorno a Gerusa­lemme.

Ma il primo miracolo è stato un altro: non ci bruciava forse il cuore mentre per via ci spiega­va il senso delle Scritture e del­la vita? Efrem Siro presta a Ge­sù queste parole: chi mangia me, mangia il fuoco! Ricevere Cristo è essere abitati da un calore, da una fiamma, dal dono intermittente, forse, ma favo­loso, del cuore acceso.

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.

Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.

Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

Stanno ancora parlando, dopo la gioiosa corsa notturna di ritorno a Gerusalemme, quando Gesù di persona apparve in mezzo a loro. In mezzo: non sopra di loro; non davanti, affinché nessuno sia più vicino di altri. Ma in mezzo: tutti importanti allo stesso modo e lui collante delle vite. Pace è la prima parola. La pace è qui: pace alle vostre paure, alle vostre ombre, ai pensieri che vi torturano, ai rimorsi, ai sentieri spezzati, pace anche a chi è fuggito, a Tommaso che non c’è, pace anche a Giuda…

Sconvolti e pieni di paura credevano di vedere un fantasma. Lo conoscevano bene, dopo tre anni di Galilea, di olivi, di lago, di villaggi, di occhi negli occhi, eppure non lo riconoscono. Gesù è lo stesso ed è diverso, è il medesimo ed è trasformato, è quello di prima ma non più come prima: la Risurrezione non è un semplice ritorno indietro, è andare avanti, trasformazione, pienezza. Gesù l’aveva spiegato con la parabola del chicco di grano che diventa spiga: viene sepolto come piccola semente e risorge dalla terra come spiga piena. Mi consola la fatica dei discepoli a credere, è la garanzia che non si tratta di un evento inventato da loro, ma di un fatto che li ha spiazzati. Allora Gesù pronuncia, per sciogliere paure e dubbi, i verbi più semplici e familiari: “Guardate, toccate, mangiamo insieme! Non sono un fantasma”.

Mi colpisce il lamento di Gesù, umanissimo lamento: non sono un fiato nell’aria, un mantello di parole pieno di vento… E senti il suo desiderio di essere accolto come un amico che torna da lontano, da abbracciare con gioia. Un fantasma non lo puoi amare né stringere a te, quello che Gesù chiede. Toccatemi: da chi vuoi essere toccato? Solo da chi è amico e ti vuol bene. Gli apostoli si arrendono ad una porzione di pesce arrostito, al più familiare dei segni, al più umano dei bisogni, ad un pesce di lago e non agli angeli, all’amicizia e non a una teofania prodigiosa. Lo racconteranno come prova del loro incontro con il Risorto: noi abbiamo mangiato con lui dopo la sua risurrezione (At 10,41).

Mangiare è il segno della vita; mangiare insieme è il segno più eloquente di una comunione ritrovata; un gesto che rinsalda i legami delle vite e li fa crescere. Insieme, a nutrirsi di pane e di sogni, di intese e reciprocità. E conclude: di me voi siete testimoni. Non predicatori, ma testimoni, è un’altra cosa. Con la semplicità di bambini che hanno una bella notizia da dare, e non ce la fanno a tacere, e gliela leggi in viso. La bella notizia è questa: Gesù è vivo, è potenza di vita, avvolge di pace, piange le nostre lacrime, ci cattura dentro il suo risorgere, ci solleva a pienezza, su ali d’aquila, nel tempo e nell’eternità.

Venne Gesù a porte chiuse.

La sua prima venuta sembra senza effetto, e otto giorni dopo tutto è come prima.

Eppure lui è di nuovo lì, ad aprire le porte della paura nonostante i cuori inaffidabili: venne Gesù e stette in mezzo a loro.

Secoli dopo è ancora qui, irremovibile davanti alle mie porte chiuse. 

La fede non è nata dal ricordo del Risorto. Il ricordo non basta a rendere viva una persona, al massimo può far nascere una scuola. La Chiesa è nata da una presenza, e non da una rievocazione: “e stette in mezzo a loro”.

Il Vangelo parla di ferite che Gesù non nasconde, che a Tommaso quasi esibisce: il foro dei chiodi, toccalo! Il costato, puoi entrarci con la mano!

Piaghe che non ci saremmo aspettati, convinti che la risurrezione avrebbe rimarginato, cancellato per sempre il dolore del venerdì santo.

E invece no.

Perché la Pasqua non è il superamento festoso della Passione, ne è la continuazione, il frutto maturo, la conseguenza.

Le piaghe restano, per sempre. Ed è proprio a causa di quelle che Cristo è risorto.

L’amore ha scritto la sua storia sul corpo del Nazareno con la scrittura delle ferite, indelebili, come l’amore. Dalle piaghe non sgorga più sangue ma luce, le ferite non sfigurano ma trasfigurano.

Allora capiamo che proprio attraverso i colpi duri della vita diventiamo capaci di aiutare altri attraversando le stesse tempeste, nella condivisione.

La nostra debolezza, come quella di Pietro, dei discepoli, di Maddalena, non è un ostacolo, ma una risorsa per meglio seguire il Signore. La debolezza non è più un limite, perché nonostante i nostri dubbi si trasfigura in un’opportunità da cogliere.

Per tre volte il Vangelo parla di pace donata da Gesù.

Ed è a questa esperienza di pace che Tommaso alla fine si arrende, e neppure sappiamo se abbia toccato o meno il corpo del Risorto.

Si arrende non al toccare, non ai suoi sensi, ma alla pace, passando dall’incredulità all’estasi, si arrende a questa parola che da otto giorni lo accompagna e che ora dilaga: Pace a voi!

La pace è una voce silenziosa, non grida, non si impone, si propone, come il Risorto; con piccoli segni umili, un brivido nell’anima, una gioia che cresce, sogni senza più lacrime. E ad essa ci consegniamo anche se appare come poca cosa, perché «se in noi non c’è pace non daremo pace, se in noi non è ordine non creeremo ordine» (G.Vannucci).

Non un augurio, ma una certezza: la pace è qui, è in voi, è iniziata.

Cerca aiuto per scendere su ogni cuore stanco, sulle nostre guerre, su ogni storia di dubbi e sconfitte.

Scende come benedizione gioiosa, immeritata e felice che mi spinge a osare di più; così inizia la mia sequela, la mia porta che si spalanca al rischio di essere felice.

Domenica delle Palme Anno A

Quanto volete darmi perché io ve lo consegni? In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai capi dei sacerdoti e disse: «Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnare Gesù. La domenica delle Palme ci immerge in uno dei momenti più festosi della vita di Gesù: un fiume di sorrisi, dal monte degli ulivi al tempio.

E attorno era primavera, allegra e potente, come adesso. Non ho più dimenticato un dialogo di molti anni fa con un monaco trappista dell’abbazia di Orval, in Belgio. Davo una mano nella “brasserie”, cercando di rendermi utile, quando mi venne da chiedergli: «Padre, ma lei non si è mai stancato di Dio? Di pregare, di pensare a lui, di dargli tutto il tempo? Quando ci si stanca di Dio, cosa dobbiamo fare?».

Mi aspettavo che dicesse: ma come si fa a stancarsi di Dio? Vuol dire che siamo credenti da poco... Invece mi guardò con i suoi occhi profondi, e mi raccontò di una omelia di san Bernardo ai suoi monaci: «nel giorno delle Palme, nel corteo che accompagna il Maestro e i discepoli giù dal monte degli ulivi, c’è chi canta, chi applaude, chi fa ala e stende i mantelli, chi agita rami di palma: un giardino che cammina.

Chi più vicino a Gesù, chi più lontano. Ma tutti contenti. C’è però un personaggio che fa più fatica di tutti, anche se è forte, anche se è il più vicino, ed è l’asina con il suo puledro (Matteo 21,2), su cui hanno steso i mantelli, su cui è salito Gesù. Chi sente tutto il peso di quell’uomo da portare su per l’erta che sale dal torrente Cedron verso il tempio e si stanca, è l’asina.

È la più vicina a Gesù eppure quella che fa più fatica. Così anche noi» continuò «quando facciamo fatica, quando sentiamo il peso delle cose di Dio, forse questo accade perché siamo molto vicini al Signore, stiamo portando lui e insieme il peso del cielo sopra di noi, con le sue nuvole scure da spingere più in là. L’importante è continuare: poco dopo c’è Gerusalemme».

La Settimana santa porta con sé i giorni supremi della storia, la Sua vita e la nostra un fiume solo, i giorni della “vendetta” di Dio: quando Dio si vendica di tutta la lontananza, di tutta la separazione, di tutta l’indifferenza, inventando la croce che solleva la terra, che abbassa il cielo, che raccoglie gli orizzonti, crocevia di tutte le nostre strade disperse.

La croce è l’abisso dove Dio diviene l’amante. Lassù, le braccia di Gesù, inchiodate e distese in un abbraccio irrevocabile, mai più revocato, sono le porte dell’eden spalancate per sempre, sono dilatazione del cuore fino a lacerarsi, ancor prima del colpo di lancia. Nuova genesi dell’uomo in Dio: l’amato nasce sempre dalla ferita del cuore di chi lo ama. L’uomo nasce dal cuore lacerato del suo creatore. Rivelazione ultima che Dio e la vita sono sempre dono di sé, e non sarai mai abbandonato. Allora nella croce di Gesù risplende davvero la gloria della vita.

“Vogliamo vedere Gesù”. Domanda forte di greci, di giudei, di uomini d’oggi, dell’uomo di sempre. Come rispondere?

Gesù stesso offre le parole e le immagini: chicco di grano, croce, strada. E, sempre, come tela di fondo, la nostra terra, che è il vero cielo di Dio, con i suoi poveri affamati di giustizia, e i figli in ansia di luce.

“Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto”. Frase pericolosa come poche, se capita male, e vedo che l’accento dell’espressione non va a posarsi sul finire o sul morire, ma sul molto frutto… L’interesse del vangelo, l’obiettivo della creazione, è la fecondità. Il seme germoglia chiamato dalla spiga futura, muore alla sua forma ma rinasce in quella di germe, e poi tutto evolve verso più vita: la gemma in fiore, il fiore in frutto, il frutto in pane.

Nel ciclo vitale e in quello spirituale “la vita non è tolta ma trasformata”. Se sei generoso di te, se doni tempo, cuore e intelligenza, come un atleta, uno scienziato o un innamorato al tuo scopo, allora la vita non si ferma e non si perde, ma si moltiplica.

Ognuno di noi è chicco di grano nei solchi della storia, chiamato a fecondità. Grano seminato, lontano dal clamore e dal rumore, nella terra buona della mia famiglia e del mio lavoro, in quella amara delle lacrime senza risposta.

Mi porto dentro un seme di vita che contiene molte più energie di quanto non appaia. Ma le possiede quando le dona.

Allora il fragile chicco muore sì, anche di paura, ma la vita gli si trasforma in una forma più evoluta e potente. “Quello che il bruco chiama fine del mondo tutti gli altri chiamano farfalla” (Lao Tze), perché non striscia più ma vola; muore alla vita di prima per vivere in una forma più alta.

Gloria di Dio è solo la fioritura dell’essere (R. Guardini) e la sua fecondità, e quello che le innesca, il detonatore, è il dono di sé. La chiave di volta che regge il mondo, dal seme a Cristo: non la vittoria del più forte ma il dono. Fino in fondo, fino all’estremo, oltre il limite, come mostra la seconda immagine del dittico di Gesù: la croce.

Quando sarò innalzato attirerò tutti a me. Dalla croce sento erompere un’ attrazione universale, una forza di gravità celeste: lì è l’immagine più pura e più alta che Dio dà di se stesso.

Cosa mi attira del Crocifisso? Che cosa mi seduce? La bellezza dell’atto d’amore! Bello è chi ti ama, bellissimo chi ti ama fino all’estremo. Il crocifisso coperto di sangue e sputi non è bello, ma è la figura di una realtà bella: un amore fino a morirne. La realtà imbruttita di quel corpo straziato, è il riflesso più bello della cosa più bella di Dio, la sua follìa d’amore.

Suprema bellezza è quella accaduta fuori Gerusalemme, sulla collina, dove il Figlio del Dio infinito si è lasciato contenere nell’infinitamente piccolo, quel poco di legno e di terra che basta per morire.

«A un Dio umile non ci si abitua mai» (papa Francesco). Il Dio di Gesù, un Dio capovolto, scompiglia le nostre immagini ancestrali con un chicco e una croce, l’umile seme e l’estremo abbassamento.

Gesù è così, un chicco di grano che si consuma per nutrire; una croce che già respira di risurrezione.

In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar (...) qui c’era un pozzo di Giacobbe (...). Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». (...) Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I giudei infatti non hanno rapporti con i samaritani (...).dammi da bere. Dio ha sete, ma non di acqua, bensì della nostra sete di lui, ha desiderio che abbiamo desiderio di lui. Lo Sposo ha sete di essere amato.

La donna non comprende, e obietta: giudei e samaritani sono nemici, perché dovrei darti acqua? E Gesù replica, una risposta piena di immaginazione e di forza: se tu conoscessi il dono di Dio.Parola chiave della storia sacra: Dio non chiede, dona; non pretende, offre. Il maestro del cuore mostra che c’è un metodo, uno soltanto per raggiungere il santuario profondo di una persona. Non è il rimprovero o la critica, non il verdetto o il codice, ma far gustare qualcosa di più, un di più di bellezza, di vita, di gioia, un’acqua migliore.

E aggiunge: ti darò un’acqua che diventa in te sorgente che zampilla vita. Gesù il poeta di Nazaret usa qui il linguaggio bello delle metafore che sanno parlare all’esperienza di tutti: acqua, viva, sorgente. Lo sai, donna della brocca, la sorgente è più dell’acqua per la tua sete, è senza misura, senza calcolo, senza sforzo, senza fine, fiorisce nella gratuità e nell’eccedenza, dilaga oltre te e non fa distinzioni, scorre verso ogni bocca assetata.Cos’è quella sorgente, chi è, se non Dio stesso? Lo immaginava così Carlo Molari: «Dio è una sorgente di vita a lui puoi sempre attingere, disponibile ad ogni momento, che non viene mai meno, che non inganna, che come il respiro non puoi trattenere per te solo. Ma non chiuderti, o la sua acqua passerà oltre te...». Se tu conoscessi il dono di Dio... Dio non può dare nulla di meno di se stesso (M. Eckart), il dono di Dio è Dio stesso che si dona.

Ti darò un’acqua che diventa sorgente, vuol dire metterò Dio dentro di te, fresco e vivo, limpidezza e fecondità delle vite, farò nascere in te il canto di una sorgente eterna.Il dono è il fulcro della storia tra i due, al muretto del pozzo: non una brocca più grande, non un pozzo più profondo, ma molto di più: lei, che con tanti amori era rimasta nel deserto dell’amore, ricondotta
alla sua sorgente, al pozzo vivo. Vai a chiamare tuo marito, l’uomo che ami. Gesù va diritto al centro, ma non punta il dito sui cinque matrimoni spezzati, non pretende che ora si regolarizzi, prima del dono.

Il Maestro con suprema delicatezza non rovista nel passato, fra i cocci di una vita, ma cerca il bene, il frammento d’oro, e lo mette in luce per due volte: hai detto bene, hai detto il vero. La samaritana è donna verace. Quel Dio in cui sono tutte le nostre sorgenti non cerca eroi ma uomini veri. Mi chiedi dove adorare Dio, su quale monte? Ma sei tu il monte! Tu il tempio. Là dove sei vero, ogni volta che lo sei, il Padre è con te, sorgente che non si spegne mai.

Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».

Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

L’episodio della cacciata dei mercanti nel tempio si è stampato così prepotentemente nella memoria dei discepoli da essere riportato da tutti i Vangeli. Ciò che sorprende, e commuove, in Gesù è vedere come in lui convivono e si alternano, come in un passo di danza, la tenerezza di una donna innamorata e il coraggio di un eroe (C. Biscontin), con tutta la passione e l’irruenza del mediorientale. Gesù entra nel tempio: ed è come entrare nel centro del tempo e dello spazio. Ciò che ora Gesù farà e dirà nel luogo più sacro di Israele è di capitale importanza: ne va di Dio stesso.

Nel tempio trova i venditori di animali: pecore, buoi e mercanti sono cacciati fuori, tutti insieme, eloquenza dei gesti. Invece ai venditori di colombe rivolge la parola: la colomba era l’offerta dei poveri, c’è come un riguardo verso di loro. Gettò a terra il denaro, il Dio denaro, l’idolo mammona innalzato su tutto, insediato nel tempio come un re sul trono, l’eterno vitello d’oro. Non fate della casa del Padre mio un mercato… Mi domando qual è la vera casa del padre. Una casa di pietre? «Casa di Dio siamo noi se custodiamo libertà e speranza» (Eb 3,6).

La parola di Gesù allora raggiunge noi: non fate mercato della persona! Non comprate e non vendete la vita, nessuna vita, voi che comprate i poveri, i migranti, per un paio di sandali, o un operaio per pochi euro. Se togli libertà, se lasci morire speranze, tu dissacri e profani il più vero tabernacolo di Dio. E ancora: non fate mercato della fede. Tutti abbiamo piazzato ben saldo nell’anima un tavolino di cambiamonete con Dio: io ti do preghiere, sacrifici e offerte, tu in cambio mi assicuri salute e benessere, per me e per i miei. Fede da bottegai, che adoperano con Dio la legge scadente, decadente del baratto, quasi che quello di Dio fosse un amore mercenario.

Ma l’amore, se è vero, non si compra, non si mendica, non si finge. Dio ha viscere di madre: una madre non la puoi comprare, non la devi pagare, da lei sei ripartorito ogni giorno di nuovo. Un padre non si deve placare con offerte o sacrifici, ci si nutre di ogni suo gesto e parola come forza di vita. Pochi minuti dopo, i mercanti di colombe avevano già rimesso in fila le loro gabbie, i cambiamonete avevano recuperato dal selciato anche l’ultimo spicciolo. Il denaro era pesato e contato di nuovo, era riciclato a norma di legge.

Benedetto da tutti: pellegrini, sacerdoti, mercanti e mendicanti. Il gesto di Gesù sembra non avere conseguenze immediate, ma è profezia in azione. E il profeta ama la parola di Dio più ancora dei suoi risultati. Il profeta è il custode che veglia sulla feritoia per la quale entrano nel cuore speranza e libertà. Chi vuole pagare l’amore va contro la sua stessa natura e lo tratta da prostituta.

Quando i profeti parlavano di prostituzione nel tempio, intendevano questo culto, tanto pio quanto offensivo di Dio, quando il fedele vuole gestire Dio: io ti do preghiere e sacrifici, tu mi dai sicurezza e salute. L’amore non si compra, non si mendica, non si impone, non si finge. Ma poi, se entrasse nella mia casa, che cosa mi chiederebbe di rovesciare in terra, tra i miei piccoli o grandi idoli? Tutto il superfluo…

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.

Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

Il monte della luce, collocato a metà del racconto di Marco, è lo spartiacque della ricerca su chi è Gesù. Come in un dittico, la prima parte del suo libretto racconta opere e giorni del Messia, la seconda parte, a partire da qui, disegna il volto altro del “Figlio di Dio”: vangelo di Gesù, il Cristo, il figlio di Dio (Mc 1,1).

Il racconto è tessuto ad arte con i fili dorati della lingua dell’Esodo, monte, nube, voce, Mosè, splendore, ascolto, cornice di rivelazioni. Nuovo invece è il grido entusiasta di Pietro: che bello qui! Esperienza di bellezza, da cui sgorga gioia senza interessi. Marco sta raccontando un momento di felicità di Gesù (G. Piccolo) che contagia i suoi. A noi che il fariseismo eterno ha reso diffidenti verso la gioia, viene proposto un Gesù che non ha paura della felicità.

E i suoi discepoli con lui. Gesù è felice perché la luce è un sintomo, il sintomo che lui, il rabbi di Nazaret, sta camminando bene, verso il volto di Dio; e poi perché si sente amato dal Padre, sente le parole che ogni figlio vorrebbe sentirsi dire; ed è felice perché sta parlando dei suoi sogni con i più grandi sognatori della Bibbia, Mosè ed Elia, il liberatore e il profeta; perché ha vicino tre ragazzi che non capiscono granché, ma che comunque gli vogliono bene, e lo seguono da anni, dappertutto.

Anche i tre apostoli guardano, si emozionano, sono storditi, sentono l’urto della felicità e della bellezza sul monte, qualcosa che toglie il fiato: che bello con te, rabbi! Vedono volti imbevuti di luce, occhi di sole, quello che anche noi notiamo in una persona felice: ti brillano gli occhi! Vorrebbero congelare quella esperienza, la più bella mai vissuta: facciamo tre capanne! Fermiamoci qui sul monte, è un momento perfetto, il massimo! C’è un Dio da godere, da esserne felici. Ma è un’illusione breve, la vita non la puoi fermare, la vita è infinita e l’infinito è nella vita, ordinaria, feriale, fragile e sempre incamminata.

La felicità non la puoi conservare sotto una campana di vetro o rinchiudere dentro una capanna. Quando ti è data, miracolo intermittente, godila senza timori, è una carezza di Dio, uno scampolo di risurrezione, una tessera di vita realizzata. Godi e ringrazia. E quando la luce svanisce e se ne va, lasciala andare, senza rimpianti, scendi dal monte ma non dimenticarlo, conserva e custodisci la memoria della luce vissuta.

Così sarà per i discepoli quando tutto si farà buio, quando il loro Maestro sarà preso, incatenato, deriso, spogliato, torturato, crocifisso. Come loro, anche per noi nei nostri inverni, sarà necessario cercare negli archivi dell’anima le tracce della luce, la memoria del sole per appoggiarvi il cuore e la fede. Dall’oblio discende la notte.

DAI SASSI LA VITA
Gesù stava con loro… Impariamo con lui a stare lì, a guardarle in faccia, le nostre belve. A nominarle. Non le devi né ignorare né temere, non le devi neppure uccidere, ma dar loro un nome, e poi una direzione.

p. Ermes Ronchi - Commento al Vangelo di domenica 18 Febbraio 2024
Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e vi rimase quaranta giorni, tentato da Satana. La tentazione? Una scelta tra due amori, scegliere la stella polare. Le tentazioni non si evitano, si attraversano.

Gesù inizia dal deserto: dalla sete, dalla solitudine, dal silenzio delle interminabili notti. “Que sueno el de la vita: sobre aquel abiso petreo!” Che sogno quello della vita e sopra quale abisso di pietre (Miguel de Unamuno).

In questo luogo simbolico Gesù gioca la partita decisiva, quale vita sognare e vivere. Che Messia sarà? Venuto per prendere, salire, comandare, oppure per scendere, avvicinarsi, donare? Quale volto di Dio annuncerà?

La prima lettura racconta di un Dio che inventa l’arcobaleno, questo abbraccio lucente tra cielo e terra; che fa alleanza – mai revocata e irrevocabile- con ogni essere che vive in ogni carne. Questo Dio non ti lascerà mai. Tu lo puoi lasciare, ma lui no, non ti lascerà mai.

L’arcobaleno, lanciato tra cielo e terra, dopo quaranta giorni di navigazione nel diluvio, prende nuove radici nel deserto, nei quaranta giorni di Gesù. Ne intravvedo i colori nelle parole: stava con le fiere e gli angeli lo servivano. Gesù lavora, nel deserto, all’armonia perduta e anche l’infinito si allinea. E nulla che faccia più paura.

Quelle fiere selvatiche che Gesù incontra, sono anche il simbolo delle nostre parti oscure, gli spazi d’ombra che ci abitano, ciò che non mi permette di essere completamente libero o felice, che mi rallenta, che mi spaventa, che non fiorisce: quelle bestie che un giorno ci hanno graffiato, sbranato, artigliato.

Gesù stava con loro… Impariamo con lui a stare lì, a guardarle in faccia, a nominarle, a far pace con loro. Non le devi né ignorare né temere, non le devi neppure uccidere, ma dar loro un nome, che è come conoscerle, e poi dare loro una direzione: sono la tua parte di caos, ma chi ti sospinge a incontrarle è lo Spirito Santo.

Dio mi raggiunge attraverso la mia debolezza, entra nei miei punti deboli e non i miei punti forti, e la mia parte malata diventa il punto di incontro con il guaritore.

Forse mai i miei problemi saranno del tutto guariti, ma in realtà sono io che devo essere guarito, e sarò maturo quando saprò avviare percorsi, iniziare processi, incalzato dal vento dello Spirito. “L’uomo non è ne angelo né bestia, ma una corda tesa tra i due. E quando vuole essere angelo diventa bestia” (Pascal). Anche il viaggio più lungo comincia dal primo passo.

Dopo che Giovanni fu arrestato Gesù andò nella Galilea proclamando il vangelo di Dio. E diceva: il Regno di Dio è vicino. Proclama Dio come una “bella notizia”. Non era ovvio per niente. Non tutta la bibbia è vangelo; alle volte è minaccia e ingiunzione. Ma la caratteristica originale del rabbi di Nazaret è annunciare vangelo, che equivale a confortare la vita: Dio si è fatto vicino, è un alleato amabile, un abbraccio, un arcobaleno. Questo è l’annuncio che corre lungo le rive del lago di Galilea: Dio è vicino a te. Con amore.

Un lebbroso cammina diritto verso di lui. Gesù non si scansa, non mostra paura. Si ferma in faccia al dolore, al rifiuto del villaggio, così vicino da toccarlo. Il lebbroso “porterà vesti strappate, sarà velato fino al labbro superiore, starà solo e fuori” (Lev 13,46). Dalla bocca velata, dal volto nascosto del rifiutato, esce un’espressione bellissima: «Se vuoi, puoi guarirmi». Con tutta la discrezione di cui è capace: «Se vuoi». E intuisco Gesù toccato da questa domanda grande e sommessa, che gli stringe il cuore e lo obbliga a rivelarsi: «Se vuoi». A nome di tutti i figli dolenti della terra il lebbroso lo interroga: che cosa vuole veramente Dio da questa carne piagata, che se ne fa di queste lacrime? Vuole dolore o figli guariti?

Davanti al contagioso, all’impuro, un cadavere che cammina, che non si deve toccare, uno scarto buttato fuori, Gesù prova “compassione”. Il vangelo usa un termine di una carica infinita, che indica un crampo nel ventre, un morso nelle viscere, una ribellione fisica: no, non voglio; basta dolore! Gesù prova compassione, allunga la mano e tocca. Nel Vangelo ogni volta che Gesù si commuove, tocca. Tocca l’intoccabile, toccando ama, amando lo guarisce. Dio non guarisce con un decreto, ma con una carezza. La risposta di Gesù al “se vuoi” del lebbroso, è diretta e semplice, una parola ultima e immensa sul cuore di Dio: «Lo voglio: guarisci!». Me lo ripeto, con emozione, fiducia, forza: eternamente Dio altro non vuole che figli guariti.

È la bella notizia, un Dio che fa grazia, che risana la vita, senza condizioni. Che adesso lotta con me contro ogni mio male, rinnovando goccia a goccia la vita, stella a stella la notte. E lo mandò via, con tono severo, ordinandogli di non dire niente. Perché Gesù non compie miracoli per qualche altro fine, per fare adepti o avere successo, neppure per convertire qualcuno. Lui guarisce il lebbroso perché torni integro, perché sia restituito alla sua piena umanità e alla gioia degli abbracci. È la stessa cosa che accade per ogni gesto d’amore: amare “per” non è amore vero, pregare “per” non è preghiera pura.

Quanti uomini e donne, pieni di vangelo, hanno fatto come Gesù e sono andati dai lebbrosi del nostro tempo: rifugiati, senza fissa dimora, migranti, donne della tratta. Li hanno toccati, con tenerezza, e molti di questi, e sono migliaia, sono letteralmente guariti dal loro male, e sono diventati a loro volta guaritori. Prendere il vangelo sul serio ha dentro una potenza che cambia il mondo. E tutti quelli che l’hanno preso sul serio e hanno toccato i lebbrosi, tutti testimoniano che questo porta con sé una grande felicità. Perché sei dalla parte giusta della vita.

In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, andò subito nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e di Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. (...)

È il report di una giornata-tipo di Gesù, scandita dall’alternarsi di tre cose: annunciare, guarire, pregare. Cafarnao è il primo laboratorio del Regno, dove il mondo di Dio si misura con il mondo del dolore. Nella bibbia il futuro inizia sempre, come qui, dalle paludi.

Marco inanella le tre location preferite del Maestro: la strada (Gesù si reca), la casa (di Simone), la folla. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Subito. Fa tenerezza questo preoccuparsi di Simone e Andrea delle loro vicende familiari e metterne a parte Gesù, come si fa con gli amici stretti. Tutto ciò che occupa il cuore dell’uomo entra nel rapporto con Dio.

Egli si avvicinò. Il primo verbo bellissimo, rivelatore: Gesù non sopporta distanze e mostra il suo primo annuncio in atto: il regno si è fatto vicino ( Mc 1,15). Si avvicinò e la prese per mano. Potenza umile dei gesti: mano nella mano, una donna e Dio. Una mano è fatta per innalzarsi in un gesto di invocazione, per stringere altre mani in segno di amicizia o di aiuto, per accarezzare e per proteggere, per ricevere e per dare.

La prende e la solleva: toccare, arte della vicinanza, un parlare con il corpo, forza trasmessa a chi è stanco, fiducia per ogni figlio impaurito, carezza per chi è solo. Gesù la solleva, la fa “ri-sorgere”, la libera. Ed ella li serviva: il servizio è il test della vera guarigione per tutti. Il Vangelo usa lo stesso verbo nel racconto delle tentazioni, quando gli angeli si avvicinarono a Gesù e lo servivano. Una donna, la suocera di Simone, assimilata agli angeli, le creature più vicine a Dio, diventa la prima diaconessa del Vangelo.

Poi, dopo il tramonto del sole, finito il sabato con i suoi divieti (proibito anche visitare gli ammalati) tutto il dolore di Cafarnao si riversa alla porta della casa di Simone: la città intera era riunita davanti alla porta. Davanti a Gesù, in piedi sulla soglia, in piedi tra la casa e la strada, tra la casa e la città; davanti a Gesù che ama le porte aperte, che fanno entrare occhi e stelle, polline di parole e il rischio della vita; davanti alle porte aperte di Dio, s’addensa il dolore del mondo. La casa scoppia di folla e di dolore, e poi di vita ritrovata.

Queste guarigioni compiute dopo il tramonto, quando iniziava il nuovo giorno, sono il collaudo del mondo nuovo, raccontato sul ritmo della Genesi: “e fu sera e fu mattino”. Il miracolo è, nella sua bellezza giovane, l’inizio del primo giorno della vita guarita. Quando era ancora buio, uscì in un luogo segreto e là pregava. Gesù sa inventare spazi, quegli spazi segreti che danno salute all’anima, a tu per tu con Dio, a liberare le sorgenti della vita, così spesso insabbiate.

 

Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, a Cafàrnao, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento (...). Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». (...)

Ed erano stupiti del suo insegnamento. Lo stupore: esperienza felice che ci sorprende e scardina gli schemi, che si inserisce come una lama di libertà in tutto ciò che ci saturava: rumori, parole, schemi mentali, abitudini, che ci fa entrare nella dimensione creativa della meraviglia che re-incanta la vita. La nostra capacità di provare gioia è direttamente proporzionale alla nostra capacità di meravigliarci. Salviamo allora lo stupore, la capacità di incantarci ogni volta che incontriamo qualcuno che ha parole che trasmettono la sapienza del vivere, che toccano il nervo delle cose, perché nate dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dalla vicinanza al Roveto di fuoco.

Gesù insegnava come uno che ha autorità. Autorevoli sono soltanto le parole che alimentano la vita e la portano avanti; Gesù ha autorità perché non è mai contro ma sempre in favore dell’umano. E qualcosa, dentro chi lo ascolta, lo avverte subito: è amico della vita. Autorevoli e vere sono soltanto le parole diventate carne e sangue, come in Gesù, in cui messaggio e messaggero coincidono. La sua persona è il messaggio.

L’autorità di Gesù è ribellione e liberazione da tutto ciò che fa male: C’era là un uomo posseduto da uno spirito impuro. Il primo sguardo di Gesù si posa sempre sulla sofferenza dell’uomo, vede che è un “posseduto”, prigioniero e ostaggio di uno più forte di lui. E Gesù interviene: non fa discorsi su Dio, non inanella spiegazioni sul male, si immerge nelle ferite di quell’uomo come liberatore, entra nelle strettoie, nelle paludi di quella vita ferita, e mostra che “il Vangelo non è una morale, ma una sconvolgente liberazione” (G. Vannucci).

Lui è il Dio il cui nome è gioia, libertà e pienezza (M. Marcolini) e si oppone a tutto ciò che è diminuzione d’umano. I demoni se ne accorgono: che c’è fra noi e te Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Sì, Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a spezzare catene; a portare spada e fuoco, per separare e consumare tutto ciò che amore non è; a rovinare i desideri sbagliati da cui siamo “posseduti”: denaro, successo, potere, competizione invece di fratellanza. Ai desideri padroni dell’anima, Gesù dice due sole parole: taci, esci da lui. Taci, non parlare più al cuore dell’uomo, non sedurlo. Esci dalle costellazioni del suo cielo.

Un mondo sbagliato va in rovina: vanno in rovina le spade e diventano falci (Isaia), si spezza la conchiglia e appare la perla. Perla della creazione è un uomo libero e amante. Lo sarò anch’io, se il Vangelo diventerà per me passione e incanto, patimento e parto. Allora scoprirò “ Cristo, mia dolce rovina” (D.M. Turoldo), felice rovina di tutto ciò che amore non è.

Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. (...) Marco ci conduce al momento sorgivo e fresco del Vangelo, quando una notizia bella inizia a correre per la Galilea: l’attesa è finita, il regno di Dio è qui. Gesù non dimostra il Regno, lo mostra, lo fa fiorire dalle sue mani: libera, guarisce, perdona, toglie barriere, ridona pienezza a tutti, a cominciare dagli ultimi della fila. Viene come guaritore del disamore del mondo.

La seconda parola di Gesù: convertitevi, giratevi verso il Regno. C’è un’idea di movimento nella conversione, come nel moto del girasole che ogni mattino rialza la sua corolla e la mette in cammino sui sentieri del sole. Allora: “convertitevi” dice: “giratevi verso la luce perché la luce è già qui”. Ogni mattino, ad ogni risveglio, posso anch’io “convertirmi”, muovere pensieri e sentimenti e scelte verso una stella polare, verso la buona notizia che Dio è più vicino, è entrato di più nel cuore del mondo, nel mio, ed è all’opera con mite e possente energia. Gesù ha camminato per tre anni, ha percorso tutte le strade di Galilea, innamorato non di recinti ma di orizzonti. E se ti eri fermato, proprio da là ti fa ripartire, vivrai ancora inizi, perché non sei al mondo per essere immacolato ma incamminato. Camminando lungo il lago, Gesù vide… L’ambiente di lavoro è il luogo privilegiato della vocazione, lo è stato per Mosè, per Saul, Davide, Eliseo, Amos, per i pescatori Andrea e Pietro.

«Dio si trova in qualche modo sulla punta della mia penna, del mio piccone, del mio pennello, del mio ago, del mio cuore, del mio pensiero» (Teilhard de Chardin). Gesù ha gli occhi di un profeta, guarda e in Simone intuisce Pietro, la Roccia. Vede Giovanni e in lui indovina il discepolo dalle più belle parole d’amore. Un giorno, guarderà l’adultera trascinata a forza davanti a lui, e in lei vedrà la donna capace di amare bene di nuovo. Il Maestro guarda anche me, nei miei inverni vede grano che spunta, generosità che non sapevo di avere, capacità che non sospettavo. Dio ha verso di me la fiducia di chi contempla le stelle prima ancora che sorgano. Seguitemi, venite dietro a me. Gesù non si dilunga sulle motivazioni, perché il motivo è la sua persona, lui che ti mette il Regno appena nato fra le mani.

E lo dice con una frase inedita: Vi farò pescatori di uomini. Come se dicesse: “vi farò cercatori di tesori”. Mio e vostro tesoro sono gli uomini. Li tirerete fuori dall’oscurità, come pesci da sotto la superficie delle acque, come neonati dalle acque materne, come tesoro dissepolto dal campo. Li porterete dalla vita sommersa alla vita nel sole. Mostrerete che è possibile vivere meglio, per tutti, e che il Maestro del cuore e delle strade ne possiede la chiave.

IL VIDEO CON GLI INTERVENTI DI SUOR LILIANA E DI DON GAETANO

VIDEO

 

 

II Domenica del tempo ordinario-Anno B In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». (...) Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete»(...). Gesù allora si voltò e disse: «Che cercate?». Le prime parole del Gesù storico sono una domanda. È la pedagogia di quel giovane rabbi, che sembra quasi dimenticare se stesso per mettere in primo piano i due che lo seguono, le loro attese, le loro domande: prima venite voi, dopo io. Amore vero mette sempre il tu prima dell’io.

Le prime parole del Gesù storico e le prime del Cristo risorto sono la stessa domanda raddoppiata (che cercate? donna chi cerchi?) e rivelano che il Maestro dell’esistenza non vuole imporsi, non gli interessa stupire, abbagliare, indottrinare, ma la sua passione è farsi vicino, mettersi a fianco, ascoltare, rallentare il passo, l’arte dell’accompagnamento. Che cosa cercate? Con questa domanda Gesù non si rivolge all’intelligenza, alle emozioni, alla volontà dei due, ma va più a fondo; non interroga la teologia di Maddalena, ma scende nella sua nuda umanità. E formula un interrogativo al quale tutti sono in grado di rispondere, i colti e gli ignoranti, i laici e i religiosi, i giusti e i peccatori. Gesù, il Maestro del cuore, pone le domande del cuore, quelle che fanno vivere: si rivolge subito al desiderio profondo, al tessuto sorgivo dell’essere. Che cosa cercate? Significa: qual è il vostro desiderio più forte?

Che cosa desiderate più di tutto dalla vita?
Gesù, che è il vero Maestro ed esegeta del desiderio, ci insegna a non consultarci con le nostre paure, ma con i nostri desideri, progetti e speranze. Libera il futuro e fame di cielo, salva l’importanza del desiderio, motore della vita, dalla depressione, dal rattrappirsi, dall’essere banale. Con questa semplice domanda: che cosa cercate? Gesù fa capire che la nostra identità specifica è di essere creature di ricerca e di desiderio. Perché a tutti manca qualcosa: infatti la ricerca nasce da una assenza, da un vuoto che chiede di essere colmato. E la domanda diventa: che cosa mi manca? Quale vuoto mi morde?

Gesù non chiede, ai due ragazzi che lo seguono, per prima cosa sacrifici, rinunce o penitenze; non impone di immolarsi sull’altare del dovere o dello sforzo. Chiede la cosa più importante: di rientrare nel cuore, di comprenderlo, di conoscere che cosa desiderano di più, che cosa li fa felici, che cosa si muove nel loro spazio vitale, cosa li muove. Di ascoltare il cuore, di abbracciarlo: “accosta le labbra alla sorgente del cuore e bevi” (San Bernardo). I Padri definiscono, questo primo passo della vita spirituale, il ritorno al cuore:
“trova la chiave del cuore. Questa chiave, lo vedrai, apre anche la porta del Regno” (Giovanni Crisostomo). Che cosa cercate? Per chi camminate? Io ormai lo so: cammino per Uno che fa felice il cuore.

In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». (...)E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. (...)​​

«E subito, uscendo dall’acqua vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere come una colomba ». Sento tutta la bellezza e la potenza del verbo: si squarciano i cieli, si lacerano, si strappano sotto la pressione di Dio, sotto l’impazienza di Adamo e dei poveri. Si spalancano, come le braccia dell’amata per l’amato. Noi siamo figli di un cielo lacerato per amore: vita ne entra, vita ne esce, e nessuno lo richiuderà più. Da questo cielo aperto e sonante di vita, viene, come colomba, il respiro di Dio. Una danza dello Spirito sull’acqua è il primo movimento della Bibbia ( Genesi 1,2).

Una danza nelle acque del grembo materno è il primo movimento di ogni figlio della terra. Una colomba che danza sul fiume è l’inizio della vita pubblica di Gesù. Il brano, quasi un Vangelo in miniatura, raccolto attorno a tre simboli: una voce, un figlio, una colomba. «Venne una voce dal cielo e disse “Tu sei mio Figlio”». Primo viene il “tu”, la parola più importante del cosmo. In amore, il tu viene sempre prima dell’io. Venne una voce, con le parole proprie di una nascita: Figlio, il termine più potente per il cuore.

E per la fede. Vertice della storia umana, culmine della storia divina. Era la voce di chi veniva a prendere in braccio lo storto mondo umano.​ Seconda parola: amato. E lo sono da subito, a prescindere, prima che io faccia qualsiasi cosa, prima che io dica sì o dica no. Per quello che sono, così come sono, io sono amato. E che io lo sia, dipende da lui, non dipende da me. La terza parola: in te ho posto il mio compiacimento.

La Voce grida sul mondo e in mezzo al cuore la gioia di Dio: tu mi piaci, è bello stare con te, tu mi fai contento. Dio ha affidato a noi la sua gioia. A me che non l’ho ascoltato, che me ne sono andato, che l’ho anche tradito, a me sento dire: «In te ho posto la mia soddisfazione». Uscito dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere. È il compito di ciascuno: aprire finestre di luce, un pertugio d’azzurro, aprire spazi al volo.

Da questo cielo aperto scende, come colomba, la vita stessa di Dio. Si posa su noi, ci avvolge, penetra, trasforma i pensieri e gli affetti, secondo la legge dolce ed esigente del vero amore. Allora ti prende una nostalgia, un desiderio di fare qualcosa che assomigli a ciò che è detto di Gesù che “passò nel mondo facendo del bene”. Essere, nella vita, donatori di vita, accendendo, perdonando, guarendo il disamore, aprendo spazi a un profumo di bellezza.

Che è mescolare in giuste proporzioni il finito e l’infinito, le vie della carne e le vie del Verbo, fino a che la sua e nostra vita formino un fiume solo.

Portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore.

Una giovanissima coppia e un neonato che portano la povera offerta dei poveri: due tortore, e la più preziosa offerta del mondo: un bambino. Vengono nella casa del Signore e sulla soglia è il Signore che viene loro incontro attraverso due creature intrise di vita e di Spirito, due anziani, Simeone e Anna, occhi stanchi per la vecchiaia e giovani per il desiderio: la vecchiaia del mondo accoglie fra le sue braccia l'eterna giovinezza di Dio.

E la liturgia che si compie, in quel cortile aperto a tutti, è naturale e semplice, naturale e perciò divina: Simeone prende in braccio Gesù e benedice Dio. Compie un gesto sacerdotale, una autentica liturgia, possibile a tutti. Un anziano, diventato onda di speranza, una laica sotto l'ala dello Spirito benedicono Dio e il figlio di Dio: la benedizione non è un ufficio d'èlites, ma esubero di gioia che ciascuno può offrire a Dio (R. Virgili).

Anche Maria e Giuseppe sono benedetti, tutta la famiglia viene avvolta da un velo di luce per la benedizione e la profezia di quella coppia di anziani laici, profeti e sacerdoti a un tempo: la benedizione e la profezia non sono riservate ad una categoria sacra, abitano nel cortile aperto a tutti. Lo Spirito aveva rivelato a Simeone che non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia. Parole che sono per me e per te: io non morirò senza aver visto l'offensiva di Dio, l'offensiva della luce già in atto dovunque, l'offensiva mite e possente del lievito e del granello di senape.

Poi Simeone dice tre parole immense su Gesù: egli è qui come caduta, risurrezione, come segno di contraddizione. Gesù come caduta. Caduta dei nostri piccoli o grandi idoli, rovina del nostro mondo di maschere e bugie, della vita insufficiente e malata. Venuto a rovinare tutto ciò che rovina l'uomo, a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare ciò che è contro l'umano.

Egli è qui per la risurrezione: è la forza che ti fa rialzare quando credi che per te è finita, che ti fa partire anche se hai il vuoto dentro e il nero davanti agli occhi. È qui e assicura che vivere è l'infinita pazienza di ricominciare. Cristo contraddizione del nostro illusorio equilibrio tra il dare e l'avere; che contraddice tutta la mia mediocrità, tutte le mie idee sbagliate su Dio.

Caduta, risurrezione contraddizione. Tre parole che danno respiro e movimento alla vita, con dentro il luminoso potere di far vedere che tutte le cose sono ormai abitate da un oltre. La figura di Anna chiude il grande affresco. Una donna profeta! Un'altra, oltre ad Elisabetta e Maria, capaci di incantarsi davanti a un neonato perché sentono Dio come futuro.

«In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.

Entrando da lei, disse: “Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te”. [...]»

L’angelo Gabriele vola via dal tempio, dall’anziano sacerdote senza parola, verso una giovane laica, dalla Città Santa a un villaggio senza storia, da un maschio a una donna, dall’unico tempio a una casa come tante, dove «arde in appartata fiamma la vita» (L. Borges) che diventa finestra di cielo. Così inizia il Vangelo: Dio esce dai recinti del sacro e si immerge nella normalità della vita; non fra incensi e candelabri, ma pentole e telai.

L’angelo migratore parla in modo chiaro e nuovo.

Gioia è la prima parola, Xaire, rallegrati, gioisci, sii felice Maria, apriti alla gioia come una porta al sole.

Non le ordina: inginocchiati, obbedisci, prega, vai al tempio. Gabriele brucia le distanze tra Dio e l’umano: tra i due poli scocca la prima scintilla, quella di ogni “in principio”, quella della felicità. Che sarà anche il primo tema del Maestro nella sua prima lezione sul monte (Mt 5). Dio è legittimato a proporsi all’uomo perché sa parlare il linguaggio della gioia. Nella seconda parola, il perché della gioia: sei piena di grazia, riempita, intrisa di Dio. La grazia di Dio è la vita stessa di Dio, il suo amore. Dio è innamorato di te, Maria, il tuo nome è “amata per sempre”, senza rimpianti, teneramente amata. Dio ha detto sì a Maria prima ancora che Maria dicesse sì a Dio, prima di ogni sua risposta. E questo è anche il nostro nome: come lei, tutti amati per sempre, di amore asimmetrico, unilaterale, incondizionato. Per come siamo, per quello che siamo. Il Signore è con te.

Quando nella Bibbia Dio dice a qualcuno “Io sono con te” gli sta offrendo un futuro bello e arduo (R. Virgili), un compito alto e difficile: tuo figlio sarà figlio di Dio. Maria è sbalordita: come è possibile? Questo angelo dice eresie. Dio è uno, non ha figli. Ma nel Vangelo gli angeli vengono proprio per dire questo: che l’impossibile è diventato possibile. Non aver paura Maria, se l’infinito si nasconde in un pugno di carne, in una perla di sangue nel tuo grembo. Non aver paura delle nuove, sconosciute vie di Dio che diventa bambino, vagito, fame di latte, occhi spalancati, mano piccola che si protende. Non temere questo Dio bambino, che vivrà perché tu lo amerai.

Lo nutrirai di latte, di carezze, di sogni. E lo farai felice. Ragazza pratica, concreta, Maria vuole sapere: come è possibile, non conosco uomo? Sarai umile tenda mossa solo dal vento dello Spirito. E Maria con gioia, con slancio, si butta sulle vie di Dio: eccomi, io ci sono, ci metto la mia fede, il mio corpo, il mio futuro, la mia femminilità, tutto. Oggi quell’annunciazione continua: anche intorno alla tua casa volteggiano angeli, e un Dio sempre in cerca di madri.

Come sta scritto nel profeta Isaìa: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. (...)

Due profeti, due voci narranti un Dio camminatore dei secoli, viaggiatore dell’anima, orma sulla sabbia, piede che si ferma alla tua porta (cf. Ap 3,20), fremito nel grembo di Maria ( Lc

1,41), passione nella voce di Giovanni, miele nella voce di Isaia: «viene il tuo Dio». Due testimoni, che usano lo stesso verbo, al presente, semplice, diretto, sicuro: “viene”. Non probabilmente, non simbolicamente, non apparentemente, ma “veramente” Dio viene. Non parlano di un domani: “ecco, sta per venire, verrà tra poco”, e ci sarebbe bastato. Ma giorno per giorno, instancabilmente, continuamente Dio viene. L’Infinito prende corpo perché la nostra vita prenda corpo.

Come seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia che ingoia la notte. Anche se non lo vedi, anche se non ti accorgi, Dio viene, e ogni strada del mondo è Galilea. È bello immaginare il creato come un reticolo, un calpestio di orme di Dio.

Alzate il capo, guardate in alto e lontano, perché la vostra liberazione è vicina. Uomini e donne in piedi, eretti, occhi alti e liberi: così vede i discepoli il profeta Isaia, come veggenti dalla vita verticale e dallo sguardo profondo. Viene dopo di me uno più forte di me. Gesù è “il forte” perché ha il coraggio di non prendere niente e di dare tutto. Di innalzare speranze così forti che neppure la morte di croce ha potuto far appassire, anzi ha rafforzato. È “il più forte” perché è l’unico che parla al cuore. E chiama tutti a essere “più forti”, a fare come Isaia e Giovanni: a essere voce che grida e poi sussurra al cuore che Dio viene.

Ci chiama tutti a gridare, a dire con passione, quella che è la nostra passione per Cristo e per l’uomo, inscindibilmente. Il vivere appassionato è ciò che rende forte la vita. E poi ci invita a semplicemente sussurrare il vangelo al cuore della terra, testimoni della luce, rabdomanti del buono sepolto. Inizio di una notizia buona. Il nostro é il Dio degli inizi, il Dio creativo che avvia processi, intraprende percorsi, innamorato di orizzonti e non di recinti, che ci porta a pienezza e poi a sconfinamento;

un Liberatore, esperto di nascite, che viene, è qui, si è radicato, si arrampica in noi come un germoglio, «un fiore di luce nel nostro deserto» (Turoldo). «Inizio del vangelo di Gesù», che è Gesù, la buona notizia è lui, i suoi occhi che guariscono quando accarezzano, e la sua voce che atterra i demoni tanto è forte, e che incanta i bambini tanto è dolce; il guaritore del disamore del mondo, il seduttore dietro cui ho perso il cuore, che fa ripartire la vita ogni volta si è ferma, fino a che inciampi in una stella.

Come sta scritto nel profeta Isaìa: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. (...)

Due profeti, due voci narranti un Dio camminatore dei secoli, viaggiatore dell’anima, orma sulla sabbia, piede che si ferma alla tua porta (cf. Ap 3,20), fremito nel grembo di Maria ( Lc

1,41), passione nella voce di Giovanni, miele nella voce di Isaia: «viene il tuo Dio». Due testimoni, che usano lo stesso verbo, al presente, semplice, diretto, sicuro: “viene”. Non probabilmente, non simbolicamente, non apparentemente, ma “veramente” Dio viene. Non parlano di un domani: “ecco, sta per venire, verrà tra poco”, e ci sarebbe bastato. Ma giorno per giorno, instancabilmente, continuamente Dio viene. L’Infinito prende corpo perché la nostra vita prenda corpo.

Come seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia che ingoia la notte. Anche se non lo vedi, anche se non ti accorgi, Dio viene, e ogni strada del mondo è Galilea. È bello immaginare il creato come un reticolo, un calpestio di orme di Dio.

Alzate il capo, guardate in alto e lontano, perché la vostra liberazione è vicina. Uomini e donne in piedi, eretti, occhi alti e liberi: così vede i discepoli il profeta Isaia, come veggenti dalla vita verticale e dallo sguardo profondo. Viene dopo di me uno più forte di me. Gesù è “il forte” perché ha il coraggio di non prendere niente e di dare tutto. Di innalzare speranze così forti che neppure la morte di croce ha potuto far appassire, anzi ha rafforzato. È “il più forte” perché è l’unico che parla al cuore. E chiama tutti a essere “più forti”, a fare come Isaia e Giovanni: a essere voce che grida e poi sussurra al cuore che Dio viene.

Ci chiama tutti a gridare, a dire con passione, quella che è la nostra passione per Cristo e per l’uomo, inscindibilmente. Il vivere appassionato è ciò che rende forte la vita. E poi ci invita a semplicemente sussurrare il vangelo al cuore della terra, testimoni della luce, rabdomanti del buono sepolto. Inizio di una notizia buona. Il nostro é il Dio degli inizi, il Dio creativo che avvia processi, intraprende percorsi, innamorato di orizzonti e non di recinti, che ci porta a pienezza e poi a sconfinamento;

un Liberatore, esperto di nascite, che viene, è qui, si è radicato, si arrampica in noi come un germoglio, «un fiore di luce nel nostro deserto» (Turoldo). «Inizio del vangelo di Gesù», che è Gesù, la buona notizia è lui, i suoi occhi che guariscono quando accarezzano, e la sua voce che atterra i demoni tanto è forte, e che incanta i bambini tanto è dolce; il guaritore del disamore del mondo, il seduttore dietro cui ho perso il cuore, che fa ripartire la vita ogni volta si è ferma, fino a che inciampi in una stella.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino. (...)

Se tu squarciassi i cieli e discendessi! (Isaia 63,19). Il profeta apre l’avvento come un maestro dell’attesa: i cieli sono un grembo che sta per partorire vita più grande. Noi siamo argilla nelle tue mani. Tu sei colui che ci dà forma (Isaia 64,7). Siamo argilla che il Vasaio non butta via mai, e se questo vaso riesce male, o qualche volta si rompe, ci prende di nuovo in mano, ci mette ancora su quel suo tornio, che ruota sempre come una mistica danza di creazione.

Illogica e magnifica fiducia in noi, che siamo i vasi rotti di Dio. Fiducia che ho tante volte tradito, ogni volta rinata. Il profeta è testimone ancora una volta che è sempre possibile rinascere, è sempre possibile il passaggio da «terra ferita» a «terra guarita». La voce di Isaia grida il desiderio del cosmo: tutto nell’universo attende, attendono anche le pietre, anche il grano attende un Dio che ha sempre da nascere. Un germe divino attende la sua risurrezione nel cuore umano (Giovanni Vannucci).

Avvento è un tempo di incamminati: tutto si fa più vicino, Dio in esodo verso di noi, io che mi accodo a questa carovana di nomadi cercatori di stelle, la terra che si fa prossima e cerca pace. Pace in terra, canteranno gli angeli, affascinando la notte di Betlemme. E sappiamo, sempre più e sempre meglio, che significa far pace con madre terra, depredata, devastata, avvelenata, che però come una madre bella ci prende fra le sue braccia. L’ingresso del Vangelo di Marco,

in questa prima domenica d’avvento, racconta di una notte, e ne stende l’elenco faticoso delle tappe: “non sapete quando arriverà, se alla sera, a mezzanotte, al canto del gallo o al mattino”. Una sola cosa però è certa: arriverà. Ma intanto Isaia lotta, a nome nostro, contro il ritardo di Dio: «ritorna per amore dei tuoi servi!» Il padrone è partito e ha lasciato tutto in mano ai suoi servi, a ciascuno il suo compito. Una costante di molte parabole, in cui Gesù racconta il volto di un Dio che si fida, mette il mondo nelle nostre mani, affida le sue creature all’intelligenza fedele e alla combattiva tenerezza dell’uomo.

Un rischio grande preme su di noi. Un poeta lo esprime così: «io vivere vorrei/ addormentato/ entro il dolce rumore della vita» (Sandro Penna). La tentazione è di non vivere, ma solo di sopravvivere, in un ottundimento dei sensi, una sedazione dei desideri, per troppa sazietà. Il nostro mondo vive una triplice crisi, della fiducia, del futuro e del generare. Ma proprio qui e ora Avvento viene a ricordare che nascerà un figlio, che il futuro è assicurato, che il cielo non è chiuso sopra di noi, ma si apre. Dio prende corpo, affinché la nostra speranza prenda corpo; si fida di questa terra ferita perché diventi terra incinta di Dio.

Nostro Signore Gesù Cristo re dell’universoIn quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. (...)Una scena potente, drammatica, detta del “giudizio universale”, ma che in realtà è la rivelazione della verità ultima sull’uomo e sulla vita, su ciò che rimane quando non rimane più niente: l’amore. Perché il tempo dell’amore è più lungo del tempo della vita. La scena risponde a una domanda antica quanto l’uomo: cosa hai fatto di tuo fratello?

La Parola offre in risposta sei opere ordinarie, poi apre una feritoia straordinaria: ciò che avete fatto a uno dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me! Gesù stabilisce un legame così stretto tra sé e gli uomini, da giungere a identificarsi con loro: l’avete fatto a me! Il povero è come Dio, è corpo e carne di Dio. Il cielo che il Padre abita sono i suoi figli.E capisco che a Dio manca qualcosa: all’amore manca di essere amato. È lì nell’ultimo della fila, mendicante di pane e di casa per i suoi amati: li vuole tutti dissetati, saziati, vestiti, guariti, consolati. E finché uno solo sarà sofferente, lo sarà anche lui. Davanti a questo Dio resto incantato, con lui mi sento al sicuro. E così farò anch’io, mi prenderò cura di un fratello, lo terrò al sicuro al riparo del mio cuore. Mi è d’immenso conforto sentire che il tema del giudizio non sarà il male ma il bene; non peccati, debolezze, difetti, ma gesti buoni, briciole gentili.

Le bilance di Dio non sono tarate sul male, ma sulla bontà; non pesano tutta la nostra vita, ma solo la parte buona di essa. In principio e nel profondo, non è il male che revoca il bene, è invece il bene che revoca il male delle nostre vite. Sulle bilance del Signore una spiga di buon grano pesa più di tutta la zizzania del campo. Gesù mostra così che il “giudizio” è divinamente truccato, è chiaramente parziale, perché sono ammesse sole le prove a discarico. Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore (Giovanni della Croce), non su colpe o pratiche religiose, ma sul laico, umanissimo addossarci il dolore dell’uomo.

La via cristiana non si riduce però a compiere delle buone azioni, deve restare scandalosa, più alta, provocatoria, ripetere che il povero è casa di Dio! Un Dio innamorato che canta per ogni figlio il canto esultante di Adamo per la sua donna: “Veramente tu sei carne della mia carne, respiro del mio respiro, corpo del mio corpo”. Poi ci sono anche quelli mandati via. La loro colpa? Hanno scelto la lontananza: lontano da me, voi che siete stati lontani dai fratelli. Non hanno fatto del male ai poveri, non li hanno umiliati o derisi, semplicemente non hanno fatto niente. Omissione di fraternità. Isolamento da paura perché “l’inferno sono gli altri” (J.P. Sartre). Invece no, il vangelo risponde: “mai senza l’altro”.

Il Signore non guarderà a me, guarderà attorno a me, a quelli di cui mi son preso cura. Senza, non c’è paradiso.

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