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di Alessio Pracanica

Non so se avete presente.

Quei tempi in cui si mangiava carne con la porta aperta e si dormiva una volta alla settimana. O qualcosa del genere. Però i treni arrivavano in orario.

Magari vi diranno che c’era la fame. Che i tassi di analfabetismo e mortalità infantile erano da paese del Terzo Mondo. Addirittura che non c’era libertà. Le solite mene degli intellettualoidi.

Mia nonna ha sempre detto che si stava bene. Una pacchia. E se lo diceva mia nonna, dall’alto della sua terza elementare, ci potete calare la pasta.

Dopo l’università della strada, l’università della nonna. Inesauribile fonte di conoscenze degli uomini d’ordine.

C’erano le sanzioni, certo, e mancava pure la carbonella per il braciere, ma chissà le pene d’inferno che dovevano passare gli inglesi, senza i nostri limoni.

Questa vasta e razionale aneddotica è spesso impreziosita da un’ulteriore, fantastica aggiunta: i valori della mafia.

Eh sì! Perché pare che la mafia di una volta fosse buona, giusta e compassionevole. Con dei valori. Un’allegra brigata di Robin Hood che rubava ai poveri per donare ai ricchi. O giù di lì. Mia nonna c’ha un’età e non si ricorda tanto bene.

Quanto fosse buona e giusta lo possiamo desumere da una serie di episodi, raccontati nelle cronache e assenti, invece, nelle nonnesche memorie, come nelle conoscenze degli uomini d’ordine.

Emanuela Sansone era una ragazzina di 17 anni, figlia di Salvatore e Giuseppina Di Sano, titolari a Palermo di una botteguccia dalle parti del Giardino Inglese. Esercizio abbastanza mal visto, nel quartiere, perché annoverava tra i clienti il locale comandante dei carabinieri.

Un bel giorno, dei loschi figuri si presentano in bottega, pretendendo di pagare con moneta falsa. Giuseppina Di Sano reagisce a quell’assurda imposizione cacciandoli via in malo modo.

Da quel momento, il negozio perde gran parte della clientela. Non contenti, qualche sera dopo i mafiosi uccidono la giovane Emanuela.

Nel successivo maxiprocesso contro 51 noti esponenti della mafia palermitana, Giuseppina Di Sano, che doveva essere donna di indomito coraggio, si presenterà come testimone dell’accusa. Ottenendo scarsa giustizia.

Il tribunale erogherà pene molto leggere e addirittura quasi metà degli imputati verrà assolta, grazie alle testimonianze a discarico di parlamentari e notabili palermitani.

Sembra ieri, ma siamo nel 1896. I bei tempi andati.

Luciano Nicoletti, umile contadino corleonese, fu uno dei grandi protagonisti delle lotte “sindacali” tra braccianti e proprietari terrieri, nel periodo a cavallo tra ‘800 e ‘900. Proteste talmente dure, che le famiglie di molti scioperanti si ridussero a mangiare, per settimane, solo fichi d’India selvatici. Alla fine l’ebbero vinta, ma la mafia non perdonò mai a Nicoletti il suo ruolo di capopopolo nelle agitazioni. La sera del 14 ottobre 1905, mentre rincasava a piedi, dopo l’ennesima giornata di spossante lavoro, lo uccisero con due colpi di lupara.

Andrea Orlando, medico e consigliere comunale socialista di Corleone. Ucciso dalla mafia il 13 gennaio 1906. La sua colpa era aver aiutato i contadini nell’organizzazione dell’Unione Agricola, una delle prime cooperative siciliane.

Lorenzo Panepinto, Mariano Barbato, Giorgio Pecoraro, Giovanni Zangara, Bernardino Verro, Giuseppe Rumore, Giuseppe Monticciolo, Alfonso Canzio, Nicolò Alongi. Attivisti e dirigenti del partito socialista. Tutti uccisi dalla mafia nel decennio 1910-20, per aver coordinato le proteste dei braccianti.

Giorgio Gennaro, Costantino Stella e Stefano Caronia, sacerdoti. Uccisi dalla mafia, rispettivamente nel 1916, nel 1919 e nel 1920, per essersi impegnati nel migliorare le condizioni di vita dei contadini nelle campagne di Ciaculli e Resuttano.

E tanti altri ancora. Potremmo continuare per settimane, per mesi. Una lista infinita che riempie decine di pagine con nomi ormai dimenticati. Tutti i ricchi e potenti, come si è visto, che la mafia ha ucciso per difendere i poveri e gli antichi valori.

Non c’è un solo libro di storia che racconti questi supposti valori della mafia antica. Ne parlano solo gli uomini d’ordine, al bar, freschi di laurea all’Università della Nonna.

L’onestà intellettuale impone quindi di riconoscere loro l’indubbio merito di aver perpetuato nel tempo questo splendido Mito, ovviamente, insieme alla mafia stessa.

Che, sentitamente, ringrazia.(ilcompagno.it)

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Nella foto: “Claudio Domino”, ucciso a 11 anni dalla mafia, in un quadro di Gaetano Porcasi.

This is what you get
when you mess with us

Questo è quello che ti succede
quando ti metti contro di noi
(Radiohead - Karma Police)

In tutti questi anni, abbiamo imparato che al mondo esistono paesi buoni e stati canaglia, luoghi di diritto e plaghe senza regole.
E poi ci sono gli Stati Uniti.
A parole, prima democrazia del mondo, pietra su cui misurare la legalità altrui. In pratica, nazione caratterizzata da profonde discriminazioni, economiche e razziali.
In cui, con allarmante frequenza, succedono episodi come la morte dell’afroamericano George Floyd, ucciso da un poliziotto che per bloccarlo a terra, ha pensato bene di piantargli un ginocchio sul collo.
I can’t breathe, sono state le sue ultime parole.
Non posso respirare.

Una scena che ricorda l’analogo di caso di Eric Garner, morto a New York nel 2014. Anche lì, poliziotti bianchi e vittima di colore.
Distinzione inesistente per l’umanità, ma indispensabile per la cronaca.
A dispetto di ogni evidenza, insieme alle prevedibili condanne, capita di leggere tentativi di excusatio abbastanza risibili, a fronte di una vita umana, che chiamano in causa lo stress di un mestiere rischioso e la paga troppo bassa.
Partiamo dai pericoli connessi all’attività di poliziotto.
Secondo il Bureau of Labor Statistic, costola del Dipartimento del Lavoro, il tasso di fatality injury rate (mortalità sul lavoro) dei poliziotti americani è di 10,6.
Per fare un paragone, nei pescatori è di 75,0, quello dei boscaioli sale a 91,3, e perfino i miti agricoltori possono vantare un rischio superiore, con un’incidenza del 21,9.
Venendo allo stipendio, il solito Bureau of Labor classifica questo tipo di lavoro nella fascia più alta di remunerazione per i non laureati.
Un semplice agente di polizia guadagna in media circa 54mila dollari l’anno (più o meno 47mila euro) a cui vanno aggiunti gli straordinari e un bonus, per il mantenimento di divisa ed equipaggiamento, tra i 1500 e i 2000 dollari.
In un paese con il 20% di disoccupati, dove metà dei lavoratori percepisce annualmente meno di 30mila dollari, non è malaccio.

Precisazione forse superflua, rispetto all’enormità degli eventi, ma comunque utile a sgombrare il campo da leggende, mistificazioni e convinzioni errate.
Ammesso e non concesso che stress e basso salario possano fornire spiegazione, se non giustificazione di certi crimini, non sono invocabili dalla polizia americana.
Con buona pace dei repubblicani d’oltre oceano e dei nazisti dell’Illinois d’ogni latitudine. Quelli che, tanto per capirci, mostrando con orgoglio il loro ferro, ripetono in continuazione il mantra idiota di un brutto processo è meglio di un bel funerale.
Il rapporto annuale del FBI enumera una media di 400 uccisioni giustificabili (justifiable police homicide) operate da agenti di polizia, ma inchieste condotte privatamente, da testate come il Washington Post, raccontano una verità ben diversa. Moltissimi casi sfuggono a inchieste e registri.
Il 69,3% dei crimini statunitensi è commesso da individui di etnia bianca, eppure l’86% delle persone uccise dalla polizia è nera o latino-americana.
Qualche esempio?
Seattle, 18 giugno 2017. L’afroamericana Charleena Lyles, 30 anni, madre di quattro figli e incinta del quinto, chiama la polizia per denunciare un furto con scasso nel proprio appartamento.
Due agenti si recano sul posto e avendola trovata con in mano un coltello, le sparano per sette volte, uccidendola.
St. Louis, Missouri, 9 agosto 2014. Il diciottenne afroamericano Michael Brown viene ucciso a sangue freddo da un poliziotto, in mezzo alla strada, perché sospettato di aver commesso un furto.

Sacramento, California,18 marzo 2018. Stephen Clark viene ucciso da due agenti con ben venti colpi di pistola, mentre si trova nel cortile della casa di sua nonna. Gli agenti avevano scambiato per un’arma il telefono cellulare che teneva in mano.
Ah, Clark era nero, ovviamente.
Gli agenti no.
Cleveland, Ohio, 23 novembre 2014. Due poliziotti uccidono l’afroamericano Tamir Rice, pensando che stia per estrarre la pistola infilata nella cintura.
Episodio triste di per sé, a cui vanno aggiunti due piccoli, insignificanti particolari: la pistola è un giocattolo e Tamir ha dodici anni.
Voci a caso, estratte da una casistica che negli anni è diventata sterminata. Al punto che secondo uno studio dell’Accademia delle Scienze, un nero americano ha 1 possibilità su 5 milioni di morire per incidente aereo, 1 su 8 milioni di venire mangiato da uno squalo e 1 su mille di essere ucciso, durante la sua vita, da quella stessa polizia che contribuisce a mantenere con le proprie tasse e che dovrebbe proteggerlo.
Una statistica lusinghiera per gli squali e le compagnie aeree.

La verità è che esiste, o ovest del grande mare, un grave problema di legalità, originato da un mito e cristallizzato da una prassi.
Il mito, falso e cinematografico, della Frontiera. Prima l’impiccagione e subito dopo, un regolare processo.
Sommato a una Guerra di Secessione che ha affrancato gli schiavi dalle piantagioni, solo per trasferirli nelle fabbriche del New England.
Il risultato è un paese rudimentale, diviso in bianchi e neri, ricchi e poveri, buoni e cattivi. Senza ammortizzatori sociali, paracadute, sfumature tra il successo e il fallimento.
Perennemente alla ricerca di nemici, veri o presunti, molto spesso inventati. Da una cinematografia che ha osato riciclare anche un Abramo Lincoln, in versione cacciatore di vampiri, pur di battere il tasto ormai logoro dell’eroe a stelle e strisce che salva l’umanità
Con larghe fasce della popolazione ancora pervase da un razzismo strisciante, ma non per questo meno sottile.
Preda, dalle Torri Gemelle in poi, delle più profonde paure, spesso esacerbate artificialmente. Prima dalla presidenza Bush e poi dall’attuale inquilino della Casa Bianca.
L’uomo del muro al confine con il Messico e delle deliranti dichiarazioni in materia di Covid, che hanno condotto diversi suoi fedeli sostenitori al pronto soccorso, per intossicazione da candeggina.

Anche grazie a lui, gli Stati Uniti del XXI secolo sono un paese con alle spalle un luminoso futuro. Sorta di sceriffo planetario, unica superpotenza militare, eppure incapace di proteggere i propri cittadini dagli eccessi della sua stessa polizia.
Né di garantire loro uguali diritti in materia di assistenza sanitaria, scolastica e garanzie previdenziali.
L’uccisione di Gorge Floyd non è un caso isolato, risolvibile con la semplice punizione dei responsabili, per usare le parole di Trump.
Origina da una sottocultura che, in carenza di storia, l’ha sostituita con un mito fasullo e affonda le radici in una palude di tensioni e discriminazioni sociali, che permea larghi strati di una società così impaurita, da reagire alla pandemia triplicando l’acquisto di armi per difesa personale.
Sarebbe un grave errore, considerare tutto questo come cosa lontana da noi e dalle nostre più immediate preoccupazioni.
Ai tempi della schiavitù, gran parte dei proprietari terrieri trattava gli schiavi con paternalistica bonomia. In primis perché li considerava un investimento economico e poi perché molti di loro erano figli o fratelli naturali. Legami di parentela, frutto del clima promiscuo delle piantagioni.
I veri razzisti, allora come oggi, erano i bianchi poveri a cui, per manovrarne il consenso, gli imbonitori da piazza additavano il nemico nero, fonte di tutti i loro problemi.

Anche nel nostro paese non mancano i ferventi ammiratori degli Stati Uniti e del presidente Trump.
Forze politiche che indicano agli italiani un nemico, immigrato e rom, da odiare accuratamente.
Aizzando e giustificando ogni eccesso di difesa, salvo poi inginocchiarsi e pregare devotamente il Sacro Cuore di Maria.
Nel tentativo di realizzare, nell’occhio del ciclone economico ormai prossimo, quella tempesta perfetta che è la guerra tra poveri. Dentro la quale, il prossimo a gridare I can’t breathe, potrebbe essere uno di noi.(antimafiaduemila.com)

 

Il modellino Lombardia

Possiamo affermare con discreta certezza che da ieri, nel già luminoso firmamento della commedia all’italiana, è sorta una stella di prima grandezza.
Parliamo dell’ormai mitico Giulio Gallera, assessore lombardo alla Sanità, che davanti alle telecamere si è lanciato in vertiginose esemplificazioni epidemiologiche, nel tentativo di spiegare al volgo grezzo e ignorante il famigerato fattore Rt.
“0,51 vuol dire che per infettare me bisogna trovare due persone nello stesso momento infette, e questo vuol dire che non è così semplice trovare allo stesso tempo due persone contagiose per infettare me.”

In effetti, è abbastanza difficile trovare due persone disposte ad ascoltare le elucubrazioni di Gallera, per il tempo sufficiente a infettarlo.
Estendendo ulteriormente il brillante ragionamento, si potrebbe desumere che, in caso di Rt pari a 0.90, basterebbe un nano o un mutilato di guerra. Se invece il fattore Rt scendesse miracolosamente a 0,01, bisognerebbe convocare novantanove positivi e sollazzarsi tutti insieme, appassionatamente, finché Covid non sopraggiunga.
Proseguendo nelle similitudini, trovandosi al cospetto di un tasso di natalità dello 0,50 il buon Gallera ne dedurrebbe, giustamente, che per fare un figlio occorre la piena collaborazione tra due persone. A dimostrazione della regola che anche gli orologi rotti, due volte al giorno, servono a qualcosa.

Guai, però, a far precipitare le percentuali. Perché con un tasso dello 0,33 si renderebbe necessario il menage a trois e con valori ancora inferiori, solo l’orgia ci salverebbe dall’estinzione. Con tassi pari o superiori a 1, invece, un timido e tranquillo onanista potrebbe, con la dovuta calma, ripopolare il pianeta.

Nessuno pretende, sia chiaro, specifiche competenze tecniche dai politici, poiché il loro ruolo sarebbe altro. Ma prendendo in prestito le parole del veneziano Iacopo Badoer, si deve per l’ennesima volta convenire che un bel tacer non fu mai scritto, né, tantomeno, pronunciato.
Tornando alla politica, dobbiamo registrare il peloso polverone sollevato dalle critiche alla sanità lombarda, espresse dall’onorevole Ricciardi. Fior di reazioni indignate che hanno pretestuosamente miscelato gestione politica ed efficienza tecnica, utilizzando come schermo gli incolpevoli operatori della sanità, per altro mai menzionati da Ricciardi.
Che la sanità lombarda annoveri molteplici eccellenze professionali, è un fatto indiscusso. Che ogni professionista della Lombardia, dal più giovane dei portantini all’ultimo dei primari, abbia fatto in questa emergenza tutto ciò che era in suo potere, e spesso anche di più, è altrettanto assodato.

Ben diversa cosa è la gestione politica.
In questo caso, a voler parlare di “modello Lombardia” si rischia di scivolare dalla commedia al grottesco.
Pensiamo alle numerose inchieste che hanno coinvolto e travolto illustri esponenti della giunta regionale, proprio in tema di sanità.
Primo fra tutti, il celeste Formigoni, condannato a 7 anni e 6 mesi, per aver ricevuto, in deroga ai suoi frugali e monacali costumi, benefit del valore di svariati milioni di euro, favorendo in cambio gli intrallazzi del faccendiere Pierangelo Daccò.
Senza per questo voler sminuire, né dimenticare gli arresti di Mario Mantovani, ex vicepresidente regionale e di Fabio Rizzi, padre della riforma sanitaria lombarda, che dopo aver patteggiato una condanna a due anni per corruzione, nell’ambito di una più vasta inchiesta sulla sanità privata, ricopre tuttora la carica di Presidente della Commissione Sanità della Regione Lombardia.

Se questo è il modello, insomma, non osiamo immaginare le copie.
Venendo poi all’emergenza Covid, salta subito agli occhi la bizzarra delibera regionale dell’otto marzo, su proposta del sempre fantasmagorico Gallera, che disponeva il trasferimento nelle case di riposo dei contagiati a bassa intensità.
Provvedimento, per ovvi motivi, già al vaglio della magistratura inquirente.
Altrettanto curiosa, appare la vicenda dell’Ospedale in Fiera, fortemente voluto dal governatore Fontana e realizzato con la fattiva collaborazione del leggendario Bertolaso.

Nel cui cda sarebbe presente anche la signora Giulia Martinelli, ex di Matteo Salvini.
L’ospedale è frutto dell’indefessa opera di 110 fornitori e 829 tra tecnici e maestranze, che hanno sgobbato h24 per creare una struttura di 24mila mq con 221 posti di terapia intensiva, atmosfera controllata negativa e filtri assoluti, 2 sale Tac, 2 sale Rx, 2 sale operatorie, 6 spogliatoi, 33 docce, centro videoconferenza per 70 persone, networking in fibra ottica 10 GB/sec e wi-fi alta velocità 1G/sec, 2 aree triage, 2 ingressi distinti per ambulanze, gruppi elettrogeni e di continuità da 2700 kva, tripla riserva di gas con serbatoi per 82.000 litri di ossigeno e 20.000 di azoto, condizionamento estivo e invernale e locali relax per il personale sanitario.

“Stiamo facendo la storia,” ebbe a dichiarare trionfalmente il governatore Fontana, dando inizio ai lavori.
Costo, in attesa di ulteriori verifiche, 17,5 milioni di euro più Iva, pazienti ospitati: 21. Adesso pare non serva più e se ne ventila la demolizione.
Dalla storia alla decadenza, insomma, il passo è breve.
Il mio nome è Fontana, governatore dei governatori, giudica le opere mie immortali, o mortale, e disperati!
Ma questi, si dirà, sono i normali infortuni di un paese devastato da corruzione e burocrazia. Perché la Lombardia dovrebbe fare eccezione?
Eccezione forse no, ma da qua a diventare modello, ce ne corre.
Dulcis in fundo, è opportuno commentare i numeri della pandemia.
Su un totale di 61.195 closed case, in Lombardia, ci sono stati 15.840 morti.
Valore quest’ultimo, che andrebbe ritoccato verso l’alto, volendo prestar fede ai dubbi recentemente espressi dall’Inps, in merito alle cifre di mortalità.
Anche così, esprime comunque un’incidenza di decessi pari al 28% dei casi finora risolti. Quasi un ammalato su tre, in altre parole, non ce l’ha fatta. Una percentuale che non ha corrispettivo in nessun altro posto del mondo e unico dato epidemiologico, parlando di vittime, ad avere una qualche rilevanza.

Tanto per dare un’idea, in Piemonte, seconda regione per numero di contagiati, tale percentuale è del 17%, come negli Usa e in Spagna diventa del 12%.
Inutile argomentare che i dati della Lombardia potrebbero essere falsati da un fantomatico, e per ora sconosciuto, numero di casi asintomatici. In quanto, Inps e Istat docet, i morti per Covid sembrerebbero essere molti, molti, molti di più, rispetto alle statistiche ufficiali.
Qualche critica, quindi, al modello Lombardia e alla sua gestione dell’emergenza sembrerebbe più che lecita. Senza per questo mancare di rispetto agli operatori della sanità, ai defunti e alle loro famiglie.

Anzi. È nascondendo eventuali leggerezze, errori e responsabilità che si fa torto alla memoria di chi non c’è più e alla fatica di chi si è sacrificato.
Giunti alla fine, per dovere di cronaca occorre precisare che i talenti dell’avanspettacolo non albergano tutti tra il Ticino e il Mincio. L’Italia, terra fertile e generosa, ne partorisce sotto ogni latitudine. Prova ne sia che qualche giorno fa, la signora Iole Santelli, presidentessa della regione Calabria, esprimendosi in merito alla misurazione della temperatura corporea, ha candidamente dichiarato: “Di cosa stiamo parlando? Con 40 gradi all’ombra chi non avrà 37 gradi di temperatura corporea?”. “Non chiedete cosa può fare il vostro paese per voi, chiedetevi piuttosto cosa voi potete fare per il vostro paese,” ammoniva John Fitzgerald Kennedy. Ecco, restituire i comici alla loro primaria vocazione sarebbe già un buon inizio.(antimafiaduemila.com)

Sogno o son destro?

(Onirico casting per assessori alla cultura)
Quante cose devono passare per la testa di un povero Presidente di Regione. Interrogativi, dubbi, preoccupazioni.
Anche nei rari momenti di relax, masticando svogliatamente una forchettata di pizzoccheri con le sarde o pucciando la brioscia nella bagnacauda.
Infiniti provvedimenti da prendere. Fatti, pensieri, omissioni. Decisioni, soprattutto decisioni.
Prima fra tutte, rafforzare la maggioranza.
Non limitandosi, però, a raccattare la solita pletora di consiglieri scompagnati, transfughi insoddisfatti e boiardi senza cadrega. Rafforzarla davvero.
Dando vita a un esecutivo dinamico e propulsivo, capace di attuare le necessarie riforme strutturali. Per garantire a questa terra, potenzialmente così ricca, quelle opportunità di sviluppo di cui è tradizionalmente assetata.
E comunque non c’è solo lo sviluppo. Per quanto importante, per carità. E chi lo nega?
Bisogna pensare alla rielezione e poi al futuro. A quel lieto e insieme triste giorno in cui dovremo abbandonare il materno abbraccio del suolo natio, troncando dolorosamente il cordone ombelicale che ci nutriva di retaggi e speranze, per navigare verso altri lidi. Crescere, insomma.

Un sottosegretariato, chissà. Un ministero, magari. La presidenza di qualcosa. D’altronde se sognare è lecito, avverarsi è cortesia.
Rafforzare la maggioranza, dicevamo.
Un pensiero che occupa la mente del Presidente per lunghe sere, mentre gli occhi stanchi e arrossati vagano sopra le pagine di un Also sprach.
Ma con chi?
Ci vorrebbe una forza politica che coniughi fantasia e pragmatismo, valori e modernità.
In preda a questi arrovellamenti il Presidente, spossato, crolla addormentato.
Nel sogno, gli passano davanti molteplici soluzioni.
L’Esercito Popolare di Liberazione Cinese, il corpo di ballo del Bol'šoj, il coro dell’Armata Rossa, l’undici titolare dello Zenith San Pietroburgo. Niente.
Nessuna di queste andrebbe bene, per i più svariati motivi.
Finalmente, eccola l’intuizione!
La Lega. E perché no?

Un movimento moderno, pragmatico, propulsivo. Con dei valori.
Rateizzati forse, ma pur sempre valori.
Tradizionalmente vicino alla nostra gente, affezionatissimo ai nostri vulcani. Il partito ideale a cui affidare l’Assessorato alla Cultura e Identità.
Certo, questo non basta.
Trovato il partito, si deve individuare l’uomo giusto, che faccia da volano tra la volontà dello Spirito e la gretta immanenza della burocrazia, fondendo in unico atto pensiero e azione.
Decine di nomi affollano la sua visione, subito valutati e scartati con criterio rigidamente meritocratico. Rifuggendo all’ovvia tentazione di pescare nel pur vasto bacino culturale leghista.
Cestinando fior di autorevoli candidature. I Trota, le Bergonzoni, i Borghezio. Tutta gente capacissima, ci mancherebbe, ma ahimè priva della necessaria componente identitaria.
Sempre sognando, il Presidente si ritrova nel suo ufficio, a Palazzo d’Orleans. Ecco gli arazzi, i tappeti, le bandiere. Ecco la scrivania, ingombra di carte, dove ogni giorno l’Etica cozza con le umane miserie.

Bussano alla porta.
- Chi è? - domanda il Presidente, visibilmente infastidito. - Che c’è, cosa vuole? -
Mai un momento di pace, di raccoglimento. Nemmeno in sogno.
- Mi perdoni il disturbo, - mormora il nuovo venuto. - Io sarei il candidato per quel posto di assessore alla cultura, cioè… se è ancora disponibile, naturalmente. Ho mandato il curriculum, che a quanto mi dicono dovrebbe essere già in suo possesso. Eccolo là, infatti. Guardi. Quella cartellina verde. -
- E va bene, si accomodi, - sospira il Presidente, iniziando a sfogliare l’incartamento. - Vedo che ha proposto di intitolare una strada, in ogni comune, al nostro caro Almirante. Bene. Leggo anche di un suo commosso saluto al compianto Delle Chiaie. Ottimo. Altolà, fermi tutti! Qui c’è scritto che lei faceva parte di una loggia massonica! Il Grande Oriente d’Italia! -
- Cose vecchie. Me ne sono tirato fuori, - risponde il candidato. - E comunque la mia adesione era mossa solo da motivi culturali. -

- Sappia comunque, - esclama il Presidente in tono veemente, - che qua non si fanno discriminazioni! Non siamo come le sinistre, che alla minima cosa gridano al lupo, al lupo. Devo notare però, che prima di afferire alla Lega, si è candidato con i 5Stelle. Vabbè, da giovani tutti abbiamo fatto qualche minchiata. Veniamo alle questioni serie. Di che cosa si occupa? -
- Ho scritto dei libri sull’induismo. -
- Induismo? Bellissimo e poi? -
- Trattati di mistica, esoterismo... ah, pure un saggio sui tarocchi. -
- L’aranci? Bravissimo! L’arancio tarocco è un’eccellenza del nostro patrimonio etno-gastronomico. Già che ci siamo, perché non mi scrive pure un bel trattato sugli arancini? -
- No, non ci siamo capiti. Per tarocchi intendevo le carte. Il Matto, la Ruota, eccetera eccetera. -
- Qual è il suo piatto preferito? - taglia corto il Presidente. Il tono adesso si è fatto grave, severo, inquisitorio.

- La… - esita il candidato
- La?! Coraggio, fuori tutta la verità! -
- La caponata di melanzane. -
- Bene, bravo, così mi piace. Identitario! - esclama il Presidente picchiando una manata sul tavolo. - In cinque secondi: che cosa ne pensa del fascismo? -
- Che cosa ne penso… detto tra noi o per gli altri? - ribatte il candidato, indicando con un cenno della testa l’ampia finestra.
- Giovanotto, non stiamo a fare questioni di lana caprina! Che cosa ne pensa? -
- Roba morta e sepolta. -
- Good. E dell’antifascismo? -
- Tempo perso, fondamentalmente. -
- Uhm. Che opinione nutre, nei confronti del sottoscritto? -
- Burbero, ma un cuor d’oro. -
Il silenzio cala nella stanza, ma gli occhi del Presidente continuano a scrutare l’interlocutore, mentre le sue dita tamburellano nervosamente sul legno della scrivania.

- Onesto. Soprattutto onesto, - conclude infine il candidato.
- L’esercito? -
- Fucina di uomini. -
- Il rancio? -
- Ottimo e abbondante! -
- Giovanotto, le mie congratulazioni. Il posto è suo, - mormora il Presidente, per poi risprofondare nel sonno. Stavolta senza sogni.
Sssst, il Presidente sta riposando.
Tutti zitti e a casa.
Non disturbiamolo.(antimafiaduemila.com)

 

"Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant 
Dove creano il deserto, gli danno il nome di pace". 
(Vita e costumi di Giulio Agricola - Publio Cornelio Tacito) 

Così scrive Tacito, a proposito della tanto decantata Pax Romana. Ragionamento che potrebbe valere anche per altre forme di pace apparente. Come l’altrettanto desertificante, ma spesso sottostimata pax mafiosa.

Fenomeno mimetico, che agli occhi di chi se ne lascia accecare diventa effetto ottico, miraggio di falso movimento, come in ogni deserto che si rispetti.
Esiste infatti una larga fetta di opinione pubblica che, in assenza di episodi eclatanti, tende e a dimenticare l’esistenza della mafia.
Ritenendo che i periodi di calma, senza sagome di gesso disegnate sui marciapiedi, coincidano con momenti di debolezza delle organizzazioni criminali o addirittura con la loro scomparsa.
Niente di più sbagliato.

Quella silenziosa quiete, immobile e fiaccante come i giorni di scirocco, è segnale di forza. Vuol dire che il denaro scorre, la merce arriva e ogni torta, degna di una qualche considerazione, è già stata divisa con equanime geometria.
Tutto fila alla perfezione, dagli appalti alle processioni.
Uomini e madonne, arrivati all’altezza della casa giusta, chinano il capo, col benevolo assenso del proverbiale vaso di coccio.
Non ce n’è alcun bisogno di sparare. Ognuno ha ricevuto la sua giusta percentuale di illegalità. Non c’è egoismo, particolarismo, appetito che non sia stato saziato.
Garantendo la stabilità di quel fluido e accurato mosaico che permette ai diversi poteri di incontrarsi senza collidere.

Il ruolo più immediato della pax mafiosa è agire da cinghia di trasmissione, trasferendo al basso in forma sublimata, quasi gas anestetico, la celestiale concordia raggiunta nelle alte sfere.
Paesi, quartieri, spesso intere città su cui al tramonto cala una sorta di coprifuoco. Senza un clacson, una voce, una canzonetta che spezzi quell’incantamento tutt’altro che magico.
Fatta eccezione per qualche isola di movida, spesso in mano ai prestanome e per l’urlo neomelodico che fuoriesce dai finestrini dei dispensatori di paradisi, ubbidiente solo alla legge di Doppler.
Non si resta in casa per paura, ma perché non si avrebbe dove andare, stante il Sahara umano e culturale circostante.
Migliaia di esistenze, imbrigliate nella nassa di un controllo fitto, quanto inapparente. Dove un occhio poco allenato faticherebbe a scorgere, nascosta tra le pieghe di una tacita presenza mafiosa, la fragorosa assenza dello stato.
Il migliore dei panorami, per chi non desidera affacciarsi. Beandosi della fortuna di vivere nel migliore dei mondi possibili.

Un bel posticino all’antica, con i valori di una volta, senza extracomunitari, rom e altri spaventosi nemici. In cui si può ancora dormire con la porta aperta.
A patto s’intende di essere in regola, se non con la propria coscienza, almeno con le rate del pizzo.
Una Sicilia irreale, ma concreta, che i tanti, troppi negazionisti decantano, contrapponendola alla vera mafia che sta a Roma. Lamentando parimenti certe esagerazioni che oltraggiano questa terra generosa e i suoi onesti, laboriosi abitanti.
Formule codificate, nelle quali si può riconoscere all’istante il vero fiancheggiatore mafioso, consapevole o no.

Categoria sempre ben rappresentata, specie in sede elettorale. Costantemente schierata in difesa dei già citati valori, che alla fine si rivelano sempre prezzi.
Da pagare con ogni moneta possibile, fisica, economica e morale. Soprattutto con l’unica che non avremmo il diritto di spendere: il futuro dei nostri figli.(antimafiaduemila.com)

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Foto: La bambina e il buio, Baucina, 1980 © Letizia Battaglia

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