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Dettagli...

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foto di Martina Costa

di Gaetano Sardella

Celebrata la Solennità di PENTECOSTE, la Messa Vespertina in CATTEDRALE sempre nel rispetto delle vigenti disposizioni di legge.
La prima dopo il 5 Marzo 2020. Alla fine della celebrazione il Sindaco Marco Giorgianni ha deposto sull'argenteo simulacro di San Bartolomeo un Cuore d'argento donato dalla Confraternita di San Bartolomeo a nome di tutti i devoti con su scritto: GRAZIE. Pandemia 2020.

 

Videoriprese di Bartolino Costa

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IL MESSAGGIO RELIGIOSO

La Pentecoste non si lascia recintare dalle nostre parole. La liturgia stessa moltiplica le lingue per dirla: nella prima Lettura lo Spirito arma e disarma gli Apostoli, li presenta come “ubriachi”, inebriati da qualcosa che li ha storditi di gioia, come un fuoco, una divina follia che non possono contenere. E questo, dopo il racconto della casa di fiamma, di un vento di coraggio che spalanca le porte e le parole. E la prima Chiesa, arroccata sulla difensiva, viene lanciata fuori e in avanti.

La nostra Chiesa tentata, oggi come allora, di arroccarsi e chiudersi, perché in crisi di numeri, perché aumentano coloro che si dichiarano indifferenti o risentiti, su questa mia Chiesa, amata e infedele, viene la sua passione mai arresa, la sua energia imprudente e bellissima. Il Salmo responsoriale guarda lontano: «Del tuo Spirito, Signore, è piena la terra». Una delle affermazioni più belle e rivoluzionarie di tutta la Bibbia: tutta la terra è gravida, ogni creatura è come incinta di Spirito, anche se non è evidente, anche se la terra ci appare gravida di ingiustizia, di sangue, di follia, di paura.

Ogni piccola creatura è riempita dal vento di Dio, che semina santità nel cosmo: santità della luce e del filo d’erba, santità del bambino che nasce, del giovane che ama, dell’anziano che pensa. L’umile santità del bosco e della pietra. Una divina liturgia santifica l’universo. La terza via della Pentecoste è data dalla seconda lettura. Lo Spirito viene consacrando la diversità dei carismi: bellezza, genialità, unicità proprie per ogni vita.

Lo Spirito vuole discepoli geniali, non banali ripetitori. La Chiesa come Pasqua domanda unità attorno alla croce; ma la Chiesa come Pentecoste vuole diversità creativa. Il Vangelo infine colloca la Pentecoste già la sera di Pasqua: «Soffiò su di loro e disse: ricevete lo Spirito Santo». Lo Spirito di Cristo, ciò che lo fa vivere, viene a farci vivere, leggero e quieto come un respiro, umile e testardo come il battito del cuore. Il poeta Ovidio scrive un verso folgorante: est Deus in nobis, c’è un Dio in noi. Questa è tutta la ricchezza del mistero: «Cristo in voi!» (Col 1,27).

La pienezza del mistero è di una semplicità abbagliante: Cristo in voi, Cristo in me. Quello Spirito che ha incarnato il Verbo nel grembo di santa Maria fluisce, inesauribile e illimitato, a continuare la stessa opera: fare della Parola carne e sangue, in me e in te, farci tutti gravidi di Dio e di genialità interiore. Perché Cristo diventi mia lingua, mia passione, mia vita, e io, come i folli e gli ebbri di Dio, mi metta in cammino dietro a lui «il solo pastore che pei cieli ci fa camminare»

Il sì di Maria l’eccomi che cambia la storia 

L’angelo Gabriele, lo stesso che «stava ritto alla destra dell’altare del profumo» (Lc 1,11), è volato via dall’incredulità di Zaccaria, via dall’immensa spianata del tempio, verso una casetta qualunque, un monolocale di povera gente.

Straordinario e sorprendente viaggio: dal sacerdote anziano a una ragazza, dalla Città di Dio a un paesino senza storia della meticcia Galilea, dal sacro al profano. Il cristianesimo non inizia al tempio, ma in una casa. La prima parola dell’angelo, il primo “Vangelo” che apre il vangelo, è: rallegrati, gioisci, sii felice. Apriti alla gioia, come una porta si apre al sole: Dio è qui, ti stringe in un abbraccio, in una promessa di felicità. Le parole che seguono svelano il perché della gioia: sei piena di grazia.

Maria non è piena di grazia perché ha risposto “sì” a Dio, ma perché Dio per primo ha detto “sì” a lei, senza condizioni. E dice “sì” a ciascuno di noi, prima di qualsiasi nostra risposta. Che io sia amato dipende da Dio, non dipende da me. Quel suo nome, “Amata-per-sempre” è anche il nostro nome: buoni e meno buoni, ognuno amato per sempre. Piccoli o grandi, tutti continuamente riempiti di cielo. Il Signore è con te. Quando nella Bibbia Dio dice a qualcuno “io sono con te” gli sta consegnando un futuro bellissimo e arduo (R. Virgili).

Lo convoca a diventare partner della storia più grande. Darai alla luce un bimbo, che sarà figlio della terra e figlio del cielo, figlio tuo e figlio dell’Altissimo, e siederà sul trono di David per sempre. La prima parola di Maria non è il “sì” che ci saremmo aspettati, ma la sospensione di una domanda: come avverrà questo? Matura e intelligente, vuole capire per quali vie si colmerà la distanza tra lei e l’affresco che l’angelo dipinge, con parole mai udite… Porre domande a Dio non è mancare di fede, anzi è voler crescere nella consapevolezza.

La risposta dell’angelo ha i toni del libro dell’Esodo, di una nube oscura e luminosa insieme, che copre la tenda, la riempie di presenza. Ma vi risuona anche la voce cara del libro della vita e degli affetti: è il sesto mese della cugina Elisabetta. Maria è afferrata da quel turbinio di vita, ne è coinvolta: ecco la serva del Signore. Nella Bibbia la serva non è “la domestica, la donna di servizio”. Serva del re è la regina, la seconda dopo il re: il tuo progetto sarà il mio, la tua storia la mia storia, Tu sei il Dio dell’alleanza, e io tua alleata.

Sono la serva, e dice: sono l’alleata del Signore delle alleanze. Come quello di Maria, anche il nostro “eccomi!” può cambiare la storia. Con il loro “sì” o il loro “no” al progetto di Dio, tutti possono incidere nascite e alleanze sul calendario della vita.

XXII Domenica Tempo ordinario C

Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”». (....) Disse poi a colui che l'aveva invitato: (....) «Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Il banchetto è un vero protagonista del Vangelo di Luca. Gesù era un rabbi che amava i banchetti, che li prendeva a immagine felice e collaudo del Regno: a tavola, con farisei o peccatori, amici o pubblicani, ha vissuto e trasmesso alcuni tra i suoi insegnamenti più belli. Gesù, uomo armonioso e realizzato, non separava mai vita reale e vita spirituale, le leggi fondamentali sono sempre le stesse. A noi invece, quello che facciamo in chiesa alla domenica o in una cena con gli amici sembrano mondi che non comunicano, parallele che non si incontrano.
Torniamo allora alla sorgente: per i profeti il culto autentico non è al tempio ma nella vita; per Gesù tutto è sillaba della Parola di Dio: il pane e il fiore del campo, il passero e il bambino, un banchetto festoso e una preghiera nella notte. Sedendo a tavola, con Levi, Zaccheo, Simone il fariseo, i cinquemila sulla riva del lago, i dodici nell'ultima sera, faceva del pane condiviso lo specchio e la frontiera avanzata del suo programma messianico.
Per questo invitare Gesù a pranzo era correre un bel rischio, come hanno imparato a loro spese i farisei. Ogni volta che l'hanno fatto, Gesù gli ha messo sottosopra la cena, mandandoli in crisi, insieme con i loro ospiti. Lo fa anche in questo Vangelo, creando un paradosso e una vertigine. Il paradosso: vai a metterti all'ultimo posto, ma non per umiltà o modestia, non per spirito di sacrificio, ma perché è il posto di Dio, che «comincia sempre dagli ultimi della fila» (don Orione) e non dai cacciatori di poltrone. Il paradosso dell'ultimo posto, quello del Dio “capovolto”, venuto non per essere servito, ma per servire. Il linguaggio dei gesti lo capiscono tutti, bambini e adulti, teologi e illetterati, perché parlano al cuore. E gesti così generano un capovolgimento della nostra scala di valori, del modo di abitare la terra. Creano una vertigine: Quando offri una cena invita poveri, storpi, zoppi, ciechi. Riempiti la casa di quelli che nessuno accoglie, dona generosamente a quelli che non ti possono restituire niente. La vertigine di una tavolata piena di ospiti male in arnese mi parla di un Dio che ama in perdita, ama senza condizioni, senza nulla calcolare, se non una offerta di sole in quelle vite al buio, una fessura che si apre su di un modo più umano di abitare la terra insieme.
E sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Che strano: poveri storpi ciechi zoppi sembrano quattro categorie di persone infelici, che possono solo contagiare tristezza; invece sarai beato, troverai la gioia, la trovi nel volto degli altri, la trovi ogni volta che fai le cose non per interesse, ma per generosità. Sarai beato: perché Dio regala gioia a chi produce amore.

XVII Domenica

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: "Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione"».

Signore insegnaci a pregare. Tutto prega nel mondo: gli alberi della foresta e i gigli del campo, monti e colline, fiumi e sorgenti, i cipressi sul colle e l'infinita pazienza della luce. Pregano senza parole: «ogni creatura prega cantando l'inno della sua esistenza, cantando il salmo della sua vita» (Conf. epis. giapponese).
I discepoli non domandano al maestro una preghiera o delle formule da ripetere, ne conoscevano già molte, avevano un salterio intero a fare da stella polare. Ma chiedono: insegnaci a stare davanti a Dio come stai tu, nelle tue notti di veglia, nelle tue cascate di gioia, con cuore adulto e fanciullo insieme. «Pregare è riattaccare la terra al cielo» (M. Zundel): insegnaci a riattaccarci a Dio, come si attacca la bocca alla sorgente.
Ed egli disse loro: quando pregate dite "padre". Tutte le preghiere di Gesù che i Vangeli ci hanno tramandato iniziano con questo nome. È il nome della sorgente, parola degli inizi e dell'infanzia, il nome della vita. Pregare è dare del tu a Dio, chiamandolo "padre", dicendogli "papà", nella lingua dei bambini e non in quella dei rabbini, nel dialetto del cuore e non in quello degli scribi. È un Dio che sa di abbracci e di casa; un Dio affettuoso, vicino, caldo, da cui ricevere le poche cose indispensabili per vivere bene.
Santificato sia il tuo nome. Il tuo nome è "amore". Che l'amore sia santificato sulla terra, da tutti, in tutto il mondo. Che l'amore santifichi la terra, trasformi e trasfiguri questa storia di idoli feroci o indifferenti.
Il tuo regno venga. Il tuo, quello dove i poveri sono principi e i bambini entrano per primi. E sia più bello di tutti i sogni, più intenso di tutte le lacrime di chi visse e morì nella notte per raggiungerlo.
Continua ogni giorno a donarci il pane nostro quotidiano. Siamo qui, insieme, tutti quotidianamente dipendenti dal cielo. Donaci un pane che sia "nostro" e non solo "mio", pane condiviso, perché se uno è sazio e uno muore di fame, quello non è il tuo pane. E se il pane fragrante, che ci attende al centro della tavola, è troppo per noi, donaci buon seme per la nostra terra; e se un pane già pronto non è cosa da figli adulti, fornisci lievito buono per la dura pasta dei giorni.
E togli da noi i nostri peccati. Gettali via, lontano dal cuore. Abbraccia la nostra fragilità e noi, come te, abbracceremo l'imperfezione e la fragilità di tutti.
Non abbandonarci alla tentazione. Non lasciarci soli a salmodiare le nostre paure. Ma prendici per mano, e tiraci fuori da tutto ciò che fa male, da tutto ciò che pesa sul cuore e lo invecchia e lo stordisce.
Padre che ami, mostraci che amare è difendere ogni vita dalla morte, da ogni tipo di morte.

III Domenica Tempo Ordinario

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l'ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio (...).

È la svolta decisiva del Vangelo di Luca. Il volto trasfigurato sul Tabor, il volto bello diventa il volto forte di Gesù, in cammino verso Gerusalemme. «E indurì il suo volto» è scritto letteralmente, lo rese forte, deciso, risoluto.
Con il volto bello del Tabor termina la catechesi dell'ascolto: “ascoltate Lui” aveva detto la voce dalla nube, con il volto in cammino inizia la catechesi della sequela: “tu, seguimi”.
E per dieci capitoli Luca racconterà il grande viaggio di Gesù verso la Croce. Il primo tratto del volto in cammino lo delinea dietro la storia di un villaggio di Samaria che rifiuta di accoglierlo. Allora Giacomo e Giovanni, i migliori, i più vicini, scelti a
vedere il volto bello del Tabor: «Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li bruci tutti?» C'è qui in gioco qualcosa di molto importante. Gesù spalanca le menti dei suoi amici: mostra che non ha nulla da spartire con chi invoca fuoco e fiamme sugli altri, fossero pure eretici o nemici, che Dio non si vendica mai.
È l'icona della libertà, difende perfino quella di chi non la pensa come lui. Difende quel villaggio per difenderci tutti. Per lui l'uomo viene prima della sua fede, l'uomo conta più delle sue idee. È l'uomo, e guai se ci fosse un aggettivo: samaritano o giudeo, giusto o ingiusto; il suo obiettivo è l'uomo, ogni uomo (Turoldo).
«Andiamo in un altro villaggio!». Ha il mondo davanti, Lui pellegrino senza frontiere, un mondo di incontri; alla svolta di ogni sentiero di Samaria c'è sempre una creatura da ascoltare, una casa cui augurare pace; ancora un cieco da guarire, un altro peccatore da perdonare, un cuore da fasciare, un povero cui annunciare che è il principe del Regno di Dio. Il volto in cammino fa trasparire la sua fiducia totale, indomabile nella creatura umana; se non qui, appena oltre, un cuore è pronto per il sogno di Dio.
Nella seconda parte del vangelo entrano in scena tre personaggi che ci rappresentano tutti.

Le volpi hanno tane, gli uccelli nidi, ma io non ho dove posare il capo. Eppure non era esattamente così. Gesù aveva cento case di amici e amiche felici di accoglierlo a condividere pane e sogni. Con la metafora delle volpi e degli uccelli traccia il ritratto della sua esistenza minacciata dall'istituzione, esposta. Chi vuole vivere tranquillo e in pace nel suo nido non potrà essere suo discepolo.
Chi ha messo mano all'aratro… Un aratore è ciascun discepolo, chiamato a dissodare una minima porzione di terra, a non guardare sempre a se stesso ma ai grandi campi del mondo. Traccia un solco e nient'altro, forse perfino poco profondo, forse poco diritto, ma sa che poi passerà il Signore a seminare di vita e far germogliare.

DON GAETANO SARDELLA FESTEGGIA 46 ANNI DI SACERDOZIO 

Auguri Don Gaetano, complimenti e una "Preghiera" per l'opera portata avanti in questi decenni al servizio della comunità isolana

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Ascensione del Signore Anno C

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo (...)
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Ascensione è la navigazione del cuore, che ti conduce dalla chiusura in te all'amore che abbraccia l'universo (Benedetto XVI). A questa navigazione del cuore Gesù chiama gli undici, un gruppetto di uomini impauriti e confusi, un nucleo di donne coraggiose e fedeli. Li spinge a pensare in grande, a guardare lontano, ad essere il racconto di Dio "a tutti i popoli".
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Nel momento dell'addio Gesù allarga le braccia sui discepoli, li raccoglie e li stringe a sé, prima di inviarli.
Ascensione è un atto di enorme fiducia di Gesù in quegli uomini e in quelle donne che lo hanno seguito per tre anni, che non hanno capito molto, ma che lo hanno molto amato: affida alla loro fragilità il mondo e il vangelo e li benedice. 
È il suo gesto definitivo, l'ultima immagine che ci resta di Gesù, una benedizione senza parole che da Betania raggiunge ogni discepolo, a vegliare sul mondo, sospesa per sempre tra cielo e terra.
Mentre li benediceva si staccò da loro e veniva portato su, in cielo.
Gesù non è andato lontano o in alto, in qualche angolo remoto del cosmo. È asceso nel profondo delle cose, nell'intimo del creato e delle creature, e da dentro preme come benedizione, forza ascensionale verso più luminosa vita. Non esiste nel mondo solo la forza di gravità verso il basso, ma anche una forza di gravità verso l'alto, che ci fa eretti, che fa verticali gli alberi, i fiori, la fiamma, che solleva l'acqua delle maree e la lava dei vulcani. Come una nostalgia di cielo. 
Con l'ascensione Gesù è asceso nel profondo delle creature, inizia una navigazione nel cuore dell'universo, il mondo ne è battezzato, cioè immerso in Dio. Se solo fossi capace di avvertire questo e di goderlo, scoprirei la sua presenza dovunque, camminerei sulla terra come dentro un unico tabernacolo, in un battesimo infinito.
Luca conclude, a sorpresa, il suo vangelo dicendo: i discepoli tornarono a Gerusalemme con grande gioia. Dovevano essere tristi piuttosto, finiva una presenza, se ne andava il loro amore, il loro amico, il loro maestro. Ma da quel momento si sentono dentro un amore che abbraccia l'universo, capaci di dare e ricevere amore, e ne sono felici (ho amato ogni cosa con l'addio (Marina Cvetaeva).
Essi vedono in Gesù che l'uomo non finisce con il suo corpo, che la nostra vita è più forte delle sue ferite. Vedono che un altro mondo è possibile, che la realtà non è solo questo che si vede, ma si apre su di un "oltre"; che in ogni patire Dio ha immesso scintille di risurrezione, squarci di luce nel buio, crepe nei muri delle prigioni. Che resta con me "il mio Dio, esperto di evasioni."

VI Domenica di Pasqua Anno C

In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi (...)

Se uno mi ama, osserverà la mia parola. «Se uno ama me»: è la prima volta nel Vangelo che Gesù chiede amore per sé, che pone se stesso come obiettivo del sentimento umano più dirompente e potente. Ma lo fa con il suo stile: estrema delicatezza, rispetto emozionante che si appoggia su di un libero «se vuoi», un fondamento così umile, così fragile, così puro, così paziente, così personale. Se uno mi ama, osserverà... perché si accende in lui il misterioso motore che mette in cammino la vita, dove: «i giusti camminano, i sapienti corrono, ma gli innamorati volano» (santa Battista Camilla da Varano). L'amore è una scuola di volo, innesca una energia, una luce, un calore, una gioia che mette le ali a tutto ciò che fai. 
«Osserverà la mia parola». Se arrivi ad amare lui, sarà normale prendere come cosa tua, come lievito e sale della tua vita, roccia e nido, linfa e ala, pienezza e sconfinamento, ogni parola di colui che ti ha risvegliato la vita. La Parola di Gesù è Gesù che parla, che entra in contatto, mi raggiunge e mi comunica se stesso. Come si fa ad amarlo? Si tratta di dargli tempo e cuore, di fargli spazio. Se non pensi a lui, se non gli parli, se non lo ascolti nel segreto, forse la tua casa interiore è vuota. Se non c'è rito nel cuore, se non c'è una liturgia nel cuore, tutte le altre liturgie sono maschere del vuoto.
E noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.
Verremo. Il Misericordioso senza casa cerca casa. E la cerca proprio in me. Forse non troverà mai una vera dimora, solo un povero riparo, una stalla, una baracca. Ma Lui mi domanda una cosa soltanto, di diventare frammento di cosmo ospitale. Casa per le sue due promesse: lo Spirito e la pace.
Lo Spirito: tesoro che non finisce, sorgente che non tace mai, vento che non posa. Che non avvolge soltanto i profeti, le gerarchie della Chiesa, i grandi personaggi, ma convoca tutti noi, cercatori di tesori, cercatrici di perle: «il popolo di Dio per costante azione dello Spirito evangelizzaf continuamente secf stesso» (Eg 139), Parole come un vento che apre varchi, porta pollini dib primavera. Una visione di potente fiducia, in cuibh ogni uomo, ogni donna hanno dignità di profeti e pastori, ognuno evangelista e annunciatore: la gente è evangelizzata dalla gente. 
Vi lascio la pace, questo miracolo fragile continuamente infranto. Un dono da ricercare pazientemente, da costruire “artigianalmente” (papa Francesco), ciascuno con la sua piccola palma di pace nel deserto della storia, ciascuno con la sua minima oasi di pace dentro le relazioni quotidiane. Il quasi niente, in apparenza, ma se le oasi saranno migliaia e migliaia, conquisteranno e faranno fiorire il deserto.

V Domenica di Pasqua Anno C

Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

«Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate come io vi ho amato»: una di quelle frasi che portano il marchio di fabbrica di Gesù. Parole infinite, in cui ci addentriamo come in punta di cuore. Ma perché nuovo, se quel comando percorre tutta la Bibbia, fino ad abbracciare anche i nemici: «Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli acqua da bere» (Prov 25,21)? Se da sempre e dovunque nel mondo le persone amano? La legge tutta intera è preceduta da un «sei amato» e seguita da un «amerai». «Sei amato», fondazione della legge; «amerai», il suo compimento. Chiunque astrae la legge da questo fondamento amerà il contrario della vita (P. Beauchamp). Comandamento significa allora non già un obbligo, ma il fondamento del destino del mondo e della sorte di ognuno. Il primo passo per noi è entrare in questa atmosfera in cui si respira Dio. E non è un premio per la mia buona condotta, ma un dono senza perché. Scriveva Angelo Silesio: «La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce». L'amore di Dio è la rosa senza perché, Lui ama perché ama, è la sua natura. La realtà è che «siamo immersi in un oceano d'amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). Il secondo passo lo indica un piccolo avverbio: Gesù non dice amate quanto me, il confronto ci schiaccerebbe. Ma: amate come me. Non basta amare, potrebbe essere anche una forma di possesso e di potere sull'altro, un amore che prende e pretende, e non dona niente; esistono anche amori violenti e disperati, tristi e perfino distruttivi. Gesù ama di «combattiva tenerezza» (Evangelii gaudium), alle volte coraggioso come un eroe, alle volte tenero come un innamorato o come una madre, che non si arrende, non si stanca, non si rassegna alla pecora perduta, la insegue per rovi e pietraie e trovatala se la carica sulle spalle, teneramente felice. Amore che non è buonismo, perché non gli va bene l'ipocrisia dei sepolcri imbiancati, perché se un potente aggredisce un piccolo, un bambino, un povero, Gesù tra vittima e colpevole non è imparziale, sta con la vittima, fino ad evocare immagini potenti e dure. Terzo passo: amatevi gli uni gli altri. Espressione capitale, che ricorre decine di volte nel Nuovo Testamento e vuol dire: nella reciprocità, guardandovi negli occhi, faccia a faccia, a tu per tu. Non si ama l'umanità in generale; si ama quest'uomo, questo bambino, questo straniero, questo volto. Si amano le persone ad una ad una, volto per volto, corpo a corpo. Amatevi gli uni gli altri, uno scambio di doni, perché dare sempre, dare senza ritorno è molto duro, non ce la facciamo; siamo tutti mendicanti d'amore, di una felicità che si pesa sulla bilancia preziosa del dare e del ricevere amore.

III Domenica di Pasqua Anno C

In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade (...). Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?» (...)

In riva al lago, una delle domande più alte ed esigenti di tutta la Bibbia: «Pietro, tu mi ami?». È commovente l'umanità del Risorto: implora amore, amore umano. Può andarsene, se è rassicurato di essere amato. Non chiede: Simone, hai capito il mio annuncio? Hai chiaro il senso della croce? Dice: lascio tutto all'amore, e non a progetti di qualsiasi tipo. Ora devo andare, e vi lascio con una domanda: ho suscitato amore in voi? In realtà, le domande di Gesù sono tre, ogni volta diverse, come tre tappe attraverso le quali si avvicina passo passo a Pietro, alla sua misura, al suo fragile entusiasmo.
Prima domanda: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gesù adopera il verbo dell'agápe, il verbo dell'amore grande, del massimo possibile, del confronto vincente su tutto e su tutti.
Pietro non risponde con precisione, evita sia il confronto con gli altri sia il verbo di Gesù: adotta il termine umile dell'amicizia, philéo. Non osa affermare che ama, tanto meno più degli altri, un velo d'ombra sulle sue parole: certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene, ti sono amico!
Seconda domanda: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Non importano più i confronti con gli altri, ognuno ha la sua misura. Ma c'è amore, amore vero per me? E Pietro risponde affidandosi ancora al nostro verbo sommesso, quello più rassicurante, più umano, più vicino, che conosciamo bene; si aggrappa all'amicizia e dice: Signore, io ti sono amico, lo sai!
Terza domanda: Gesù riduce ancora le sue esigenze e si avvicina al cuore di Pietro. Il Creatore si fa a immagine della creatura e prende lui a impiegare i nostri verbi: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene, mi sei amico?». L'affetto almeno, se l'amore è troppo; l'amicizia almeno, se l'amore ti mette paura. «Pietro, un po' di affetto posso averlo da te?».
Gesù dimostra il suo amore abbassando ogni volta le sue attese, dimenticando lo sfolgorio dell'agápe, ponendosi a livello della sua creatura: l'amore vero mette il tu prima dell'io, si mette ai piedi dell'amato. Pietro sente il pianto salirgli in gola: vede Dio mendicante d'amore, Dio delle briciole, cui basta così poco, con la sincerità del cuore. 
Quando interroga Pietro, Gesù interroga me. E l'argomento è l'amore. Non è la perfezione che lui cerca in me, ma l'autenticità. Alla sera della vita saremo giudicati sull'amore (Giovanni della Croce). E quando questa si aprirà sul giorno senza tramonto, il Signore ancora una volta ci chiederà soltanto: mi vuoi bene? E se anche l'avrò tradito per mille volte, lui per mille volte mi chiederà: mi vuoi bene? E non dovrò fare altro che rispondere, per mille volte: sì, ti voglio bene. E piangeremo insieme di gioia.

Le ferite di Gesù, alfabeto dell'amore

II Domenica di Pasqua Anno C

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. [...]
Venne Gesù a porte chiuse. In quella stanza, dove si respirava paura, alcuni non ce l'hanno fatta a restare rinchiusi: Maria di Magdala e le donne, Tommaso e i due di Emmaus. A loro, che respirano libertà, sono riservati gli incontri più belli e più intensi. Otto giorni dopo Gesù è ancora lì: l'abbandonato ritorna da quelli che sanno solo abbandonare; li ha inviati per le strade, e li ritrova chiusi in quella stanza; eppure non si stanca di accompagnarli con delicatezza infinita. Si rivolge a Tommaso che lui stesso aveva educato alla libertà interiore, a dissentire, ad essere rigoroso e coraggioso, vivo e umano. Non si impone, si propone: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco. Gesù rispetta la fatica e i dubbi; rispetta i tempi di ciascuno e la complessità del credere; non si scandalizza, si ripropone. Che bello se anche noi fossimo formati, come nel cenacolo, più all'approfondimento della fede che all'ubbidienza; più alla ricerca che al consenso! Quante energie e quanta maturità sarebbero liberate! Gesù si espone a Tommaso con tutte le ferite aperte. Offre due mani piagate dove poter riposare e riprendere il fiato del coraggio. Pensavamo che la risurrezione avrebbe cancellato la passione, richiusi i fori dei chiodi, rimarginato le piaghe. Invece no: esse sono il racconto dell'amore scritto sul corpo di Gesù con l'alfabeto delle ferite, incancellabili ormai come l'amore stesso. La Croce non è un semplice incidente di percorso da superare con la Pasqua, è il perché, il senso. Metti, tendi, tocca. Il Vangelo non dice che Tommaso l'abbia fatto, che abbia toccato quel corpo. Che bisogno c'era? Che inganno può nascondere chi è inchiodato al legno per te? Non le ha toccate, lui le ha baciate quelle ferite, diventate feritoie di luce. Mio Signore e mio Dio. La fede se non contiene questo aggettivo mio non è vera fede, sarà religione, catechismo, paura. Mio dev'essere il Signore, come dice l'amata del Cantico; mio non di possesso ma di appartenenza: il mio amato è mio e io sono per lui. Mio, come lo è il cuore e, senza, non sarei. Mio come il respiro e, senza, non vivrei. Tommaso, beati piuttosto quelli che non hanno visto e hanno creduto! Una beatitudine alla mia portata: io che tento di credere, io apprendista credente, non ho visto e non ho toccato mai nulla del corpo assente del Signore. I cristiani solo accettando di non vedere, non sapere, non toccare, possono accostarsi a quella alternativa totale, alla vita totalmente altra che nasce nel buio lucente di Pasqua.

III Domenica di Quaresima Anno C

In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Che colpa avevano i diciotto morti sotto il crollo della torre di Siloe? E quelli colpiti da un terremoto, da un atto di terrorismo, da una malattia sono forse castigati da Dio? La risposta di Gesù è netta: non è Dio che fa cadere torri o aerei, non è la mano di Dio che architetta sventure. Ricordiamo l'episodio del "cieco nato": chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché nascesse così? Gesù allontana subito, immediatamente, questa visione: né lui, né i suoi genitori. Non è il peccato il perno della storia, l'asse attorno al quale ruota il mondo. Dio non spreca la sua eternità e potenza in castighi, lotta con noi contro ogni male, lui è mano viva che fa ripartire la vita. Infatti aggiunge: Se non vi convertirete, perirete tutti. Conversione è l'inversione di rotta della nave che, se continua così, va diritta sugli scogli. Non serve fare la conta dei buoni e dei cattivi, bisogna riconoscere che è tutto un mondo che deve cambiare direzione: nelle relazioni, nella politica, nella economia, nella ecologia. Mai come oggi sentiamo attuale questo appello accorato di Gesù. Mai come oggi capiamo che tutto nel Creato è in stretta connessione: se ci sono milioni di poveri senza dignità né istruzione, sarà tutto il mondo ad essere deprivato del loro contributo; se la natura è avvelenata, muore anche l'umanità; l'estinzione di una specie equivale a una mutilazione di tutti. Convertitevi alla parola compimento della legge: " tu amerai". Amatevi, altrimenti vi distruggerete. Il Vangelo è tutto qui. Alla gravità di queste parole fa da contrappunto la fiducia della piccola parabola del fico sterile: il padrone si è stancato, pretende frutti, farà tagliare l'albero. Invece il contadino sapiente, con il cuore nel futuro, dice: "ancora un anno di cure e gusteremo il frutto". Ancora un anno, ancora sole, pioggia e cure perché quest'albero, che sono io, è buono e darà frutto. Dio contadino, chino su di me, ortolano fiducioso di questo piccolo orto in cui ha seminato così tanto per tirar su così poco. Eppure continua a inviare germi vitali, sole, pioggia, fiducia. Lui crede in me prima ancora che io dica sì. Il suo scopo è lavorare per far fiorire la vita: il frutto dell'estate prossima vale più di tre anni di sterilità. E allora avvia processi, inizia percorsi, ci consegna un anticipo di fiducia. E non puoi sapere di quanta esposizione al sole di Dio avrà bisogno una creatura per giungere all'armonia e alla fioritura della sua vita. Perciò abbi fiducia, sii indulgente verso tutti, e anche verso te stesso. La primavera non si lascia sgomentare, né la Pasqua si arrende. La fiducia è una vela che sospinge la storia. E, vedrai, ciò che tarda verrà.

II Domenica di Quaresima Anno C

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. [...]

Salì con loro sopra un monte a pregare. La montagna è la terra che si fa verticale, la più vicina al cielo, dove posano i piedi di Dio, dice Amos. I monti sono indici puntati verso il mistero e la profondità del cosmo, verso l'infinito, sono la terra che penetra nel cielo. Gesù vi sale per pregare. La preghiera è appunto penetrare nel cuore di luce di Dio. E scoprire che siamo tutti mendicanti di luce. Secondo una parabola ebraica, Adamo in principio era rivestito da una pelle di luce, era il suo confine di cielo. Poi, dopo il peccato, la tunica di luce fu ricoperta da una tunica di pelle. Quando verrà il Messia la tunica di luce affiorerà di nuovo da dentro l'uomo finalmente nato, “dato alla luce”. Mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto. Pregare trasforma: tu diventi ciò che contempli, ciò che ascolti, ciò che ami, diventi come Colui che preghi. Parola di Salmo: «Guardate a Dio e sarete raggianti!» (Sal 34,6). Guardano i tre discepoli, si emozionano, sono storditi, hanno potuto gettare uno sguardo sull'abisso di Dio. Un Dio da godere, un Dio da stupirsene, e che in ogni figlio ha seminato una grande bellezza. Rabbì, che bello essere qui! Facciamo tre capanne. Sono sotto il sole di Dio e l'entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita – che bello! – Ci fanno capire che la fede per essere pane, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un “che bello!” gridato a pieno cuore. È bello stare qui. Qui siamo di casa, altrove siamo sempre fuori posto; altrove non è bello, qui è apparsa la bellezza di Dio e quella del volto alto e puro dell'uomo. Allora «dovremmo far slittare il significato di tutta la catechesi, di tutta la morale, di tutta la fede: smetterla di dire che la fede è cosa giusta, santa, doverosa (e mortalmente noiosa aggiungono molti) e cominciare a dire un'altra cosa: Dio è bellissimo» (H.U. von Balthasar). Ma come tutte le cose belle, la visione non fu che la freccia di un attimo: viene una nube, e dalla nube una voce. Due sole volte il Padre parla nel Vangelo: al Battesimo e sul Monte. Per dire: è il mio figlio, lo amo. Ora aggiunge un comando nuovo: ascoltatelo. Il Padre prende la parola, ma per scomparire dietro la parola del Figlio: ascoltate Lui. La religione giudaico-cristiana si fonda sull'ascolto e non sulla visione. Sali sul monte per vedere il Volto e sei rimandato all'ascolto della Voce. Scendi dal monte e ti rimane nella memoria l'eco dell'ultima parola: Ascoltatelo. Il mistero di Dio è ormai tutto dentro Gesù, la Voce diventata Volto, il visibile parlare del Padre; dentro Gesù: bellezza del vivere nascosta, come una goccia di luce, nel cuore vivo di tutte le sue creature.

VII Domenica Tempo ordinario Anno C

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l'altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da' a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro (...).

Gesù ha appena proiettato nel cielo della pianura umana il sogno e la rivolta del Vangelo. Ora pronuncia il primo dei suoi “amate”. Amate i vostri nemici . Lo farai subito, senza aspettare; non per rispondere ma per anticipare; non perché così vanno le cose, ma per cambiarle. 
La sapienza umana però contesta Gesù: amare i nemici è impossibile. 
E Gesù contesta la sapienza umana: amatevi altrimenti vi distruggerete. Perché la notte non si sconfigge con altra tenebra; l'odio non si batte con altro odio sulle bilance della storia. Gesù vuole eliminare il concetto stesso di nemico. Tutti attorno a noi, tutto dentro di noi dice: fuggi da Caino, allontanalo, rendilo innocuo. Poi viene Gesù e ci sorprende: avvicinatevi ai vostri nemici, e capovolge la paura in custodia amorosa, perché la paura non libera dal male.
E indica otto gradini dell'amore, attraverso l'incalzare di verbi concreti: quattro rivolti a tutti: amate, fate, benedite, pregate; e quattro indirizzati al singolo, a me: offri, non rifiutare, da', non chiedere indietro.
Amore fattivo quello di Gesù, amore di mani, di tuniche, di prestiti, di verbi concreti, perché amore vero non c'è senza un fare. 
Offri l'altra guancia, abbassa le difese, sii disarmato, non incutere paura, mostra che non hai nulla da difendere, neppure te stesso, e l'altro capirà l'assurdo di esserti nemico. Offri l'altra guancia altrimenti a vincere sarà sempre il più forte, il più armato, e violento, e crudele. Fallo, non per passività morbosa, ma prendendo tu l'iniziativa, riallacciando la relazione, facendo tu il primo passo, perdonando, ricominciando, creando fiducia. «A chi ti strappa la veste non rifiutare neanche la tunica», incalza il maestro, rivolgendosi a chi, magari, non possiede altro che quello. Come a dire: da' tutto quello che hai. La salvezza viene dal basso! Chi si fa povero salverà il mondo con Gesù (R. Virgili). Via altissima. Il maestro non convoca eroi nel suo Regno, né atleti chiamati a imprese impossibili. E infatti ecco il regalo di questo Vangelo: come volete che gli uomini facciano a voi
così anche voi fate a loro. Ciò che desiderate per voi fatelo voi agli altri: prodigiosa contrazione della legge, ultima istanza del comandamento è il tuo desiderio. Il mondo che desideri, costruiscilo. «Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo» (Gandhi).
Ciò che desideri per te, ciò che ti tiene in vita e ti fa felice, questo tu darai al tuo compagno di strada, oltre l'eterna illusione del pareggio del dare e dell'avere. È il cammino buona della umana perfezione. Legge che allarga il cuore, misura pigiata, colma e traboccante, che versa gioia nel grembo della vita.

III Domenica Tempo ordinario - Anno C

[...] In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me» [...]

Tutti gli occhi erano fissi su di lui. Sembrano più attenti alla persona che legge che non alla parola proclamata. Sono curiosi, lo conoscono bene quel giovane, appena ritornato a casa, nel villaggio dov'era cresciuto nutrito, come pane buono, dalle parole di Isaia che ora proclama: «Parole così antiche e così amate, così pregate e così agognate, così vicine e così lontane. Annuncio di un anno di grazia, di cui Gesù soffia le note negli inferi dell'umanità» (R. Virgili). Gesù davanti a quella piccolissima comunità presenta il suo sogno di un mondo nuovo. E sono solo parole di speranza per chi è stanco, o è vittima, o non ce la fa più: sono venuto a incoraggiare, a portare buone notizie, a liberare, a ridare vista. Testo fondamentale e bellissimo, che non racconta più “come” Gesù è nato, ma “perché” è nato. Che ridà forza per lottare, apre il cielo alle vie della speranza. Poveri, ciechi, oppressi, prigionieri: questi sono i nomi dell'uomo. Adamo è diventato così, per questo Dio diventa Adamo. E lo scopo che persegue non è quello di essere finalmente adorato e obbedito da questi figli distratti, meschini e splendidi che noi siamo. Dio non pone come fine della storia se stesso o i propri diritti, ma uomini e donne dal cuore libero e forte. E guariti, e con occhi nuovi che vedono lontano e nel profondo. E che la nostra storia non produca più poveri e prigionieri. Gesù non si interroga se quel prigioniero sia buono o cattivo; a lui non importa se il cieco sia onesto o peccatore, se il lebbroso meriti o no la guarigione. C'è buio e dolore e tanto basta per far piaga nel cuore di Dio. Solo così la grazia è grazia e non calcolo o merito. Impensabili nel suo Regno frasi come: «È colpevole, deve marcire in galera». Il programma di Nazaret ci mette di fronte a uno dei paradossi del Vangelo. Il catechismo che abbiamo mandato a memoria diceva: «Siamo stati creati per conoscere, amare, servire Dio in questa vita e poi goderlo nell'eternità». Ma nel suo primo annuncio Gesù dice altro: non è l'uomo che esiste per Dio ma è Dio che esiste per l'uomo. C'è una commozione da brividi nel poter pensare: Dio esiste per me, io sono lo scopo della sua esistenza. Il nostro è un Dio che ama per primo, ama in perdita, ama senza contare, di amore unilaterale. La buona notizia di Gesù è un Dio sempre in favore dell'uomo e mai contro l'uomo, che lo mette al centro, che dimentica se stesso per me, e schiera la sua potenza di liberazione contro tutte le oppressioni esterne, contro tutte le chiusure interne, perché la storia diventi totalmente “altra” da quello che è. E ogni uomo sia finalmente promosso a uomo e la vita fiorisca in tutte le sue forme.

Epifania del Signore

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov'è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All'udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. [...]

Epifania, festa dei cercatori di Dio, dei lontani, che si sono messi in cammino dietro a un loro profeta interiore, a parole come quelle di Isaia. «Alza il capo e guarda». Due verbi bellissimi: alza, solleva gli occhi, guarda in alto e attorno, apri le finestre di casa al grande respiro del mondo. E guarda, cerca un pertugio, un angolo di cielo, una stella polare, e da lassù interpreta la vita, a partire da obiettivi alti. Il Vangelo racconta la ricerca di Dio come un viaggio, al ritmo della carovana, al passo di una piccola comunità: camminano insieme, attenti alle stelle e attenti l'uno all'altro. Fissando il cielo e insieme gli occhi di chi cammina a fianco, rallentando il passo sulla misura dell'altro, di chi fa più fatica. Poi il momento più sorprendente: il cammino dei Magi è pieno di errori: perdono la stella, trovano la grande città anziché il piccolo villaggio; chiedono del bambino a un assassino di bambini; cercano una reggia e troveranno una povera casa. Ma hanno l'infinita pazienza di ricominciare. Il nostro dramma non è cadere, ma arrenderci alle cadute. Ed ecco: videro il bambino in braccio alla madre, si prostrarono e offrirono doni. Il dono più prezioso che i Magi portano non è l'oro, è il loro stesso viaggio. Il dono impagabile sono i mesi trascorsi in ricerca, andare e ancora andare dietro ad un desiderio più forte di deserti e fatiche. Dio desidera che abbiamo desiderio di Lui. Dio ha sete della nostra sete: il nostro regalo più grande. Entrati, videro il Bambino e sua madre e lo adorarono. Adorano un bambino. Lezione misteriosa: non l'uomo della croce né il risorto glorioso, non un uomo saggio dalle parole di luce né un giovane nel pieno del vigore, semplicemente un bambino. Non solo a Natale Dio è come noi, non solo è il Dio-con-noi, ma è un Dio piccolo fra noi. E di lui non puoi avere paura, e da un bambino che ami non ce la fai ad allontanarti. Informatevi con cura del Bambino e poi fatemelo sapere perché venga anch'io ad adorarlo! Erode è l'uccisore di sogni ancora in fasce, è dentro di noi, è quel cinismo, quel disprezzo che distruggono sogni e speranze. Vorrei riscattare queste parole dalla loro profezia di morte e ripeterle all'amico, al teologo, all'artista, al poeta, allo scienziato, all'uomo della strada, a chiunque: Hai trovato il Bambino? Ti prego, cerca ancora, accuratamente, nella storia, nei libri, nel cuore delle cose, nel Vangelo e nelle persone; cerca ancora con cura, fissando gli abissi del cielo e gli abissi del cuore, e poi raccontamelo come si racconta una storia d'amore, perché venga anch'io ad adorarlo, con i miei sogni salvati da tutti gli Erodi della storia e del cuore.

 

IV Domenica di Avvento Anno C

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha ceduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

Attendere: infinito del verbo amare. Solo le madri sanno come si attende. E infatti il vangelo ci offre, mentre il Natale è qui, la guida di due donne in attesa. Maria si mise in viaggio in fretta. Ecco il genio femminile: l'alleanza con un'altra donna, Elisabetta. Da sola non sa se ce la farebbe a portare il peso del mistero, del miracolo. Invece insieme faranno rinascere la casa di Dio.
Maria va leggera, portata dal futuro che è in lei, e insieme pesante di vita nuova, di quel peso dolce che mette le ali e fa nascere il canto: una giovane donna che emana libertà e apertura. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. L'anziana, anche lei catturata dal miracolo, benedice la giovane: benedetta tu fra le donne, che sono tutte benedette.
Dove Dio giunge, scende una benedizione, che è una forza di vita che dilaga dall'alto, che produce crescita d'umano e di futuro, come nella prima di tutte le benedizioni: Dio li benedisse dicendo «crescete e moltiplicatevi» (Gen 1,28).
Due donne sono i primi profeti del nuovo testamento, e le immagino avvicinarsi «a braccia aperte,/ inizio di un cerchio /
che un amore più vasto / compirà» (Margherita Guidacci). Il canto del magnificat non nasce nella solitudine, ma nell'abbraccio di due donne, nello spazio degli affetti. Le relazioni umane sono il sacramento di Dio quaggiù.
Magnifica l'anima mia
il Signore. Maria canta il «più grande canto rivoluzionario d'avvento» (D. Bonhoeffer), coinvolge poveri e ricchi, potenti e umili, sazi e affamati di vita nel sogno di un mondo nuovo. 
Mi riempie di gioia il fatto che in Maria, la prima dei credenti, la visita di Dio abbia l'effetto di una musica, di una lieta energia. Mentre noi sentiamo la prossimità di Dio come un dito puntato, come un esame da superare, Maria sente Dio venire come un tuffo al cuore, come un passo di danza a due, una stanchezza finita per sempre, un vento che fa fremere la vela del futuro.
È così bello che la presenza di Dio produca l'effetto di una forza di giustizia dirompente, che scardina la storia, che investe il mondo dei poveri e dei ricchi e lo capovolge: quelli che si fidano della forza sono senza troni, i piccoli hanno il nido nella mani di Dio.
Il Vangelo, raccontando la visita di Maria ad Elisabetta, racconta anche che ogni nostro cammino verso l'altro, tutte le nostre visite, fatte o accolte, hanno il passo di Dio e il sapore di una benedizione. 
Il Natale è la celebrazione della santità che c'è in ogni carne, la certezza che ogni corpo è una finestra di cielo, che l'uomo ha Dio nel sangue; che dentro il battito umile e testardo del suo cuore batte - come nelle madri in attesa- un altro cuore, e non si spegnerà .

III domenica di Avvento Anno C

In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». [...]

«Esulterà, si rallegrerà, griderà di gioia per te, come nei giorni di festa». Sofonia racconta un Dio che esulta, che salta di gioia, che grida: «Griderà di gioia per te», un Dio che non lancia avvertimenti, oracoli di lamento o di rimprovero, come troppo spesso si è predicato nelle chiese; che non concede grazia e perdono, ma fa di più: sconfina in un grido e una danza di gioia. E mi cattura dentro. E grida a me: tu mi fai felice! Tu uomo, tu donna, sei la mia festa.

Mai nella Bibbia Dio aveva gridato. Aveva parlato, sussurrato, tuonato, aveva la voce interiore dei sogni; solo qui, solo per amore, Dio grida. Non per minacciare, ma per amare di più. Il profeta intona il canto dell'amore felice, amore danzante che solo rende nuova la vita: «Ti rinnoverà con il suo amore».

Il Signore ha messo la sua gioia nelle mie, nelle nostre mani. Impensato, inaudito: nessuno prima del piccolo profeta Sofonia aveva intuito la danza dei cieli, aveva messo in bocca a Dio parole così audaci: tu sei la mia gioia. 
Proprio io? Io che pensavo di essere una palla al piede per il Regno di Dio, un freno, una preoccupazione. Invece il Signore mi lancia l'invito a un intreccio gioioso di passi e di parole come vita nuova. Il profeta disegna il volto di un Dio felice, Gesù ne racconterà il contagio di gioia (perché la mia gioia sia in voi, Giovanni 15,11). 

Il Battista invece è chiamato a risposte che sanno di mani e di fatica: «E noi che cosa dobbiamo fare?». Il profeta che non possiede nemmeno una veste degna di questo nome, risponde: «Chi ha due vestiti ne dia uno a chi non ce l'ha». Colui che si nutre del nulla che offre il deserto, cavallette e miele selvatico, risponde: «Chi ha da mangiare ne dia a chi non ne ha». E appare il verbo che fonda il mondo nuovo, il verbo ricostruttore di futuro, il verbo dare: chi ha, dia!

Nel Vangelo sempre il verbo amare si traduce con il verbo dare. La conversione inizia concretamente con il dare. Ci è stato insegnato che la sicurezza consiste nell'accumulo, che felicità è comprare un'altra tunica oltre alle due, alle molte che già possediamo, Giovanni invece getta nel meccanismo del nostro mondo, per incepparlo, questo verbo forte: date, donate. È la legge della vita: per stare bene l'uomo deve dare. 
Vengono pubblicani e soldati: e noi che cosa faremo? Semplicemente la giustizia: non prendete, non estorcete, non fate violenza, siate giusti. Restiamo umani, e riprendiamo a tessere il mondo del pane condiviso, della tunica data, di una storia che germogli giustizia. Restiamo profeti, per quanto piccoli, e riprendiamo a raccontare di un Dio che danza attorno ad ogni creatura.

Gesù Cristo Re dell'Universo Anno B

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

Osserviamo la scena: due poteri uno di fronte all'altro; Pilato e il potere inesorabile dell'impero; Gesù, un giovane uomo disarmato e prigioniero. Pilato, onnipotente in Gerusalemme, ha paura; ed è per paura che consegnerà Gesù alla morte, contro la sua stessa convinzione: non trovo in lui motivo di condanna.
Con Gesù invece arriva un'aria di libertà e di fierezza, lui non si è mai fatto comprare da nessuno, mai condizionare.
Chi dei due è più potente? Chi è più libero, chi è più uomo?
Per due volte Pilato domanda: sei tu il re dei Giudei? Tu sei re?
Cerca di capire chi ha davanti, quel Galileo che non lascia indifferente nessuno in città, che il sinedrio odia con tutte le sue forze e che vuole eliminare. Possibile che sia un pericolo per Roma?
Gesù risponde con una domanda: è il tuo pensiero o il pensiero di altri? Come se gli dicesse: guardati dentro, Pilato. Sei un uomo libero o sei manipolato?
E cerca di portare Pilato su di un'altra sfera: il mio regno non è di questo mondo. Ci sono due mondi, io sono dell'altro. Che è differente, è ad un'altra latitudine del cuore. Il tuo palazzo è circondato di soldati, il tuo potere ha un'anima di violenza e di guerra, perché i regni di quaggiù, si combattono. Il potere di quaggiù si nutre di violenza e produce morte.

Il mio mondo è quello dell'amore e del servizio che producono vita. Per i regni di quaggiù, per il cuore di quaggiù, l'essenziale è vincere, nel mio Regno il più grande è colui che serve.
Gesù non ha mai assoldato mercenari o arruolato eserciti, non è mai entrato nei palazzi dei potenti, se non da prigioniero. Metti via la spada ha detto a Pietro, altrimenti avrà ragione sempre il più forte, il più violento, il più armato, il più crudele. La parola di Gesù è vera proprio perché disarmata, non ha altra forza che la sua luce.

La potenza di Gesù è di essere privo di potenza, nudo, povero.
La sua regalità è di essere il più umano, il più ricco in umanità, il volto alto dell'uomo, che è un amore diventato visibile.
Sono venuto per rendere testimonianza alla verità. Gli dice Pilato: che cos'è la verità? La verità non è qualcosa che si ha, ma qualcosa che si è. Pilato avrebbe dovuto formulare in altro modo la domanda: chi è la verità? È lì davanti, la verità, è quell'uomo in cui le parole più belle del mondo sono diventate carne e sangue, per questo sono vere.
Venga il tuo Regno, noi preghiamo. Eppure il Regno è già venuto, è già qui come stella del mattino, ma verrà come un meriggio pieno di sole; è già venuto come granello di senapa e verrà come albero forte, colmo di nidi. È venuto come piccola luce sepolta, che io devo liberare perché diventi il mio destino.

XXIX Domenica Tempo ordinario B

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo».

E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». [...]

Giovanni, il discepolo preferito, il migliore, il fine teologo, si mette di fronte a Gesù e gli chiede, con il fare proprio di un bambino: «Voglio che tu mi dia quello che chiedo. A me e a mio fratello». Eppure Gesù lo ascolta e rilancia con una bellissima domanda: «Cosa vuoi che io faccia per voi?». «Vogliamo i primi posti!» Dopo tre anni di strade, di malati guariti, di uomini e donne sfamati, dopo tre annunci della morte in croce, è come se non avessero ancora capito niente.

Ed ecco ancora una volta tutta la pedagogia di Gesù, paziente e luminosa. Invece di arrabbiarsi o di scoraggiarsi, il Maestro riprende ad argomentare, a spiegare il suo sogno di un mondo nuovo.
Non sapete quello che chiedete! Non capite quali corde oscure andate a toccare con questa domanda, quale povero cuore, quale povero mondo nasce da queste fame di potere. E la dimostrazione arriva immediatamente: gli altri dieci apostoli hanno sentito e si indignano, si ribellano, unanimi nella gelosia, accomunati dalla stessa competizione per essere i primi.
Adesso non solo i due figli di Zebedeo (i boanerghes, i figli del tuono, irruenti e autoritari come indica il loro soprannome), ma tutti e dodici vengono chiamati di nuovo da Gesù, chiamati vicino. 

E spalanca loro l'alternativa cristiana: tra voi non sia così. I grandi della terra dominano sugli altri, si impongono... Tra voi non così! Credono di governare con la forza... tra voi non è così! 

Gesù prende le radici del potere e le capovolge al sole e all'aria: Chi vuole diventare grande tra voi sia il servitore di tutti. Servizio, il nome difficile dell'amore grande. Ma che è anche il nome nuovo, il nome segreto della civiltà. Anzi, è il nome di Dio. Come assicura Gesù: Non sono venuto per procurarmi dei servi, ma per essere io il servo. La più sorprendente, la più rivoluzionaria di tutte le autodefinizioni di Gesù. Parole che danno una vertigine:

Dio mio servitore! Vanno a pezzi le vecchie idee su Dio e sull'uomo: Dio non è il padrone e signore dell'universo al cui trono inginocchiarsi tremando, ma è Lui che si inginocchia ai piedi di ogni suo figlio, si cinge un asciugamano e lava i piedi, e fascia le ferite.
Se Dio è nostro servitore, chi sarà nostro padrone? L'unico modo perché non ci siano più padroni è essere tutti a servizio di tutti. E questo non come riserva di viltà, ma come moltiplicazione di coraggio. Gesù infatti non convoca uomini e donne incompiuti e sbiaditi, ma pienamente fioriti, regali, nobili, fieri, liberi. Belli della bellezza di un Dio con le mani impigliate nel folto della vita, custode che veglia, con combattiva tenerezza, su tutto ciò che fiorisce sotto il suo sole.

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